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POESIA DI CERNOBYL Dedicata al 25° anniversario dal giorno dell’incidente alla centrale di Cernobyl… 26 aprile. Una consueta giornata di primavera. Soltanto il 26 aprile Cernobyl d’un tratto s’è fatta solitaria. Un errore nei calcoli degli scienziati Ha portato un dolore tremendo, Non più città verdi – Le radiazioni han spazzato via tutto. Lasciando le loro case, Abbandonando i loro nidi per sempre, Poteva immaginarsi la gente Che non ci sarebbe stato ritorno? Nel passato è rimasta la gioia, Dimenticati la quiete e il sonno, Negli occhi tristezza e stanchezza, E si avverte il gemito di Cernobyl. Tagliola, trappola, imboscata… Niente panico, solo paura. E perfino il cuculo del bosco Misura altrimenti il suo passo. Un’invisibile forza oscura Ha coperto così tante terre, Vivere s’è fatto indispensabile Per sé, per lui, per tutti. L’invisibile mano delle sofferenze, Del dolore, delle malattie, delle morti. Non si hanno altri desideri, Se non quello di salvare le persone. Gli anni si susseguono… E più vecchia è la nostra città, Il futuro dipende da noi, Affinché più bella diventi la città! Ol’ga Fes’kova QUESTO RIMARRÀ NELLA MEMORIA I viali baluginano dei bianchi fusti di betulla, Nei campi – spiccano le spighe della segale; Con gli occhi guardo, con l’anima compatisco: A causa di tal pensieri ti vengono i brividi! Maledetta Cernobyl, ti sprigionasti nel cielo, Dispensasti in giro i tuoi raggi, come roentgen, E con essi passasti sulla terra non senza lasciar tracce, Ti prendesti in cambio le nostre vite. Giungesti non per un anno: per il pianeta – un istante, Ma dentro la terra penetrasti per l’eternità. E non ha senso aspettare da te indulgenza – Il nostro cammino è ostacolato da una catena. Per giunta continui a castigarci imperterrita, Fruttificando le tue microparticelle; Nella tua gabbia ci tieni tutti con perseveranza, Come fossimo uccelli finiti nella rete. Quelli malati anzitempo li “metti in libertà”, E i superstiti li tieni reclusi “nella zona”; Con ciò, senza averci dato né felicità né sorte, Non ci lasci che il tempo di consumarci. Viktor Volocho COSA N’È STATO DEL MIO VILLAGGIO Tra i boschi di pini era nascosto Il nostro bellissimo villaggio. Sventura ci fu nei pressi di Cernobyl E, per la malasorte, in noi s’imbatté. C’era a Cernobyl una centrale nucleare, E saltò in aria il suo quarto reattore, E ricadde l’atomo maledetto Sul nostro angolino natio... Viveva qui brava gente, Non avevano mai fine le canzoni, Non v’era neanche una casa abbandonata, Si respirava quiete, tutto fioriva. Leader provinciale era il nostro kolchoz, Con la fattoria, gli animali, i campi... E la gente con coscienza vi lavorava, E generosa la ripagava la terra. Ma per la sventura di Cernobyl Si dovettero abbandonare i luoghi natii, Si stabilì la gente in un campo aperto. Si fece deserta Dobrodeevka. Di dolore piangeva lacrime, Gli abitanti lasciavano le terre natie. Non anelavano certo tale destino, Ma furono costretti dalla sventura, amici. Giunse poi gran dovizia di gente, Di gente da fuori: A spianare tutto e a saccheggiare, A vendere i beni, o a berseli. Fecero dappertutto porcherie E ovunque si macchiarono d’abusi. Si trasformò il bellissimo villaggio Nel rione criminale della provincia. Gli abitanti più anziani erano sdegnati, E scorrevano d’offesa le lacrime: «I capi, com’è vero, tutto hanno visto E su tutto hanno chiuso gli occhi!». Non tutti però se ne andarono via, Si doveva vivere e risollevare il kolchoz. I bambini non li si sfama di spassi, E il lavoro in giro a trovarlo.... Qui son rimaste le tombe dei genitori, Le famiglie degli anziani parenti. Ti custodiremo noi, Dobrodeevka, Ti difenderemo dagli assalti nemici! Che il forestiero non ci spaventi, Ma neanche ci faremo umiliare. Che tutti sappiano che noi – DOBRODEEVKIANI – Difenderemo il villaggio, come l’onore. Non desideriamo il male infinito, E a tutti auguriamo ogni bene. Ma se a qualcuno qui non va a genio, Che lasci il villaggio per sempre. Non ti lasceremo offendere, Dobrodeevka, E sebbene la nostra sorte sia amara, Noi spereremo nel meglio, La nostra fede è forte e salda. Forse, qualcuno tornerà indietro. Riprenderemo a vivere come negli anni passati. Se di nuovo capiterà una sventura, Mai ti lasceremo. Elena Evdošenko Elena, insegnante di musica, è l'anima artistica della scuola del villaggio di Dobrodeevka, dove trasmette ai bambini il patrimonio della canzone popolare russa; e sempre, durante le nostre visite, ci riscalda i cuori con il suo bajan (la fisarmonica russa). Eccola interpretare la bellissima, struggente e sconosciuta canzone popolare russa "Quando il mio cuore si calmerà". Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa “Voglio rendere testimonianza... È successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rivivo di nuovo. È sempre con me. Vivevamo nella città di Pripjat’. Proprio in quella. Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori aiutano. Stai vivendo... Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione media. Una volta l’anno vai in ferie. Un uomo normale! E di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl’. In un fenomeno da baraccone! In qualcosa che incuriosisce tutti e che nessuno sa cosa sia. Tu vorresti essere come tutti, ma non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con occhi diversi. Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù? Hai visto bruciare la centrale? Com’era? Cos’hai visto? E, in generale, puoi avere dei figli? Tua moglie non t’ha lasciato? All’inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti... Tuttora la parola “cernobyliano” è come un segnale acustico... Si voltano tutti a guardarti... Viene da laggiù! I primi giorni, era questa la sensazione... Di aver perduto non soltanto la città, ma tutta la nostra vita... Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno... Il reattore stava bruciando... Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro conoscente: “C’è odore di reattore”. Un odore indescrivibile. Ma ne hanno già parlato anche i giornali. Hanno voluto fare di Cernobyl’ una fabbrica degli orrori, anche se poi quello che è venuto fuori è un cartone animato. Io racconterò solo quel che ho vissuto di persona... La mia verità... È andata in questo modo... L’avevano annunciato per radio: proibito portare via i gatti! Subito la gatta nella valigia! Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti! Proibito portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere la porta d’ingresso dell’appartamento e portarla via, non potevo in nessun caso lasciarla lì... E avrei sbarrato l’ingresso con assi e chiodi... La nostra porta... Il nostro talismano! La reliquia della famiglia. Quand’era morto, mio padre era stato messo disteso su questa porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove, ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l’arrivo della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel catafalco... E la casa è rimasta aperta... Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore... Di quanto crescevo... E c’è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio... Di mia figlia... Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla? Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: “Dammi una mano!”. Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso... Due anni dopo... La porta... Di notte... In motocicletta... Attraverso la foresta... Il nostro appartamento era ormai stato depredato. Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: “Fermo o spariamo! Fermo o spariamo!” Sicuramente mi avevano preso per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo rubando la porta di casa mia... ...Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano delle macchie nere diffuse su tutto il corpo. Che apparivano e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi... Indolori... Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: “E i risultati?”. “Non sono per lei.” “E per chi sono, allora?”. A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo moriremo... E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto e lei mi sussurra all’orecchio: Papà. Voglio vivere, sono ancora piccola"” E io che pensavo non potesse capire... Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve, tutte in una volta? Nella stanza erano in sette... No, ne ho abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento. Perché devo descriverla come un’estranea... Le sue sofferenze... Mia moglie rientra dall’ospedale... Non ce la fa più a resistere: “sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!”. No, basta! Ho finito! Non posso. No! L’abbiamo posata sulla porta... Su quella porta dove a suo tempo era stato disteso mio padre. Finché non hanno portato la piccola bara... Era piccola, come la scatola di una bambola, di quelle grandi. Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a causa di Cernobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo...” E UN NUOVO SOLE SI ACCESE NEL CIELO Il colonnello Tibbets, comandante del B-29 “Enola Gay”, guidò l’apparecchio a 8000 metri d’altezza, verso il centro della città di Hiroscima. Nello spazio riservato al carico, l’armiere, maggiore Farabee, mise in funzione il meccanismo di sganciamento della bomba. Poi mirò il bersaglio. La bomba cadde. Con un miagolio infernale il mostro precipitò giù. Gli uomini dell’equipaggio dell’”Enola Gay” inforcarono subito, secondo gli ordini ricevuti, neri occhiali protettivi davanti ai vetri della maschera per l’ossigeno. Nessuno di loro sapeva a quale scopo dovevano servire questi occhiali. Nessuno di loro sapeva che cosa sarebbe accaduto il minuto successivo. Essi eseguivano soltanto un ordine preciso. Ed aspettarono, con le membra così irrigidite da parere insensibili. Tendevano l’orecchio, credevano di sentire l’urlo della bomba che precipitava. Ma era soltanto il pulsare del loro stesso sangue. E tutti guardavano fissi nel vuoto, senza vedere, con i volti impietriti dal presentimento di una catastrofe mai vista ancora sulla faccia della terra. Per quanto battesse il polso del colonnello Tibbets, il suo orologio seguitava indisturbato a scandire il tutto con le sue rotelline; un secondo dietro l’altro si trasformavano in passato. Le lancette segnavano le otto, quattordici minuti e trentacinque secondi. Alla bomba era attaccato un paracadute che, per mezzo di un apparecchio appositamente studiato, si aprì com’era previsto. La bomba oscillò, sempre scendendo verso terra, appesa al paracadute. Le lancette dell’orologio segnarono le otto, quattordici minuti e cinquanta secondi. La bomba si trovava a 600 metri dal suolo. Alle otto e quindici minuti era scesa di altri cento metri, quando altri apparecchi inventati dagli scienziati fecero scattare l’accensione all’interno della bomba: i neutroni provocarono la disintegrazione di alcuni atomi di un metallo pesante, l’uranio 235. E questa disintegrazione si ripeté in una reazione a catena di sbalorditiva velocità. In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, in un bagliore bianco, abbagliante. Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento. E questa palla di fuoco irradiò milioni di gradi di calore contro la città di Hiroscima. In questo secondo, 86.000 persone arsero vive. In questo secondo, 62.000 persone subirono gravi ferite. In questo secondo, 6.820 case furono stritolate e scagliate in aria dal risucchio di un vuoto d’aria, per chilometri d’altezza nel cielo, sotto forma di una colossale nube di polvere. In questo secondo, crollarono 3750 edifici, le cui macerie si incendiarono. In questo solo secondo, raggi mortali di neutroni e raggi gamma, bombardarono il luogo dell’esplosione per un raggio di un chilometro e mezzo. In questo secondo, l’uomo che Dio aveva creato a propria immagine e somiglianza, aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo di annientare se stesso. Il tentativo era riuscito. (tratto da “Il gran sole di Hiroscima” di Karl Bruckner)