Il legittimo impedimento: «hic Rhodus, hic salta»

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Il legittimo impedimento: «hic Rhodus, hic salta»
Referendum/3
Il legittimo impedimento:
«hic Rhodus, hic salta»
EMANUELE ROSSI
I
l quarto dei quesiti referendari del prossimo 12 giugno, in tema di legittimo impedimento, riguarda la richiesta di abrogare ciò che rimane della
legge 7 aprile 2010, n. 51, recante “Disposizioni in materia di impedimento
a comparire in udienza”.
Si tratta di una legge originariamente composta di due articoli, di cui
però soltanto il primo contiene la disciplina sostanziale, perché il secondo
attribuisce alla legge stessa un valore temporale delimitato: essa dovrebbe
produrre effetti «fino alla data di entrata in vigore della legge costituzionale
recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio
dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di
partecipazione degli stessi ai processi penali e, comunque, non oltre diciotto
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti
dall’articolo 96 della Costituzione, al fine di consentire al Presidente del
Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro
attribuite dalla Costituzione e dalla legge».
Come può vedersi, si tratta di una previsione che pone un limite di
tempo alla vigenza: limite che in ogni caso scadrà nel prossimo mese di ottobre (salvo possibili proroghe, come si dirà).
Ma la sostanza della legge sta nel primo articolo, che nella sua formulazione originaria era composto da cinque commi.
Il primo è riferito al Presidente del Consiglio, e stabilisce che esso può
rifiutarsi di comparire nelle udienze dei procedimenti penali in cui sia imputato in presenza di una serie assai consistente di circostanze («il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni
attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo»).
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Il secondo comma prevede analoga misura per ciascun ministro.
Il terzo stabilisce che in queste circostanze il giudice, su richiesta di
parte, rinvia il processo ad altra udienza.
Il quarto comma prevede che nell’ipotesi in cui la Presidenza del Consiglio attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento
delle funzioni, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo
indicato, comunque non superiore a sei mesi.
Il quinto comma, infine, stabilisce che in tali circostanze il corso della
prescrizione rimane sospeso per l’intera durata del rinvio, ma che il legittimo impedimento si applica anche ai processi penali in corso, in ogni fase,
stato o grado, alla data di entrata in vigore della stessa legge.
Questo il testo originario ed anche quanto, nella sostanza, ci si propone
di abrogare.
Tuttavia la cosa è un po’ più complessa di quanto possa apparire, perché sulla legge è intervenuta già la Corte costituzionale, come tutti ricorderanno, che con la sentenza n. 23/2011 ha inciso pesantemente su di essa.
L’intervento della Corte costituzionale
Che cosa ha infatti deciso la Consulta? In primo luogo, essa ha dichiarato incostituzionale il quarto comma, che quindi è stato annullato e non esiste più (ed infatti esso è stato cancellato dal testo del quesito referendario).
In secondo luogo ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo comma, «nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma
dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto». In sostanza, per questo punto, dopo la sentenza della Corte il giudice, a fronte
della richiesta del Presidente del Consiglio, non ha più l’obbligo di rinviare
senza poter valutare il motivo della richiesta: al contrario egli deve «valutare
in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il
carattere assoluto e attuale dello stesso». In sostanza il giudice dovrà «valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo, dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta (anche alla luce del necessario bilanciamento con l’interesse costituzionalmente rilevante a celebrare il processo) di comparire in giudizio, in
quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con
l’udienza di cui è chiesto il rinvio».
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Ancora, la Corte è intervenuta anche sul primo comma, non dichiarandolo incostituzionale, ma stabilendo che esso debba essere interpretato nel
senso di non consentire al Presidente del Consiglio dei ministri di addurre
come impedimento il generico dovere di esercitare le attribuzioni da essa
previste, ma che in ogni circostanza occorre che egli «specifichi la natura
dell’impedimento, adducendo un preciso e puntuale impegno riconducibile
alle ipotesi indicate».
Che cosa resta?
