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n° 305 - giugno 2002 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Il Neoclassicismo in Italia Le sale del piano nobile del Palazzo Reale di Milano - restituite dopo una lunga e attenta opera di restauro - allo splendore a cui aveva voluto improntarle l’architetto Piermarini nella seconda metà del Settecento, allestendo un fastoso scenario per la vita di corte, offrono una splendida ambientazione alla grande rassegna su Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, in corso fino al 28 luglio prossimo. La mostra milanese propone un quadro esauriente ed articolato dei fenomeni artistici che videro la luce presso le corti italiane nell’età dell’Illuminismo, un periodo durante il quale la città di Milano fu all’avanguardia in tutti i campi della cultura, dalle arti figurative alla letteratura, sotto il governo del riformismo illuminato di Maria Teresa e dei suoi successori, Giuseppe II e Leopoldo II. La visita di alcune delle sale neoclassiche di Palazzo Reale, allestite con i loro arredi originali, integra e arricchisce il percorso espositivo della mostra, che comprende oltre 400 tra dipinti, sculture, mobili e oggetti di arte decorativa, offrendo al pubblico la possibilità di immergersi nell’atmosfera di quel periodo al passaggio tra due secoli che vide nascere in Italia, e poi diffondersi in tutta Europa, un gusto nuovo, uno “stile” destinato a rivoluzionare il panorama artistico del secondo Settecento, che si trascinava ormai stancamente nella ripetizione dei modelli stereotipati del tardo Rococò. Il Palazzo Reale di Milano, che all’epoca veniva radicalmente ristrutturato per opera dell’architetto Piermarini, vedeva nelle sue sale concretizzarsi il rapporto dialettico tra opere ancora legate al gusto barocco, e motivi decorativi già improntati ai dettami del nascente stile neoclassico. E’ il caso delle tre sale degli Arazzi, dove venne collocato un gruppo di arazzi della manifattura di Gobelins, con le Storie di Giasone, prodotti intorno al 1745 ed ispirati ad un gusto ancora barocco: la decorazione degli ambienti fu realizzata invece secondo i dettami del nuovo stile, ad opera dei maggiori interpreti del neoclassicismo lombardo, in particolare Andrea Appiani, che ideò i pannelli destinati ad incorniciare gli arazzi, riuscendo ad armonizzare e creare una continuità ideale fra due linguaggi stilistici profondamente diversi. Le opere di pittura e scultura che segnano le varie tappe del percorso espositivo, affiancate da disegni e suppellettili, prendono come spunto iniziale l’interesse per l’antico, che a metà del Settecento cominciava a manifestarsi a Roma, per opera dei viaggiatori che da tutta Europa vi facevano tappa nel corso del Grand Tour, considerato all’epoca il necessario com- G. Maggiolini: Cassettone - Milano, Castello Sforzesco pletamento dell’educazione di ogni gentiluomo. Le vestigia dell’antica Roma divenivano il soggetto preferito per artisti quali Hubert Robert e Bellotto; soprattutto i pittori stranieri si facevano guidare nella scoperta delle antichità romane dalla lettura dei testi latini e percorrevano un itinerario che li portava da Roma a Napoli, a Paestum e in Sicilia, alla ricerca della “classicità” di monumenti e di paesaggi che, pur reali, assumevano per la loro composta bellezza un valore ideale. Il recupero della tradizione classica si accompagnava al culto dell’antichità e di Raffaello, che rappresentava il più elevato interprete e simbolo della continuità con il mondo antico; i capolavori della scultura grecoromana fornivano l’ispirazione per i soggetti di numerosi dipinti e decorazioni, mentre prendeva sempre maggior vigore il filone della pittura sto- A. Appiani: Il generale Buonaparte e il Genio della Vittoria che incide le sue imprese alla battaglia del ponte di Lodi - The Earl of Rosebery pag. 2 rica, con la rievocazione dei grandi personaggi ed eroi dell’antichità, destinata ad avere