L`industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione
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L`industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione
ALBERTO BITONTI American University, Washington DC; IES Abroad Rome Email: [email protected] L’industria del lobbying nei paesi europei: una comparazione (XXIX Convegno SISP, Università della Calabria, Arcavacata di Rende, 10-12 settembre 2015) Abstract L’industria del lobbying nei paesi europei presenta uno scenario notevolmente variegato, complici le differenze di ogni paese rispetto a sistemi istituzionali, a culture politiche, alle stesse dimensioni nazionali, alla storia così come alle tradizioni filosofiche e civili delle diverse aree del continente. Questo contributo si colloca nell’ambito di un più vasto progetto di ricerca teso a studiare l’industria del lobbying in tutti i ventotto paesi membri dell’Unione Europea, svolto attraverso interviste in profondità ad altrettanti testimoni privilegiati di ogni paese (lobbisti o accademici esperti della materia), interviste svolte tra 2013 e 2015 (la ricerca è ancora in corso). Obiettivo del presente paper è iniziare a dare conto dei primi risultati della ricerca, provando a tracciare una comparazione sulla base ristretta di alcuni casi ritenuti particolarmente significativi e rappresentativi, consentendo un’analisi più circoscritta ma più approfondita delle principali variabili da prendere in considerazione per studiare un settore, quello dell’industria del lobbying, particolarmente rilevante per comprendere a fondo la natura delle democrazie europee. INTRODUZIONE Per scienziati e teorici della politica, l’industria del lobbying costituisce un campo di osservazione e di riflessione particolarmente interessante. L’analisi delle dinamiche di influenza del potere e dei processi decisionali pubblici, infatti, molto ci può raccontare proprio su quel potere e su quei processi decisionali stessi. Se molta della letteratura esistente sul tema sembra concentrarsi sull’analisi teorica o storica dei gruppi di interesse e del loro ruolo nella democrazia moderna (Bentley 1908; Truman 1951; Benn 1959-1960; Meynaud 1965; Olson 1965; Pasquino 1988; Morlino 1991; Graziano 1995; Fisichella 1997; Rozell, Wilcox e Madland 2006; Andres 2009; Mattina 2010), sull’analisi idiografica di singoli casi (da ultimo i report di Transparency International sull’industria del lobbying in diversi paesi europei) o di particolari campagne di lobbying (per es. Sarlos e Szondi 2015 o Taghizade 2015), un crescente numero di ricerche si sta muovendo verso un ulteriore orizzonte nello studio dei gruppi di interesse, iniziando ad usare l’approccio comparativo anche in questo campo. Come sottolineato da Kanol (2015), al fine di contribuire proficuamente al nascente campo della politica comparata del lobbying, non è sufficiente prendere in considerazione più di un paese o più regioni dello stesso paese1, ma è importante mettere in relazione informazioni e dati con un impianto teorico fatto di variabili e di interpretazioni complesse. Proprio con questa finalità, il presente paper vuole provare a ragionare sui primi risultati di una ricerca iniziata due anni fa, mirante ad analizzare l’industria del lobbying in tutti e ventotto i paesi membri dell’Unione Europea. Nel prossimo paragrafo si richiamerà il contesto e il percorso vero e proprio della ricerca, provando a spiegare l’impianto delle variabili prese in considerazione e ad evidenziare già alcuni problemi emersi durante la ricerca stessa (tuttora in corso). Nei quattro paragrafi seguenti, invece, si darà conto brevemente di alcuni casi nazionali ritenuti particolarmente significativi e rappresentativi nel quadro europeo, che possano in questa sede aiutare il ragionamento offrendo spunti di analisi e materiale empirico da recuperare nel lavoro di comparazione vera e propria. Tali casi sono il Regno Unito, la Svezia, l’Italia e la Bulgaria. Nell’ultimo paragrafo, infine, si proveranno a tracciare alcuni spunti di analisi comparata, tentando di evidenziare i punti cruciali dell’impianto adottato e alcune criticità. IL PERCORSO DELLA RICERCA Il presente paper si inserisce nell’ambito di un più vasto progetto di ricerca teso a studiare l’industria del lobbying in tutti e ventotto i paesi membri dell’Unione Europea (Bitonti e Harris 2016). L’idea originaria della ricerca nasce in occasione delle annuali attività di cooperazione e networking della rete PACE (Public Affairs Community of Europe), la quale coinvolge alcune organizzazioni professionali di