Che cosa resta, dunque, della legge, dopo la sentenza della Corte? Sostanzialmente nulla: il Presidente del Consiglio deve motivare puntualmente
perché non può comparire; al giudice spetta valutare se tale motivo è plausibile oppure no, se non lo ritiene plausibile deve procedere nel giudizio. Nella sostanza, è quello che prevede la disciplina normativa per ogni tipo di
processo e per ogni imputato, né più e né meno. La decisione della Corte di
non far cadere tutta la legge ma di lasciarla in piedi, seppur svuotata di contenuti e di significato, rientra nell’ambito di quelle accortezze che possono
essere adottate per non far apparire eccessivamente dirompente l’intervento
ablatorio (tanto è vero che dopo la sentenza qualche ministro ha potuto far
finta di essere soddisfatto perche la Corte aveva “salvato” la legge nel suo
complesso!): ma nella sostanza la legge è rimasta un guscio vuoto, tanto è
vero che il Presidente del Consiglio ha dovuto cominciare a comparire nei
processi che lo riguardano.
Ed allora occorre domandarci: a che cosa serve il referendum?
Da un punto di vista giuridico vale quanto detto: nulla. La legge di fatto
non c’è più, il suo contenuto è stato già eliminato dalla Corte costituzionale.
A ciò si aggiunga, come detto, che tra pochi mesi essa avrebbe comunque
cessato di essere applicabile, più o meno in coincidenza con il prodursi
dell’eventuale effetto abrogatorio del referendum. Quest’ultimo punto, in
verità, non sarebbe del tutto rassicurante, perché basterebbe una proroga,
magari nascosta in qualche decreto milleproroghe, per prolungarne gli effetti: in ogni caso ad oggi, dopo la sentenza della Corte costituzionale, sarebbe
prorogato il nulla.
Detto questo, bisogna tuttavia tenere conto che il referendum, ogni referendum, assume una valenza politica che spesso va ben al di là del suo significato giuridico proprio. Chi ricorda, ad esempio, quali erano i reali con-
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tenuti dei referendum di molti anni fa sul nucleare? Forse nessuno, però il
significato politico è stato chiaro: no al nucleare. Come pure nel referendum
sulla preferenza unica, che politicamente assunse il significato di una vittoria sul craxismo, il quale aveva puntato tutto sull’astensione. Così potrebbe
dirsi per quasi tutti gli altri referendum, in cui il messaggio politico ad essi
sotteso ha per lo più prevalso su quello giuridico proprio.
Ed allora, in questo caso, quale sarebbe il comportamento politico da
seguire?
A questa domanda si può rispondere in due modi, a seconda che si
ponga nella fase in cui si debba richiedere il referendum o in quella in cui,
come l’attuale, il referendum è stato già richiesto e indetto.
Se fossimo ancora nella fase di richiesta e raccolta di firme, direi
senz’altro che sarebbe meglio non farne nulla. Il gioco infatti è molto rischioso: è vero che un eventuale sì all’abrogazione sarebbe probabilmente
un colpo finale a Berlusconi e al berlusconismo (ma con tutte le riserve legate alle capacità di sopravvivenza dell’uno e dell’altro, nonché all’uso dei
mezzi di informazione che potrebbero cercare di depotenziare il significato
del voto), ma è altrettanto vero che un’eventuale vittoria dei no o delle astensioni potrebbe ridare fiato politico, magari consentendo ancora una volta
di denigrare la Corte costituzionale e di metterla contro “il popolo sovrano”.
È ben vero che l’eventuale (e assai probabile) mancato raggiungimento
del quorum non potrebbe essere assimilato a una vittoria dei no: ma ormai,
specie dopo l’operazione ruiniana, sappiamo che il trucco di far passare le
astensioni per voto contrario funziona bene, e quindi nel caso di mancato
raggiungimento del quorum il centro-destra non mancherà di rivendicare la
“vittoria”, sostenendo che gli italiani hanno capito più della Corte, che sono
d’accordo con le leggi ad personam, che il potere della magistratura va limitato ecc. ecc.
Ma ormai il tempo della proposta è passato, e il referendum comunque
si svolgerà. È possibile che il Governo abbia furbescamente disinnescato il
referendum sul nucleare, così da diminuire di molto il rischio (per il governo
stesso) del raggiungimento del quorum (sebbene infatti sia possibile andare
a votare soltanto per alcuni referendum e non per altri, sappiamo che questa
possibilità è trascurata da tutti: se si va a votare si vota per tutti i referendum). Ed allora hic Rhodus, hic salta: è un referendum inutile, che comunque vadano le cose non avrà effetti pratici, ma una volta indetto e celebrato
qualche conseguenza politica potrà produrre.
Questa, in sintesi, la posta in palio.
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