notevole fortuna fino alla metà dell’Ottocento. Le scene mitologiche riscuotevano grande successo anche nella decorazione di mobili, a partire dai preziosi intarsi di Giuseppe Maggiolini, fino ai bronzi dorati, che ornavano monumentali orologi o grandi centrotavola destinati ai banchetti ufficiali: di questi ultimi, nella rassegna milanese viene esposto un esemplare di dimensioni eccezionali, che riproduce un antico foro classico, creato dall’orefice romano Giacomo Raffaelli. La figura dell’artista, in questo clima di culto del bello ideale, assumeva nuova nobiltà e veniva celebrata attraverso soggetti allegorici, testimoniando come, presso le corti dei sovrani illuminati, lo “status” conferito all’arte e ai suoi rappresentanti si andasse elevando. Accanto ai soggetti allegorici, trovavano ampio spazio i temi tratti dai miti classici, specialmente quelli che meglio si prestavano a raffigurazioni pittoriche o scultoree, quali Amore e Psiche o Venere e Adone, e che toccarono la più elevata espressione nella pittura di Andrea Appiani e nella scultura di Antonio Canova. A Milano, l’arte di Andrea Appiani riceveva la sua consacrazione dai versi del Parini, che ne celebrava l’adesione ai propri principi estetici secondo i quali: «L’unità, per esempio, la varietà, la simmetria, la chiarezza, la verità, la sublimità, l’espressione, che sono principi del poeta e dell’oratore, li sono a un tempo medesimo del musico, del dipintore, dello scultore, dell’architetto». Gli affreschi con le Storie di Psiche, eseguiti da Appiani nel 1792 nella rotonda della Villa di Monza, sancivano la fama di questo pittore al quale, quattro anni dopo, Napoleone Bonaparte, conclusa vittoriosamente la Campagna d’Italia, commissionava un doppio ritratto, facendosi rappresentare in alta uniforme con accanto il Genio della Vittoria che incide le sue imprese alla battaglia del Ponte di Lodi, mentre la sua sposa Joséphine veniva raffigurata da Appiani nell’atto di incoronare il mirto sacro a Venere. In questo ritratto, l’artista rende perfettamente la grazia e la bellezza “languida” della futura imperatrice, che aveva incantato i milanesi con «i suoi occhi di creola, dolci e quasi supplichevoli, ed irresistibili in tutto quello che ella chiedeva ai suoi numerosi amici», secondo la testimonianza di un cronista dell’epoca. Qui Joséphine compare come ancella di Venere, in un gesto pieno di grazia ed armonia, sottolineato dal fluire morbido della leggera veste, e immersa in uno scenario nel quale l’architettura classicheggiante si unisce da un lato alle notazioni naturalistiche - con la precisa individuazione degli elementi floreali - e dall’altro ad un richiamo mitologico, con il corteo di Venere e ninfe che emergono dalle acque sullo sfondo. Un aspetto fondamentale del rinnovamento delle arti figurative verificatosi alla fine del Settecento fu determinato dall’instaurarsi di stretti rapporti tra letterati ed artisti, connesso anche con l’importanza assunta dai soggetti dedotti da mitologia e storia romana. Questi rapporti ebbero un ruolo fondamentale per l’influenza che le idee dell’Arcadia letteraria esercitarono sull’arte, sia nella paesaggistica, dove veniva trasferita l’idealizzazione della realtà verso un concetto di bello assoluto, sia nella scelta di temi celebrativi di uomini illustri, ai quali si dedicavano i cosiddetti ritratti simbolici, in cui il personaggio rappresentato veniva circondato da allegorie relative ai caratteri peculiari e distintivi della sua attività o arte. Il ruolo dell’Accademia di Arcadia come luogo di incontro tra arti, lettere e scienze, all’insegna del buon gusto e della razionalità e chiarezza, trovava uno dei suoi rappresentanti più emblematici nella pittrice Angelica Kauffmann. Di origine svizzera, Angelica si trasferì giovanissima a Roma, dove divenne Accademica di S. Luca a soli 24 anni; pittrice di grande successo, tenne anche un importante e famoso salotto letterario nel quale furono ospitati