rappresentanza dei lobbisti (a livello nazionale) nonché alcuni singoli professionisti del lobbying e dei public affairs di diversi paesi europei. Soprattutto in relazione al quadro della regolazione della professione (attraverso interventi legislativi, regolamentari o di auto-disciplina), è emerso negli ultimi anni un crescente interesse comparatistico, evidenziato proprio dal sorgere di iniziative di networking internazionale come quella di PACE e da un numero crescente di pubblicazioni scientifiche dedicate al tema (Chari, Hogan e Murphy 2007 e 2010; McGrath 2009; Fink-Hafner 2011; Holman e Luneburg 2012; Millar e Köppl 2014; Kanol 2015). Per questo, si è deciso di provare a costruire una ricerca che, per ampiezza e ambizione, si inserisse in questo alveo distinguendosi per almeno tre caratteristiche: la prima concerne le dimensioni della ricerca, vale a dire la totalità dei paesi dell’Unione Europea e non solo alcuni di essi; la seconda riguarda la profondità dell’analisi di ogni paese, andando oltre il mero studio della 1 Molto divertente, a questo proposito, il commento (richiamato sempre da Kanol) di Sartori, il quale scrive: “A scholar who studies American presidents is an Americanist, whereas a scholar who studies only French presidents is a comparativist. Do not ask me how this makes sense – it does not” (Sartori 1991, 243). regolamentazione del lobbying; la terza è invece costituita dal metodo della ricerca, svolta non solo attraverso fonti secondarie, ma con il coinvolgimento diretto di testimoni privilegiati, che – in qualità di accademici ed esperti della materia, o di professionisti del lobbying – provenissero ed operassero proprio nel paese oggetto della ricerca, e ci aiutassero a raccogliere dati e informazioni complesse in alcuni casi altrimenti irreperibili, anche grazie al superamento della barriera linguistica e ad una conoscenza “da dentro” del sistema politico di ogni paese. Pur nella consapevolezza delle immani difficoltà – legate all’individuazione dei giusti interlocutori nei vari paesi, alle barriere linguistiche e al coordinamento di una ricerca obiettivamente complessa per numero di persone coinvolte e dimensioni generali – si è riusciti a raccogliere una grande quantità di informazioni (di natura sia quantitativa che qualitativa) riguardanti l’industria del lobbying in ognuno dei paesi considerati. Seguendo una traccia di intervista, si è chiesto ad ognuno dei partecipanti alla ricerca di fornire una descrizione dettagliata di alcune variabili ritenute fondamentali per analizzare l’industria del lobbying di ogni paese. Tali variabili riguardano: Il sistema politico del paese (all’interno del quale in particolare: la forma di governo, la struttura istituzionale e il sistema elettorale, il sistema partitico, le forme della partecipazione elettorale, etc.) I principali destinatari delle campagne di lobbying e i principali canali di influenza dei decisori pubblici (attività dei think tanks, finanziamento della politica, relazioni con i partiti, etc.) Il grado di sviluppo dell’industria del lobbying (numero di persone impiegate nel settore; presenza di percorsi educativi – quali Master e corsi di specializzazione – specificamente dedicati alla formazione alla professione del lobbista, etc.) Il profilo tipico del lobbista (background di studi, prestigio sociale, percezione da parte dell’opinione pubblica) La regolamentazione pubblica delle attività di lobbying, e dettaglio delle norme previste nel caso Presenza o meno (e significatività) di organizzazioni professionali di rappresentanza del settore; presenza di codici di auto-disciplina sviluppati da queste associazioni o dagli stessi professionisti del settore Una previsione sullo sviluppo e il futuro dell’industria del lobbying nel paese, anche in relazione al livello europeo (UE). Attraverso la raccolta di queste informazioni e l’elaborazione di un quadro comparativo di riferimento, la ricerca (tuttora in corso) sta consentendo di individuare tendenze, fenomeni rilevanti comuni, ma anche diverse problematiche e criticità. Scopo del presente paper è proprio iniziare a dare conto dei primi risultati della ricerca, a partire da quattro casi (dei ventotto) ritenuti particolarmente significativi per diverse ragioni, come si cercherà di spiegare nei prossimi paragrafi. IL CASO BRITANNICO Vale la pena ricordare come la parola ‘lobbying’ nel suo senso moderno derivi proprio dalle lobby di Westminster, le sale del parlamento britannico proprio al centro tra la Camera dei Comuni e la Camera dei Lord, dove da almeno due secoli (McGrath 2011) i rappresentanti dei più molteplici interessi interagiscono con Parlamentari e Membri del Governo al fine di influenzarne le decisioni, dando così il nome ad una professione e ad un’intera industria, legata all’influenza nei confronti dei detentori del potere. Oltre a questo significativo elemento, basti considerare che – oltre a essere la più antica democrazia moderna del mondo (primato non da poco!) – il sistema politico britannico è il caso storico alla base del cosiddetto modello Westminster (Lijphart 1984), che prende infatti anch’esso il nome dal Parlamento britannico. Già solo questi tre elementi basterebbero a rendere il caso britannico un caso con il quale fare obbligatoriamente i conti in qualsiasi comparazione in questo campo, tuttavia vale la pena considerare tale caso anche per gli sviluppi particolari che l’industria del lobbying nel paese ha seguito, in particolare riguardo alla regolamentazione del settore e alla maturità della riflessione accademica, iniziata comunque almeno vent’anni prima rispetto al resto d’Europa. Nel sistema politico britannico, caratteristiche fondamentali sono: il Parlamento bicamerale, il cui ramo principale viene eletto con un metodo elettorale maggioritario a turno unico (“first past the post”); un sistema tendenzialmente bipartitico2, che vede il leader del partito di maggioranza diventare Primo Ministro, con una forte connessione quindi tra Governo e la maggioranza della Camera dei Comuni, che al Governo deve garantire la propria fiducia; un’amministrazione pubblica politicamente neutrale al servizio del Governo al di là di caratterizzazioni partitiche. In tale sistema, in virtù del forte ruolo dell’Esecutivo (che presumibilmente può contare su una solida maggioranza parlamentare, e quindi può veder approvare la maggioranza delle proprie decisioni), i gruppi di interesse privilegiano il rapporto diretto con Whitehall o con i membri del Parlamento rispetto ad approcci più indiretti (di grassroots lobbying). Come spiegato da Lijphart, “the typical interest group system of majoritarian democracy is a competitive and uncoordinated pluralism of independent groups in contrast with the coordinated and compromise-oriented system of corporatism that is typical of the consensus model” (1999, 171). È proprio questo il caso britannico: al di là di uno storico legame del mondo dei sindacati con il Partito Laburista, infatti, i gruppi di interesse nel Regno Unito preferiscono avere “le mani libere”, non legandosi esclusivamente ad uno dei due partiti principali, ma piuttosto operando in un sistema pluralistico 2 Per quanto negli ultimi anni tale impianto sia stato messo in discussione, a partire dai risultati delle elezioni del 2010, che hanno visto una buona affermazione dei Liberal-Democratici (23% dei voti e 57 seggi su 650), costringendo i Conservatori ad un governo di coalizione con questi ultimi, e dalle elezioni di quest’anno, in cui – pur avendo il Partito Conservatore conquistato la maggioranza assoluta dei seggi (331 su 650) – terzi partiti hanno avuto una buona affermazione in termini di seggi o di voti (in particolare il Partito Nazionale Scozzese, che ha conquistato ben 56 seggi a fronte del 4,7% dei voti, in virtù della concentrazione territoriale dei suoi seggi, premiante nel maggioritario a turno unico). di competizione per l’influenza, cercando di volta in volta di diventare insiders dei processi di policy-making, soprattutto offrendosi come fornitori di expertise e di informazioni sulle singole questioni oggetto di attenzione da parte del Governo (Baggott 1995). Nonostante nel Regno Unito la prima agenzia di “lobbying & parliamentary affairs” sia nata nel 1928, e nonostante il carattere pluralista del sistema, anche qui come altrove la figura del lobbista è guardata con sospetto, e soffre della mancanza di un vasto riconoscimento pubblico, anche a causa di alcuni scandali che negli anni Novanta del secolo scorso, ma anche recentemente negli anni Dieci, hanno coinvolto alcuni ex-membri dell’Esecutivo, un Ministro e da ultimo il Tesoriere del Partito Conservatore. L’industria del lobbying britannica vede la presenza di tre associazioni di categoria: l’APPC (Association of Professional Political Consultants), la PRCA (Public Relations Consultants Association) e il CIPR (Chartered Institute of Public Relations). Tutte e tre, sebbene in misura diversa, prevedono un codice di autoregolamentazione per i propri membri attivi nel campo del lobbying e dei public affairs. In seguito alle attività di una Commissione Speciale della Camera dei