Se i muri potessero parlare!

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Se i muri potessero parlare!
Se i muri potessero parlare!
di LAURA FANO
“Se i muri potessero parlare”…
Una frase che spesso ci fa riflettere su ciò che facciamo e diciamo nelle nostre stanze o in altri
luoghi, una frase che racchiude un mondo, una frase che mi è balzata alla mente dopo giorni di
riflessione.
Sono tornata nella casa del mare, quella stessa casa costruita dai miei genitori sulla terra di mio
nonno. Nascosta tra le salde fondamenta c’è una bottiglia con tutti i nostri nomi; anche quelli di
coloro che ormai non ci sono più.
Ne risistemare il guardaroba in mansarda mi sono imbattuta in un vecchio comò, recuperato da
ragazzina nella soffitta polverosa di mia nonna: un oggetto comune, di uso quotidiano, né bello,
né prezioso, né necessariamente utile, appartenuto un tempo a un’altolocata famiglia lombarda.
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Se i muri potessero parlare!
Travolta da non ricordo quale stupida, frettolosa contingenza lo ho osservato frettolosamente,
senza soffermarmi sul suo significato e il suo valore simbolico.
I giorni passavano e in seguito mi sono spesso sorpresa a ripensare a quell’oggetto, al suo
potere evocativo e al senso delle cose apparentemente insensate.
Quel comò rappresentava un momento di rottura e di svolta nella vita di alcune persone. Il
catalizzatore di una presa di coscienza, il motore del cambiamento, la spinta per chiudere il
vecchio e inaugurare il nuovo.
Un comò, un libro, un piatto, un vaso possono avere un ruolo nel cambiamento e assumere
un’importanza dirompente nella nostra storia. Per gran parte della loro esistenza, i “nostri”
oggetti, al pari delle nostre case, sono soprattutto il solco dentro il quale camminiamo.
Il rassicurante motivo conduttore dei nostri giorni. Così come testimoniano cambiamenti, ci
rappresentano e parlano di noi, come i muri delle nostre case: inequivocabilmente muti e
prepotentemente espressivi.
Molte case custodiscono, ancor oggi, i segreti dei personaggi che, nel passato, le hanno
costruite o abitate, lasciando il segno indelebile di passioni, illusioni, amori.
Se gli oggetti e i muri potessero parlare, quante cose avrebbero da dire. In questo oggetti
inanimati c'è un'infinita varietà di personalità, di racconti, di esperienze di vita, di opinioni
personali che vengono giornalmente espresse, a volte con discrezione, a volte con grande
enfasi.
I muri ascoltano tutto questo, e come un grande registratore, accumulano una marea di ricordi,
frutto di tutte le discussioni che tutti giorni avvengono tra gli abitanti di questo piccolo mondo.
Qui ognuno di noi ha la sua storia da raccontare. Direi quasi la sua piccola tragedia personale
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che l'ha portato a dimorare fra queste mura. Affetti, persone care, cose a cui tieni, stanno
dall'altra parte del muro. Esso ti separa da tutto ciò, ma raccoglie le tue imprecazioni, i tuoi
lamenti, ma anche le tue speranze e i tuoi sogni.
Se i muri potessero parlare racconterebbero della voglia di rinascere, di cambiare, di lottare, di
evadere.
Muri per proteggere, muri per conquistare, e “ muri della vergogna” da abbattere.
Betlemme: luogo sacro tra i luoghi sacri, diviso da Gerusalemme da alte mura di odio e morte,
lontana migliaia di anni dalle storie di David e di Gesù, città divisa e contesa, città che
meraviglia e che fa piangere allo stesso tempo. In questa città i muri ci raccontano di anni
d’isolamento e di sofferenza, ma anche di speranza, possibilità e rinascita. Cosa sarebbe Belfast senza i suoi muri? Barriere di cemento e mattoni, in lamiera, semplici
palizzate o staccionate, con o senza filo di ferro: sono le Peace Lines dell'Irlanda del Nord, le
barriere costruite a partire dagli anni Settanta che ancora oggi tengono divise le comunità
cattoliche da quelle protestanti. E che nessuno ha intenzione di abbattere. Se i muri potessero parlare a L’Avana ci parlerebbero di rivoluzione. Ci direbbero che da quel 1
gennaio 1959, giorno in cui Fidel Casto entrò trionfante all’Avana, sono cambiate tante cose ma
non certo i simboli. La bandiera del movimento 26 Luglio, giorno in cui, nel lontano 1953, un
giovane Castro con un centinaio di uomini falliva un assalto alla caserma Moncada nella città di
Santiago di Cuba, campeggia nei vicoli di una città che sembra senza tempo. Se i muri potessero parlare a Ouagadougou ci racconterebbero una storia incredibile. Ci
parlerebbero della vita del “Che Guevara “ africano, Thomas Isidor Noel Sankara, meglio
conosciuto come il Capitano Thomas Sankara, un rivoluzionario ma non uno qualsiasi. Il suo
Paese, il Burkina Faso, deve a lui il suo nome.
Se i muri potessero parlare in Otavalo e Santo Domingo de Los Tsachilas (Ecuador) ci
racconterebbero di Simon Bolivar, del suo ascendente ancora vivo, ancora forte. Il Libertador,
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questo il nome con il quale il generale Venezuelano è passato alla storia per aver sconfitto e
cacciato gli spagnoli dal continente.
Se i muri potessero parlare a Jeréz de la Frontera ci racconterebbero delle lotte sociali che
scuotono la Spagna. Di una polizia sempre più violenta e repressiva, della voglia di manifestare,
lottare e gridare la propria indignazione verso il sistema.
Se i muri potessero parlare in a Gingee ci parlerebbero di Mohandas Karamchand Gandhi,
meglio conosciuto come Mahatma (grande anima). Nella punta posta all’estremo Sud dello
Stato indiano, dove povertà, malattie, siccità e carestie sono compagne di viaggio della
popolazione locale, non manca il ritratto di Gandhi. Sul muro di una casa o sul muro di una
scuola il richiamo alla dottrina non violenta è costante. Se i muri potessero parlare ci parlerebbero di punti di vista diversi. Di un mondo visto senza il
filtro dell’eurocentrismo e dell’etnocentrismo tipico di chi, come molti di noi, è stato abituato ad
ascoltare solo una parte della storia.
Quante cose vedono e ascoltano gli oggetti e i muri. Di giorno ascoltano, la notte parlano e
portano consiglio.
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