personaggi come Wolfgang Goethe e Antonio Canova. Attiva presso la corte dei Borboni a Napoli, dove fu chiamata a realizzare una serie di ritratti della famiglia reale, rappresentò negli ultimi due decenni del Settecento un punto di riferimento per la pittura di soggetto mitologico; le sue opere, come A. Appiani: Joséphine Bonaparte incorona il mirto sacro a Venere, Coll. privata A. Kauffmann: Amore e Psiche - Zurigo, Kunsthaus pag. 3 Amore e Psiche, dipinto nel 1792 e presentato nella rassegna milanese, vennero riprodotte e fatte conoscere dai più famosi incisori del tempo in tutta Europa, dove Angelica era grandemente apprezzata per la finezza e leggerezza della tecnica e per la varietà ed originalità nelle composizioni delle scene rappresentate. Nel’idea di paesaggio, così come si configurava negli ultimi decenni del secolo XVIII, accanto alla visione arcadica di una natura idillica ed armoniosamente ordinata, popolata di ninfe e pastorelle, andava assumendo precise connotazioni il concetto preromantico del “sublime”, inteso come senso di timore e di fascino che scaturisce dal confronto con la potenza indominabile dei fenomeni naturali. Nel corso del viaggio in Italia, quindi, nei taccuini degli artisti che percorrevano la penisola, accanto alle vedute di campagne verdeggianti costellate di rovine e acquedotti romani, comparivano visioni cariche di pathos, dalle vallate più profonde ed impervie delle Alpi, alle cascate più spettacolari, fino alle eruzioni dell’Etna e del Vesuvio, all’epoca ancora in attività e protagonista di una serie di spettacolari eruzioni negli anni Settanta e Ottanta del Settecento, che fecero la fortuna del francese Pierre-Jacques Volaire, diventato un vero specialista di questo soggetto, richiestissimo soprattutto dai viaggiatori stranieri. Scriveva nel suo testo teorico Del Sublime, il poeta tedesco Schiller: «Chi non si sofferma più volentieri presso il geniale disordine del paesaggio naturale, che non presso la regolarità insipida di un giardino alla francese?», delineando quella visione preromantica dello spettacolo naturale, all’interno della quale si sviluppò la categoria estetica del “pittoresco” (e cioè, alla lettera, adatto ad essere dipinto). Attraverso questo filtro venivano decantati e trasfigurati i paesaggi che si snodavano sotto gli occhi dei viaggiatori, che percorrevano una serie di tappe obbligate, indicate dalla letteratura di viaggio o dai trattati di paesaggistica: luoghi quali Nemi, Tivoli, Capri, Sorrento, e le “città d’arte”, principalmente Venezia, Roma e Napoli, venivano visitati quali fonti di ispirazione artistica, ricchi com’erano di spunti “pittoreschi”. Ma se il periodo neoclassico portava in sé i germi della rivoluzione romantica, il mito della perfezione senza tempo restava comunque il cuore dell’arte neoclassica, impersonato da Antonio Canova, per il quale i contemporanei nutrirono addirittura una venerazione. Così lo descriveva il critico Pietro Giordani, che di Canova fu uno degli amici più cari: «uomo singolare e verissimamente divino: lo diresti da una provvidenza pietosa di natura collocato sul doppio confine della memoria e dell’immaginazione umana; a congiungere due spazi infiniti: richiamando a noi i passati secoli, e de’ nostri tempi facendo ritratto agli avvenire». Canova fu considerato dai Angelica Kauffmann: modello per il ritratto della famiglia Reale di Napoli - Vaduz, Sammlungen des Fürsten von Liechtenstein P.J.A. Volaire: Eruzione del Vesuvio dal ponte della Maddalena - Napoli, Museo Nazionale di S. Martino contemporanei come il massimo rappresentante dell’arte del suo tempo: significativo che questo valore simbolico venisse attribuito ad uno scultore, poiché l’età neoclassica vedeva una rivalutazione del primato del disegno sul colore, come già era stato nel Rinascimento, in particolare a Firenze. Per i critici dell’epoca il riferimento più frequente era a Fidia, e Canova veniva considerato un maestro