Comuni tesa a investigare proprio il funzionamento dell’industria del lobbying britannica, e dietro la “minaccia” di un forte intervento legislativo nel settore, nel 2010 le tre associazioni si congiungono per formare lo UKPAC (UK Public Affairs Council), con il proposito di istituire un registro unico dei lobbisti e di uniformare i diversi codici di autoregolamentazione, propositi in larga parte inattuati, a causa dell’incompletezza dei dati del nuovo registro, e del ritiro della PRCA dal nuovo organismo alla fine del 2011. Così si arriva al Transparency of Lobbying, Non-Party Campaigning and Trade Union Administration Act del 2014. La legge prevede una regolamentazione parziale del settore, rivolgendosi esclusivamente ai lobbisti operanti in agenzie ed escludendo dalla disciplina i cosiddetti in-house. La nuova disciplina, inoltre, istituisce un Registro pubblico delle agenzie di lobbying, con alcune informazioni basilari su ognuna di esse, senza alcun obbligo di disclosure rispetto a fatturati e spese per i singoli clienti. Il registro, attivo dal marzo di quest’anno, sembra addirittura arretrare nella regolazione del settore rispetto al precedente registro volontario dello UKPAC, comprendendo al momento (settembre 2015) solo 96 soggetti, senza ulteriori informazioni su singoli professionisti e soprattutto con la significativa e grave esclusione del settore dei lobbisti in-house, esclusi come si è già detto dalla legge istitutiva. Secondo una stima del nostro interlocutore britannico, l’industria del lobbying nel paese vede la presenza di circa 7.200 professionisti tra consulenti e lobbisti in-house, con questi ultimi che ammonterebbero a circa il quadruplo rispetto ai primi (un dato significativo se si considera la disciplina di legge appena analizzata). In termini di formazione, il settore del lobbying appare fortemente intrecciato a quello delle relazioni pubbliche, almeno fino ai primi anni Duemila, quando iniziano a nascere i primi Master espressamente dedicati a Lobbying e Public Affairs. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il background tipico di chi opera nel settore è quello di chi è passato attraverso esperienze politiche in prima persona o come collaboratore, con una presenza rilevante anche di laureati in discipline giuridiche, economiche e della comunicazione. L’intero settore, ad ogni modo, appare fortemente in crescita, nonostante un ruolo pubblico ancora da conquistare (almeno a livello di opinione pubblica), e una regolamentazione del settore che presenta, come si è visto, innumerevoli e gravi lacune. IL CASO SVEDESE Il sistema politico svedese, che possiamo in questa sede considerare rappresentativo di diversi paesi del Nord Europa, presenta delle caratteristiche piuttosto peculiari e interessanti nel quadro di una comparazione sull’industria del lobbying in Europa. Rispetto ai circa 64 milioni di abitanti del Regno Unito, la Svezia è assai più piccola, avendo una popolazione di circa 9 milioni e mezzo. Se sul continuum democrazia maggioritaria / consensuale di Lijphart il Regno Unito si trova ad una estremità, la Svezia è sicuramente più vicina al versante opposto del continuum, quello della democrazia consensuale. Nel sistema politico svedese spiccano: una legge elettorale proporzionale di lista su collegio unico nazionale (con sbarramento nazionale al 4%), la presenza di diversi partiti (al momento nel Riksdag, il Parlamento svedese, sono rappresentati 8 partiti), maggioranze di governo composte da coalizioni di diversi partiti, una larga affluenza elettorale (con l’eccezione delle elezioni per il Parlamento europeo), una forte caratterizzazione corporativa (Lijphart 1999). L’industria del lobbying assume caratteri peculiari in virtù della grande apertura del sistema politico e della trasparenza estrema dominante soprattutto in campo istituzionale (vale la pena ricordare che la Svezia fu il primo paese al mondo a introdurre la libertà di stampa, nel 1776). Una fiducia molto alta nelle istituzioni e un bassissimo livello di corruzione sono due fattori ambientali da tenere presenti, anche nel giudicare il modo in cui le migliaia di associazioni non governative e organizzazioni private (circa uno Svedese su due è attivo nel mondo del volontariato e dell’associazionismo) si relazionano con i decisori politici, in un processo di “vicinanza naturale” (usando un’espressione della nostra interlocutrice svedese). Il termine ‘lobbying’ anche qui è visto con sospetto, e viene associato spesso agli aspetti più deteriori della politica americana, precipuamente come influenza politica esercitata dal potere economico. Per questo i professionisti del settore preferiscono usare espressioni meno dirette come ‘government affairs’ o riferirsi alle più tradizionali relazioni pubbliche. Nonostante queste incertezze lessicali, il lobbying viene ovviamente esercitato nel Paese: uno studio di qualche anno fa riporta come, nel 2009, 3 parlamentari svedesi su 4 abbiano affermato di essere stati contattati con frequenza da diverse organizzazioni al fine di influenzare un processo di policy-making (Möller 2010); tuttavia, sembra non esistano agenzie di consulenza specificamente dedicate al lobbying nel Paese, e che la funzione venga esercitata insieme ad altri compiti legati generalmente al branding e alla comunicazione, principalmente in chiave di staff. Non esiste una legge che regolamenti il settore nel paese, ma esistono un Codice etico elaborato dall’Associazione delle Agenzie di Consulenza di Relazioni Pubbliche (PRECIS), che prevede fondamentalmente un obbligo di trasparenza su chi si rappresenta. Anche qui chi opera nel settore proviene prevalentemente da precedenti esperienze politiche o di ufficio stampa, e non presenta background formativi dedicati. Nel Paese si ritrovano solo alcuni corsi privati in advocacy o dei moduli specifici in corsi di comunicazione, ma non dei Master espressamente dedicati alla professione del lobbista. Lo sviluppo ulteriore del mercato, trainato da una complessità crescente del sistema politico e dal sempre più preponderante ruolo dell’Unione Europea nelle legislazioni nazionali, probabilmente contribuirà alla maggiore professionalizzazione del settore e all’acquisizione di uno status pubblico diverso per una figura – quella del lobbista – ancora poco presente nel contesto svedese. Resta da chiedersi, tuttavia, in che modo sull’industria del lobbying svedese pesi l’influenza del carattere aperto del sistema politico, fortemente basato sul consenso e sul coinvolgimento “naturale” di tutte le parti nei processi decisionali, e se non sia forse il caso di riflettere ulteriormente sui contorni semantici della parola ‘lobbying’. IL CASO ITALIANO Il caso italiano può essere considerato un buon esempio rispetto al gruppo dei paesi europei mediterranei. Con una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, l’Italia appare da anni impegnata in una difficile transizione, che ha visto il sistema politico del paese cambiare (o tentare di cambiare) in molte delle sue caratteristiche, almeno dai primi anni Novanta del secolo scorso (Guarnieri 2006). Il termine ‘lobbying’ soffre anche in Italia di una connotazione negativa, in virtù di una confusione concettuale mai sufficientemente dipanata (soprattutto sulla stampa) tra lobbying, corporativismo, traffico di influenze, corruzione, etc. Non stupisce, quindi, che anche qui (come in Svezia) la maggior parte dei professionisti del settore preferisca usare espressioni quali ‘relazioni istituzionali’ e ‘public affairs’ al posto del più diretto ‘lobbying’. Come nei casi precedenti, è opportuno provare a mettere in relazione alcuni aspetti fondamentali del sistema politico con le caratteristiche del sistema dei gruppi di interesse per valutare appieno condizioni di sviluppo e fattori influenti. In primis, bisogna considerare il quadro della costituzione formale. Sul piano istituzionale, l’organo centrale del sistema politico italiano è – almeno costituzionalmente – il Parlamento, il quale vota la fiducia ad un Esecutivo nominato dal Presidente della Repubblica sulla base delle maggioranze parlamentari. In realtà, occorre analizzare l’architettura costituzionale in un quadro complessivo che tenga conto anche del sistema partitico, oltre che delle pratiche di fatto sviluppatesi concretamente nel processo di policy-making. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre distinguere almeno i due periodi della Prima Repubblica (1946-1993) e della Seconda Repubblica (dal 1994 in poi). Nel primo periodo si rinvengono: pluralismo polarizzato (Sartori 1976), legge elettorale proporzionale, alta partecipazione politica (riscontabile nell’affluenza elettorale e nell’appartenenza partitica), dominio di un solo partito, in ottica anti-comunista (Galli 1966; Colarizi 1996), forte intervento dello Stato nell’economia. In questo periodo, quindi, il sistema della rappresentanza verte quasi esclusivamente sui partiti politici (oltre che sui sindacati, comunque anch’essi affiliati al sistema partitico), lasciando pochissimi spazi per un’industria del lobbying autonoma. Con la Seconda Repubblica, invece, molte delle condizioni succitate cambiano radicalmente: con Tangentopoli, la fine della Guerra Fredda e l’arrivo di una nuova legge elettorale di stampo prettamente maggioritario, emerge un nuovo sistema partitico, basato tendenzialmente sul confronto e l’alternanza tra due poli alternativi3, favorita anche dalle nuove dinamiche della comunicazione elettorale e della personalizzazione della politica. In questo quadro, vanno rilevate una concentrazione crescente del potere nella mani dell’Esecutivo (evidenziata da un uso assai più sostanzioso della decretazione d’urgenza e della legislazione delegata), e un’economia sempre più “libera”, che vede il ruolo dello Stato passare da una presenza diretta nel mercato (con aziende di Stato, partecipazioni pubbliche, etc.) ad un ruolo indiretto di regolatore di settori ormai totalmente in mano privata. Nella nuova era della Seconda Repubblica, i partiti politici (insieme a sindacati e Confindustria) continuano ad esercitare un ruolo predominante, ma evidentemente il bisogno di rappresentanza politica e sociale non può più essere soddisfatto esclusivamente da questi soggetti tradizionali, in una realtà più complessa e dinamica che vede crescere l’attività “politica” del Terzo Settore (Antonucci 2014), delle singole associazioni di categoria, nonché delle stesse aziende. Sono proprio queste le condizioni che consentono la nascita e lo sviluppo di un’industria del lobbying in Italia. Purtroppo la percezione pubblica non è cambiata nel tempo, anche a causa della mancanza di una regolamentazione ad hoc del settore, e della mancata attuazione di alcune disposizioni legislative in teoria già presenti a riguardo (Petrillo 2011). Sul piano della rappresentanza del settore, occorre menzionare l’attività dell’unica associazione di categoria specificamente dedicata al lobbying, Il Chiostro (che questo autore ha contribuito a fondare e coordinare dal 2008 in poi), la quale ha elaborato un Codice Etico che tutti i soci sono tenuti a sottoscrivere, e che organizza numerose attività di formazione e di promozione pubblica della professione, oltre a quella della Federazione italiana dei professionisti delle relazioni Pubbliche (FERPI), che pure comprende al suo interno una divisione dedicata ai public affairs. Anche sommando il numero degli associati a entrambe le organizzazioni (sebbene vi siano sovrapposizioni), non si supera il numero di 1000 professionisti. Un numero certamente molto lontano dal rappresentare la realtà di un settore in continua espansione nel Paese, come testimoniano anche l’attività di diversi Master specificamente dedicati al campo del lobbying e dei public affairs. 3 Anche qui, come per il caso britannico, le recenti tornate elettorali segnano una discontinuità rilevante, grazie all’affermazione, nelle elezioni del 2013, di un terzo polo (Diamanti, Bordignon e Ceccarini 2013). È ancora presto, tuttavia, per diagnosticare un cambiamento duraturo del sistema partitico nel Paese. IL CASO BULGARO L’ultimo caso che prendiamo qui in considerazione, in parziale rappresentanza di alcune tendenze comuni ai paesi dell’Europa orientale, è la Bulgaria. Sebbene i processi di influenza del potere riguardino tutti i tipi di regime politico, si può affermare che una vera e propria industria del lobbying possa esistere unicamente nei contesti democratici, per questo si può propriamente indagare il fenomeno – in Bulgaria come negli altri paesi una volta appartenenti al blocco sovietico – solo a partire dal collasso dell’Unione Sovietica, appurando semmai il retaggio che quest’esperienza storica ha prodotto. Proprio la difficile transizione democratica che la Bulgaria (con i suoi circa 7 milioni e mezzo di abitanti) vive a partire dal 1990 molto può dirci sulle condizioni necessarie per un’industria del lobbying “matura”, a partire da una società civile autonoma, un processo di policy-making trasparente e aperto, un alto livello di fiducia nelle istituzioni. Tutti fattori che nella Bulgaria postcomunista difficilmente si possono riscontrare. In effetti, fin da subito nel Paese si può dire che abbiano fatto sentire la propria influenza soprattutto alcuni soggetti stranieri, miranti a cancellare velocemente le tracce del regime precedente e ad influenzare la nuova politica bulgara secondo i propri interessi strategici (Anguelova-Lavergne 2008; Mavrov 2011). La Bulgaria è una repubblica presidenziale, che prevede una legge elettorale proporzionale in collegi plurinominali per l’elezione dell’Assemblea Nazionale (con sbarramento nazionale al 4%), e un maggioritario a doppio turno per l’elezione del Presidente. Nel Parlamento nazionale sono al momento presenti 8 partiti. Anche qui il termine ‘lobbying’ è vissuto come un termine “d’importazione americana” dagli esperti, mentre dall’opinione pubblica e dalla stampa è apertamente visto come legato a qualcosa di oscuro e non trasparente all’interno del processo politico (Transparency International Bulgaria, 2014). Come per l’Italia, non c’è una specifica regolamentazione legislativa del settore, sebbene diverse disposizioni possano rinvenirsi a proposito di conflitti d’interesse, di finanziamento elettorale e di Pubblica Amministrazione (Mavrov 2011). La mancanza di una disciplina dedicata e soprattutto il quadro di un processo politico ancora percepito come oscuro e accessibile solo per alcuni interessi ben precisi determina un quadro in cui difficilmente può prosperare un’industria del lobbying matura. Alla fine, sembrano pesare su questo mancato sviluppo diversi fattori sistemici, quali la concezione prevalente del rapporto tra lo Stato e gli interessi privati, e in generale una cultura politica ancora pesantemente condizionata da cinquant’anni di comunismo. L’assenza di percorsi di formazione dedicati, così come di associazioni professionali dedicate (l’unica organizzazione nel campo è la BAPRA - Bulgarian Association of Public Relations Agencies), appare pertanto un sintomo naturale di questo quadro. Resta da vedere quale influenza, sulla società bulgara e sulle sue istituzioni, eserciterà nel mediolungo-periodo l’appartenenza all’Unione Europea (di cui la Bulgaria è parte dal 2007), anche in virtù delle particolari caratteristiche dell’apparato pubblico bulgaro all’interno dello stesso contesto est-europeo (Mihova 2014). CONCLUSIONI Alla luce dei quattro casi considerati in questo paper, possiamo provare a delineare alcune considerazioni – di metodo e di merito – emergenti da una prima comparazione. Iniziamo dalle considerazioni di metodo. La prima riguarda un incerto inquadramento teorico del fenomeno lobbistico all’interno di confini concettuali ben precisi. Come emerge già dai quattro casi considerati – ma anche la letteratura accademica sul tema non sembra offrire soluzioni univoche – siamo in presenza di un problema definitorio non indifferente, costituito da una sovrapposizione parziale tra le attività di lobbying, di public affairs, nonché di relazioni pubbliche e più in generale di comunicazione. Da una parte è vero che – in linea pratica – tali attività si intrecciano concretamente, sia per competenze che per funzioni organizzative all’interno di agenzie di consulenza e di aziende, tuttavia, in un lavoro di ricerca come il nostro, rimane da risolvere il problema di poter comparare informazioni e dati che si riferiscano alla medesima realtà anche in tempi e luoghi diversi, al fine di non perdersi in un miasma di cifre incommensurabili poco significative se viste nel loro insieme. Per fare un esempio concreto sui nostri casi: se per Regno Unito e Italia abbiamo potuto facilmente individuare le associazioni di rappresentanza dei lobbisti (UKPAC e il Chiostro), possiamo comparare e mettere sullo stesso piano le associazioni dei professionisti delle relazioni pubbliche individuate invece nel caso svedese e nel caso bulgaro (PRECIS e BAPRA)? Vale la pena ricordare che nello stesso caso britannico, due delle tre organizzazioni alla base della UKPAC fanno riferimento al mondo delle public relations, mentre la terza si concentra sui political consultants. Anche in Italia abbiamo preso in considerazione la FERPI, anch’essa facente riferimento alla più “vecchia” e affermata professione delle relazioni pubbliche. Ma come risolvere questo problema? Quale definizione può farci distinguere con certezza l’industria del lobbying da quelle affini ma diverse delle relazioni pubbliche, dei public affairs, della comunicazione? Vanno in effetti distinte oppure no? Una seconda considerazione di metodo deriva anch’essa dallo stesso problema definitorio. Nel computo dei professionisti del settore, occorre considerare diversamente i lobbisti di agenzia e lobbisti in-house (come fa la legge britannica, che esclude totalmente i secondi), oppure no? Come elaborare un metodo di calcolo coerente e soprattutto che possa essere applicato allo stesso modo in contesti diversi in chiave comparata? Come comparare, a tale proposito, paesi con un Registro pubblico obbligatorio (Regno Unito) con paesi in cui non è prevista alcuna regolamentazione pubblica (Italia, Svezia, Bulgaria)? Collegata direttamente a queste due prime considerazioni, è una terza di carattere generale, riguardante l’affidabilità dei dati e delle informazioni rinvenute. Nel caso dei paesi non regolamentati (o meglio, in cui non è previsto un registro obbligatorio dei lobbisti), si può fare riferimento ai numeri degli associati alle organizzazioni di categoria (come abbiamo fatto ad esempio per l’Italia, sommando i soci del Chiostro e quelli della Ferpi). Tuttavia, è piuttosto intuitivo che – trattandosi di associazioni volontarie (e non per esempio di Ordini professionali ad iscrizione obbligatoria) – tali associazioni non riescano a raccogliere al loro interno la totalità dei professionisti del settore, e quindi che una parte del fenomeno sfugga comunque alla rete del ricercatore. Come colmare questa lacuna? Volendo tracciare ora qualche considerazione di merito, è possibile riscontrare in tutti e quattro i casi considerati una crescente professionalizzazione dell’industria del lobbying, sebbene in gradi molto diversi: nascente nel caso bulgaro (soprattutto per cause esogene), a uno stadio ben più avanzato nel caso britannico (nonostante una regolamentazione pubblica del settore arrivata solo lo scorso anno). In tutti e quattro i casi, la percezione pubblica del lobbista è negativa, e sconta gravi pregiudizi da parte della stampa e dell’opinione pubblica in generale, che sovrappongono il termine ‘lobbying’ con quello di corruzione nel peggiore dei casi o di opacità decisionale nel migliore. Al netto delle osservazioni definitorie svolte poc’anzi, si può dire che la presenza di associazioni professionali, nonché la presenza di un dibattito sulla regolamentazione del settore in tutti e quattro i contesti (sebbene solo nel caso britannico si sia arrivati all’approvazione di una legge, comunque molto blanda), possano costituire due indicatori rilevanti nella definizione di un settore tendenzialmente in crescita ovunque. Oltremodo interessante appare mettere in relazione lo sviluppo di un’industria del lobbying vera e propria con le tradizionali forme della rappresentanza e i tradizionali canali di accesso al processo di decisione pubblica nei vari paesi. Se nel caso italiano appare ancora evidente un ruolo preminente dei partiti politici (retaggio di una Prima Repubblica in cui essi esercitavano il ruolo di interpreti delle diverse istanze sociali ed economiche in modo quasi esclusivo) – ruolo dagli anni Novanta messo in discussione da uno scenario sociale, economico e politico assai cambiato – nel caso svedese l’estrema apertura del sistema politico, nonché i numeri ridotti del Paese – sembrano affermare una cultura di partecipazione politica tesa ad includere più facilmente i vari attori, anche in virtù della caratterizzazione del Paese come democrazia basata sul consenso e sull’inclusione, secondo l’inquadramento suggerito anche da Lijphart (1984 e 1999). Nel caso bulgaro sembra invece pesare l’assenza di una società civile sufficientemente sviluppata in dinamismo e autonomia, con un retaggio del vecchio regime i cui segni rimangono ancora visibili tutt’oggi, nel quale l’apertura del processo decisionale appare più l’eccezione che la regola. Ad ogni modo, un’ultima considerazione di metodo generale, alla luce dell’analisi svolta e dei casi considerati, riguarda la necessità – non abbastanza messa in luce nella letteratura sul tema – di integrare l’analisi dell’inquadramento giuridico e della regolamentazione dell’industria del lobbying (su cui sembra essersi concentrata la comparatistica negli ultimi anni) con un’analisi approfondita dei sistemi politici nei quali le diverse industrie del lobbying sono immerse. Senza una visione integrata del sistema dei gruppi di interesse dei diversi paesi, con le loro diverse strutture istituzionali, i loro diversi sistemi della rappresentanza, le diverse culture politiche e filosofiche e i diversi quadri sociali ed economici, si corre il rischio di concentrare un’analisi comparata sugli aspetti più evidenti e facilmente indagabili del fenomeno, ignorando tuttavia la parte più importante dell’iceberg, costituito dal sistema dell’influenza e dai processi reali di decisione di ogni paese. Resta da chiedersi se gli indicatori scelti nella presenta ricerca, evidenziati nel secondo paragrafo, siano sufficienti a cogliere la ricchezza di una realtà, quella dell’industria del lobbying, intimamente legata a tutti gli altri aspetti del sistema politico di ogni Paese. BIBLIOGRAFIA ANDRES, Gary J. (2009), Lobbying Reconsidered. Under the Influence, Pearson Education, New York. 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