ineguagliabile, superiore perfino allo stesso Michelangelo. Pure, la formazione di Canova si era compiuta in ambito veneziano, nella pag. 4 città, quindi, che del colorismo era stata considerata da molte parti come la patria di origine. Il giovane Antonio fu allievo presso l’Accademia della città lagunare, appassionandosi alla lezione del Tiepolo, di cui collezionerà i disegni, ma studiando anche le copie da capolavori dell’antichità presenti nelle raccolte private veneziane. Trasferitosi a Roma poco più che ventenne nel 1779, ben presto raggiunse una straordinaria fama per la capacità di riportare in vita la grande statuaria classica nelle sue espressioni più elevate, adattandola ai tempi e ai soggetti attuali (fra cui i monumenti sepolcrali di due papi); esemplare in tal senso è la Maddalena penitente, opera del 1790, che riesce a far coesistere il tema cristiano della mortificazione della carne con la classica e intatta bellezza di una Venere antica. Insuperata rimane la maestria di Canova nel lavorare il marmo: la levigata lucentezza delle superfici fa sì che la candida materia assuma una levità neppure mai immaginata fino ad allora; le figure scolpite dal Canova appaiono come incorporee visioni librate al di sopra e oltre le leggi della gravità, nel fluire armonioso di membra perfette. Accanto alla statuaria, il genere al quale il maestro dedicò le sue ricerche volte alla ripresa di esempi antichi fu quello dei bassorilievi ispirati a temi tratti da Omero, Platone e Virgilio: i modelli a cui si ispirava nella realizzazione di queste opere sono rappresentati non solo dalla pittura vascolare greca, ma vi si avvertono anche echi della scultura del Quattrocento fiorentino, mentre le superfici dei rilievi, realizzati in un materiale umile e generalmente opaco come il gesso, sono levigate fino ad ottenere l’effetto traslucido proprio di avori preziosi. Nel maggio 1812, la Venere di Canova veniva collocata nella Galleria degli Uffizi a Firenze, nel periodo in cui lo scultore stava lavorando al gruppo delle Grazie. Al massimo rappresentante dell’arte neoclassica, si rivolgeva il più alto esponente della poesia dello stesso tempo, Ugo Foscolo, nel primo inno del poema Le Grazie, invitandolo per bocca di Venere all’ara innalzata in onore delle Grazie sul colle fiorentino di Bellosguardo, dove Foscolo stesso risiedeva: Nella convalle fra gli aerei poggi / di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte / limpido fra le quete ombre di mille / giovinetti cipressi alle tre Dive / l’ara innalzo, e un fatidico laureto / in cui men verde serpeggia la vite / la protegge di tempio, al vago rito / vieni, o Canova, e agl’inni. .... Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi, / nuovo meco darai spirto alle Grazie / ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io / pingo e spiro a’fantasmi anima eterna: / sdegno il verso che suona e che non crea; / perché Febo mi disse: Io Fidia primo / ed Apelle guidai con la mia lira. Si celebrava così, sotto la tutela di Venere e delle Grazie, l’apoteosi di quell’unità fra le arti che aveva rappresentato uno dei temi fondanti della poetica del neoclassicismo; intanto, l’impero napoleonico aveva raggiunto l’apice della sua espansione e del suo splendore, portando in tutta Europa il gusto di quello stile correntemente definito “Impero”, che rappresentò la trasposizione dell’estetica neoclassica nelle arti decorative. Proprio in quel mese di maggio 1812, la Grande Armée napoleonica si metteva in marcia verso la disastrosa spedizione di Russia che avrebbe avviato il rapido declino dell’effimera stagione imperiale, mentre i fermenti e le inquietudini romantiche già ribollivano sotto l’apparente serenità di un mondo che aspirava ad ideali di empirea bellezza. A. Canova - Maddalena penitente, Genova, Museo di Sant’Agostino donata brugioni Antonio Canova: Critone chiude gli occhi a Socrate - Milano, Fondazione Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde