La ballata dello straniero

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La ballata dello straniero
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Fabrizio Fondi
LA BALLATA
DELLO STRANIERO
EDITRICE
effequ
Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera
e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali
e a condizione che questa dicitura sia riprodotta
© 2007 Editrice effequ Orbetello
www.effequ.it
ISBN 978 88 89647 20 2
Progetto grafico di copertina: Fabio Pastore
A Claudia.
Tutta questa strada
insieme... una fortuna
che non dimentico
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La litoranea era lunga una quarantina di chilometri. Fiancheggiava
l’arenile e collegava due piccoli paesi della costa meridionale della
Toscana. Sulla sinistra della strada, a tratti, la spiaggia sbucava da dietro il fitto della pineta con il suo mare calmo e lievemente rosato dal
tramonto del sole. La pineta era rigogliosa e selvaggia. Nei punti in
cui non esistevano passaggi al mare ricordava una foresta tropicale,
buia e intricata da far paura. Sull’altro lato della strada si estendevano
a perdita d’occhio gli appezzamenti coltivati, distinti in mille variazioni di colore a seconda delle colture. Era una linea vecchia ma
ancora in buone condizioni, adatta ormai a un traffico lento e paziente
e da quando c’era l’autostrada che le correva accanto erano rimasti in
pochi a frequentarla: quelli che andavano al mare e quelli che andavano a puttane.
L’auto scivolava pigramente sulla strada accompagnata dalla musica
dei Pink Floyd mentre i due ragazzi a bordo osservavano la merce
ancora disponibile.
– Guarda quelle: stanno smontando – disse il Roco.
Due taxi erano fermi lungo una delle tante piazzole che punteggiavano la litoranea. Gli sportelli posteriori dell’auto erano aperti e le puttane cominciavano a salire a gruppi di quattro, dirette di nuovo in
città.
– Forse è meglio se rimandiamo – obiettò il ragazzo al volante.
– No, no. Ancora c’è tempo. Anzi, il meglio viene adesso. Sono tutte
sulla strada ad aspettare i taxi. C’è più scelta…
– Allora proseguiamo. Più avanti ce ne sono altre.
Le ragazze arrivavano la mattina presto, quando il sole doveva ancora
spuntare, a bordo dei taxi che le disseminavano lungo tutto il percorso
della litoranea, e da quel momento non si fermavano più fino a sera.
Avevano messo piede nella zona da circa un anno e ormai tutti si
erano abituati alla loro presenza. Erano esclusivamente nigeriane e
senegalesi.
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Negli accordi di spartizione tra bande quella zona toccava a loro.
– Roco, sono venti minuti che facciamo avanti e indietro…
– Non importa, dobbiamo scegliere la cavalla giusta. Se c’è da aspettare, aspetteremo. Ma tu non farti prendere dal nervoso.
– Eh, è una parola…
– Eppure non è mica la prima volta…
– No che non è la prima volta, lo sai bene. E’ solo sta situazione del
cazzo, che mi dà il nervoso. Più ce ne stiamo in giro, più c’è il rischio
che qualcuno ci riconosca.
Il Roco neppure l’aveva ascoltato. Aprì il finestrino e buttò la lattina
vuota sulla strada dietro. La osservò dallo specchietto rimbalzare un
po’ e rotolare lentamente fino alla fossetta laterale. Poi ruttò un paio
di volte e si piantò tra le labbra uno spinello che aveva sfilato dal
taschino della camicia.
– Roco, metti via quello spino che se ci fermano sono cazzi.
– Ho bisogno di caricarmi, mi dà la spinta giusta. Mi prepara per
quello che…
– Porca puttana – ribatté il ragazzo picchiando con forza sul volante –
metti via quella roba, sennò giro e ce ne torniamo a casa!
– Va bene, va bene. Eccheccazzo, come ti scaldi presto…
– Mi scaldo presto? Ma ti rendi conto delle stronzate che dici?
Il ragazzo al volante scosse la testa. Tra decine di possibili compagni,
gli era capitato proprio il più stupido. E per un compito così importante. Si chiese come faceva un idiota come quello a occupare un
posto così importante nella setta. Si chiese cosa il Messo potesse trovarci di così speciale in uno con quel cervello a mezzo servizio. Poi,
mentre supponeva che fosse proprio quella la qualità preferita dal
Messo, vide comparire in lontananza una piazzola e tornò al presente.
– Guarda, eccone un’altra.
La ragazza indossava una gonna cortissima che lasciava scoperte le
lunghe gambe nere fino all’altezza del polpaccio, dove arrivava il
bordo degli stivali bianchi dal tacco vertiginoso. Sopra indossava un
corpetto che la copriva il minimo indispensabile. Stava seduta su uno
sgabello ma si alzò con prontezza appena si accorse che stava arrivando qualcuno. L’auto sfilò lentamente davanti alla piazzola e la ragazza
fece loro un cenno di invito.
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– Guarda come fa ballare le tette, la troia. Guarda, guarda…
Ma il ragazzo al volante preferiva guardare davanti a sé e nello specchietto retrovisore. La strada era deserta, ma non si poteva mai dire.
Fece un respiro profondo ingerendo un profumo di erba intenso e
pungente che il vento leggero trascinava dai campi, poi frenò e fece
retromarcia fino a raggiungere la ragazza.
– Andiamo, belo? Chiese lei appoggiandosi al finestrino prima ancora
che l’auto fosse ferma.
– Quanto? Chiese il Roco.
– Cinquanta.
– Cinquanta? Ma sei matta? Cinquanta per tutti e due…
– No, no. Cinquanta per uno. Guarda qua che belo, guarda…
La donna scoprì i grossi seni e li strinse tra le mani.
– Mamma mia, che…
– E falla finita, cazzo – sibilò il ragazzo che guidava stringendo il
volante tra le mani fino a farne sbiancare le nocche – scendi e vai, che
stiamo solo perdendo tempo!
– Non mi rompere i coglioni proprio adesso. Continua – gridò alla
donna – fammi vedere come sei bella.
– Vuoi scopare o no? – rispose seccata lei.
– Voglio, voglio!
– Alora scendi e vieni co’ me.
Il ragazzo sfilò da sotto il sedile un giubbotto senza maniche e aprì lo
sportello.
– E andiamo a farci sta scopata.
Scese dall’auto e strizzò l’occhio al suo compagno.
– Preparati che fra poco tocca a te – gli disse.
Ma l’altro continuava a tenere gli occhi incollati allo specchietto e
neppure lo sentì.
Dopo una cinquantina di metri la macchia si faceva davvero fitta, ma
la ragazza conosceva alla perfezione quei sentieri appena accennati o
coperti da cespugli e dalle grosse radici degli alberi e delle piante selvatiche. Percorse la strada meccanicamente, senza neppure guardare
dove metteva i piedi. Si fermò in uno spiazzo coperto dagli alberi su
ogni lato e immerso nel silenzio, l’ideale per mettere a proprio agio
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anche il cliente più nervoso. Per terra c’era di tutto: centinaia di preservativi, tovagliolini di carta, assorbenti, rifiuti alimentari di ogni
tipo, bottiglie vuote, piatti e bicchieri, sedie rotte.
– I soldi – disse la ragazza.
Il Roco estrasse un mazzo di banconote stropicciate e cominciò a contare mentre lei apriva la confezione di un preservativo.
– Ora spogliati – le disse dopo averle consegnato i soldi.
– No, io no spoglia. Io scopa così. Tu mette questo.
Il ragazzo sbuffò deluso.
– Va bene. Girati, appoggia le mani all’albero.
La ragazza sollevò il vestito e si mise in attesa. Ruminava una gomma
e aveva lo sguardo perso nella corteccia del pino davanti a sé.
Cominciava giusto a domandarsi cosa stesse facendo quell’imbranato
dietro di lei quando il panno imbevuto di alotano le si schiacciò sul
naso e sulla bocca. Sgranò gli occhi e appoggiò le mani sul braccio
del ragazzo, ma la stretta di lui era di ferro e non le permise neppure
di girare la testa. Si agitò ancora un paio di secondi, poi si accasciò a
terra accompagnata dalla presa dell’uomo.
– Ridammi i miei soldi, brutta stronza.
Le frugò tra i seni e la fece rotolare un po’ alla ricerca delle tasche
poi, quando ebbe trovato ciò che stava cercando, estrasse il cellulare e
premette un tasto.
– Stai pronto che arrivo.
Infilò in tasca il panno e la boccetta, poi si caricò la ragazza sulle
spalle. Passare tra i rovi e i sentieri fu più difficile che all’andata, ma
il ragazzo era determinato a farcela e quella cattura lo aveva reso
euforico. E poi non avrebbe potuto sbagliare per nessun motivo, se
teneva alla propria vita. Il Messo non avrebbe perdonato uno sgarro
neppure al suo servo più fedele.
Si affacciò alla piazzola con prudenza: l’auto era parcheggiata con il
retro verso la macchia e il bagagliaio era aperto.
– Svelto, svelto! – gli gridò l’altro.
Il Roco scaricò il corpo e sbuffò, stanco ma soddisfatto. L’altro non
perse tempo: applicò brutalmente un pezzo di nastro sulla bocca della
donna, poi le bloccò mani e piedi con due coppie di manette.
– Fatto. Via, via!
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Chiusero il bagagliaio e si fiondarono in auto. Entrarono in strada
proprio mentre un altro taxi stava arrivando dalla parte opposta.
Entrambi sentirono il cuore che cominciava a bussare.
– Cazzo… e adesso?
– Adesso niente. Prosegui per la tua strada e fatti i cazzi tuoi. Sei solo
uno che passa di qui. Non hai fatto nulla e non hai nulla da temere.
Tieni lo sguardo fisso sulla strada e vedrai che va tutto bene.
Il taxi si avvicinò e poi sparì dietro di loro senza che l’uomo alla
guida li prendesse neppure in considerazione. Entrambi soffiarono
fuori la loro tensione.
– Ha fatto resistenza?
– Macché, dopo qualche secondo era già a terra... me la sarei anche
fatta
– Non le pensare neppure, ’ste cose. Quando sei in missione…
– Lo so, lo so
Il ragazzo che guidava si fece di nuovo teso.
– Di’ la verità: ti ha visto bene? Potrebbe riconoscerti?
Il Roco scoppiò a ridere. Una risata schioppettante, allegra e allo stesso tempo isterica.
– Riconoscermi? Che cazzo me ne frega!? Tanto, domani sera sarà
morta.
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La luce rossa sul display cominciò improvvisamente a lampeggiare e
avviò il conto alla rovescia: un minuto alla fine della trasmissione.
L’uomo diede una rapida occhiata a quel segnale mentre malediceva
in silenzio le luci torride e intense dello studio che gli puntavano dritto in faccia e lo stavano friggendo. Ma ormai era questione di poco.
Tieni duro, pensò mentre spostava il suo sguardo sull’unica delle tre
telecamere che stava lampeggiando. Uno sguardo sicuro, volitivo e
affidabile. Uno sguardo seducente.
– Ricordate, signore e signori, che il Mago Edson riceve in via
Pigafetta numero dodici tutti i giorni dalle quindici alle diciotto.
Prendete nota del numero che sta passando in sovrimpressione e non
esitate. Chiamate, prendete appuntamento e venite a trovarmi: la
vostra vita cambierà da così a così…
Dietro al vetro insonorizzato che isolava la stanza, il direttore della
piccola tv locale lo osservava estasiato, le mani nascoste nelle tasche
e lo sguardo perso dentro le parole morbide e soavi del mago.
Pensava stupito: come ha fatto a trasformarsi così, cosa gli è successo? Era sbalordito dalla straordinaria abilità di quel ragazzo. Più che
bucare lo schermo, lo sfondava. Sfoggiava una bravura da showman
consumato. E pensare che solo due mesi prima aveva pensato seriamente di sbarazzarsene. Appariva timido, impacciato. Noioso. Le sue
trasmissioni erano terribili e gli ascolti avevano subito un crollo verticale. Poi, di botto, la metamorfosi. Una sera si era presentato con un
look completamente diverso. Aveva esibito un atteggiamento spigliato
e dominante, si era perfettamente calato nella sua parte e tutto era
cambiato. La trasmissione aveva cominciato a volare e in breve era
diventato il beniamino della città. Nelle piazze i ragazzi imitavano i
suoi gesti, le sue espressioni, scimmiottavano i suoi slogan, scrivevano il suo nome sui muri. Il direttore lo aveva osservato crescere sera
dopo sera, acquistare sicurezza e forza interiore fino a raggiungere
livelli assolutamente impensabili.
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Prima o poi, pensò, qualcuno della tv nazionale lo avrebbe scoperto.
Era solo questione di tempo.
Il cameraman gli segnalò con un gesto secco della mano che era ora
di chiudere. Allora l’uomo si abbandonò a un sorriso radioso che,
assieme ai suoi occhi neri come la pece e al suo pizzo scuro e perfettamente modellato, coprì l’intero schermo. Poi il sorriso sfumò gradualmente e lasciò il posto ai titoli di coda. L’uomo si alzò dalla sedia
mentre da un piccolo altoparlante fissato su un angolo della stanza gli
arrivava una voce che proveniva dalla stanza adiacente.
– Okay, l’audio è chiuso, pronti per lo stacco. Edson, sei stato splendido. Puoi passare da qui prima di andartene? Grazie.
Edson afferrò una valigetta e la aprì con movimenti lenti e studiati, la
appoggiò sul tavolo e cominciò a riporvi i suoi oggetti del mestiere.
Ma guarda quante minchiate, gli venne da pensare. Due enormi mazzi
di carte, candele di ogni misura e colore, due pendoli d’argento che
aveva trovato in un vecchio carillon di sua nonna, alcune piccole statue dal potere evocativo che facevano parte di un presepe triste e
malinconico che durante la sua infanzia aveva odiato a morte.
Nascose a forza un sorriso mentre le riponeva con ordine e con amore
sul fondo della valigia. Quando aveva cominciato quel mestiere, non
più di due anni prima, non avrebbe immaginato neppure per scherzo
di diventare una specie di leggenda del paese. Invece la cosa aveva
avuto un piacevole sviluppo, impetuoso e incontrollabile. L’avesse
saputo prima, si sarebbe risparmiato di imbarcarsi in mille mestieri
merdosi e senza futuro che gli spezzavano la schiena e gli lasciavano
le tasche perennemente vuote.
Appena fu fuori della stanza, il direttore della tv locale gli si fece
incontro per stringergli la mano, euforico. I telefoni erano esplosi
addirittura qualche ora prima della messa in onda, e dopo cinque
minuti dall’inizio il centralino era stato costretto a stoppare le telefonate in arrivo. Mai successa una cosa del genere.
– Grande come al solito, Edson. Formidabile. Senti, qua fuori c’è il
proprietario che ti vuole parlare. Non so se mi spiego…
Strizzò l’occhio al mago e gli fece cenno con la testa di andare.
– Secondo me è roba grossa. Quello gli affari li fiuta anche sottoterra.
Se ti vuole parlare è segno che c’è qualcosa di grosso che bolle…
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Edson si avviò verso l’uscita senza fare una piega. Fuori era ormai
buio ma faceva ancora caldo. Si affacciò furtivamente all’esterno e
scorse l’uomo che lo aspettava: passeggiava, osservava nervosamente
il cielo scuro e teneva una inutile giacca sulle spalle.
Solo scena, pensò Edson, proprio come la mia.
L’uomo stringeva un enorme sigaro tra i denti e due cellulari tra le
mani e passeggiava in impaziente attesa in mezzo allo spiazzo ricoperto di ghiaia. Edson gli si avvicinò e lo sgradevole odore del sigaro
gli trapassò le narici e annientò il profumo dolciastro delle piante.
– Buonasera, dottor Marte.
– Edson! Eccolo qua, il più grande mago di tutti i tempi! So che vai
forte come un treno, qua sono tutti orgogliosi di te!
– Be’, insomma, faccio del mio meglio…
– No, no... lo sai che tutto il paese parla di te? Il tuo nome fa il giro
della città, tutti vogliono parlare con te, dicono che sei bravissimo,
stanno incollati al televisore a guardarti, perfino le registrate, e noi
siamo contenti come una Pasqua…
E ti credo, gran figlio di puttana. Ridi, ridi, finché ti dura…
– Senti…volevo parlarti di una cosa. Pensavo a un ampliamento della
trasmissione, per farla diventare una cosa un po’ più… seria. Che ne
dici?
– Dipende. Dipende da tante cose. Cos’avrebbe in mente?
– Diciamo…da una volta a settimana come oggi a un appuntamento
quotidiano, dal lunedì al venerdì. Tutte le sere un paio d’ore, o anche
di più, se te la senti.
Edson osservò la pancia dell’uomo. Ingombra e sguaiata, spingeva da
sotto la camicia come a volerla strappare. Poi salì con gli occhi fino al
sorriso da pescecane. Il dentista che glielo aveva costruito doveva
conoscerlo davvero alla perfezione, perché aveva fatto un lavoro perfetto. Uno così, non poteva che avere un sorriso così.
Il dottor Marte continuava a parlare, ma Edson non lo ascoltava più:
osservava le sue movenze, i sorrisi con i quali accompagnava le sue
frasi, sorrisi così frequenti da storpiare una parola su tre. E poi le
braccia che disegnavano cerchi su cerchi, quel sigaro che gli roteava
davanti come un fastidioso zampirone. L’uomo esponeva i suoi progetti, i suoi piani di grandezza, che naturalmente avevano al centro il
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mago con un suo staff personale, una serie di iniziative che lo avrebbero spinto dritto dritto a una fama di livello nazionale, e poi ancora
più su, fino a…
– Mille euro– sbottò Edson.
– Come dici, scusa?
– Dico mille euro a serata. Cinquecento fatturati, cinquecento in
nero. Anticipati al lunedì per tutta la settimana. Io decido la fascia
oraria e la scenografia. E naturalmente i collaboratori.
L’uomo rimase di sasso per qualche secondo, poi cominciò a tossire.
Deglutì e sorrise ancora, stavolta di un sorriso appena accennato e
incerto.
– Fiuuu, quanto a richieste, non è che scherzi. Mi sembra un tantino
esagerato, porca miseria. Io pensavo a una cosa più… contenuta,
diciamo. Intanto, giusto per partire, potremmo cominciare con un rimborso delle spese. Poi, col tempo, se la cosa funziona, potremo sempre aggiustare il tiro e trovare un altro accordo…
Edson si guardò bene attorno, si abbandonò a una risata piena e attese
che Marte se la ridesse insieme a lui. Poi lo afferrò di colpo per la
camicia e lo spinse verso un albero. Lo appoggiò al tronco senza troppi fronzoli e si avvicinò al suo viso.
– Ascoltami bene, grand’uomo. Faccio questa trasmissione da un
anno e non ho ancora visto un centesimo. Tu invece sei passato da
due a otto inserzioni pubblicitarie a fascia. Poi sei passato da due a
dieci fasce pubblicitarie e hai pure raddoppiato le tariffe. Poi siamo
passati da cinque a quaranta telefonate a sera. E poi, e poi, e poi…
quanti soldi sono, eh? Quante montagne di soldi ti stai mettendo in
tasca con il mio lavoro, eh?
L’uomo arrancava e sudava freddo. Cominciava a pensare di aver
commesso un grave errore di giudizio su quel ragazzo. Ma ormai era
tardi per tornare indietro. Edson affondò la sua tirata aspra e tagliente
senza mollare il colletto di Marte.
– Quando sono entrato qua dentro non c’erano nemmeno i cessi. Due
stanze scalcinate e un telefono del secolo scorso. Una baldracca cicciona e annoiata che rispondeva ogni morte di papa alle telefonate e
un tanfo di sudicio che mozzava il respiro. Non te lo ricordi più, eh?
Non te lo ricordi? Rispondi, cazzo!
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Gli tirava il bavero della camicia come fosse una briglia e l’uomo
dondolava come un fuscello al vento sotto i colpi potenti del ragazzo.
– S-s-sì, me l-l-lo ricordo…
– Ecco, bravo. Fai bene a ricordartelo, perché quel periodo è storia
passata ma fa sempre in tempo a tornare. Ora, hai due possibilità. La
prima è lasciarmi lavorare come mi pare e al prezzo che mi pare, e
allora c’è una bella fetta anche per te. Te ne stai tutto il giorno per i
cazzi tuoi, con le tue mignotte d’alto bordo e i tuoi traffici, e la sera te
ne vieni qua a riscuotere la grana. La seonda è tornare nel giro di due
mesi a trasmettere le stronzate che trasmettevi prima, quando non ce
la facevate neppure a pagare la corrente. Che ne pensi, eh?
– La-la-lasciami…
Lo lasciò e l’uomo continuò a dondolare per qualche secondo. Edson
osservava le perline di sudore sul viso di Marte, visibili perfino sotto
la luce della luna, ed ebbe una fitta di allegria. La sua pazienza, un
anno intero di pazienza, stava per essere premiata. Gli si avvicinò di
nuovo.
– Dici che è troppo? Che sono esagerato? Va bene. Io sono convinto
che la concorrenza me li dà a occhi chiusi. Vogliamo provare?
Estrasse il cellulare dalla tasca e scorse la rubrica fino a trovare il
numero che gli interessava. Fede, il proprietario di Antenna 21. Voltò
il display del telefono verso Marte, lasciandogli il tempo di leggere
quel nome.
– Vogliamo sentire cosa ne pensa lui?
Inviò la chiamata e accostò il telefono all’orecchio.
– Adesso Fede ti rompe il culo – gli disse sottovoce – e io gli do una
mano. Te lo sei voluto, Marte…
– Aspetta. Aspetta! Chiudi un attimo quell’affare. Ci sto. Ci sto!
Chiudi, per l’amor di dio!
Edson fermò la chiamata e sorrise, ma solo dentro di sé. Il suo volto
pareva invece scolpito nel legno.
– Bravo. Adesso ti dico cosa devi fare. Prima di tutto, mi servono due
belle fiche da far girare nello studio durante la trasmissione. Due che
sappiano camminare davanti alla telecamera vestite con un cencetto e
non si facciano troppi problemi, mi spiego? Trovane una decina e
organizza un provino per la prossima settimana. Tra quindici giorni al
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massimo si parte. Marte annuì senza parlare. Edson si abbassò per
riprendere la sua valigia, poi gli tese la mano.
– Tra persone intelligenti ci si trova sempre. Giusto?
– Giusto…
– Cinquemila a settimana, metà fatturati, metà no. Giusto?
– Giusto…
– Questa bagnarola diventerà una fabbrica di soldi, dottor Marte. E
metà finiranno nelle tue tasche. Ma ricordati: prima di tutto sono un
cultore della magia. Se cerchi di mettermelo in culo, ti riduco a una
larva. Ti scateno contro le peggiori forze del male. E’ meglio che lo
tieni sempre a mente, questo.
Gli diede una pacca sulla spalla e si allontanò, lasciandolo in compagnia dell’albero alle sue spalle e del buio della sera.
Marte appoggiò la schiena al tronco, chiuse gli occhi e scacciò con
forza un’ondata di pianto che sentiva arrivare su dallo stomaco.
Cazzo, se aveva avuto paura. Doveva essere una passeggiata, un lavoretto leggero, quasi noioso per una vecchia lenza come lui.
Abbindolare con le chiacchiere un ragazzo, e che cazzo ci voleva mai.
Invece era stato terribile. Quelle mani forti e rabbiose lo avevano
stretto come una morsa e sballottato qua e là come un pupazzo.
Quello sguardo ostile che scintillava sotto i riflessi lunari e lo teneva
in pugno lo aveva paralizzato. Ma soprattutto quel richiamo alle Forze
del Male. Quella frase cupa gli rimbombava ancora nel cervello mentre attorno a lui il buio si faceva più fitto e avvolgente.
Le Forze del Male.
Erano state quelle parole a farlo tremare davvero. Ripensò a quegli
occhi che si illuminavano di malignità mentre le mani stringevano e
quelle parole oscure risuonavano nell’aria calda della notte. Ci pensò
ancora e ancora, schiavo di quel diabolico momento dal quale non
riusciva a liberarsi. Edson, il ragazzo prodigio delle carte e dei talismani, lo aveva catturato e avvolto nelle sue spire.
Fu allora che si accorse di avere i pantaloni bagnati.
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– Tirreno, buonasera.
– Buonasera, vorrei parlare con Maurizio Breschi.
– Chi lo desidera?
– Sono Ettore Boni. Ho un appuntamento con lui.
– Attenda in linea, prego.
Il ragazzo si rassegnò ad aspettare, teso come una corda di violino,
mentre la musichetta del centralino copriva a suo modo quel silenzio
estenuante. Durò circa un minuto, poi dall’altro lato arrivò finalmente
una voce.
– Ettore?
– Maurizio, finalmente!
– Abbi pazienza, ma il mio cellulare non funziona e sono stato fuori
per un servizio. Allora, sei pronto?
– Credo di sì.
– Come sarebbe “credi”? Non ci avrai mica ripensato?
– No, no. Però non farla così facile. Sono io che mi espongo e rischio
grosso, voi avete solo da guadagnarci.
– Hai anche tu da guadagnarci, dammi retta. E poi sia chiaro che non
voglio costringerti. E’ che non ti sento troppo convinto.
– Io sono convinto. Ho solo paura di ciò che succederà dopo…
– Ma cosa vuoi che succeda. Succede che il magistrato apre un’inchiesta e i tuoi compari fanno la fine che meritano.
– Non sono i miei compari, non lo sono più. Comunque speriamo
vada davvero come dici tu …
– Guarda, Ettore, che quelli non sono esseri di un altro pianeta. Non
hanno superpoteri e non ti ammazzano con la forza della magia nera.
E non sono neppure pezzi grossi della malavita con il pelo sullo stomaco, di quelli sì che dovresti avere una paura matta. Ma questi sono
soltanto ladri di polli che giocano a fare i superuomini e si sentono gli
eletti. La polizia ne fa polpette in cinque minuti. Tu pensa solo a tirare il sasso, il resto viene da solo.
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– E se poi non viene, il resto?
Il giornalista sospirò sulla cornetta facendola gracchiare.
– Ettore, ascoltami. Hai ventuno anni e la vita intera davanti a te. Se
la presenti come una stupidata di gioventù puoi ancora uscirne fuori.
Tra qualche mese forse non sarà più possibile, perché una volta che le
cose avranno preso una…
– Va bene, basta così, per telefono abbiamo detto già troppo. Resti in
redazione?
– Ti aspetto qui. Quando pensi di passare?
– Un’ora e mezzo, due ore al massimo. Sistemo una cosa e arrivo.
– Bene, non mi muovo. Quando arrivi, di’ che hai un appuntamento
con me, altrimenti non ti fanno entrare. Ciao.
– Ciao.
Ettore Boni riagganciò la cornetta e restò solo con i suoi pensieri.
Sembravano tanti avvoltoi che gli svolazzavano sopra la testa in attesa
di potersi gettare sulla sua carcassa. In un modo o nell’altro ciò che
stava per fare avrebbe deciso la sua vita. L’idea di fare la spia lo
disgustava, ma ormai era un passaggio obbligato: se voleva davvero
uscirne, non c’erano altre strade, ammesso poi che quella potesse funzionare veramente. Ma lo atterriva la reazione dei membri, soprattutto
dei più fanatici. Alcuni di loro non avrebbero esitato a dare la vita per
la setta e certamente neppure a toglierla a qualcuno, se solo gli fosse
stato ordinato. E quando il Messo ordinava, c’era poco da discutere.
Uscì di casa in silenzio e chiamò l’ascensore, poi, in preda alla paranoia, ci ripensò e scelse le scale. Che cazzata, aveva fatto, a entrarci.
Una cazzata grossa come il mondo. Si era fatto abbindolare da una
montagna di parole, di promesse, di discorsi sul senso della vita e,
anche se a lungo non aveva voluto ammetterlo, dalla possibilità di
scopare come un matto.
E per qualche tempo era stato anche piacevole, al punto da fargli credere davvero che la sua vita sarebbe stata sempre e solo quella, che
niente altro sarebbe stato così intenso ed eccitante come vivere dentro
una setta. Ma adesso il vento era cambiato e il paesaggio che si profilava all’orizzonte non gli piaceva per niente. Da qualche mese i
discorsi goliardici e goderecci dei capi avevano assunto un che di farneticante e delirante.
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Qualcuno cominciava a crederci davvero, al diavolo. Si erano fatti
prendere la mano dal gioco e avevano cominciato ad alzare il tiro.
Sempre più su, e il peggio doveva ancora arrivare. Uscì dal portone e
si avviò verso il retro dell’abitazione dove aveva parcheggiato l’auto.
Sentiva lo stomaco brulicare e le mani tremare, fuori da ogni controllo. Era l’ultima occasione che aveva per tornare sui suoi passi e decidere di tenere la bocca chiusa. Pensò a Maurizio Breschi e per un
istante si sentì sollevato. Sembrava la persona giusta per aiutarlo: un
giornalista serio e leale, stimato dal suo direttore e per di più buon
amico di suo padre. Lo avrebbe aiutato ad alzare il coperchio, il resto
lo avrebbero fatto le forze dell’ordine. Sì, sarebbe andata proprio così.
Fallo. E’ la cosa giusta. Fallo e ti sentirai meglio. Una volta che avrai
raccontato…
– Ettorino! Dove vai di bello?
Al suono ruvido e tagliente di quella voce si voltò di scatto. Li vide
arrivare in tre, da ogni parte, e convergere verso di lui. Il braccio violento della setta, il suo volto muscolare. Il Roco, il più grosso dei tre,
un armadio dalla testa lucida come una sfera di vetro e una bocca
nella quale i buchi erano più numerosi dei denti, gli si avvicinò frontalmente mentre gli altri lo avevano chiuso ai fianchi e lo costringevano a starsene fermo lungo il marciapiede. Ettore lesse sui loro volti la
rabbia della bestia ferita e provò a scattare lungo il muro, ma le braccia che lo agguantarono erano forti come tagliole e per bloccarlo neppure si scomposero troppo. Adesso il Roco era a mezzo metro da lui e
occupava tutta la sua visuale.
– Perché scappi, Ettorino?... ce l’hai con noi per caso?
– No, è che ho fretta, devo fare una cosa importante e...
– Ah, devi fare una cosa. Allora fai meglio a scordartela, quella cosa.
Ora vieni con noi.
– E perché? Tanto ci vediamo stasera…
– E noi invece ci vediamo adesso. Perché c’è un figlio di puttana che
sta cercando di tradire i fratelli. Tu ne sai niente?
– No.
– No, eh?
Il Roco allargò la bocca, ma i suoi occhi non sorridevano. Il Roco non
sorrideva mai.
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Allargava la bocca solo per accrescere la sua bruttezza e spaventare le
sue prede.
– Fosse per me, ti accopperei proprio qui. Ti lascerei su ’sto marciapiede aperto in due come un maiale scannato. Solo che finire in prigione per una merda come te, mi romperebbe davvero i coglioni.
Poi si rivolse agli altri.
– ’Ndiamo, che il Messo ci aspetta.
Ettore Boni sentì le arterie spalancarglisi di botto: il Messo di
Lucifero, il capo indiscusso della setta. Il più cattivo. Poi le mani dei
gorilla si strinsero attorno alle sue braccia e lo spinsero rudemente
lungo il marciapiede. Al primo incrocio svoltarono e lo caricarono a
forza dentro un’auto che aveva già gli sportelli aperti e il motore
acceso. Il guidatore gli parlò dallo specchietto.
– Ciao, gola profonda. Ti è andata male, eh?
– Ancora no – rispose uno dei tre – aspetta che arrivi davanti al
Messo...
Si voltò verso il ragazzo:
– Mi sa che ti aspetta proprio una seratina di merda. Peggio per te, te
la sei cercata.
Gli sportelli si chiusero e le gomme fischiarono sulla strada. Ettore
Boni chiuse gli occhi e si mise a fare una cosa che non avrebbe mai
pensato di dover fare in vita sua: pregare.
Da almeno dieci minuti nessuno parlava. L’auto aveva imboccato una
strada che Boni non conosceva. Un posto nell’entroterra dove non
ricordava di aver mai messo piede. Sentiva la paura strozzargli la
gola. Era al limite della sopportazione.
– Dove mi portate? Questa non è la strada per il casolare.
– Tu non ci metti più piede al casolare. Tu non vai più da nessuna
parte. La tua prossima fermata è sottoterra.
– Ragazzi, mica farete sul serio, vero? Un conto è…
Lo schiaffone del Roco lo colpì in pieno viso e lo zittì di botto.
– Perché, tu non facevi sul serio, eh? Dimmi che tu invece non ci
andavi, a raccontare i cazzi nostri a tutto il paese, eh?
Ettore si appoggiò una mano al volto per lenire il dolore ma non
servì.
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Ti vogliono solo spaventare, ma non ti faranno niente. Al massimo un
po’ di botte.
Ma spaventarlo non fu così difficile: spalla a spalla con il Roco, che
ogni trenta secondi si girava verso di lui e gli sorrideva, quando non
gli allungava un colpo in faccia, la paura zampillava fuori da sola.
D’improvviso l’auto infilò una stradina secondaria e si avventurò dentro la macchia. Il terreno era sconnesso e deturpato dalle grosse radici
degli alberi e l’auto rollava come una barchetta in mezzo all’oceano.
La luce era scarsa e continuava a calare.
– Stasera dobbiamo fare un rito importante e tu…
– Non gli dire un cazzo, non è più uno dei nostri.
– Hai ragione, adesso è tornato un ometto squallido e ignorante come
gli altri. Solo che lui è pure una spia.
– Di questo si pentirà presto. Non è vero, Ettorino? Non è vero che
tra un po’ ti pentirai di aver fatto la merda?
Ettore Boni era spaventato e confuso, ma continuava a domandarsi da
chi l’avessero saputo. L’indiziato numero uno era Breschi, che conosceva le sue intenzioni per filo e per segno, ma era un controsenso,
perché, per quanto ne sapeva lui, Breschi non faceva parte della setta
e non poteva avere interesse a fermare la sua iniziativa. Ma in fondo
quanto ne sapeva veramente, lui, di quella setta? Quanto a fondo ne
conosceva il funzionamento? A mano a mano che l’auto si allontanava, si rendeva conto di aver fatto le cose con eccessiva leggerezza.
Una parola di qua, una mezza confessione di là, negli ultimi giorni si
era lasciato andare un po’ troppo. Si rendeva conto solo adesso, a cose
ormai fatte, che molti di quelli con cui aveva parlato avrebbero potuto
facilmente arrivare alla conclusione che lui si preparava a vuotare il
sacco. Gli anticorpi della setta si erano messi in moto ed erano arrivati prima.
– Siamo arrivati. Scendi.
Avvolto nei suoi pensieri, neppure aveva dedicato troppa attenzione al
percorso. Erano finiti in una chiesa sconsacrata, una zona in pieno
entroterra dove ormai non arrivava più nessuno, neppure i cacciatori
più smaliziati. Lui stesso ne aveva solo sentito parlare ma non c’era
mai stato.
Il posto migliore per morire.
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Il gruppo entrò dentro la chiesa e Ettore ne fu come folgorato: il vero
centro della setta era quel posto e non certo il casolare, dove le messe
nere erano semplici operazioni di parata per rastrellare soldi e fica a
volontà. E il fatto che glielo avessero lasciato vedere lo mise in allarme. Adesso non era più così sicuro di cavarsela con un po’ di schiaffi.
Il posto era arredato con una cura maniacale. Nonostante fosse riservato ai vertici della setta, le immagini più inquietanti e impressionanti
stavano proprio lì e non al casolare, dove veniva radunata la truppa.
C’erano simboli demoniaci di ogni tipo, quadri raffiguranti orge,
sacrifici al demonio, guerra tra male e bene, la cacciata di Lucifero. In
ognuno di essi l’immensità e l’imponenza delle forze del male era
evidente. C’erano centinaia di candele accese su decine di candelabri
e in un angolo, su un enorme piedistallo, una statua raffigurante il
demonio nell’atto di sbattersi una giovinetta ancora più bambina che
ragazzina. Nessuno da fuori, ammesso che fosse mai passato da quella landa dimenticata da Dio, avrebbe potuto immaginare tanta differenza tra esterno e interno.
E in mezzo alla chiesa, lui. Il Messo di Lucifero, il vertice della struttura, colui che aveva il potere di vita e di morte sui fratelli. I gorilla
trascinarono Ettore fino al centro dell’edificio e sparirono come il
vento senza parlare.
Il Messo neppure alzò la testa: rimase immobile, le mani nelle tasche
del suo vestito nero coperto da un mantello ancora più nero, il cranio
rasato e un pizzetto color rame lungo quasi un palmo.
Ettore ne fu impressionato. Il Messo aveva qualche anno più di lui,
ma certamente non arrivava ai trenta. Eppure la luce sinistra di quegli
occhi rivelava una determinazione e una crudeltà assolutamente
genuine. Gli sembrò altissimo e onnipotente.
Solo allora si accorse che l’intera parete sinistra dell’edificio era un
vero e proprio museo della tortura. Corde, catene, un pentolone dal
quale usciva un fumo giallognolo dall’odore penetrante simile all’ammoniaca, una serie di strumenti di ferro che non aveva mai visto ma
che avevano chiaramente finalità di tortura, due pali in legno dai quali
pendevano due lunghe catene che arrivavano fino a terra. E poi coltelli, tenaglie, sciabole e asce di ogni misura. E uno degli strumenti di
tortura più usati nella storia: la ruota. Ettore ne aveva solo sentito rac-
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contare, ma la riconobbe subito. Gli venne da pensare alle decine di
disgraziati che erano crepati su quel terribile strumento di morte.
Immaginò il momento nel quale gli arti si spezzavano, gli sembrò di
sentir rimbombare nelle sue orecchie le urla di dolore e di supplica
dei torturati, i loro gemiti quando i loro corpi venivano fissati tra i
raggi della ruota. Immaginò le ore o i giorni che dovevano trascorrere
prima che quei disgraziati potessero trovare sollievo nella morte,
invocandola con un filo di voce o anche solo con la forza del pensiero
perché venisse finalmente a prenderseli. E mentre immaginava, sentiva delle frustate gelide lungo la schiena che lo lasciavano paralizzato.
Il Messo si godette il suo pallore e il suo terrore, poi voltò lentamente
lo sguardo verso la ruota. Quando lo riportò verso Ettore, gli sorrise e
i suoi occhi si illuminarono ancora di più.
Era un sorriso molto diverso da quello del Roco: affascinante e accomodante, quasi cortese, mostrava una chiostra di denti perfetti e pronti a sbranare. E Boni si rese conto che quello era un sorriso autentico,
che nasceva dal genuino piacere di infliggere dolore. Il Messo osservò
ancora un attimo la ruota, poi annuì solennemente.
– Ottima scelta – disse al ragazzo – una delle più coraggiose, per
andarsene.
Ettore Boni sentì sfuggirgli anche la forza di respirare. In quel
momento fu sicuro di aver preso un abbaglio colossale che lo aveva
mandato fuori strada fino a trascinarlo in quella situazione maledetta.
Perché ora non c’erano dubbi che la creatura che aveva davanti a sé
era veramente inviata dal demonio sulla terra. E comprese che da quel
posto, dalla tana del diavolo in persona, non sarebbe mai e poi mai
uscito vivo.
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4
Maurizio Breschi chiuse la connessione a Internet e fissò per l’ennesima volta l’ora sul monitor. Ormai due ore erano passate da un pezzo e
anche la terza se ne stava andando. Fuori della finestra la luce del tramonto aveva lasciato il posto alle ombre della sera. Alzò di nuovo il
telefono e lanciò la ripetizione automatica dell’ultimo numero chiamato, ma dal cellulare di Ettore Boni arrivò il solito messaggio che
parlava di terminale spento o irraggiungibile. Ormai non sapeva più
dove cercarlo, aveva chiamato in tutti i posti che gli erano venuti in
mente. E comunque insistere non aveva senso: se il ragazzo non voleva farsi trovare era perché con ogni probabilità ci aveva ripensato.
Anche ad averlo di fronte a sé in quel preciso istante non ci sarebbe
stato nulla da fare, non avrebbe parlato. Sbatté la cornetta sul telefono
con violenza e si fece scappare una bestemmia. Sentiva quella storia
sfuggirgli di mano proprio nel momento in cui era sicuro di essere
finalmente riuscito ad agguantarla. Un piccolo scoop che meritava
comunque un suo spazio, la storia di un gruppo di ragazzetti che giocano a fare gli adoratori del diavolo. Nelle metropoli era roba vecchia
da tempo, ma in un piccolo paese come il suo non era cosa da tutti i
giorni. E poi, a leggere i nomi chissà cos’altro sarebbe emerso.
Qualche nome bene della borghesia del paese, qualche insospettabile,
magari una catena lunga e sotterranea che portasse a uno scandalaccio
davvero succoso. La sua esperienza di giornalista gli suggeriva di non
mollare la pista. No, non poteva proprio rassegnarsi in questo modo.
Alzò ancora la cornetta e chiamò il centralino.
– Sì?
– Anna, sono Breschi.
– Dimmi, Maurizio.
– Non è che ha chiamato qualcuno per me, mentre ero al bar?
– Mi sembra proprio di no.
– Anche una telefonata strana, magari interrotta, qualcuno che ha riattaccato?
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– Assolutamente no.
– E quel ragazzo che ha chiamato prima, quel Boni?
– Nessuno, ti ho detto.
– Ne sei sicura?
– Maurizio, se mi fossi rincoglionita mi avrebbero già mandato via.
– Senti, io me ne vado. Se dovessero cercarmi, chiamami a casa. Ma
chiamami a oltranza, finché non ti rispondo, d’accordo?
– Va bene.
– Grazie.
Riattaccò e infilò la giacca mentre una sensazione di amarezza gli
piombava addosso. Persa, quella storia era persa per sempre.
Maledetto quel suo cellulare che non funzionava mai e che lui non si
decideva una volta per tutte a cambiare. Il ragazzo non ci avrebbe
ripensato più, ormai era andata. Avrebbe dovuto approfittare di quel
momento di debolezza, quando Ettore gli aveva manifestato il bisogno di confessare un segreto, e invece ci aveva dormito su. L’esatto
contrario di un buon giornalista. Mentre scendeva le scale si domandò
ancora una volta dove avrebbe potuto cercarlo, ma ci rinunciò quasi
subito. Anche in una città piccola come quella i posti in cui un ragazzo poteva sparire erano un’infinità. Quando uscì dal portone del
palazzo era già buio. Lampioni pochi e smorti. Si riuscivano appena a
scorgere i contorni delle cose, ma Breschi non se ne diede troppa
pena, quel posto lo conosceva a memoria e lo percorreva tutti i giorni
da anni.
Giornataccia di merda. Sei partito a mille e non sei arrivato da nessuna parte…
– Capo, c’hai una moneta per me?
Come se non bastasse. Fuori dal palazzo del giornale, nello slargoparcheggio alla fine di via Bonghi, si era da un po’ stabilita una specie di colonia di barboni che non davano tregua ai passanti.
Esasperato, Breschi neppure si voltò.
– No, non c’ho niente.
– Dai, capo. Qualcosa per vivere, una moneta sola.
– Eccheppalle. T’ho detto di no, falla finita.
A pochi metri dall’auto lanciò il comando di apertura delle portiere e
si preparò a entrare. Dal vetro del finestrino scorse una massa scura e
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indefinibile che si avvicinava veloce verso di lui. Sbatté un paio di
volte le palpebre, disorientato da quella sagoma, e fece per voltarsi.
La lama gli arrivò nella pancia con la forza di un treno, poi la sentì
salire su verso la bocca dello stomaco. Il respirò gli morì in gola mentre si accasciava, gli occhi ancora smarriti ma già consapevoli e terrorizzati dall’idea della morte.
Cadde accanto alla sua auto, perfettamente nascosto alla vista delle
finestre e ingoiato dall’oscurità. Voltò la testa verso il suo aggressore.
Ormai era tutto così opaco e confuso, eppure quel volto lo conosceva.
Sì, ne era sicuro, quello era un volto che aveva già visto. Cercò di
stringersi alla giacca dell’uomo, di lasciare qualche traccia di sé sui
suoi vestiti ma le sue mani si mossero appena, poi caddero sull’asfalto prive di vita. Lo osservò inginocchiarsi accanto a lui mentre sentiva
la forza scivolargli via dalle gambe, dalle braccia, dal pensiero.
Avrebbe voluto chiedergli perché, avrebbe voluto tanto sapere quale
fosse il legame tra la sua morte e le vicende di un farabutto come
quello, con il quale in vita sua non aveva mai condiviso nulla. Ma non
fece in tempo. La domanda gli si bloccò sul nascere assieme al respiro e al battito del cuore. Il suo aggressore gli frugò nelle tasche,
estrasse il cellulare e il portafoglio, poi gli sfilò la giacca e si alzò lentamente, quasi dispiaciuto di dover abbandonare la scena. Si guardò
attorno con disinvoltura, poi si allontanò con una calma invidiabile e
affogò nel buio della città.
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5
L’uomo scivolava sull’acqua della piscina deserta con bracciate potenti e fragorose. Schiaffeggiava la superficie riemergendo ogni tanto a
prendere una boccata d’aria, poi si immergeva di nuovo e ripartiva
come un motoscafo. L’acqua dietro di lui sfrigolava e rotolava in piccoli mulinelli imbizzarriti. Adesso che se n’erano andati tutti, poteva
finalmente allungarsi a piacimento senza il timore di investire qualcuno con la sua stazza. Era rimasto solo con il custode dell’impianto,
che faceva ogni tanto capolino dagli spogliatoi e si fermava a osservare quel nuovo abbonato che viaggiava come un delfino da almeno
quaranta minuti senza mai fermarsi. Rallentare qualche volta, semmai, ma fermarsi non l’aveva ancora visto.
Ma quando si stanca questo?... pensò, io mi stanco solo a guardarlo…
Poi d’improvviso il custode si avvicinò al bordo della piscina e
cominciò a gesticolare, seguendo a corsetta il nuotatore.
– Signore, ehi, signore!
Si sbracciò e urlò per un po’, ma l’uomo, immerso in quello che sembrava il suo habitat, continuò a spingere sull’acqua senza neppure rallentare.
– Dico a lei, signore!
Niente da fare. Il delfino, coperto dal fragore dell’acqua provocato dai
suoi stessi schiaffi, non l’avrebbe mai sentito. L’ometto si guardò
intorno, sconsolato, poi ebbe un’idea. Si avvicinò alla cesta dei palloni e ne prese un paio. Scagliò il primo verso il nuotatore, ma non gli
arrivò neppure vicino. Allora attese che l’uomo arrivasse nei pressi
del bordo della vasca e, un attimo prima della virata, lo colpì sulla
testa. Finalmente l’uomo si fermò, si tolse gli occhialetti e osservò il
custode con un’occhiata piuttosto incazzata. Sarebbe stato un gran
bene per lui se avesse avuto un buon motivo per fare quello che aveva
fatto.
– Chiedo scusa, ma non riuscivo a farmi sentire. Le volevo dire che il
suo cellulare squilla da dieci minuti. L’avranno chiamata almeno
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quattro volte. Non lo so, magari è importante, le prime volte ho
lasciato perdere, ma se la chiamano con tanta insistenza, magari vuol
dire che…
– Va bene, va bene. Grazie.
L’uomo si spinse fuori dalla vasca e si alzò in piedi. Il custode, nel
guardarlo, deglutì in silenzio e si pentì immediatamente di aver commesso quel gesto avventato, perché se quello non l’avesse presa bene,
sarebbero stati dolori. Era alto almeno due metri, con due spalle che
sembravano due travi, appena sovrappeso ma con un fisico che richiamava un passato da atleta neppure troppo lontano. E poi c’era quella
barba nera e folta e l’acqua che gli scorreva lungo il corpo in mille
rivoli che scendevano sul pavimento della piscina. Il custode si fece
da parte, ripensando per un attimo agli orchi delle storie che ascoltava
da bambino o leggeva nei primi fumetti di fantascienza: uscivano
dalla palude, enormi e gocciolanti, e non erano poi così diversi dalla
sagoma che aveva di fronte. L’uomo frugò nel borsetto, afferrò il cellulare e lanciò una chiamata. Il telefono fece solo uno squillo.
– Sono l’ispettore Rovere. Chi mi ha cercato?
– Ispettore, buonasera. L’abbiamo chiamata per avvisarla che c’è stato
un omicidio.
– Un… omicidio? Qui a Grosseto?
– Sì, in via Bonghi, vicino al Tirreno. Ha presente?
– Sì, ho presente. Chi l’ha preso?... voglio dire, chi lo sta seguendo?
– L’ispettore Perno. Ha chiesto di informarla immediatamente perché
lei è di queste parti e magari ha qualche informazione che lo può aiutare.
– Ero di queste parti. Sono stato fuori qualcosa come quindici anni…
– Non so cosa dirle, ispettore. Io le riporto soltanto la richiesta dell’ispettore Perno. Devo comunicargli che non ci va?
– No, no. Arrivo subito. Il tempo di sistemarmi.
– Mando un’auto a prelevarla?
– No, vado con la mia, grazie.
– Dovere, ispettore.
Matteo Rovere ripose il cellulare nel borsetto e si avviò verso la doccia lasciando dietro di sé una scia di bestemmie e imprecazioni che
rimbombarono come tuoni dentro l’impianto ormai vuoto. C’erano
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poche cose al mondo che lo facevano incazzare di brutto come il
dover interrompere bruscamente i suoi esercizi di nuoto. Si girò verso
il custode e questi si sentì perso.
– Senta… è lei che fa la manutenzione, qui?
– Veramente… sì.
Rovere annuì in silenzio. Poi gli si rivolse ancora mentre si allontanava verso lo spogliatoio:
– Troppo cloro. Deve abbassare la dose. Mi bruciano gli occhi.
– Sissignore – rispose l’uomo quasi scattando sull’attenti.
Il custode si allontanò in punta di piedi, sperando che il gigante si
dimenticasse presto della sua presenza. Uno così era meglio non trovarselo contro, soprattutto quando, come in quel momento, somigliava così tanto a un toro incazzato. Lo guardò invadere gli spogliatoi
con la sua mole e gli venne da chiedersi se ai malavitosi, sempre così
arroganti e spavaldi con le persone normali, non passasse la voglia di
fare i furbi quando se lo trovavano davanti.
“Almeno non dovrai fare ogni giorno la conta dei morti. Almeno te ne
vai in un posto tranquillo, al sole, al mare, dove al massimo ti fregano
l’autoradio dalla macchina oppure si fanno una cazzottata in piazza
per una storia di corna”.
Gli avevano detto così i colleghi di Milano, per consolarlo dalla notizia del trasferimento che aveva ricevuto.
“Sempre alla omicidi vado – rispondeva lui – i morti sono morti da
tutte le parti. Saranno meno che quassù, ma tutta questa differenza
non ce la vedo.
“Macché, te ne torni a casa tua – gli avevano replicato – ritrovi il tuo
mondo dopo così tanti anni, le tue amicizie, in fondo non era quello
che volevi?”.
Sì che lo voleva, anzi, lo aveva voluto davvero tanto, ma quindici anni
prima, non adesso. Lo aveva desiderato quando era entrato in polizia,
vincendo il concorso neppure sei mesi dopo la laurea in legge. Aveva
subito cominciato a pensare al trasferimento dalle sue parti. Gli avevano detto che c’era da aspettare, che comunque prima di cinque anni
non se ne parlava nemmeno, e lui si era messo di buon grado a fare il
suo lavoro, in paziente attesa che quel giorno arrivasse. Poi, a poco a
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poco, si era inserito nella città, si era costruito una vita, si era fatto la
sua cerchia di amici-colleghi e l’idea del trasferimento si era affievolita fino a scomparire. Non era il paradiso, Milano, ma ci aveva fatto il
callo. Delinquenza a tonnellate, ma tanta vita, tanta energia, la moda,
le donne, gli impianti sportivi migliori. Tanto smog e tanto stress, ma
anche tante storie da vivere. Solo al grigiore non era mai riuscito ad
abituarsi, a quel grigiore che tutti i giorni nascondeva il sole e sembrava insinuarsi gradualmente nei milanesi, entrare attraverso i pori
della loro pelle e ingrigirli tutti, a cominciare da quello sguardo
annoiato e opaco. Però la sua vita ormai era lì e non avrebbe saputo
immaginarla altrove... fino a quella comunicazione atterrata tre settimane prima sulla sua scrivania. Trasferimento alla questura di
Grosseto, entro due settimane a partire da quel giorno. Due settimane
che non gli erano bastate neppure per cominciare ad abituarsi all’idea.
Le aveva trascorse in pieno travaglio, accerchiato da un’amarezza che
ogni giorno si faceva più spessa. Poi il momento era arrivato e lui si
era limitato a seguire la corrente, smettendo di combattere contro una
cosa più grande di lui. Per di più, era tornato giù da appena quattro
giorni, neppure il tempo di sistemare la sua stanza in questura e di
trovarsi un’abitazione, e gli era già capitato di scoprire che la sua
terra era forse cambiata un bel po’ da quando l’aveva lasciata.
Salì sulla sua Ford facendola ondeggiare come fosse un triciclo e partì
per via Bonghi. Frugò tra i cd che teneva nel cruscotto e decise che ad
accompagnarlo verso l’ennesimo morto della sua carriera sarebbe
stato B.B. King. Un blues triste e malinconico, perché quando c’era
di mezzo un morto ammazzato Rovere finiva per intristirsi, nonostante si trattasse quasi sempre di un perfetto sconosciuto.
Eh, non lo ricordava davvero così, il posto nel quale aveva fatto le
superiori vent’anni prima. Un morto ammazzato dopo solo quattro
giorni, una cosa che, ai suoi tempi di studente, un poliziotto riusciva a
vedere sì e no una volta nella vita.
Il parcheggio era già stato chiusa al traffico. Rovere lasciò l’auto in
doppia fila lungo via Bonghi e si fece guidare dalla luce bluastra della
sirena che roteava sul tettuccio di una pantera. Estrasse il distintivo e
lo mostrò all’agente di guardia senza togliere gli occhi dal punto in
cui si ammassavano i presenti. Aveva intravisto l’ispettore Perno solo
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una volta mentre correva lungo il corridoio della questura e in quel
buio e in quella confusione non era sicuro di trovarlo.
– Dov’è Perno? Tuonò una volta raggiunto il capannello.
– Sono qua – rispose un tipo sui trentacinque alzandosi in piedi.
Si avvicinò a Rovere e gli strinse la mano.
– Nicola Perno, ciao.
– Ciao. Che è successo?
– Mah, così al volo sembrerebbe omicidio a scopo di borseggio. Gli
hanno portato via giacca e portafogli e gli hanno lasciato un bel coltellone infilato nello stomaco. Poveraccio, neppure è morto sul colpo,
se n’è andato un po’ alla volta e avrà sofferto le pene dell’inferno.
– Sappiamo chi è?
– Si chiama Maurizio Breschi, è un giornalista del Tirreno, che sta
qua dietro.
– Breschi… Breschi… mi dice qualcosa. Conoscevo uno con quel
nome che…
– In effetti è di Follonica come te. E più o meno aveva la tua età.
– Cazzo, Maurizio Breschi. Ci sono andato a scuola insieme…
– Non ha neppure lottato. Lo hanno aggredito a tradimento, quando
ha capito che volevano ammazzarlo probabilmente era già a terra e
stava cominciando a morire.
Un accoltellamento per quattro soldi in un parcheggio quasi centrale
di una città che era a malapena un piccolo quartiere di Milano. La
fantascienza che stava diventando realtà. Rovere si avvicinò al cadavere e lo osservò nel momento in cui il medico ne autorizzava la
rimozione. Era proprio Breschi, invecchiato e appesantito rispetto
all’ultima volta che l’aveva visto, ma era certamente lui.
Fu come prendersi uno schiaffone in faccia. Gli venne da pensare che
le morti che avrebbe incontrato nella sua città gli avrebbero fatto
mille volte più male. In fondo era come scoprire che anche nella sua
terra, nel posto della sua infanzia spensierata e della sua indimenticabile adolescenza, non si moriva solo di vecchiaia. Due agenti coprirono il corpo con un telo e cominciarono la sua rimozione mentre i tecnici ultimavano il repertamento delle prove. Ma oltre al coltellone
ancora infilato nel corpo di Breschi, c’era poco altro da raccogliere.
– Porca puttana… Maurizio Breschi…
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Era il primo nome con cui si incontrava dopo anni, e lo aveva fatto
nel peggiore dei modi. Scosse la testa e chiuse gli occhi mentre sentiva i ricordi farsi avanti e scorrergli nella mente uno dietro l’altro
come frammenti sparsi di un vecchio film.
– Ascolta, Rovere, io non so se te la senti, ma in questo caso potresti
darmi una mano, mi hanno detto che tu qui sei di casa, e…
– Se ti hanno detto questo, ti hanno detto una cazzata. In quindici anni
sarò tornato da queste parti cinque volte al massimo e non conosco più
nessuno, almeno non così bene da garantirti qualche informazione
importante. Però una mano te la do volentieri. Solo, non ti aspettare
chissà quali conoscenze. Forse ne sai più di me, dico sul serio.
– Sì, però ho sentito dire che a Milano te la cavavi piuttosto bene. E
se uno lavora bene su una piazza come quella, vuol dire che è un
buon poliziotto. O no?
Certo che era così, lo sapeva anche Matteo Rovere, che per cavarsela
bene in quella piazza si era ammazzato di lavoro lasciando indietro il
resto della sua vita.
– Mah, i buoni poliziotti sono da tutte le parti.
– Bene, ti sono debitore. Ti tengo informato e magari ti faccio avere
una copia dei referti. Se gli dai un’occhiata…
– Contaci.
I due si strinsero la mano, poi Perno tornò al suo capannello mentre
Rovere si avviava verso la sua auto. La sera si era fatta amara di
colpo. Non che lo attendesse niente di speciale: una cena, qualche lettura leggera e fine dei giochi. Però alla pensione dove si era momentaneamente sistemato cucinavano il pesce in modo superbo, assai
meglio di come si poteva immaginare limitandosi a osservare l’orribile bancone della reception. Era una pensione semplice e vecchiotta, e
anche i proprietari, una coppia sulla settantina, sembravano invecchiati là dentro, parte integrante di muri e stanze. Ma quel pesce… quello
era davvero di una categoria superiore. Stavolta però non gli avrebbe
dato quel piacere intenso che cominciava a pregustare fin dal primo
pomeriggio. Stavolta, al massimo, avrebbe reso appena meno amara
quella ignobile giornata.
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6
Il vecchio fermò la sua giardinetta lungo la stradina sterrata senza
neppure accostare troppo. Scese dall’auto con movimenti lenti ma
ancora molto sicuri, si passò una mano sui baffoni bianchi che gli
coprivano interamente la bocca e si guardò intorno. Annuì tra sé,
estrasse dalla tasca un sacchetto di nylon e si avviò nel campo che
costeggiava la strada. L’erba era fradicia, ma lui indossava stivali
verdi fino alla coscia e neppure faceva caso agli schizzi d’acqua che
gli impiastricciavano la camicia. Quello era il terzo dei quattro posti
che visitava immancabilmente dopo una abbondante pioggia. E quello
era il terzo sacchetto che si preparava a riempire di lumache fino
all’orlo. Il pastore tedesco uscì dalla giardinetta insieme a lui e un
attimo dopo era già lontano a scorrazzare nei campi godendosi la
libertà finché il suo padrone non lo avesse richiamato all’ordine. Il
cielo era ancora scuro, ma accennava ad aprirsi, e il vecchio sapeva
che non avrebbe più piovuto. Cominciò a raccogliere le sue prede,
sbuffando ogni volta che si piegava verso terra, ma piuttosto soddisfatto per come stava andando la raccolta. Ce n’era abbastanza per
venderne un po’ o regalarle a qualche amico.
Adesso stava continuando a raccogliere solo per il piacere di farlo. Al
ringhio sordo e appena accennato del suo cane si voltò di scatto e si
guardò intorno. Quel ringhio parlava più di mille discorsi.
– Achille! Cosa c’è? Cos’hai sentito?
Il cane teneva le zampe rigide come quattro colonne di marmo e puntava la foresta di alberi che si stagliava circa duecento metri più avanti. Puntava e ringhiava, ignorando il mondo intero che gli stava attorno. Poi cominciò ad abbaiare e il vecchio si preoccupò sul serio. Era
un abbaio cupo e inquieto e quella era una bestia intelligente che non
si abbandonava a stupidi latrati contro altri cani o contro qualche passante. Il vecchio si accosciò accanto al cane e gli posò una mano sulla
schiena.
– Achille… cosa c’è?... laggiù?
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Il cane neppure se ne accorse. Continuava a puntare la barriera verde
davanti a loro finché la sua curiosità prevalse sulla diffidenza. Scattò
in avanti come un fulmine e divorò in pochi secondi lo spazio che lo
separava dagli alberi. Il vecchio lo vide sparire dentro il verde senza
neppure avere il tempo di richiamarlo.
Allora non esitò oltre, si alzò e cominciò a seguire rapidamente la
scia lasciata dal cane. Non avrebbe potuto continuare la sua raccolta
senza sapere dove era andato il suo Achille. Quel cane era tutta la sua
vita. Percorse più veloce che poté lo spiazzo aperto, attento a non scivolare sui tratti di fanghiglia, finché non giunse davanti al bosco. Si
mise ad aspettare, fermo e silenzioso. Qualche minuto dopo il cane
riemerse dalla boscaglia e gli abbaiò.
– Vengo, vengo. Accidenti a te, maledetto curioso.
Si infilò nella macchia e si lasciò guidare dal cane. A mano a mano
che avanzavano all’interno, il ringhio di Achille si faceva più forte. Il
vecchio osservava quegli alberi che sembravano tutti uguali, quegli
sterpi e quei cespugli intricati, quei sassi che rendevano così difficile
e insidioso il percorso, e combatteva contro la stanchezza che cominciava a impossessarsi di lui. Il sentiero spuntò dal nulla. Di colpo la
macchia disordinata e inospitale divenne un canale pianeggiante e
addomesticato sul quale l’erba non cresceva da tempo. Una stradina
che si era formata a forza di continui passaggi. E gli zampillò in testa
una idea strana e macabra che cercò subito di scacciare dalla mente.
Quelle sono cose che succedono nei film, pensò. Osservò l’animale
che marciava sicuro, ringhiando appena, ma per niente incerto, e recuperò la sua serenità. Achille non l’avrebbe mai condotto verso un
pericolo.
Adesso la strada, nonostante l’oscurità che rendeva ancora più incerta
la vista del vecchio, era decisamente diversa e mostrava evidenti segni
di passaggi frequenti. Il cane gli si mise davanti, poi d’improvviso
scattò e svoltò dietro il viottolo, sparendo alla vista del suo padrone.
– Achille! Perdio, così non ce la faccio…
Dopo qualche istante l’animale cominciò ad abbaiare e il vecchio
comprese di essere arrivato. Non lo vedeva ancora, ma i suoi ululati lo
guidavano perfettamente verso la meta. Scostò qualche frasca e si
ritrovò in uno spiazzo enorme, interamente contornato dagli alberi e
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dai cespugli del bosco. Uno spiazzo buio ma non troppo, perché la
poca luce che filtrava dalle chiome fu sufficiente a fargli vedere a
cosa il cane stava abbaiando.
Sentì lo stomaco sciogliersi. Come sessanta anni prima, quando aveva
trovato, massacrato dai nazisti in fuga, il corpo di suo fratello maggiore che pendeva dall’albero più alto della piazzetta, livido e gonfio,
nudo, con due enormi buchi neri al posto degli occhi. Lo stesso smarrimento di allora, lo stesso vuoto sconfinato che gli tolse il terreno da
sotto i piedi e lo fece cadere sulle sue ginocchia, con il respiro tagliato dall’angoscia e il cuore che picchiava come un martello.
Rimase così, immerso nel suo pianto silenzioso, mentre Achille continuava ad abbaiare senza sosta.
Quando l’ispettore Matteo Rovere scese dall’auto, la scientifica della
polizia aveva appena avviato i rilievi. Due grossi fari, piantati attorno
allo spiazzo semibuio, sparavano dentro la macchia una luce potente e
bianca come la neve. Il cadavere, ancora appeso all’albero, ne era
investito in pieno e risplendeva in tutto il suo orrore. La luce dei fari
lo dipingeva di bianco ed esaltava le lunghe striature rosse che attraversavano il corpo dalla testa ai piedi. Rovere andò incontro agli
agenti che erano accorsi per primi sul posto e che stavano uscendo dal
bosco.
– Dottore buongiorno – disse uno dei due – stanno repertando le
prove…
– Da quanto sono arrivati?
– Un quarto d’ora al massimo. Stanno cominciando adesso, prima
hanno dovuto preparare la zona. Là dentro si vede poco e niente.
– Sappiamo chi è?
– Non ancora. Probabilmente è del posto, ma addosso non aveva niente e…
L’agente s’interruppe e represse una smorfia di disgusto. L’immagine
di quel corpo lo stava disturbando.
– Continua, Cappelli.
– E… mi sa che non sarà così facile riconoscerlo. L’hanno maciullato.
Se cascava sotto un treno gli andava meglio…
– Chi l’ha trovato?
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L’agente si voltò e sollevò un braccio.
– Quel vecchio appoggiato a quell’auto. L’abbiamo interrogato ma
non ci ha detto granché. E’ ancora sotto shock, poveraccio. Dice che
l’ha trovato e ci ha chiamato subito. Poi si è messo lì e ha aspettato
che arrivassimo.
– Vado a parlare con lui. Avvertitemi quando la scientifica ha finito.
Il vecchio stava in disparte, appoggiato al cofano della sua giardinetta,
e continuava ad asciugarsi gli occhi con il dorso delle mani. Il cane
gli si strusciava addosso e non lo mollava di un centimetro, lanciando
deboli guaiti che assomigliavano a parole di consolazione. Rovere
non lo vedeva da anni, eppure il suo nome gli venne subito in mente
come se lo avesse incontrato fino al giorno prima. Nella confusione di
sirene e nel viavai di gente non l’aveva neppure notato, ma adesso gli
premeva di farlo sparire prima che i giornalisti gli saltassero addosso
e gli rendessero la giornata ancora più orribile. Gli si avvicinò con
cautela.
– Leone… Leone, siete voi, vero? Sono l’ispettore Matteo Rovere,
questo caso lo seguo io. Devo chiedervi un paio di cose. Mi dispiace,
ma devo farlo per forza.
L’uomo alzò lo sguardo. Sconvolto ma abbastanza presente, lo fissò
con i suoi occhi accesi.
– Rovere… il figlio del fattore? Tu sei il figlio del povero Beppe?
– Sì, il figlio di Beppe e di Vincenza. Montate in macchina, svelto,
sennò tra poco i giornalisti vi mangiano.
– Ma tu stavi a Milano, se non sbaglio…
– Stavo... appunto. Adesso sono tornato qua.
E in due giorni sono incappato in due omicidi. E chissà perché, ho
come l’impressione che sia soltanto l’inizio.
L’uomo aprì lo sportello e, prima che riuscisse a sedersi, il cane era
già schizzato sui sedili posteriori. L’ispettore si sedette al fianco del
vecchio.
– Mamma mia, che strazio, Matteo. Mi ha fatto tornare di colpo a sessant’anni fa. Dio mio, Dio mio che scempio…
– C’era qualcuno, Leone? Avete visto qualcuno?
– E chi lo sa, se c’era qualcuno. Io non ho visto niente, ma questo
non vuol mica dire. Achille, lui forse ha sentito qualcosa ma lui non
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parla. Anzi, per parlare parla, siamo noi che non riusciamo a capire.
Ha cominciato a ringhiare, poi è zompato dentro la macchia e mi ha
chiesto di andargli dietro. Ma quando sono arrivato io, ormai…
– Ma voi avete sentito la presenza di qualcuno?
– Ho sentito solo un gran dolore al petto e tanta disperazione. Mi
sono trovato a tu per tu con quel disgraziato e il resto del mondo è
scomparso. Poteva esserci anche tutto il paese a guardarmi, ma per
me esisteva solo quel… povero cristo. Poveraccio, che morte.
– Avete toccato niente?
– “Toccato”? A momenti svengo dal dolore. E’ già tanto se ho trovato
la forza per tornare fuori…
– Non sapete dirmi altro? Scusate se insisto un po’, ma voi eravate
qui quando non c’era nessuno, avete visto meglio di tutti. Siete il
testimone più prezioso che abbiamo. E’ davvero tutto qui?
– C’è una cosa che devi sapere.
– Vi ascolto.
– Quel corpo mi ha fatto piangere come un ragazzino. Lo sai che mio
fratello è morto più o meno così?
– No, non lo sapevo.
– I nazisti. Lo appesero a un albero e lo ammazzarono a frustate. Poi
gli cavarono gli occhi e li gettarono per terra, sotto i suoi piedi.
– Mi dispiace, Leone. Mi dispiace davvero. Dev’essere stata dura
rivedere quella…
– Non è questo, Matteo. Io non ho pianto per i ricordi, quelli ormai
sono vecchi e mi hanno fatto piangere abbastanza. Io ho pianto per la
sua sofferenza, perché quel corpo prima di morire ha patito le pene
dell’inferno, ha urlato, ha desiderato la morte, ha pregato che lo finissero con un colpo solo. Io li ho conosciuti, i nazisti. Un conto è
ammazzare, un conto è fare questo. E’ come… andare in bicicletta e
correre il Giro d’Italia, capisci la differenza?
– Sì. Penso di sì.
Leone gli strinse il braccio e cercò di parlare ancora. Sentiva le lacrime farsi di nuovo avanti e voleva terminare prima che riprendessero il
sopravvento.
– Dammi retta, Matteo: questo non è un omicidio. Questa è una lezione di tortura. Chi si è divertito con quel corpo non è solo matto o cru-
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dele. Ha tenuto quel poveraccio tra la vita e la morte per ore, ne ha
succhiato l’esistenza una goccia alla volta, si è goduto il suo terribile
dolore attimo dopo attimo. No, non andare a cercarlo tra i delinquenti
comuni. Chi ha fatto questo non è un delinquente. Chi ha fatto questo
è… è figlio del diavolo. O forse, anche qualcosa di più. Forse è il diavolo in persona…
Rovere gli accennò un sorriso e aprì lo sportello.
– Andatevene a casa, Leone, che tra poco arrivano i giornalisti. Poi vi
mando un agente per firmare una dichiarazione. Andate, e cercate di
dimenticare alla svelta.
– Lo sai cosa si è detto di quel periodo maledetto, Matteo? Si è detto
che il demonio aprì le porte dell’inferno e salì sulla terra attraverso
quella banda di criminali pazzoidi. I giovani quando sentono queste
cose ridacchiano, ti compatiscono e ti guardano come un fesso, ma io
ti dico una cosa: quando hai visto quei mostri all’opera, al demonio ci
credi eccome.
Rovere lo guardò mettere in moto la sua giardinetta, poi osservò il
suo sguardo impaurito ma lucido.
– Ma non è vero che è tornato, Matteo, non è esatto. La verità è che
non se n’è mai andato da qui.
Il vecchio guardò un ultima volta l’ispettore Rovere, poi si immise
nella piccola strada sterrata e si avviò verso il paese. Rovere lo
osservò allontanarsi fino a diventare un puntino irriconoscibile all’orizzonte, poi gli venne da pensare che anche lui rideva spesso di quelle antiche credenze, ma stavolta non gli veniva proprio. Sentì un cerchio stringerglisi attorno alla fronte come un anello di ferro, poi, dopo
qualche secondo, gli passò. Allora decise di dirigersi verso il bosco.
Andiamo a vedere l’opera del demonio, pensò.
Seguì le copiose tracce che si sovrapponevano lungo il sentiero,
orientandosi anche per mezzo delle voci e dei rumori che sentiva più
avanti, finché non sbucò nello spiazzo illuminato dai fari. I tecnici
dell’unità scientifica stavano ancora lavorando e il cadavere era appeso ai rami dell’albero per mezzo di una lunga catena che gli girava
attorno alle ascelle. Il colore pallido e smorto dei fari gli dava un ulteriore tocco di macabro di cui non aveva certamente bisogno.
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Rovere si avvicinò all’uomo che sembrava dare ordini agli altri.
– Salve, sono l’ispettore capo Matteo Rovere.
L’uomo aveva i guanti e non gli porse la sua mano.
– Fiorentini, responsabile dell’unità scientifica. Noi non ci conosciamo?
– No, sto a Grosseto da quattro giorni.
– Ah, sei quello nuovo. Be’, come benvenuto, questo non è proprio
dei migliori. Questa è roba mai vista. Guardalo, cristo santo…
– Li avete trovati? Intendo… gli occhi.
– Sì, erano ai suoi piedi. Insieme alla lingua.
– La… lingua?
– Sì, gli hanno anche strappato la lingua. Occhi e lingua, e lo hanno
frustato fino a conciarlo in questo modo.
Le striature rosse sul cadavere erano centinaia. Sulla schiena, sul
petto e sulle spalle correvano verticalmente lungo il corpo mentre
sulle gambe erano orizzontali.
– Si direbbe che lo abbiano frustato in tutti i modi possibili.
– A prima vista è così. Ma non credo proprio che quelle bestie si
siano limitati solo a questo. Troppo poco.
– Dici che erano in tanti?
– Per certo ancora non lo sappiamo, ma io penso che fossero almeno
in tre. Perché per issare da solo un corpo su un ramo così alto devi
averne di forza. E poi mi dà l’idea di una cerimonia collettiva, una
specie di esecuzione: gli occhi, la lingua…
– Vedere e parlare.
– Proprio così, vedere e parlare. Magari non c’entra niente, magari
sono così schizzati che neppure l’hanno fatto un ragionamento del
genere, però a prima vista… direi che è proprio questo: vedere e parlare.
– Già, vedere e parlare. O forse “aver visto e aver parlato”. C’è altro?
– Solo questo, per ora. Ma ti dico una cosa: se erano in tanti, come
credo, abbiamo di fronte un bel problema. Perché questa è follia allo
stato puro. Qui c’è un disprezzo per la vita e per l’essere umano che
va oltre ogni immaginazione. E’ gente folle, ma anche scaltra, sa
mascherarsi in mezzo alle persone normali. Prenderli non sarà una
passeggiata. Ma se era uno solo… se era uno solo, il tuo problema è
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cento volte più grande.
– Perché?
Fiorentini indicò il cadavere con una mano.
– E’ un caso troppo feroce. In situazioni così crude non ho mai visto
la mano di un uomo solo. Per questo ti dico che se un uomo riesce a
fare una cosa del genere da solo, allora è uno in preda a una furia
bestiale. La cosa che mi colpisce di più è la disinvoltura: lo hanno
visto morire lentamente e non si sono neppure scomposti. Anzi, si
sono goduti lo spettacolo... quelli non sono uomini, Rovere.
Esternamente, magari. Ma come sono dentro… come sono dentro
nessuno lo sa.
– Grazie Fiorentini, ti lascio al tuo lavoro. Aspetto i referti.
I due si salutarono e Rovere tornò verso l’uscita. Niente di così
sovrannaturale, si trovò a pensare. Niente demonio, caro Leone, niente forze esterne cattive e devianti. Su a Milano aveva visto anche di
peggio, eppure anche le efferatezze più scellerate, anche gli atti più
disumani alla fine trovavano un nome e un cognome, un fascicolo e
un numero di archivio. Alla fine proprio tutte diventavano carne e
ossa.
Eppure, mentre spostava con prudenza i rovi che gli si paravano
davanti, si accorse di provare una tensione interna del tutto nuova e
sconosciuta. E si accorse anche che le parole del vecchio Leone continuavano a rimbombargli dentro e non volevano dargli tregua. Ti assicuro che ci credi, gli aveva detto. Be’, lui no, lui non ci credeva. Però,
ammise con se stesso, mentre la luce dell’uscita gli si presentava
davanti: se il demonio avesse voluto aprire le porte dell’inferno e salire sulla terra, lo spettacolo che aveva allestito dentro quella macchia
era senza dubbio un biglietto da visita convincente.
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Il casolare era un posto che il tempo aveva cancellato dal mondo.
Distava una quindicina di chilometri dal paese più vicino e se una
volta stava in aperta campagna adesso la macchia, coi suoi rovi e i
suoi animali selvatici, se ne era impossessata e lo aveva nascosto alla
vista. Arrivarci diventava ogni giorno più difficile. Diverse parti delle
sue mura erano crollate a poco a poco e il tetto presentava enormi
squarci che lasciavano entrare la luce cupa della luna mentre le travi
erano marce e pericolanti. I muri mostravano ancora lunghe strisciate
nere causate dall’incendio che ne aveva deciso la morte tanti anni
prima.
Un posto ormai dimenticato da tutti. I capi della setta I sudditi di
Lucifero lo avevano scelto proprio per questo. Avevano dato una sistemata alla meglio (ma non troppo, perché l’aspetto pericolante e spettrale della struttura in fondo serviva alla scena) e ne avevano fatto uno
dei principali luoghi di esecuzione delle messe.
Quella sera la setta era al completo: il Messo, i suo quattro colonnelli
e tutti gli adepti che avevano giurato con il sangue. In tutto una ventina di componenti, tra i quali otto ragazze.
– Ci siamo tutti? Chiese il Messo con calma solenne.
– Sì, Messaggero, ci siamo tutti. Possiamo cominciare.
Il Messo afferrò uno scettro fiammeggiante che stava posato su un
anello di ferro fissato al muro e salì lentamente verso l’altare. Alzò le
braccia e chiuse gli occhi per qualche istante, chiedendo agli adepti di
fare la stessa cosa. Era la formula dell’invocazione a Lucifero, l’atto
che apriva la messa.
Con esso si chiedeva a Lucifero di prestare attenzione ai doni dei suoi
fedeli e di soddisfare le loro richieste. Il Messo lasciò che passasse
almeno un minuto, poi aprì gli occhi d’improvviso e squadrò tutti i
presenti.
– Possiamo cominciare, Lucifero ci ascolta. Sfilate dunque in ordine a
mostrare i vostri tributi.
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Gli adepti maschi si misero in fila e attesero compostamente il proprio turno. Ognuno di loro depositò sul piano un dono che sperava
fosse degno della soddisfazione di Lucifero. Soldi, gioielli, collane
d’oro, orecchini, vere. Uno di loro lasciò un grammo di coca e il volto
del Messo si illuminò di piacere.
Poi fu la volta dell’invocazione. I colonnelli accesero una decina di
fiaccole e posarono su ognuna di esse una piccola coppa di metallo
all’interno della quale bruciava un mazzo di erbe preparate dal Messo.
Con le fiaccole in mano, passarono tra gli adepti in modo che ognuno
di loro inalasse più volte. Nell’edificio si propagò velocemente un
odore acre al quale però tutti si abituarono alla svelta. Era un odore
piacevole e rilassante, e dopo qualche minuto nessuno ci fece più
caso. Il Messo attese che l’erba facesse il suo effetto, poi cominciò a
parlare alternando frasi in italiano a frasi in lingue incomprensibili. Si
inginocchiò e gli altri lo imitarono. Restò in quella posizione per un
po’, aspettando che l'espressione di beatitudine e di stordimento fosse
presente sul volto di tutti i presenti.
Poi parlò ancora.
– Stasera, fratelli, dimostreremo di essere veramente degni dell’attenzione di Lucifero. Stasera potremo finalmente chiedergli di essere
ammessi a godere dei massimi piaceri della vita terrena, di essere da
Lui sostenuti nel nostro cammino, di essere esaltati e favoriti nella
nostra esistenza. Stasera, fratelli, noi faremo un patto con Lui. Noi
diventeremo Lui, parte essenziale di Lui, e Lui entrerà per sempre in
noi, trasformandoci in esseri superiori ed eletti.
Il silenzio che ne seguì grondava di eccitazione e di nervosismo. Tutto
era stato preparato in ogni minimo dettaglio affinché l’effetto fosse
teatrale e impressionante al punto giusto. Il Messo fece appena un
cenno a due colonnelli e loro uscirono velocemente dal retro del casolare, passando per un buco che solitamente veniva tenuto chiuso.
– Finalmente, fratelli, abbiamo la possibilità di dedicare a Lucifero un
atto proporzionato alla sua grandezza e al suo potere. Finalmente, fratelli, possiamo donargli un sacrificio umano!
I due colonnelli rientrarono dal buco stringendo tra loro una ragazza
ancora stordita. Aveva un nastro all’altezza della bocca che le faceva
due volte il giro della testa. I due la trascinarono fino a portarla
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davanti al Messo. Solo allora lei cominciò a rendersi conto di ciò che
stava accadendo. Sgranò gli occhi e il terrore la attanagliò di colpo.
Provò a muoversi, ma i due colonnelli la tenevano inchiodata tra di
loro. Riuscì solo a gemere, con la testa che le tremava dallo sforzo,
mentre i due la spingevano a inginocchiarsi con il viso rivolto verso
gli adepti.
L’eccitazione che dapprima serpeggiava appena tra i presenti si era
fatta adesso fortissima. In molti erano impazienti di vedere il sangue
sgorgare e il corpo della ragazza accasciarsi a terra. Quasi tutti avevano sentito parlare del sacrificio umano, ma nessuno era mai riuscito a
parteciparvi dal vivo e qualcuno cominciava a pensare che fossero
soltanto chiacchiere. Adesso aspettavano avidamente la morte della
donna. Peccato solo che fosse nera, l’unica cosa che stonava e macchiava la grandezza di quell’evento.
Il Messo alzò le mani al cielo. Sopra quella destra brillava una lama
lunga un palmo.
– O Lucifero, signore assoluto di noi tutti, padrone di darci o toglierci
una vita densa di piaceri e di esaltare la nostra forza e la nostra potenza, accetta questo dono da parte dei tuoi sudditi. Noi ti doniamo questa fanciulla, tu perdona il colore della sua pelle, perdona la bassezza
della sua razza. Sappi che verrà presto il giorno in cui i tuoi sudditi
saranno pronti a donarti una fanciulla di razza superiore che esalti la
tua gloria e la tua infinita potenza. La uccideremo per te, nostro
padrone, come oggi uccidiamo questa razza inferiore solo per riconoscere la tua onnipotenza e per giurarti fedeltà e sottomissione eterna.
Si mise a cavalcioni sulla schiena della ragazza, la prese per i capelli
e le sollevò la testa. Lei cercò di opporsi, ma non ne ebbe la forza: i
colonnelli le tenevano le braccia inchiodate a terra appoggiando i loro
piedi sul dorso delle sue mani. I suoi occhi atterriti brillavano nel
baluginio delle fiaccole mentre le sue grida strozzate riempivano il
silenzio. Il Messo le avvicinò il coltello alla gola e chiuse gli occhi.
Attese qualche istante, lasciando che l’eccitazione degli adepti raggiungesse il culmine. Tra le sue gambe sentì l’uccello pulsare duro.
Cazzo, se era bello. Quando si sentì pronto affondò la lama sulla gola
della donna e la fece scorrere da un orecchio all’altro. Uno dei colonnelli posizionò rapidamente una coppa sotto la gola della ragazza e
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cominciò a raccogliere il suo sangue. Mentre la donna accennava a
un’ultima impotente reazione, il Messo si fermò a osservare gli adepti. Lo stramonio, la cosiddetta Erba del diavolo, cominciava a dare i
suoi risultati. Tutti sentivano senz’altro Lucifero scorrere nelle vene e
infondere loro forza e coraggio. In quel momento niente e nessuno
avrebbe potuto fermarli: se il loro signore glielo avesse chiesto,
avrebbero obbedito a tutto.
– Adesso è l’ora della festa, fratelli. Che le donne si spoglino e
comincino a danzare.
In breve si ritrovarono tutti nudi e divisi in piccoli gruppi. I colonnelli
cominciarono a passare tra loro con il calice pieno di sangue.
– Bevete, fratelli, bevete e stringete il vostro patto con Lucifero.
Beviamo tutti assieme e la forza non ci abbandonerà mai. Beviamo, e
presto saremo i padroni dell’universo. Noi obbediremo a Lui, e Lui ci
darà una vita magnifica!
Poi il Messo scese dall’altare e lasciò la ragazza in preda agli ultimi
rantoli di morte. Si avvicinò a un colonnello e gli parlò all’orecchio.
– Fate sparire il corpo. Che nessuno possa ritrovarlo mai più.
– Non si può farlo dopo, Messo? Ora è il momento più bello della
cerimonia. E’ l’ora del godimento e della…
Il Messo lo fulminò con lo sguardo e il ragazzo di fronte a lui avrebbe
voluto tagliarsi la lingua. Si poteva morire, per una risposta così
incauta. Perché gli ordini del Messo erano ordini di Lucifero, e gli
ordini del padrone della sua vita non erano discutibili.
– Ho detto fatelo sparire e fate un lavoro come si deve, poi tornate a
divertirvi con noi. Vi lascerò il boccone migliore.
Poi si diresse verso l’orgia, dove ormai la ragione era scomparsa del
tutto. Ammirò quei corpi avviluppati, quella furia lussuriosa che
regnava sovrana fra tutti i ragazzi, ascoltò quei gemiti di piacere e si
godette il suo trionfo assoluto. Il male, il piacere, il peccato. Li avrebbe portati ovunque, e loro si sarebbero fatti portare ovunque. Si avvicinò alla ragazza che si faceva chiamare Shila. Era la più bella delle
otto, un corpo degno del diavolo in persona. Due adepti se la sbattevano con foga e un altro stava in paziente attesa mentre lei gli accarezzava l’uccello.
– Via di qui – latrò il Messo – e in un attimo attorno a lei fu il vuoto.
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I ragazzi si allontanarono come cani bastonati e si avvicinarono a un
altro gruppetto.
Il Messo la prese per mano, la fece alzare, e la portò verso l’altare.
Poi la ragazza si sdraiò e allargò le braccia.
– Scopami, Messo del diavolo. Scopami e dammi il Suo seme.
Il Messo la penetrò e sentì il piacere e la gioia scoperchiargli la carne.
Adesso ne aveva diciannove al suo servizio, soggiogati e disposti a
tutto. Diciannove bestie obbedienti che lo facevano sentire invincibile.
Soprattutto, diciannove bestie che non avrebbero mai raccontato di
quella setta neppure sotto tortura.
Perché la complicità in omicidio, lo sapevano anche i più ignoranti,
viene punita con la galera.
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Simone Cranza, in arte Mago Edson, si accese un cigarillo e appoggiò
un gomito sul tettuccio della sua Bmw biposto nuova di due mesi. Ne
ammirò le curve sinuose, la forma grintosa e sportiva, il colore nero.
Un’auto per pochi eletti, un’auto per i vincenti come lui. L’aveva
appena fatta lavare ed era davvero uno spettacolo per gli occhi. Poi
distolse lo sguardo, appoggiò lo stivale su una ruota e si sistemò l’orlo dei pantaloni. Dopotutto era lì per lavoro e non certo per ammirare
la bellezza del suo ultimo acquisto. Si era vestito di nero dalla testa ai
piedi, sapeva che era il colore che più impressionava le persone sensibili alla magia. Aveva ripassato con attenzione i capelli nerissimi,
compresa la lunga coda che fuori della giacca gli dondolava lungo la
schiena. Aveva scelto con cura gli orecchini da indossare. Adesso
c’era solo da aspettare, di lì a poco il “livello due” si sarebbe infilato
tra le sue fauci. Con il tempo era diventato abile anche nella riscossione dei suoi crediti. Aveva classificato i debitori in tre categorie fondamentali. I clienti “livello uno” erano quelli che si trovavano ancora
nella fase del desiderio. Era gente che non badava a spese e si indebitava senza limiti pur di ottenere successo, denaro, amore, qualunque
cazzata la magia potesse garantire senza troppa fatica. Erano soggetti
sbandati ma ancora recuperabili: il desiderio bruciava troppo per permettere alla ragione di funzionare, ma se solo si fossero fermati un
attimo a pensare, se solo qualcuno fosse intervenuto su di loro e li
avesse fatti ragionare, molti sarebbero riusciti a sfuggire dalla spirale
perversa. Il più delle volte, però, si rendevano conto troppo tardi dei
tremendi errori che avevano commesso. Perciò in quella fase bisognava essere abili a invogliarli. Una volta imboccata la discesa avrebbero
fatto tutto da soli.
Poi c’erano i “livello due”. Erano i più pericolosi, indebitati fino al
collo, ma non ancora disperati e rassegnati. Cominciavano a provare
qualche dubbio sull’efficacia dei rimedi proposti dal mago, ma nutrivano ancora fondate speranze di riuscita. Nello stesso tempo, tentava-
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no spesso dei subdoli colpi di coda, inventavano le storie più assurde
per non pagare, chiedevano dilazioni, rateazioni, sfoderavano i pianti
più patetici e qualche volta, purtroppo, optavano per la fuga o il suicidio. Infine c’erano i “livello tre”. Rassegnati, addomesticati, sepolti
sotto il debito. Chiedevano solo che si desse loro un modo alternativo
per pagare. Un terreno, un’automobile, una piccola azienda, qualunque cosa.
Era, quello, un aspetto del suo lavoro che lo divertiva da morire.
Assistere all’umiliazione dei suoi debitori, alla loro contrizione, al
loro terrore di fronte alle velate minacce che gli presentava, aveva un
sapore così gustoso e delicato che neppure scopare una donna riusciva
a dargli. A meno che non fosse una donna avuta come pagamento,
appunto.
Eccolo che arriva. Forza.
Il debitore di turno era un uomo sulla sessantina, incurvato su se stesso dalle disgrazie e dai dolori della vita. Era uscito dalla farmacia con
un sacchetto colmo di medicinali e si era avviato verso la sua auto.
Edson gli aveva parcheggiato proprio accanto. Rientrò velocemente in
auto e attese che la sua preda cadesse nella rete. Guizzò fuori quando
l’uomo era a qualche metro dallo sportello. Lo vide fermare un istante
la sua camminata, esitare, poi riprendere rassegnato la sua andatura,
tanto ormai non poteva deviare da nessuna parte.
– Bolognini! Che piacere vederla…
– Buongiorno, maestro. Io…
– E la signora? Come sta, la signora?
– Eh, sempre uguale, purtroppo.
– Non dica così, Bolognini. Al male non ci si deve arrendere. I fluidi
che girano intorno a lei e a sua moglie non devono sentirvi così rassegnati, altrimenti si rafforzano. L’altro giorno mi aveva detto che le
sembrava di averla vista migliorata…
– Sì... sembrava andasse meglio, ma poi…
– Abbiamo imboccato la strada giusta, Bolognini, ma il cammino è
ancora lungo. Lungo e pieno di ostacoli. Il male non molla mai facilmente la presa. Ma se lei mi darà ascolto verrà premiato, questo è
sicuro.
– Il fatto è che noi… insomma… non so come dire… noi non…
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– E’ per i soldi? Mi dica la verità, è per quello?
L’uomo abbassò la testa.
– Io… io non so come pagarla, maestro. Mia moglie ha smesso di
lavorare, io ho già speso una barca di quattrini e ancora…
– Gliel’ho detto, Bolognini: ci siamo quasi. Io lo sento, sa? Quando
l’ho incontrata la prima volta, attorno a lei c’era uno strato di energie
negative che neppure immagina. Adesso lei è un uomo quasi libero.
Quasi… lo sa che le forze del male prosperano dove non c’è la
volontà di combattere? Se vi fermate proprio adesso, riprenderanno il
controllo in un batter d’occhio. E allora sì che saremo punto e a
capo…
– Ma come faccio? – domandò l’uomo con le lacrime agli occhi –
non ho più nulla!
Edson lo prese a braccetto. Era il momento della stoccata decisiva. La
sua voce era talmente vellutata che sembrava il suono di un flauto.
– Una volta mi ha parlato di quel terreno… quella vigna che avete in
campagna…
– No, quello no – rispose l’uomo sgranando gli occhi – non è proprio
possibile, quello era di mio nonno, ci ha lavorato una vita, come faccio a…
– Facciamo così: stasera vi preparo uno degli amuleti più potenti che
conosco. Gli darò tutta la forza che posso. Sarà un lavoro lungo e
penoso, ma lo faccio volentieri. Non le chiedo niente: deciderete voi
se prenderlo o no. Io lo metto da una parte e aspetto. Tra un paio di
giorni sarà pronto. Lei mi dà quel terreno, io le do quell’amuleto.
– Io… non lo so… come faccio? Madonna mia, maestro… quel terreno… proprio quello…
– Bolognini, sia chiara una cosa: nessuno la costringe. Io però le
garantisco che dentro quell’amuleto c’è la guarigione di sua moglie. E
io credo che per lei sua moglie valga un po’ di più che un pezzo di
terra. Dico bene?
– Certamente, però…
– Però la scelta spetta a lei. Io metto le mie capacità al suo servizio, e
darò il massimo per far guarire sua moglie. Ma il mio compito finisce
qui, il resto deve farlo lei.
L’uomo sembrava invecchiato di dieci anni in un colpo solo. Oltre
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alla disgrazia, adesso doveva anche portare sulle spalle il peso delle
scelte da compiere. Era smarrito e disorientato. Edson pensò che
poteva bastare così.
– Adesso la saluto, Bolognini. Il mio studio sa dov’è, e io sono sempre a sua disposizione. Tra un paio di giorni l’amuleto sarà pronto.
Lei è una degna persona, e io sono convinto che saprà fare la scelta
giusta.
L’uomo annuì senza parlare. Il dolore glielo impediva.
Il cigarillo tra i denti, il rock dei Blue Cheer catapultato fuori dagli
altoparlanti dell’auto, gli occhiali scuri appoggiati sulla fronte, adesso
Edson volava lungo la litoranea a una velocità folle, invaso da
un’euforia che lo faceva ridere a scatti. Diede un assordante colpo di
clacson passando davanti a due puttane che neppure fecero in tempo a
capire cosa fosse quel bolide nero che sfrecciava. Abbassò il volume
dalla musica e compose un numero al telefono. Un lavoretto più facile, stavolta, un “livello tre”. Ottenne risposta dopo tre squilli.
– Sì?
– Sono io.
– Ah…
– Arrivo tra venti minuti.
– Ma… devo uscire con mio marito!
– Non è un problema mio. Io sono lì tra diciannove minuti. Inventati
quello che ti pare, ma fatti trovare.
– Ma… un momento! L’accordo non era questo…
– Mi sa che ancora non hai afferrato bene, bimba. Non c’è nessun
cazzo di accordo, c’è solo un debito grosso come una montagna e ci
sono io che aspetto i soldi da un pezzo. E se non paghi, hai un modo
solo per farmi stare buono. Almeno finché non mi stancherò, il che
potrebbe avvenire anche molto presto se non ti metti a scopare con un
po’ di passione.
–…
– Diciotto minuti. E tanta voglia di fottere. Vedi di non deludermi.
Riattaccò e alzò immediatamente il volume. Dick Peterson urlava
sulle note di Out of Focus e lui cominciò a tamburellare sul volante
mentre l’auto sfiorava i centocinquanta.
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L’auto della donna era parcheggiata al solito posto lungo una stradina
secondaria alla periferia del paese. Edson le si affiancò, attese giusto
il tempo per farla entrare furtivamente dentro la propria auto, poi
ripartì alla volta del covo più vicino. La donna mantenne gli occhi
bassi verso le sue scarpe. Non era esattamente il momento più bello
della sua vita.
– Il rossetto nero?
– Non ho potuto metterlo. Ho dovuto inventare una balla su due piedi,
era già troppo. Figurati se fossi anche uscita con quel rossetto…
– Lo sai che pretendo quello.
– L’ho portato. Adesso lo metto.
– Molto bene. Come vedi, basta poco per farmi contento.
La donna abbassò il parasole ed estrasse il rossetto dalla borsa. Edson
le appoggiò la mano destra tra le cosce e la osservò attentamente. Era
una bella signora, ancora attraente nonostante avesse passato i quaranta. La sua era una delle famiglie più facoltose del paese grazie alle
boutique di lusso di suo marito. Ma da tre anni il vento era cambiato,
gli incassi erano scesi e pian piano in casa si era cominciato a tirare la
cinghia. La donna si era lasciata sprofondare in quella situazione fino
a toccare il livello della disperazione. Era stato allora che si era rivolta
a lui. Simone Cranza aveva fatto le sue indagini e aveva scoperto che
gli affari di suo marito continuavano ad andare alla grande, solo che
gli incassi, adesso, invece di prendere la via di casa finivano nelle
fauci delle case da gioco e delle sale cavalli della zona. L’uomo era
rimasto avvinghiato nella morsa del gioco, e in quei casi l’unico finale possibile è la rovina della famiglia e la dilapidazione del patrimonio. Nessun influsso maligno, dunque, e nessuna misteriosa malattia
dovuta al diabolico capriccio del destino. Gli incassi c’erano, l’attività
era florida e prosperosa. Altro che malefici o spilloni: il problema era
fottutamente terreno. Ma la signora aveva perseverato e a lui non era
rimasto che assecondarla spianandole via via la strada verso il baratro
finché non aveva fatto la stessa fine di suo marito, avviluppata nella
spirale della magia da quattro soldi che l’avrebbe portata alla rovina.
Per ora Edson si accontentava di fottersela, ma presto si sarebbe stancato. E allora un pezzo corposo del patrimonio di famiglia sarebbe
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passato nelle sue mani.
– Siamo arrivati. Scendi, tanto non c’è nessuno che ti guarda.
Il posto era immerso nel verde eppure a solo un chilometro dalla
spiaggia. Era un altro di quei piccoli pezzi di terra che il mago aveva
ottenuto in cambio di uno dei suoi fenomenali incantesimi. Il proprietario precedente, adesso, si pagava con la pensione la retta in un ospizio. All’interno c’era una casetta in legno un po’ vecchia ma ancora
perfettamente funzionale. Edson l’aveva presto trasformata nel suo
scannatoio. Una buona parte dei suoi crediti in natura amava riscuoterla lì, in quel posto un po’ sporco ma ormai così familiare. La donna
si avvicinò alla porta della casa, ma Edson scosse la testa.
– No. Oggi voglio scoparti qui, all’aperto.
– Ma… sei matto? Se ci vede qualcuno, io…
– Non ci vedrà nessuno, qua dentro è casa mia e nessuno ci metterà il
naso, e comunque non me ne frega un cazzo. Oggi mi va così. Vieni
qua, prendilo in bocca e sta’ zitta.
Tirò giù i pantaloni e rimase così, il pene a mezz’aria che aspettava e
un’espressione che si faceva sempre più impaziente e nervosa. La
donna tornò indietro e simulò il miglior sorriso di cui fu capace, poi
si inginocchiò e cominciò di buon grado a pagare il suo debito. Ma
mentre lo guardava negli occhi, perché lui pretendeva così, cominciò
a pensare a cosa sarebbe successo nel momento in cui il suo corpo
avesse smesso di eccitarlo. Perché a quel punto il mago avrebbe chiesto i suoi soldi e lei non aveva più niente da dargli. Avrebbe dovuto
vendersi la sua vita e diventare la sua schiava per sempre, oppure
andare alla polizia e prepararsi ad affrontare uno scandalo di paese
dal quale sarebbe comunque uscita distrutta. Ogni strada sembrava
portare allo stesso risultato, la sua assoluta e definitiva rovina.
Oppure, le venne da pensare mentre Edson chiudeva gli occhi e si
lasciava andare a un gemito di piacere, oppure esisteva una terza via.
Era una strada impervia e irta di ostacoli, ma non impossibile da percorrere. Era la via che portava alla morte di quel bastardo. E in quel
momento le sembrò la più conveniente di tutte le altre. Sì, decisamente la più conveniente. L’unica sulla quale cominciare a darsi da fare.
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9
La ragazza di Ettore Boni continuava a singhiozzare. Le efelidi sulle
guance e sul naso sembravano moltiplicarsi e gonfiarsi assieme agli
occhi. Il viso era di un rosso intenso e stravolto dal dolore. Rovere la
osservò attentamente, seduta sulla sedia con le ginocchia strette e il
fazzoletto tra le mani come una brava ragazza degli anni Cinquanta.
No, non mentiva. Oppure era di una bravura da brividi.
Le informazioni che aveva dato non portavano da nessuna parte. Non
conosceva motivi che potessero giustificare la morte di Ettore e il più
delle volte aveva risposto con un “non lo so”. Rovere decise di non
approfondire più di tanto. Avrebbe potuto farle altre domande in
seguito, ma si era da subito convinto che il ragazzo le avesse nascosto
varie cose.
– Negli ultimi due mesi però era cambiato un po’ – aveva comunque
osservato a un certo punto la ragazza.
– Che vuol dire?
– Era… si era chiuso in se stesso, spesso soprapensiero, distratto e
lontano. Gli chiedevo cosa avesse, ma lui glissava sempre. Intuivo che
c’era qualcosa di strano, ma non ha mai voluto aprirsi. Quando glielo
domandavo, cambiava umore d’improvviso, tornava giocoso e allegro
e sembrava scordarsi di tutto. Però non durava molto.
– E la sua vita? Le sue compagnie, le cose che faceva erano rimaste le
stesse?
– Che io sappia, sì. Almeno quando stava con me. Ma con me ci stava
sempre meno…
– Non le ha mai raccontato di qualcosa di… particolare che aveva
visto, di un episodio o di un’informazione di cui era venuto a conoscenza anche per sbaglio? Qualcosa che lo preoccupava?
La ragazza si fermò a pensare con lo sguardo rivolto verso il pavimento. I suoi genitori, seduti sul divano dietro di lei, non vedevano
l’ora che l’ispettore la finisse con quel tormento e davano chiari segni
di nervosismo.
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E Rovere, nonostante cercasse di concentrarsi solo sulla sua indagine,
provava un sottile fastidio per i loro gesti.
– No. Direi di no – rispose la ragazza.
– Ne è sicura?
La ragazza annuì senza parlare. Rovere pensò che sarebbe stato
meglio procedere con domande più mirate, magari quando fosse riuscito a saperne qualcosa di più. Forse concentrandosi su un particolare o su una singola situazione la ragazza avrebbe potuto aiutarlo davvero. Si alzò rapidamente dalla sedia. Poi si rivolse ai genitori.
– Non è escluso che debba farle di nuovo qualche domanda. Cercherò
di evitarlo ma non so se mi sarà possibile. Lei magari non se ne rende
conto, ma è uno dei soggetti più importanti per arrivare alla verità.
La madre era la più contraria tra i due. Scosse la testa e non nascose
il suo disappunto.
– Io invece credo che debba dimenticare il prima possibile, ispettore.
E voi in questo modo non l’aiutate. Ha subito un trauma e prima ne
esce, meglio è.
– Sono d’accordo, signora, ma io purtroppo ho un altro obiettivo da
raggiungere. E proprio come sua figlia, prima lo raggiungo e meglio
è. C’è qualcuno in questo paese che ha maciullato un ragazzo e ora se
ne va a spasso impunito. Anche questo ha a che fare con la salute di
sua figlia, non crede?
La donna annuì con un movimento assai poco convinto. Rovere l’avrebbe presa volentieri a schiaffi. Tutti uguali. Capaci di chiederti
l’impossibile quando erano in gioco i loro interessi, ma quando c’era
da esporsi in prima persona si barricavano nelle loro stanze e sprangavano porte e finestre.
– Cerchi solo di limitare le sue richieste al minimo.
– Questo glielo prometto.
Salutò e uscì dall’abitazione. L’agente Giovani lo aspettava in auto e
stava comunicando con la centrale. Riattaccò il microfono e mise in
moto.
– Dove andiamo, dottore?
– Dai genitori di Boni. Ci stanno aspettando.
Mentre l’auto partiva, estrasse il cellulare e lanciò una chiamata.
Ottenne risposta dopo quattro squilli.
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– Sì?
– Andreini, sono Rovere. A che punto siamo con quei tabulati?
– Per oggi non ce la facciamo, dottore.
– E quando, allora?
– Non ci stiamo dormendo, glielo assicuro. Gli operatori ce li hanno
forniti da un paio d’ore, adesso stiamo riconciliando i numeri con i
proprietari. Domattina li ha sul tavolo.
– Ci posso contare?
– Garantito.
– Bene. Domattina.
Mentre l’auto sfrecciava lungo le strade della città, Rovere osservò la
gente per le strade. In apparenza nessuno sembrava turbato più di
tanto per quello che era accaduto. I ragazzi scherzavano tra loro, alcuni anziani discutevano seduti alle panchine dei giardini. Ma sotto
sotto, le acque della paura si stavano increspando. Rovere lo conosceva bene, quel fenomeno. Sarebbe bastato un altro omicidio e il panico
si sarebbe diffuso veloce come il polline nell’aria. In una realtà come
quella poi, per sua fortuna non abituata a esplosioni di follia che
altrove erano la norma, sarebbe stato un disastro. E poi adesso era
giorno, c’era la luce, la vita, il traffico. Ma con l’arrivo dell’oscurità
si sarebbero fatte sentire le paure più nascoste e più genuine. E in
quei casi, lo sapeva bene, la gente perdeva il controllo di sé e allora
poteva accadere di tutto. Il male prendeva il sopravvento e travolgeva
la ragione come una valanga.
Sentì il peso di quell’omicidio e la pressione dell’urgenza sulle sue
spalle. Doveva far presto, battere la pista buona prima che si raffreddasse. Perché altrimenti, per sentirla di nuovo calda, sarebbe stata
necessaria un’altra morte. Era cinico ragionare così, ma era anche realistico. E nel suo mestiere aveva scoperto presto di poter fare a meno
di tante cose, anche di una famiglia e di una vita propria, ma mai,
neppure per un istante, di un disincantato realismo che lo obbligasse a
chiamare le cose con il loro nome.
D’altra parte, pensò mentre chiudeva lo sportello e si avviava verso il
cancelletto della famiglia Boni, solo quel disincanto poteva dargli la
forza di parlare con un padre che sta piangendo un figlio morto.
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Il padre di Ettore Boni era un uomo sui cinquanta, con un viso deragliato nel dolore lancinante della morte. Stava seduto sul divano con
lo sguardo perso forse nei ricordi e cominciò a rispondere meccanicamente alle domande. La madre era chiusa nella sua camera, imbottita
di sedativi. Rovere si sentiva a disagio: la casa era scura e tetra, ancora intrisa di quel dolore che l’uomo sprigionava a ogni suo movimento. Il silenzio era pesante e insopportabile e le domande che doveva
fare non avrebbero certamente rasserenato l’atmosfera. Ma il signor
Boni si dimostrò disponibile e paziente e Rovere non poté che ammirarne la grande forza d’animo.
L’uomo confermò che il ragazzo negli ultimi mesi era cambiato e purtroppo non in meglio. Aveva lasciato gli studi e si era abbandonato a
una vita senza regole. Non lavorava, mangiava raramente a casa e
rientrava alle ore più strane. Il rapporto tra loro si era fatto sempre più
teso finché il figlio aveva deciso di chiudere i genitori fuori dalla propria vita. Da alcuni mesi non si parlavano più. Ma al di là di questo
non uscì fuori niente di concreto. Si aspettava di più dalla ragazza, in
fondo i genitori sono sempre gli ultimi a sapere le cose. Era già con la
mente fuori dalla casa quando quella domanda gli zampillò fuori a
sorpresa.
– Mi farebbe vedere la sua stanza?
L’uomo esitò un istante. Era una violenza che avrebbe voluto evitare,
eppure non sapeva come opporsi.
– Se proprio deve…
– Sì, vorrei. Penso che potrebbe servire.
L’uomo lo guidò in una piccola stanza di quindici metri quadri. Un
letto, uno stereo, una scrivania, un comodino con una interminabile
pila di fumetti sopra, qualche poster appeso alle pareti. Una stanza
normale, eppure qualcosa doveva esserci. Rovere cominciò a ispezionare con gli occhi, imponendosi di non toccare nulla per non innervosire il padre.
Questo è il suo ambiente, si ripeteva, qui è dove viveva quando non
era fuori. Se c’è qualcosa da scoprire, questo è il posto giusto.
– Non aveva un computer?
– No, non gli interessava.
Rovere si soffermò sulla scrivania. Le matite nel barattolo di plastica
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erano belle, lunghe e perfettamente appuntite. Erano matite professionali. Difficile trovarle su una scrivania qualunque.
– Suo figlio disegnava?
– Tanto tempo fa. Prima che diventasse… insomma, prima che cambiasse. Era bravissimo, glielo dicevano tutti. Faceva ritratti, caricature,
disegnava storie intere e le mandava alle riviste, sognava di diventare
un fumettista, per un po’ ci si è anche impegnato. Poi… poi è andato
tutto a rotoli.
Preferì non fargli domande sulla tossicodipendenza. Sarebbe bastata
l’autopsia e comunque il padre sarebbe stato l’ultimo a saperlo. Posò
lo sguardo sotto la scrivania e fu incuriosito da qualcosa che trapelava
dall’oscurità. Si abbassò e scoprì un cestino pieno di fogli appallottolati. Ne estrasse uno e lo aprì. Era un disegno splendido su un grande
foglio trenta per quaranta. Una scena di sesso estremo al chiaro di
luna, in uno spazio aperto, dove un falò bruciava in lontananza e un
branco di lupi girava attorno alla coppia. La ragazza aveva l’aria di
una bambina appena cresciuta, ma il suo corpo non lasciava dubbi
sulla sua età adulta, il maschio invece era un uomo possente, dal
corpo robusto e dalle spalle enormi. I due tenevano gli occhi chiusi e
si abbandonavano al piacere più intenso mentre il fuoco scoppiettava
qualche metro più in là. La luna era piena per tre quarti e sparava il
proprio lucore sullo spazio, fondendolo con la luce giallastra del
fuoco. Il cielo era terso e stellato eppure profondamente nero. Rovere
osservò quel sapiente gioco di chiaroscuri e ne rimase sbalordito.
Quel disegno era magico. Lo strinse tra le mani e concentrò il suo
sguardo sulla coppia. Erano disegnati divinamente, sembrava quasi
che si muovessero e gli trasmettessero il loro piacere. Li osservò a
fondo e un attimo dopo si trovò risucchiato dentro quel posto da una
forza inarrestabile. Si trattò di pochi secondi, ma in quei momenti
visse insieme a loro.
Cominciò a sentire il suono ritmico dei tamburi che rombavano attorno, sentì il guaito dei lupi, sentì l’aria frizzante della notte che gli
accarezzava e pizzicava la faccia, sentì le risa tutto intorno, la gioia e
il piacere, sentì i gemiti della ragazza. Era un posto aperto, libero e
selvaggio eppure in qualche modo appartato e sicuro. Chi suonava
quei tamburi? Si voltò e si accorse di un ragazzo con i capelli lunghi
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fino alla vita, defilato, che picchiava da una parte come un ossesso su
due tamburi come fosse la cosa più preziosa della sua vita. Chi stava
ridendo così forte? Chi aveva acceso il fuoco? Percepiva la presenza
di altri attorno a lui, altre coppie divorate dalla passione e dal desiderio eppure non riusciva a vedere nessuno.
Poi i suoi occhi si abituarono al buio. Le masse scure e informi che
gli stavano a qualche metro cominciarono a muoversi, emersero dapprima nei lineamenti, poi nella totalità dei corpi avvinghiati tra loro.
L’aroma pungente e denso nell’aria era inebriante e scivolava nei
polmoni come se si facesse largo a spallate. Sicuramente droga, ma
non riuscì a capire di che tipo. Un’orgia dionisiaca, selvaggia e
meravigliosa. Il rullo dei tamburi gli tremava nella gola e nella testa.
Abbassò lo sguardo sul suo corpo e si accorse di essere nudo, eppure
non si sorprese più di tanto, come se in fondo lo sapesse. Era dentro,
non c’erano dubbi, era parte di quel mondo e di quel posto incantevole. E qualcosa lo guidava in una direzione. Si rese conto che quelle
coppie che festeggiavano non erano che contorno. La vera festa era
altrove e riguardava altro. Raggiunse lentamente il fuoco e lo oltrepassò uscendo dal raggio della sua luce. Le gambe andavano da sole,
guidate con sicurezza dove sapevano di dover andare. Il rullo dei
tamburi si fece più debole, la luce si abbassò fino a diventare un
baluginio tremulo e debolissimo.
Fu allora che lo scorse. Sembrava un uomo, aveva la parvenza di un
uomo, ma qualcosa gli diceva che non era esattamente così. Sedeva
su un sasso enorme, talmente alto che i piedi non gli toccavano terra.
Sembrava sorridere, ma in quell’oscurità era difficile esserne sicuri.
L’odore acre e forte dell’erba era sparito. Al suo posto c’era un
odore di bruciato, come se attorno non vi fosse che cenere.
– E’ me che cerchi, straniero?
La voce dell’uomo suonò forte e sicura. Aveva un tono basso e spaventoso, e non erano molti gli uomini che potevano spaventare uno
come Matteo Rovere, tanto meno usando soltanto la voce. Ne distingueva a malapena i lineamenti, ma si rese conto che non aveva nessuna voglia di scoprire com’era fatto.
Proprio nessuna voglia.
– E’ me che cerchi? Fatti avanti, allora…
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Ma Rovere rimaneva fermo.
– Forza, fatti avanti. Finalmente mi hai trovato, adesso devi solo…
– Cosa c’è? Ispettore? Qualcosa non va?
Di colpo la realtà tornò con il suo silenzio. Ne fu stordito, come se
quei pochi intensissimi secondi fossero durati una notte intera e lo
avessero visto realmente protagonista, presente e vigile.
– Ispettore? Va tutto bene?
Boni osservò quel gigante che tremava davanti a un pezzo di carta, la
fronte e le tempie imperlate dal sudore e gli occhi decisamente smarriti. Rovere si voltò verso di lui, la bocca piegata in una smorfia che
voleva essere un sorriso.
– Io… sì, va tutto bene. Volevo chiederle… volevo sapere se posso
tenerli. Vorrei capire perché li ha buttati. Potrebbe esserci un nesso
con la sua… scomparsa.
– Io e mia moglie preferiremmo che rimanesse tutto com’era…
Non ti servirà a niente. Non ti ridarà tuo figlio. Mentre io… io ho
bisogno di questi disegni. Ne ho bisogno.
Fu un pensiero che lo sorprese. Che potessero essere utili era senz’altro vero, ma il suo desiderio ardente per quei pezzi di carta, quello
non era esattamente una cosa normale. Eppure li avrebbe avuti, li
avrebbe avuti con ogni mezzo.
– La capisco perfettamente, signor Boni, ma…
– Lei non può capire, ispettore. Il figlio morto è mio, non suo.
– Verissimo, ma sono opere di suo figlio e sembrano piuttosto recenti.
Inoltre sono decisamente buone e mi viene da domandarmi perché le
abbia cestinate.
– Effettivamente di solito non lo faceva. Conservava ogni cosa che
riusciva a tirar fuori dalle sue matite. Diceva che un giorno tutto gli
sarebbe tornato utile.
– A maggior ragione, dunque. Perché non ha conservato anche queste? Forse è proprio questa differenza che li rende importanti.
L’uomo continuava a tentennare e costrinse Rovere a tagliar corto.
– Non mi costringa a un mandato, signor Boni. Sarebbe antipatico per
tutti e due e mi farebbe solo perdere tempo…
– Me li farà riavere?
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– Certo. Non vedo perché no.
Sapeva di mentire. Bruciava di desiderio per quelle tavole ed era certo
che non le avrebbe restituite mai più, neanche se lo avessero costretto
con la forza.
Eppure non sapeva nemmeno perché.
– Bene, allora li prenda. Spero che l’aiutino davvero a catturare quegli sciacalli.
– Grazie. Adesso la lascio, ho disturbato anche troppo.
– L’accompagno.
Quando uscì da quella casa ne fu sollevato. Il masso che sentiva sulle
sue spalle sparì di botto. Era un posto nel quale la morte ancora aleggiava nell’aria. O forse era solo quella terribile allucinazione che
aveva vissuto là dentro. Non era la prima volta che gli capitava di perdere momentaneamente la concentrazione e di ritrovarsi a pensare
intensamente a un’altra cosa.
Non è lo stesso, e lo sai. Stavolta era una cosa vera, stavolta eri lì,
eri dentro e partecipavi…
Si tirò indietro i lunghi capelli scuri e si accorse di essere sudato
ovunque: sulle tempie, sulla fronte, ma anche lungo la schiena, sul
petto, sulle spalle. Cosa era mai successo in quella casa? Cosa aveva
veramente vissuto? Era solo lo stress di quei giorni così strani e diversi? Era una sensazione velenosa.
E’ me che stai cercando, straniero?
Ma che significava? Un sogno a occhi aperti? Un viaggio mentale
indotto? E da cosa?
Entrò in auto con la solita foga e Giovani ebbe l’impressione che le
gomme fossero scoppiate tutte assieme.
– E adesso, dottore?
– Adesso in questura. Vediamo se c’è qualche referto pronto. E facciamo una chiacchierata su a Milano con Pertica. Se c’è uno che mi può
aiutare a sbrogliare questa matassa, è proprio lui.
La volante percorreva lentamente il viale. La bitonale era spenta, tutto
pareva sotto controllo e la giornata si snodava pigramente verso il tramonto. L’auto avrebbe percorso l’intera arteria che spaccava in due la
città fino ad arrivare in periferia, poi sarebbe tornata indietro e avreb-
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be fatto lo stesso percorso ancora due volte. Poi, vivaddio, il turno
sarebbe terminato. I due agenti osservavano le auto parcheggiate e
posavano via via lo sguardo su quelle che scorrevano al loro fianco
senza trascurare i marciapiedi e le zone porticate, le più adatte per un
borseggio. Il loro occhio era rapido e addestrato a riconoscere al volo
le situazioni pericolose. Ma quella giornata, al contrario delle precedenti, sembrava tranquilla.
– Quando vai in ferie, Marce’? – chiese l’agente che stava alla guida.
– Fra quattro settimane – rispose l’altro mentre scrutava dentro al
flusso dei passanti alla sua destra.
– Dove te ne vai di bello?
– Di bello? Da nessuna parte, perché quest’anno decide mia moglie e
lei sceglie sempre la montagna. A me la montagna mi fa schifo.
– Insomma, ha anche i suoi lati buoni. Passeggiate, aria fina, belle
mangiate in compagnia… oh, ma mi ascolti? Che hai visto, Marce’?
L’altro teneva la testa quasi fuori dal finestrino e guardava qualcosa
che stava ormai alle sue spalle. Neppure aveva sentito la domanda del
collega.
– Marcello… che c’è?
– Frena. Frena e accosta che ti faccio vedere una cosa.
Il guidatore accostò rapido la Fiat Marea in doppia fila e si mise a fissare il collega in attesa di una risposta.
– Aspetta un istante e poi lo vedi. Sul marciapiede: attento che adesso
passa.
Il poliziotto si abbassò per guardare dal finestrino del collega. Il barbone passò un attimo dopo. Aveva un’andatura incerta come se lo
avessero appena bastonato alle gambe. Era un poveraccio stonato e
distrutto che campava alla giornata, eppure aveva un che di dignitoso
nel portamento, quasi a ricordare a chi gli posava addosso gli occhi
che la sua vita e la sua posizione non erano state sempre quelle. Non
si era accorto degli sguardi dei poliziotti e proseguiva lungo il marciapiede del vialone. Dalla sua mano destra pendeva una borsa di nylon
celeste dentro la quale stava probabilmente la sua cena o forse qualcosa da scambiare con i suoi amici. Aveva non meno di sessant’anni.
O almeno erano quelli che dimostrava.
– L’hai visto?
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– Sì, l’ho visto. E allora?
– La giacca, l’hai vista la giacca?
– Certo, è seminuova. L’avrà rimediata da qualche parte, magari alla
Croce rossa o al centro di assistenza...
– Può darsi, però… non lo lasciare, seguilo un attimo che voglio
vedere una cosa. Ma stai bene attento, che se lo perdiamo non lo
agguantiamo più. Non ti ricorda niente, quella giacca?
– Mi sembra di no. Cos’ha di speciale?
– Per esempio, che i pantaloni di Maurizio Breschi erano uguali.
– Porc… hai ragione, cazzo.
– Forse è una coincidenza, forse no. Però metti insieme ’sti punti:
vicino a quella specie di parcheggio dietro Il Tirreno è pieno di barboni, Breschi è stato ammazzato dentro quel parcheggio, un barbone
porta una giacca che assomiglia tanto ai suoi pantaloni.
– ... diamo un’occhiata?
– Direi di sì. Ma senza fare tanto chiasso, che se è una falsa pista è
meglio che ce la caviamo senza troppo casino. Stiamogli dietro e
vediamo che strada imbocca. Appena finisce in un posto tranquillo, ci
facciamo sotto.
Non ci volle molto. L’uomo lasciò il viale dopo un centinaio di metri
e infilò una traversa stretta e corta che portava a una piccola piazza
senza uscita. Era certamente diretto verso un bar da due soldi dove gli
avrebbero permesso di entrare e consumare. Il poliziotto scese dall’auto e si mise sulla scia del barbone. Gli stava alle costole e guadagnava rapidamente metri tenendo la testa bassa e facendo attenzione a
non fare rumore e a non spaventare l’uomo. Conciato com’era non
sarebbe comunque andato da nessuna parte, ma il poliziotto temeva
che la paura gli facesse commettere qualche azione stupida. Se poi
era davvero l’uomo che aveva ucciso Breschi…
Lo raggiunse quando era a una ventina di metri dal bar e lo afferrò
per un braccio.
– Aspetta un po’, tu, fermati. Polizia.
L’uomo si voltò di scatto con una rapidità inaspettata. I suoi occhi
denunciavano uno smarrimento evidente. Aveva un viso stretto e
lungo, solcato dalla miseria, dalla sporcizia e dall’umiliazione.
Deglutì e il poliziotto notò il pomo alzarsi e abbassarsi in quel
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collo sottile, più simile a quello di un ragazzo che a quello di un
uomo.
– Io… io non ho fatto niente. Che vuole, che volete…
– Devo solo accertarmi di una cosa. Tranquillo, ci metto un attimo e
non ti faccio niente. Adesso voltati lentamente, così, bene, adesso
appoggia le mani al muro…
Lo spinse energicamente verso il muro per fargli sentire addosso il
bastone del comando e tenerlo in soggezione. Era proprio di quei tipi
paurosi e smarriti che diffidava di più. Perché troppe volte aveva visto
la paura diventare più pericolosa della cattiveria. Dunque lo perquisì
subito e con attenzione. Nella tasca della giacca gli trovò un portafogli. Lo aprì: dentro c’erano più di trecento euro ma niente altro, nessun documento e nessuna foto. Lo portò davanti agli occhi del barbone e lo tenne lì per qualche secondo, senza aprire bocca. Gli occhi
dell’uomo guizzavano dal portafogli al poliziotto come schegge
impazzite.
– Questo non è tuo. Non è tuo, vero?
– No, questo è… è mio, certo che è mio.
– Ah, è tuo. E… questa giacca, dimmi che è tua anche questa.
– E’ mia, sì. Perché non si può? Io non ho fatto niente. Niente!
– Ma perché mi gridi di continuo che non hai fatto niente? Non ti ho
mica accusato di qualcosa. E perché te ne vai in giro con una giacca
così bella e rifinita e con quello schifo di pantaloni, eh? Questo me lo
puoi spiegare?
– Dopo li vado a comprare, i pantaloni. Adesso faccio al bar e poi
vado.
Il poliziotto sorrise gelidamente. Ce l’aveva in pugno. Era suo.
– Ti sta un po’ grande questa giacca, un po’ troppo grande. Non è che
per caso l’hai rubata a qualcuno, magari insieme al portafogli? Io
penso sia andata così. Che ne dici?
– No, no, non è vero… io non rubo. Non rubo…
Adesso la sua paura si era messa in moto e circolava nel suo corpo
pronta a esplodere. Nel giro di qualche istante avrebbe dato i suoi
effetti e l’uomo avrebbe potuto fermarsi, paralizzato dal terrore, oppure avrebbe potuto agitarsi finché qualcosa più forte di lui non l’avesse
calmato.
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– Va bene, non rubi. E allora che ci vuole, basta che tu mi dica dove
l’hai presa. Dimmelo e ti lascio andare.
– L’ho trovata…
– Dove?
L’uomo si bloccò fin quasi a mordersi la lingua, ma ormai era tardi.
Le sue iridi sembravano due asteroidi sparati a velocità folle.
Cominciò a respirare in modo affannato, abbassò lo sguardo e scosse
la testa vigorosamente.
– No. No…
– Cosa no? Che vuol dire? Fermo, dove vai, fermo qua…
L’uomo si agitava ma il poliziotto lo teneva inchiodato spalle al muro
e si preparava al tentativo di fuga.
Sapeva che ormai era solo questione di secondi.
– No. Io no… non c’entro niente, io!
– Con cosa non c’entri, eh? Io non ho aperto bocca, dimmelo tu senza
farmi penare troppo, forza.
Il barbone spinse lateralmente cercando di sgusciare via, ma il poliziotto neppure si mosse.
– Lasciami, lasciami!
– Ti lascio quando lo dico io. Dimmi quello che mi interessa, poi ti
lascio.
Fu costretto a fare forza per tenerlo fermo. Gli diede un paio di strattoni e i lembi della giacca si aprirono. Dietro quello sinistro emerse
una striatura rossa che sull’altro lato non c’era.
E’ abbastanza, pensò il poliziotto
– Mi sa che non ti posso proprio lasciare, brutto stronzo – disse al
barbone.
Estrasse le manette dai pantaloni e in un lampo gli chiuse le mani dietro la schiena mentre l’uomo cominciava a guaire la sua disperazione.
– Ora andiamo in questura e ci facciamo una bella chiacchierata. Ti
metti comodo e ci spieghi tutto per filo e per segno.
Il trillo del cellulare spazzò d’incanto i suoi pensieri. La via dei navigli, i ristorantini deliziosi che si appoggiavano uno sull’altro.
Quell’atmosfera sempre invernale e nebbiosa.
Le sere con Kun.
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Un attimo prima era tutto davanti ai suoi occhi, un attimo dopo quel
trillo invadente. Estrasse il telefono dalla tasca della giacca mentre le
sue palpebre sbattevano più volte e lo risvegliavano dalla trance.
– Rovere. Chi è?
– Sono Perno. L’abbiamo preso!
– Chi?
– Quello che ha steso Breschi. E’ un barbone che vive proprio da
quelle parti.
– Sei sicuro?
– Ancora non al cento per cento, diciamo che è un indiziato piuttosto
compromesso.
– Adesso dov’è?
– Lo stiamo portando dentro. Il pm mi ha già firmato la delega per
torchiarlo un po’. Pensa, ha ancora addosso la giacca di Breschi.
– Bene, sono contento. Appena rientro vengo a trovarti.
– Siamo al terzo piano.
– Bel lavoro, Perno. Vedi di farlo confessare subito, che ogni minuto
che passa diventa più difficile.
– Ci provo. Ci vediamo più tardi.
Chiuse il cellulare e si sentì assalito dall’euforia. Beccare un bastardo,
anche quando era un altro a farlo, gli dava una soddisfazione intensa
che lo faceva vibrare dalla testa ai piedi. Peccato solo che fosse troppo breve.
E ora tocca agli assassini di Boni, pensò.
Ma era solo un modo di farsi coraggio. Perché in tutta onestà era
sicuro che sarebbe stato cento volte più difficile. E poi a lui i colpi di
culo non capitavano mai. E quando capitavano, come quel maledetto
trasferimento, erano sempre al momento sbagliato e si trasformavano
in tremendi colpi di merda.
Rovere uscì dall’ascensore proprio mentre si apriva la porta della stanza dell’interrogatorio del barbone. L’assassino di Breschi stava appena
uscendo e gli apparve di fronte non appena si aprirono le porte. Gli
sfilò davanti, scortato da due poliziotti e affranto dall’ennesima tegola
che la vita aveva voluto scagliargli addosso. Piagnucolava come un
bambino accusato ingiustamente di aver rubato la merendina.
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– Non ho fatto niente...
– Sta’ zitto.
– Niente, ho fatto! Io non rubo neanche uno spillo! Io frugo nei cassonetti e chiedo l’elemosina, ma non rubo!
– Sta’ zitto e cammina. Al processo dici tutto quello che ti pare.
La sua voce svanì gradualmente a mano a mano che i poliziotti lo
conducevano dabbasso lungo le scale. L’elettricità si percepiva ancora
nell’aria. Era sempre così quando c’era una cattura. Almeno per quello le questure di tutto il mondo erano uguali.
Perno uscì dalla stanza un attimo dopo. Aveva le maniche della camicia arrotolate fin quasi alle ascelle ed era distrutto dalla fatica. A casa
sua l’euforia da cattura era già passata.
– Cazzo, non ce l’ho fatta – disse rivolto a Rovere.
– Come, non ce l’hai fatta? Non l’hai scucito?
– Macché. E’ entrato nella stanza che sembrava un pulcino bagnato, e
lì ho sbagliato io. Ho creduto che me lo sarei cucinato in cinque
minuti, invece sotto la corteccia era tosto come il ferro. Ha cominciato a negare, questo stronzo, sempre più risoluto, e ha tenuto il punto
fino alla fine. Io lo pressavo e lui negava. Alla fine dell’interrogatorio
ci siamo fatti qualche conto e non è che stiamo messi troppo bene.
– Cos’avete?
– La giacca e il portafogli che aveva addosso.
– E’ già un bel passo avanti, direi.
– Sì, ma poi? Lui dice che li ha trovati. Si è svegliato e se li è trovati
a qualche metro. Non si è fatto troppe domande, erano belli e senza
padrone. E il portafogli era anche pieno. Tu nelle sue condizioni cosa
avresti fatto?
– E dai, mica ci crederai. Nemmeno nelle favole buone succede che
un barbone si sveglia una mattina e trova vitto e alloggio pronti…
– No che non ci credo. Però in un processo potrebbe anche reggere.
Sul coltello le sue impronte non ci sono, nessuno l’ha visto aggredire
Breschi, confessare non ha confessato. In fondo lo accusiamo di omicidio, mica di aver rubato un motorino. In tribunale dobbiamo andarci
con qualcosa di solido, cazzo.
Perno scosse la testa e bestemmiò a bassa voce. Le mani sui fianchi e
la cravatta allentata fino ad assomigliare a un foulard, sembrava inve-
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stito dalla più grande delusione della sua vita.
– Però qualcosa in mano ce l’hai. Hai la giacca del morto, hai il portafogli con i soldi e hai l’uomo che li possedeva. E hai pure il movente, i soldi sono il più bel movente del mondo. Ti manca la confessione, d’accordo, ma non credo che sia un capitolo chiuso. Forse con
qualche giorno di gattabuia quello cambia idea.
– Speranza vana. Quello è abituato a certa merda che la nostra galera
gli sembrerà lo Sheraton. Magari succede il contrario magari ne confessa quattro o cinque per farsi vitto e alloggio a vita…
– A me non sembrava così entusiasta di farsi la gabbia. Io dico che se
aspetti tre, quattro giorni al massimo, le cose cambiano. Tienilo a
bagno e vedrai che anche il ferro si arrugginisce.
Tese la mano verso Perno e lui gliela strinse con energia.
– Grazie di tutto, Rovere.
– E di che? Io non ho fatto nulla…
– Be’, sapere che mi stavi alle spalle mi ha dato una mano. L’erede di
Ludovico Pertica, non è proprio cosa di tutti i giorni.
L’erede di Ludovico Pertica. Evidentemente la voce lo aveva preceduto. In fondo era prevedibile, tutto il mondo è paese. Chissà quante
altre chiacchiere avevano girato.
– No, no, semplicemente discepolo di Pertica. Magari, erede… quello
non lascia eredi, è impossibile...
– ... però sappi che non è una definizione mia – gli rispose Perno sorridendo un po’ imbarazzato – arriva da Milano e se te la porti dietro
qualcosa vorrà dire.
– Niente, non vuol dire niente. Anzi, è peggio, perché la gente poi si
aspetta che io sia come lui e questo non è possibile. Quella non è una
eredità, quella è una dannazione. Ti saluto, Perno.
– Grazie ancora. A buon rendere.
Rovere alzò una mano come a dire che si trattava di una sciocchezza.
Si avviò verso la sua stanza ripensando al volto di quel barbone e alle
sue parole. Se avesse dovuto dar retta soltanto al suo istinto avrebbe
anche potuto credergli. Quando gridava la sua innocenza e si umiliava
pubblicamente, ammettendo i suoi furti e addirittura le sue elemosine,
quell’uomo era sincero. L’istinto gli diceva così. Ma lui faceva il poliziotto.
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E i poliziotti non possono credere a tutte le stronzate che la gente
dice.
Per quello, c’era una categoria inventata apposta. Per quello, c’erano i
giudici.
Come al solito la cena si era rivelata la parte meno triste della giornata. Il pesce era tenero e fresco, cucinato in modo sapiente e servito su
piatti caserecci, tozzi e pesanti, che ricordavano a Rovere quelli della
sua infanzia. L’ispettore sorseggiò il suo caffè lentamente, quasi con
la speranza che quel momento durasse in eterno. Quella sera il volto
di Kun gli saliva alla mente più spesso di quanto avrebbe immaginato,
come a volergli ricordare che la tristezza doveva comunque far parte
della sua vita. Nonostante la pensione non assomigliasse neanche un
po’ ai ristoranti nei quali passava le serate con lei, c’era qualcosa che
spingeva i suoi ricordi su quella donna, forse la coppia di mezza età
che consumava la cena a qualche tavolo da lui, e che in quel momento
gli aveva suggerito che la vita non poteva essere solo fatta di indagini
e morti ammazzati. Ma il trasferimento gli aveva tolto anche Kun.
Non sai quanto è prezioso quello che hai finché non ce l’hai più, gli
venne da pensare. Quella con Kun era una storia che sembrava non
avere né capo né coda, senza impegni da parte di nessuno dei due,
quasi occasionale, a volte addirittura improvvisata, eppure era riuscita
a durare più di un anno e ancora non c’erano scricchiolii all’orizzonte. Lei era una modella asiatica, bellissima e sorprendentemente alta,
arrivata a Milano per caso attraverso un giro che doveva comprendere
tutte le capitali d’Europa. Invece la ragazza si era fermata lì, folgorata
dalla energia che sprigionava il mondo della moda e abbagliata dalle
possibilità infinite che quel settore le offriva su un piatto d’argento.
La sua bellezza e il suo fisico così insolito per una coreana le avevano
aperto molto presto quelle porte e anche se non avrebbe mai raggiunto i livelli di Claudia Schiffer, non aveva proprio di che lamentarsi.
Era come se Milano le avesse mostrato di colpo la vita che voleva
vivere e i modi per riuscirci. Una rivelazione accecante. Chissà cosa
sarebbe successo – si chiedeva spesso Rovere – il giorno che quel
mondo, stufo di lei e inorridito dalle prime impercettibili rughe sotto
gli occhi o accanto alle labbra, l’avesse brutalmente espunta dal suo
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giardino dorato ringraziandola sentitamente per il suo lavoro.
Adesso, lo sguardo perso nel caffè nero che gli stava davanti, pensava
alle serate con lei, ai loro dialoghi nel suo inglese stentato o nello
stentato italiano di lei, alle loro notti interminabili che spesso si
agganciavano alla sua entrata in servizio senza passare per un’ora di
sonno. Quella sera Kun gli mancava come un infinito buco nero, gli
mancava la sua bellezza così particolare e dirompente, ma la vita lo
aveva trascinato altrove e lui, grande e grosso da far paura, non aveva
saputo ribellarsi. Rivide il volto triste della ragazza che si illuminava
di colpo mentre, seduti in un piano bar alle due di notte, pensava di
aver avuto una intuizione fantastica. Aveva sorriso, con quegli occhi
meravigliosi che si infiammavano e lo mandavano in paradiso, e gli
aveva detto:
– Resta a Milano, prova a fare l’investigatore. Privato, intendo.
Lui aveva scosso la testa, disilluso e sfiduciato.
– Ma quale investigatore…
– Hai esperienza, hai un bel fisico, puoi fare quello che vuoi. Guardia
del corpo, poliziotto privato, oppure…
– Kun, io ho quaranta anni. Non posso ripartire da zero, non posso
ricominciare. E poi non credere che sia facile, i clienti non ti piovono
mica dal cielo, c’è tanta concorrenza e io non sono capace di vendermi, cioè, io sono un poliziotto, non so farmi pubblicità e tutte quelle
cazzate che ci stanno dietro…
– E’ perché non vuoi. Se volessi davvero, lo faresti…
– No, è perché sono realista.
– Tu conosci bene il tuo mondo. Sai come lavorare, a chi chiedere,
come cercare le persone. Non devi partire da zero, devi solo cambiare
un po’…
– Un po’? Hai idea della strumentazione che serve per condurre
un’indagine? Del potere che serve? Delle figure che coinvolgi quando
cerchi una cosa o una persona? Informazioni, soldi, forza, mandati,
autorizzazioni! A meno che non debba ridurmi a pedinare la moglie
di qualche disgraziato. Allora basta poco.
– Potrebbe essere divertente…
– E dai, sii seria.
– Non puoi sapere come andrà, non ci hai mai provato.
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Gli aveva stretto la mano e lo aveva incantato con il suo sguardo, poi
gli aveva ripetuto:
– Ricordati, è solo perché non vuoi.
Quella notte, la sua ultima notte a Milano, non avevano dormito insieme. Lei aveva preso un taxi e lo aveva salutato sul marciapiede, convinta fino all’ultimo che quel bestione grande e grosso sarebbe stato
capace di un colpo di coda, di prendere la vita per il bavero e rimetterla al posto suo. Per un attimo Rovere aveva avuto la tentazione di
chiederle di venire con lui, poi la paura della risposta lo aveva bloccato. Perché la conosceva già, la risposta. Kun non avrebbe mai lasciato
Milano. Per fare cosa, a Grosseto? E poi, quello strano discorso sull’investigatore privato... cos’era se non una proposta di rinunciare lui
al suo lavoro e restare con lei?
E lui di dubbi non ne aveva avuti neppure per un istante. Una rabbia
feroce gli circolava dentro e gli scatenava le reazioni più cattive.
L’aveva guardata entrare nell’auto e aveva sentito le pulsioni più selvagge a un passo dal prendere il sopravvento. Invece l’auto si era
allontanata nel silenzio e nel buio malinconico della città senza che
lui muovesse dito. Era tornato a casa, aveva caricato le valigie in auto,
piangendo come un bambino, ed era partito per Grosseto senza neanche pensarci su. Quattro ore di viaggio con un solo pensiero inchiodato nel cervello: la storia con Kun era finita. Ogni speranza di tenerla
in piedi era un’illusione puerile che non poteva davvero permettersi.
Si alzò di scatto dal tavolo del ristorante per evitare di finire impaludato dentro un groviglio di rimpianti che avrebbe finito di oscurargli
la giornata. Il silenzio che avvolgeva la sala gli pesava nel cuore e
nella testa e la vista di quella coppia di anziani adesso gli dava fastidio e lo metteva di malumore. Mentre usciva dalla sala intravide il
signor Bruno immerso nel riassetto delle stoviglie e delle posate. Il
rumore triste dei cocci infrangeva di tanto in tanto quel silenzio plumbeo. La signora Franca, che si occupava invece di cucinare, adesso se
ne stava seduta sulla poltrona centrale della piccola sala comune,
quella dove c’era la televisione.
Era sola, immersa in un rito che compiva ogni sera chissà da quanti
anni. Ogni tanto se ne usciva con una risata grassa e interminabile che
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rischiava di soffocarla o qualche commento che nella sala da pranzo
arrivava sotto forma di borbottio incomprensibile. Quando Rovere si
alzò dal tavolo si sentì stanco e confuso. Nonostante il caldo soffocante non aveva intenzione di uscire dall’albergo e voleva chiudersi
alla svelta nella sua camera e allontanarsi dal mondo. Gli serviva soltanto una doccia, un letto e qualche minuto di lucidità per cercare di
riordinare le idee prima di sprofondare nel sonno. Voleva rimettere
insieme i pezzi della sua indagine, fare il punto della situazione e
definire con esattezza quanto aveva scoperto e in quale direzione proseguire partendo da quei punti fermi. Riflettere su un caso prima di
addormentarsi era un sistema che utilizzava spesso. Di notte la sua
mente continuava a lavorare su quegli elementi e lo faceva in modo
decisamente diverso e poco convenzionale rispetto al giorno. E spesso
durante la giornata successiva le intuizioni che avevano ribollito dentro il buio della notte zampillavano fuori come funghi.
Ma mentre si avvicinava al bancone della reception per prendere la
chiave intuì che stavolta il sonno lo avrebbe afferrato troppo presto, a
meno che la doccia non fosse riuscita in un miracolo. Al bancone non
c’era nessuno e preferì prendersi le chiavi da solo piuttosto che chiamare. In fondo stava diventando di casa ed era sicuro che da quella
pensione non se ne sarebbe andato troppo presto. E poi, quel pesce…
– Ha ragione, poveretto! Ha proprio ragione!
La voce della signora Franca, sdegnata e gonfia di energia, rimbombava nella piccola sala e rotolava all’esterno come il tuono di un temporale estivo.
– Digliene quattro, a quella svergognata! E’ vero, è vero, non si fa
mica così!
Rovere ne fu incuriosito. Per salire in camera doveva in ogni caso
passare accanto alla sala tv. Si affacciò sulla soglia della stanza e
osservò la donna: attenta, lo sguardo incollato allo schermo e le mani
grassocce giunte come se pregasse per la cosa più preziosa della sua
vita, continuava a incitare qualcuno.
– Eh certo! Giusto, ci mancherebbe altro!
Sullo schermo, un uomo sulla trentina avvolto in una tunica rossa,
capelli lunghi tirati indietro e raccolti in una coda, sbraitava e si
sbracciava contro la telecamera. In sovrimpressione un numero di
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telefono e una martellante scritta in giallo: Il Mago Edson. L’uomo
parlava a qualcuno che stava al telefono e non aveva un tono esattamente gentile. I suoi occhi parevano saette e lampeggiavano accompagnati da un’espressione furiosa.
– Guardi, ispettore, guardi quanto è dispettosa la gente. Questa lo ha
addirittura chiamato per lamentarsi di una previsione sbagliata…
– Una… cosa?
– Ha telefonato e ha chiesto una previsione per un lavoro. Il mago ha
detto che presto arrivava una bella occasione di lavoro e a quel punto
lei gli ha gridato che anche quattro mesi fa le aveva detto così, ma nel
frattempo non è successo niente. In pratica gli ha detto che è un
imbroglione. E lui si è offeso, giustamente.
– Eh, giustamente…
Il mago continuava a sbraitare come se stesse difendendo la sua vita.
Se l’avesse avuta di fronte, anziché al telefono, se la sarebbe mangiata
con tutti i vestiti.
– Io sono un professionista della magia – diceva rivolto alla telecamera – do consigli e suggerimenti e vi dico quello che le carte mi dicono, non vi nascondo nulla e non ho mai imbrogliato nessuno!
Rovere sorrise, ma preferì non farsi vedere dalla signora Franca.
Appoggiò una mano sul volto e continuò ad ascoltare. Era proprio
curioso di vedere come quel tizio se la sarebbe cavata.
– Ma la magia – continuò solenne l’uomo – ... la magia non funziona
a richiesta. Questo succede nelle fiabe, non nella realtà. Voi pensate
che arriva la fata turchina e vi porta a casa soldi, amore e lavoro. E
poi ci dovete credere voi per primi e dovete aiutarla, non remare contro di lei. Se mi chiamate per vedere se imbroglio o se dico la verità,
vuol dire che voi per primi non credete a quello che vi dirò. E allora
come potete pretendere che si avveri? Ciò che mi è successo stasera
ha del vergognoso. Sono indignato, signori, e non ve lo nascondo. Vi
ricordo che vengo in televisione gratis e vi rendo consulenze senza
chiedervi un centesimo. E vi ho sempre detto che per tv i consulti
hanno una efficacia molto limitata. Per un’analisi seria ed esaustiva
dovete contattarmi allo studio, in via Pigafetta al numero dodici. Io
sono stato onesto con voi, signori, e mi aspetto la stessa onestà.
Invece voi mi rispondete così, mi chiamate per rimproverarmi e mi
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fate perdere tempo, a danno di quelli che si mettono in coda e non
avranno oggi il loro consulto per colpa vostra. Solo per rimproverarmi
di una cosa che non si è avverata. Bene, allora io chiedo a questa
signora che mi ha chiamato e che poi ha buttato giù il telefono senza
neppure avere il coraggio di discutere con me, io le chiedo: quanto si
è impegnata, lei, per trovare un lavoro? Ha davvero pensato che qualcuno potesse bussare alla sua porta e farle una bella offerta, di quelle
che non si possono rifiutare, e farla proprio a lei in mezzo a milioni di
persone, senza che lei si desse da fare neppure un po’, eh?
– Ha proprio ragione, sa – disse la signora Franca agitandosi sulla
sedia – ma guarda la gente com’è strana. Uno cerca di aiutarla e loro
vogliono sempre di più. Le starebbe bene se le facesse un malocchio,
a quell’ingrata…
Rovere era davvero curioso, osservava la donna partecipare tesa e fremente come se quello sullo schermo fosse suo figlio.
– Le piace così tanto questo mago, signora?
– Altroché! E’ bravo, sa? Ci indovina sempre! Cerca di aiutare tutti,
se sente qualcuno in difficoltà gli fa pure un incantesimo lì per lì. E’
un cuore d’oro, e poi è anche bello…
Rovere si sedette su una poltrona all’angolo della stanza. Quel mago
era davvero abile, una parlantina fluida e affabile, sempre una parola
giusta per tutti. Quando al telefono c’era una donna, e succedeva due
volte su tre, sfoderava un sorriso da seduttore che pareva funzionare a
meraviglia. La signora Franca lo adorava e lo esaltava ogni due minuti e lui non faceva che ricordare il suo studio e il suo numero di
telefono, sebbene la scritta in sovrimpressione pulsasse instancabile
come una martellata negli occhi. Si rifugiò per più di un’ora in risposte vaghe e generiche ripetendo che per una consulenza più approfondita sarebbe stato opportuno un incontro dal vivo, ovviamente in via
Pigafetta numero dodici.
Rovere rimase a guardarlo fino al termine, affascinato dalla sua disinvoltura e dalla sua abilità. Chissà quanto riusciva a guadagnare quel
tizio, si chiese mentre si avviava su per le scale. Guardò l’orologio e
si accorse che erano passati settanta minuti. Sufficienti per maturare
un’abbondante porzione di odio nei confronti di quel verme. Eppure
quell’uomo lo aveva tenuto settanta minuti incollato alla poltrona
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spazzando via tutti gli altri pensieri. Ne fu sorpreso fino a congratularsi mentalmente con lui. Poi, mentre apriva la porta della sua stanza
e accendeva la luce, sentì un abbozzo di idea accarezzargli il cervello,
come chiedesse il permesso di farsi avanti. E si accorse che in mezzo
ai suoi pensieri, offuscati dal sonno e dal dolore per la lontananza di
Kun, era stranamente felice di aver fatto la conoscenza del Mago
Edson.
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Il ragazzo afferrò le sbarre del cancello con entrambe le mani,
accennò a scavalcare, poi si fermò ancora una volta per guardare ai
suoi lati. Mossa inutile, perché già da un po’ su quella strada sterrata
e secondaria non passava più nessuno. La notte era al suo picco e il
silenzio che la accompagnava lo spaventava più di mille rumori. Il
leggero scirocco che soffiava dalla mattina aveva inumidito l’aria e
adesso lo faceva sudare come una fontana. O forse era la paura che
serpeggiava sotto la sua pelle. Il vento gli scorreva lungo il collo, gli
strisciava tra la schiena e la camicia e gli dava dei brividi freddi e
fastidiosi. Anche le mani erano bagnate, tanto da non riuscire a stringere bene le barre del cancellone nero che aveva di fronte. Ma ormai
non aveva alternative, doveva farlo per forza. Nel pomeriggio, quando
ci aveva scherzato al bar con i fratelli della setta e se ne era fatto un
vanto, gli era sembrato un giochino, una cosa addirittura stupida da
quanto era elementare. Ora aveva cambiato idea ma era troppo tardi.
Tornare indietro a mani vuote significava perdere. Perdere la vita.
Perché Lucifero non voleva tra i suoi piedi servitori paurosi e sciocchi, uomini spavaldi e coraggiosi solo a parole. Lucifero voleva al suo
servizio uomini sicuri e pronti a qualsiasi cosa. Solo a loro era concesso il premio più alto, ma prima dovevano dimostrare di esserne
degni.
La prova.
Aveva sempre saputo che gli sarebbe toccata, prima o poi, stava scritto a chiare lettere nel patto di iniziazione che aveva stretto con il
Messo e con gli altri membri. Una prova e anche più di una se fosse
risultato necessario. Allora, tanto valeva farla nel migliore dei modi e
togliersi il pensiero. Il colletto della camicia gli sbatteva sul collo e
stringeva, bagnato e fastidioso. Per un attimo ebbe la sensazione terribile che fossero mani umidicce e sanguinolente, le mani di coloro che
difendevano quella terra e non volevano farlo passare. Dovette schiaffeggiarsi per scacciare quel maledetto pensiero, poi decise di partire
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prima che ne arrivasse un altro, magari peggiore.
Appoggiò il piede sulla barra orizzontale del cancello che stava a
circa un metro di altezza e si sollevò. L’agilità non era il suo forte e la
sua pesantezza gli rallentava i movimenti facendolo sbuffare come un
vaporetto. Sapeva che lo stavano guardando, non avrebbe potuto né
fingere né mentire. Doveva scavalcare ed entrare, e quello era il
meno.
Poi veniva il resto: attraversare il mondo dei morti, cercare il suo
morto e fare… e fare quella cosa alla quale ora non voleva proprio
pensare.
Certo che il Messo era un tipo davvero tosto. Lui quelle prove le
aveva superate tutte, almeno così dicevano. Da alcune era stato esentato direttamente da Lucifero una volta che la sua devozione era stata
accertata. Almeno così dicevano anche questo. Ma il Messo era il
Messo mentre lui era l’ultimo arrivato e di strada ne aveva da fare
ancora tanta. Prima di diventare colonnello, scoparsi le migliori donne
della setta e godere dei tributi dei membri avrebbe dovuto sgobbare a
lungo e farsi un numero infinito di prove come quella.
Ma non era un problema, lo avrebbe fatto eccome. Perché lui voleva
diventare il braccio destro del Messo e forse anche di più, forse sostituire il Messo in persona e diventare lui l’unico rappresentante di
Lucifero sulla terra. Niente avrebbe potuto fermarlo, e poi sarebbe
cambiato tutto. Basta derisioni da parte dei ragazzi, basta smorfie di
disgusto da parte delle ragazze. Tutto questo sarebbe presto diventato
un ricordo sbiadito che apparteneva a un’altra persona. Se lo ripeté
ancora una volta, poi allungò una gamba e la portò dall’altra parte
della cancellata. Si fermò a cavalcioni sul cancello. Per riprendere
fiato, si mentì. Il cielo era coperto di nuvole e la luce della luna era
scarsa e a tratti assente.
In un cimitero, senza luna, senza una torcia, con l’aiuto dei soli lumini elettrici per trovare il suo morto.
E portargli via il cuore.
Portò la seconda gamba oltre il cancello e saltò verso terra. Il tonfo
dei suoi stivali neri che battevano sul suolo gli sembrò assordante e
infinito. Dopo che si fu placato, però, fu anche peggio. Il buio e il
silenzio, lacerato solo dal verso di qualche animale, cominciarono a
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torturarlo senza tregua. Si sistemò lo zaino che teneva sulle spalle e
fece cautamente qualche passo. La ghiaia scricchiolava sotto i suoi
stivali e strideva come migliaia di denti serrati a forza.
No, non era terra, erano ossa, ossa del mondo dei morti che si facevano sentire e lo avvertivano che stava oltrepassando la soglia. Stava per
entrare in un luogo che non gli apparteneva.
Smettila con queste cazzate. E’ solo un cimitero. Se c’è un posto dove
non ti può succedere niente, è proprio questo. Nelle mani del Messo e
dei suoi colonnelli sarebbe mille volte peggio.
Quel pensiero gli diede un po’ di forza.
E poi sei un soldato di Lucifero. Cosa mai ti può capitare?
Era stato più volte dentro il cimitero durante l’ultima settimana e
ormai conosceva la zona a memoria. Aveva contato i passi, le tombe, i
lumini, ogni cosa che potesse aiutarlo nell’orientamento, però al buio
era tutta un’altra cosa e per quanto l’avesse messo nel conto comprese
subito che sarebbe stato più difficile di quanto aveva previsto. E poi
non era la strada, il problema. Il problema era quel maledetto…
Il verso di una civetta lo fece sobbalzare e si sentì il cuore in gola.
Guardò in alto e capì che la luna non lo avrebbe aiutato. Era solo e da
solo avrebbe dovuto fare. Quell’idea lo tranquillizzò di nuovo. Era
con la sua mente e soltanto da lì avrebbero potuto nascere le sue
paure. Nessuno mette piede in un cimitero di notte e quanto ai
morti…beh, quelli non si sarebbero mossi dalle loro bare. Così sperava.
Imboccò il vialetto che conduceva alle tombe più recenti e cominciò a
camminare più speditamente. Contò i lumini e quando arrivò a quaranta girò a sinistra. Ancora sessantadue luci, poi sarebbe arrivato.
Strinse le mani sulle bretelle dello zaino e avanzò come un qualunque
turista curioso. Inutile voltarsi a guardare, il buio assorbiva ogni
forma più lontana di tre metri. Ancora un pensiero balordo che gli
attraversò il cervello come un ferro da spiedo.
Potrebbe esserci chiunque accanto a te. Magari c’è un morto che ti
cammina a fianco e non lo sai. Magari c’è uno spettro che ti sta guidando verso la morte. Magari ti aspettano per mangiarti il cuore,
proprio tu che volevi…
Basta, cazzo. Basta così.
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Si impose di pensare al Messo, al Roco, ai colonnelli che lo aspettavano fuori della cancellata con il cuore chiuso nella scatola ermetica
che si era portato dietro. A cosa sarebbe successo allora e a cosa
sarebbe successo, invece, se fosse tornato a mani vuote. Bastò una
spruzzata di quel pensiero e le gambe ripresero a camminare decise e
sicure. Alla sua destra udì il leggero scroscio della fontanina dove le
vedove andavano a riempire d’acqua i vasi dei fiori. Anche quel
suono, così rilassante e familiare alla luce del giorno, aveva adesso
qualcosa di sinistro.
E’ sangue che sgorga. Sangue dei morti.
Cristo, non ci riusciva proprio. La sua mente si metteva a galoppare
come un cavallo imbizzarrito e gli sputava fuori un incubo dietro l’altro. Intanto però era riuscito a raggiungere la tomba e l’odore del
cemento fresco gli confermò che era arrivato. Come accadeva sempre,
le sepolture del pomeriggio venivano terminate la mattina successiva.
Per una notte il morto si doveva accontentare di una sepoltura provvisoria, un semplice strato di mattoni posato sopra la bara e cementato
alla meglio.
Ce l’ha fatta il Roco, ce la puoi fare anche tu. Anzi, sarà il primo che
farai fuori, quel gran pezzo di merda che ti dà sempre gli ordini e ti
deride davanti a tutti.
Posò la sacca a terra ed estrasse una piccozza corta ma robusta e si
preparò a sfondare il muro. Fece luce con l’accendino per dieci
secondi (gli era concesso tre volte al massimo), poi si asciugò con la
maglietta il sudore dalla fronte e dal viso. Aveva il fiatone e il batticuore.
E se si ribellano? Se escono dalle tombe e mi puniscono per questo
affronto?
Il Messo. E il Roco. E la morte.
E se mi ammazzano prima i morti?
Il Messo e il Roco ti ammazzano di sicuro.
Strinse forte il manico della piccozza finché la mano non smise di tremare.
E il potere. La salita verso il potere.
Alzò la piccozza fin dietro la spalla, poi il braccio si fermò ancora.
Le donne. La gloria. Il braccio destro di Lucifero.
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Il colpo partì e subito dopo arrivò il rumore del coccio che si spaccava. Erano mattoni forati, non avrebbero resistito molto ma quel rumore gli sembrò gigantesco. Immaginò che le sue onde si propagassero
di campo in campo, raggiungendo i casolari della campagna, e poi
rimbalzasse per chilometri e arrivasse fino al mare, dove le case avevano le finestre aperte per il gran caldo e dove tutti avrebbero sentito
e si sarebbero domandati cosa fosse quel suono. Chiuse gli occhi,
affondò un altro colpo e sentì un pezzo di muro cedere di schianto
sulla bara. Era quasi fatta. Con la punta della piccozza sondò i bordi
del muro e scoprì che solo la parte inferiore aveva resistito. Concentrò
le forze e accompagnò il colpo con un gemito che sembrava più un
singhiozzo di pianto, poi controllò ancora. Finalmente il muro aveva
ceduto del tutto, anche se una piccola ma agguerrita parte della sua
mente aveva sperato fino all’ultimo che non accadesse.
Respirò avidamente qualche boccata di aria calda e umida e gettò la
piccozza a terra. Il meno era fatto, adesso c’era solo da forzare una
bara e squartare un morto, strappargli via il cuore, posarlo in quella
scatola e uscire da quel posto come fosse un supermercato.
Ti rendi conto di cosa hai accettato di fare? Riesci a capirlo? Capisci
in che merdaio ti sei ficcato?
Le donne. E il coltello del Roco. E il Messo che ordina la tua esecuzione.
La debole fiammella dell’accendino illuminò per qualche secondo il
suo volto madido e i suoi occhi disperati. Il ragazzo cercò di inquadrare la posizione della bara. Il sudore gli colava dal collo e dal naso
direttamente sul coperchio. La bara era chiusa a regola d’arte con
delle viti lunghe come dita. Scardinarla non sarebbe stata una passeggiata. Afferrò il piede di porco e cercò di infilarlo sotto il coperchio.
Fece leva con tutta la sua forza ma la bara gemette appena, lanciò un
leggero scricchiolio ma non si mosse. Cazzo, tutto quel lavoro, il cancello scavalcato, il muro sfondato, per poi fermarsi di fronte a un
pezzo di legno. Provò ancora fino a rimanere senza respiro, spinse sul
piede di porco, ci si appoggiò sopra con tutto il suo peso, chiuse gli
occhi e strinse i denti ma il ferro gli schizzò via e cadde da qualche
parte dentro la buca.
Fu allora che comprese che non ce l’avrebbe mai fatta.
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Morirò.
Quella parola gli rimbombò nel cervello. Sentiva il panico cominciare
a circolare tra le sue vene, tra poco lo avrebbe assalito al collo, come
il veleno di un serpente, e gli avrebbe impedito di ragionare.
Tanto vale restare qui. Sono fatto. Andato. Fottuto per sempre.
Eppure il morto era lì sotto che lo aspettava. Si sarebbe fatto strappare
il cuore senza dire a. Se solo quel maledetto coperchio…
Si voltò di scatto e si mise a cercare a tentoni il suo zaino, quando lo trovò
ne estrasse un’ascia dalla lama larga e potente. Doveva servirgli per aprire
la cassa toracica del morto, ma forse gli sarebbe stata utile anche prima.
Scese con i piedi dentro la buca e registrò la posizione della bara a tentoni.
Alzò l’ascia al cielo e la scaraventò sul coperchio con forza. Rimbalzò sul
legno come se fosse di gomma e gli sfuggì dalle mani. Non riusciva a crederci: un colpo di quella potenza e la bara neppure lo aveva sentito.
Sarebbe stata una faccenda lunga e di tempo non ce n’era più. Afferrò di
nuovo l’ascia, ansimante e madido, e colpì ancora la bara, attento a mantenere la lama verticale. Stavolta penetrò nel legno ed estrarla fu ancora più
difficile. Al tatto scoprì che aveva ottenuto quasi niente, uno squarcio di
pochi centimetri dal quale non passava neppure un dito.
Lucifero, aiutami tu. Lucifero, dammi la forza.
Cominciò a pestare sul coperchio con tutta l’energia che gli era rimasta. Ormai non gli importava del rumore, Picchiò ancora e ancora su
quella stronzissima bara finché la parte superiore del coperchio cedette. Era distrutto dalla fatica e la testa gli pesava come un macigno,
invasa da mille pensieri spaventosi e confusi. Ma il morto era finalmente lì, con le braccia distese lungo i fianchi. Il ragazzo appoggiò le
mani sul vestito del cadavere e cominciò a sbottonare la giacca.
Più presto, più presto…
Non aveva la minima idea di come fare. Lo avrebbe aperto con l’ascia, poi, accendino alla mano, avrebbe localizzato il cuore e lo avrebbe strappato via. Al buio, pensava, sarebbe stato più facile.
– Chi c’è là? Fermi!
Si voltò di scatto verso il puntino di luce che si avvicinava dalla sua
sinistra. Così concentrato nel suo lavoro, aveva trascurato ogni forma
di prudenza e se l’era anche presa troppo comoda. Adesso quella luce
si faceva sempre più vicina e attorno a quel bagliore cominciava a
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prendere forma la sagoma di un uomo nero come la notte. Una guardia giurata o forse un vigilante, sta di fatto che adesso cominciava a
essere nei guai sul serio. E poi tutte le uscite si trovavano sul lato del
vigilante. Dalla parte opposta c’era un muraglione impossibile da scalare e dietro di esso c’erano solo fossi e crepacci. Uscire da lì significava quasi certamente morire.
– Fermi, ho una pistola! Non vi muovete!
Il ragazzo si fermò. Tra i suoi pensieri guizzò per un attimo un lampo
di felicità. In un modo o nell’altro, era finita. Non avrebbe dovuto
toccare quel morto e squartargli il torace, non avrebbe dovuto violare
la sua intimità, non sarebbe incorso nella punizione dei morti. Si
sarebbe fatto un po’ di galera e forse sarebbe stato meglio così. Una
volta uscito, gli avrebbe arricchito il curriculum e dato quel prestigio
che adesso non aveva. Come ex carcerato sarebbe stato qualcuno,
avrebbe scalato posizioni e magari avrebbe affiancato i colonnelli del
Messo. Sarebbe stato un marchio del quale nessun altro dentro la setta
si sarebbe potuto vantare.
– Che stai facendo qui? Cristo santo, guarda che casino! Ma che volevi fare, oh!
Il ragazzo non riusciva a vedere nulla oltre quella luce che gli puntava
addosso e lo abbagliava constringendolo a pararsi gli occhi.
– Quanti siete? Rispondi perdio!
– Sono… sono solo. Ci sono soltanto io…
– E che cazzo fai qui a quest’ora? Perché hai sfasciato questa tomba?
Non lo sai che è vietato, eh?
Il ragazzo non rispose. Tenne la mano sugli occhi e cercò di coprire il
suo viso al meglio. Adesso finire in gabbia non gli sembrava più così
attraente. Quello era stato un pensiero stupido e da vigliacchi e lui lo
aveva ricacciato subito indietro. Ma quale galera, nessuno al mondo
poteva spedire un soldato di Lucifero dietro le sbarre. L’uomo diresse
per un attimo il fascio di luce verso terra e illuminò lo zaino e gli
attrezzi da scasso che gli stavano attorno.
– Ma che cazzo cercavi qui, pezzo di imbecille? Dai, vieni con me
che ora chiamiamo i carabinieri e poi lo spieghi a loro. Cammina, dai,
mettiti davanti a me e vai verso l’uscita.
Il ragazzo gli sfilò davanti per obbedire al suo ordine e quando gli fu
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accanto si voltò fulmineo e gli affondò il coltello tra le carni. L’uomo
gemette appena, còlto di sorpresa da un attacco che non si aspettava.
Perse immediatamente la torcia e qualche attimo dopo anche la pistola, cadde in ginocchio mentre il dolore gli si propagava in tutto il
corpo e diventava impossibile capire da dove fosse arrivato. Si afflosciò come una bambola sgonfia, cadde a terra, avvolto nel torpore che
precede la morte e travolto dal pensiero di aver commesso uno stupido errore. Ma il ragazzo era già lontano, perso tra le tombe del cimitero e circondato da un buio pesto che adesso gli impediva anche di
capire dove fosse andato a finire. Si fermò a riprendere fiato e si
accorse che dietro di lui non c’era nessuno. In verità il sorvegliante
non aveva neppure gridato, forse non aveva neppure cominciato a rincorrerlo. Cercò di focalizzare quella pugnalata: sì, l’aveva colpito
bene, aveva sentito il coltello entrare, l’uomo non aveva fatto in
tempo a scansarsi o a parare il colpo, aveva offerto il suo corpo senza
resistenza e la lama era entrata a fondo. Adesso doveva andarsene da
quel posto, vaffanculo la prova. Ma prima doveva recuperare i suoi
attrezzi. La testa gli ronzava come un alveare e si sentiva in mezzo a
un mare di guai: il Messo che lo aspettava con il cuore, il sorvegliante
morto, la polizia che avrebbe cominciato le indagini. E poi i morti.
Aveva commesso un omicidio nella loro terra, aveva oltraggiato la
casa di uno di loro…
Gli ci volle un po’ per ritrovare la strada giusta. Si aiutò con il gocciolio lontano ma inconfondibile della fontana e una volta orientatosi
raggiunse la sua tomba in pochi minuti. La torcia del sorvegliante era
ancora accesa e il suo raggio illuminava gli strumenti che aveva
lasciato per terra. L’uomo aveva la divisa della guardia giurata e il
ragazzo ebbe un nuovo tuffo al cuore. Cazzo, una guardia giurata. Ma
la paura durò poco. Un attimo dopo osservò orgoglioso il suo lavoro.
Lo aveva fatto fuori con una pugnalata sola, era stato veloce e spietato
proprio come voleva il Messo. Sarebbe entrato nella leggenda come
uno dei più tosti dentro la setta. Non erano tanti quelli che potevano
vantare un morto a diciannove anni. E questo era anche meglio della
prova. Una dimostrazione di palle che poteva raccontare solo lui.
Prese la torcia da terra e illuminò il viso dell’uomo ma si pentì subito:
il sangue gli colava dalla bocca in un rivolo che gli solcava la guancia
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e finiva a terra. Respirava ancora. Non ne aveva per molto, ma era
ancora vivo.
– A… aiu…aiu…
– Crepa, stronzo. Potevi lasciarmi stare e tutto finiva bene. Invece hai
fatto l’eroe e ora so’ cazzi tuoi.
Gli passò attorno raccattando a uno a uno i suoi strumenti. Li infilò
con foga dentro la sacca ma, nonostante si sforzasse di evitarlo, il suo
sguardo cadeva sempre più spesso sulla guardia. Forse avrebbe potuto
salvarlo e gli avrebbero concesso un bel po’ di attenuanti. Non avrebbe avuto un cadavere sulla coscienza e con qualche annetto se la
sarebbe cavata. Se invece fosse morto…
Peggio per lui. Prima di mandarmi in galera devono prendermi. E
non mi prenderanno.
Poi illuminò per un attimo la tomba che aveva appena distrutto. La
bara gli si parò davanti, ancora intatta quasi per metà e più ermetica
di quanto non avesse previsto. Una fatica bestia e quella era appena
scalfita. Era stata la causa principale del suo fallimento, quella maledetta bara. Si asciugò la fronte e si legò la sacca alle spalle. Spense la
torcia e si incamminò verso l’uscita. Non lo sapeva e comunque non
gli interessava, ma quando spense la luce e si avviò verso l’uscita
senza voltarsi, l’uomo era appena spirato.
La strada oltre il cancello di uscita era ancora deserta e scarsamente
illuminata. Diede una rapida occhiata attorno, poi scavalcò, stavolta
senza esitazione. Non vedeva l’ora di uscire da quel posto maledetto e
di raccontare agli altri come aveva steso quello sbirro rompicoglioni
che lo voleva fermare, di come non aveva tremato di fronte a quella
pistola e non aveva perso la calma, di come era rimasto freddo e tranquillo ad aspettare la sua occasione. Immaginava il Messo e i colonnelli intenti ad ascoltare a bocca aperta la sua storia, stupiti e ammirati per come quella recluta aveva superato la prova senza battere ciglio.
Li immaginava mentre si rimangiavano le loro parole e ammettevano
finalmente di essersi sbagliati sul suo conto, di averlo giudicato male,
di non aver capito che lui faceva sul serio, che per lui entrare negli
adoratori di Lucifero non era solo un modo per farsi le ragazze o per
passare il tempo. Lui in quei comandamenti ci credeva davvero e li
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avrebbe applicati e rispettati tutti fino alla morte. Lui era un adoratore
vero, non come quelli che, loro sì, utilizzavano la setta per gli affari
propri…
In lontananza due fari abbaglianti esplosero tre volte nel buio. Il
ragazzo sorrise: i suoi amici lo stavano aspettando proprio come avevano concordato prima di cominciare. E tutto intorno proprio nessuno. Meglio così, senza testimoni in giro sarebbe bastato negare tutto.
Quando fu nei pressi dell’auto gli sportelli si aprirono all’unisono e
gli occupanti scesero rapidamente.
– Dai, monta, sbrigati!
– Ragazzi, che casino, non vi immaginate neppure…
– Che cazzo è successo? Quando è arrivata la guardia noi siamo scappati. Ti ha beccato?
– Sì.
– Sì! Cazzo! E ora?
– E ora niente. L’ho steso.
– L’hai… steso?
– L’ho ammazzato. Quello mi ha puntato la pistola addosso e me l’ha
attaccata alla fronte. Voleva ammazzarmi come un cane, me l’ha
anche detto: adesso ti ammazzo come un cane. Poi si è distratto un
attimo e gli ho infilato il coltello in pancia.
– E’ morto?
– Sì, è morto.
– Sei sicuro?
– Proprio sicuro al cento per cento, no, però…
– Però un cazzo, stupido idiota che non sei altro! Quello ti ha visto!
– Stava morendo… insomma, quando sono tornato a prendere la mia
roba era già quasi andato… se fino a domattina nessuno lo soccorre,
quello muore sicuro…
Il Roco, seduto davanti, fece un rapido cenno all’autista e l’auto partì.
Un paio di chilometri più tardi, mentre il ragazzo continuava a raccontare la sua storia, ogni volta condita con nuovi particolari, l’auto
imboccò una stradina sterrata e buia.
– E allora sono tornato indietro a prendere i miei attrezzi e l’ho visto
che stava… oh, ma dove stiamo andando? Questa non è la strada
che…
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– Andiamo dal Messo. Lui ti vuole parlare.
– Giusto, mi sembra logico. Allora, dicevo, l’ho visto che stava
morendo e ho illuminato il coltello: era proprio piantato nella schiena.
– Prima hai detto nella pancia.
– Vabbè, pancia, schiena, fa poca differenza. Insomma, gliel’ho piantato dentro e l’ho accoppato.
– E l’hai ripreso?
– Cosa?
– Il coltello. L’hai ripreso?
– Cazzo… no.
– Bravo genio. Così adesso hanno le tue impronte, a meno che non ci
pensiamo noi a tornare indietro e farlo sparire.
– No, no, posso farlo, io: portatemi là e…
– No, tu ti fermi qui.
Il Roco fece un altro cenno e l’autista bloccò l’auto.
– Qui? E perché?
– Perché devi farci vedere il cuore. Avanti, scendi dalla macchina e
faccelo vedere.
– Io… non ce l’ho, il cuore. Cazzo, Roco, ma come facevo a prendergli il cuore? Quello mi ha beccato, mi ha puntato la pistola contro e
io…
– Apri la sacca.
– Roco, non ce l’ho, davvero, non ce l’ho…
– Non è che vuoi tenertelo tutto per te, eh?
– No, io non ce l’ho davvero, come facevo? Però ho steso uno sbirro,
non è mica robetta, eh? Che ti sembra, eh? Uno sbirro steso a diciannove anni non è mica…
– Ma insomma, il cuore non ce l’hai?
– No, io…
– Dunque la prova l’hai fallita…
– Ma no! E’ arrivato quello e io ho dovuto…
– E’ quella la prova, imbecille. Strappare il cuore a un morto è una
cazzata che sanno fare anche i bambini. Ma farlo con uno che ti sorveglia… quella è una prova. O no?
– Ma… io da lì dovevo scappare… dovevo, capisci?
– Dovevi? E perché?
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– Perché?… perché ho ammazzato uno! Ecco perché!
– Lo sai cosa succede a chi fallisce la prova. Lo sai, vero?
– Ma… ma non è fallita… non è… dai, Roco, non scherzare.
Fatemene fare un’altra, un’altra e non vi deluderò, davvero, lo giuro!
– Il cuore. L’unico modo per salvarti è il cuore. E io non lo vedo.
Il Roco fece un cenno agli altri tre. Gli furono addosso velocemente e
lo tennero fermo. Il Roco estrasse dalla tasca un coltello dalla lama
lunga almeno un palmo. Scintillò, sotto la luce artificiale della torcia,
e il Roco sorrise, allargò la bocca e sorrise più che poté, poi si avvicinò al ragazzo.
– Roco… ti scongiuro Roco ti prego ti supplico Roco no! Noooo!
Rocoooo!
Il suo urlo gonfio di disperazione si perse tra le fronde scure e sterminate della macchia.
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Il rapporto dettagliato dell’anatomopatologo gli aveva permesso di
dare un minimo di ordine alle ultime ore di vita di Ettore Boni.
Rovere lo aveva letto attentamente per tre volte sperando che qualche
particolare potesse accendergli un’intuizione. Il ragazzo era stato picchiato in maniera brutale. Gli avevano rotto tre costole e lo avevano
imbottito di calci e pugni in ogni parte del corpo. Probabilmente
aveva perso conoscenza, probabilmente più di una volta. Ma quando
lo avevano issato sul ramo dell’albero per dare il via a quella macabra
festicciola con la frusta era ancora vivo. Quanto aveva resistito dipendeva da quanto il Padreterno aveva deciso di farlo patire. Questa era
la sostanza del referto. Era morto per il dolore lancinante, un dolore
che gli dilaniava le carni e gli aveva certamente fatto desiderare di
andarsene presto. Rovere immaginò la scena, quel gruppo di assassini
che si dava il cambio alla frusta e si gustava le grida di disperazione e
supplica lanciate dal ragazzo. Gli era già capitato di indagare su situazioni simili, dove la morte veniva centellinata con attenzione e con
gusto. Un assassino esaltato dalle sofferenze della vittima. Una psiche
squilibrata che spesso veniva da un’infanzia disastrosa e terribile. Ma
qui era diverso, c’era di più, e al tempo stesso di meno. Il referto della
scientifica, per esempio, era davvero povero di informazioni. Niente
impronte, niente tracce di scarpe, niente oggetti o materiali su cui
puntare l’attenzione. La pioggia della notte e il passaggio di qualche
animale avevano poi reso ancora più difficile il lavoro di ricerca.
Difficile anche solo stabilire il numero dei presenti. Si poteva solo
procedere per ipotesi e, come aveva fatto Fiorentini nella prima analisi, andare per esclusione. Erano molti, aveva detto il responsabile dell’unità scientifica, e probabilmente aveva ragione. Era davvero azzardato pensare che uno solo potesse conciarlo in quel modo. Ancora più
difficile che da solo avesse potuto sistemarlo come aveva fatto e per
giunta mentre il ragazzo era ancora vivo. Questo escludeva l’opera di
un professionista, che solitamente agisce da solo. E poi era una forma
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di omicidio troppo appariscente. Dunque escludeva anche l’ipotesi di
un lavoro su commissione. Più probabile invece una ritorsione collettiva di un gruppo che voleva vendicarsi di uno di loro, o forse di un
loro avversario. O magari di uno che ne aveva fatto parte e sapeva
troppo. Il brutale strappo della lingua e degli occhi rafforzava proprio
quella versione. Il referto aveva messo in luce il fatto che Ettore all’ora di pranzo non aveva mangiato nulla. La cosa era piuttosto inconsueta per un ragazzo di vent’anni. I genitori avevano confermato che
era stato fuori di casa tutta la giornata. Cos’era così urgente o importante da impedirgli di mangiare per tutta la giornata? Erano poche
informazioni, ma già indicavano comunque qualche strada da battere.
Soprattutto confermavano che negli ultimi tempi Ettore Boni si era
trasformato in un soggetto misterioso che nessuno conosceva più.
Stava lì, racchiusa in questo mistero, la risposta alla sua morte: che
cosa era diventato Boni? Chi frequentava? Quali erano i suoi pensieri,
i suoi progetti? Dentro quel cerchio tutto personale galleggiava la
risposta che Rovere stava cercando.
Per questo (anche per questo) aveva voluto i disegni di Ettore Boni.
Voleva conoscerlo, voleva comprenderlo più di quanto erano riusciti a
fare la sua ragazza e la sua famiglia. Entra nel mondo di Ettore Boni,
si disse, ed entrerai nelle case dei suoi assassini.
Rovere scelse la fotocopiatrice che stava nel corridoio del secondo
piano: era più isolata delle altre e non c’era quasi mai nessuno. Meno
curiosi a osservarlo mentre copiava quegli strani disegni. Posò la cartellina su un tavolo ed estrasse i disegni di Ettore Boni. Sentì le dita
formicolare mentre li sfogliava e li osservava con avidità, ogni volta
come se fosse la prima. Il loro realismo, così crudo e vivo, lo catturava e inchiodava i suoi occhi su quelle tavole. Le scene, le situazioni,
gli ambienti raffigurati erano assolutamente coinvolgenti. Ogni volta
che si abbandonava alla loro osservazione scopriva qualcosa di nuovo,
particolari ed elementi che svelavano l’abilità di un disegnatore che
avrebbe avuto un grande futuro. Ma non c’era solo quello, non c’era
soltanto una tecnica sopraffina e una mano leggera e sicura: quei disegni andavano oltre. La ricchezza di particolari, la profondità degli
ambienti, gli oggetti e le persone al posto giusto. Era tutto così perfet-
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to. Era tutto troppo reale perché non fosse vero.
Quelle non erano scene inventate, Boni c’era stato e le aveva raccontate con il migliore strumento che aveva, il suo disegno. Se avessero o
meno un nesso con la sua morte, questo era ancora da scoprire ma
Rovere non aveva troppi dubbi. Quella era la strada giusta e su quella
avrebbe lavorato.
Rientrò rapidamente nella sua stanza con le fotocopie in mano, le
infilò nel vassoio del fax, compose il numero e attese il fischio dell’apparecchio. In un foglio a parte aveva scritto a pennarello il suo
numero diretto di telefono. Non si era neppure firmato, tanto quella
volpe di Pertica lo avrebbe riconosciuto al volo. L’ultimo foglio scese
lungo il vassoio e passò dentro la macchina, subito dopo uscì la stampa del rapporto di invio.
Strappò i fogli fino a renderli illeggibili e li gettò nel cestino, poi si
sedette alla scrivania e prese a leggere i suoi appunti ma non durò
molto. Dopo qualche minuto non fu più capace di concentrarsi su
nulla. Allora raggruppò gli appunti in un angolo della scrivania e
incollò gli occhi sul telefono. E attese.
Ludovico Pertica, cinquecento chilometri più a nord, si sedette,
appoggiò la schiena alla poltrona in pelle nera e si immerse in quei
disegni. Digrignava i denti, a bocca chiusa, e le sue mascelle si muovevano nervosamente attraverso il filo di barba bianca che ornava le
sue guance. Le narici del suo lungo naso aquilino fremevano impercettibilmente, come se stesse provando a fiutare la pista. Era il suo
classico modo di ruminare sui dati che aveva davanti agli occhi, ma
con il tempo molti dei suoi colleghi si erano convinti che fosse proprio così: quell’uomo aveva una capacità intuitiva che non si acquisiva in nessuna scuola del mondo.
Rovere aveva per Pertica una vera e propria adorazione e certo non a
sproposito. Erano in molti a riconoscerne qualità investigatorie e doti
di intuizione decisamente sopra la media. Sembrava nato per l’indagine ed era dotato di un fiuto di quelli che nessuna scuola può insegnare.
La sua tenacia e la sua intelligenza avevano fatto il resto trasformandolo in uno degli investigatori più validi d’Europa. Adesso poi, a
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meno di un anno dalla pensione, poteva anche vantare un bagaglio di
esperienze senza pari. Rovere aveva imparato alla sua scuola e gli
doveva tutti i segreti del mestiere. Pertica era stato il suo mentore e si
era dedicato al suo addestramento senza riserve. Aveva speso tempo
ed energie, anche e soprattutto fuori dal lavoro, per farne ‘un ispettore
come si deve’. Gli aveva scaricato addosso una montagna di conoscenze facendolo sentire un privilegiato, perché nessun altro aveva
goduto così tanto dei suoi favori. Con il tempo erano diventati amici,
anche se la differenza di età e di stili di vita li portava piuttosto raramente a condividere più di qualche ora assieme. Dopo quindici anni
di lavoro fianco a fianco, Pertica riusciva ancora a sorprenderlo.
Sembrava un pozzo senza fondo: ogni volta che Rovere si era convinto di aver imparato tutto, di aver assaggiato ogni sfumatura dei suoi
pensieri, che finalmente le sue risorse avessero toccato il fondo, ecco
che lui se ne usciva con la citazione di un caso di tanti anni prima o
con un’intuizione improvvisa che gli regalava la soluzione del caso.
Rovere ne era stato affascinato sin dal primo incontro e Pertica lo
aveva sempre considerato l’unico degno dei suoi insegnamenti. Erano
i fatti a dimostrarlo: Pertica non negava a nessuno il suo sapere ma
soltanto con Rovere si era perso in esempi, in riflessioni, in analisi
che con altri aveva sempre considerato una perdita di tempo.
Rovere scorse sul display il prefisso zero due di Milano e sentì un
groppo alla gola. Lo lasciò squillare ancora un paio di volte, aspettando che quell’eternità passasse, poi alzò il ricevitore.
– Sì?
– Vecchio bisonte, allora?... come va nella tua terra?
– Ludovico! Come stai?
– Male, come vuoi che stia. Invecchio, il mio allievo mi ha lasciato e
quassù fa un caldo della Madonna. L’aria è irrespirabile e il lavoro,
ossia i morti, aumenta ogni giorno. A parte tutto questo, non me la
passo malaccio. E tu che mi dici?
– Mah, per la verità ancora non lo so. E’ come se fosse tutto… finto.
Mi sento come in mezzo a un fiume. Era la mia terra ma non lo è più.
Non conosco più nessuno qui, e le cose sono cambiate un bel po’. Più
di quanto mi aspettavo.
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– Non in meglio, immagino…
– Ovviamente. Ma in qualche modo me la caverò. Rispetto a Milano,
resta pur sempre una specie di villeggiatura.
– Io lo chiamerei uno spreco. Lo spreco di un’intelligenza svilita e
inutilizzata.
– Ah, ne abbiamo parlato anche troppo, Ludo, e tanto nessuno ci può
fare niente. E poi, a giudicare da quello che mi si è presentato dopo
appena quattro giorni, “inutilizzata” non direi proprio.
– Sai bene cosa intendo, non mi riferisco a questo singolo caso. Uno
come te quassù ne poteva risolvere decine all’anno, là te ne capiteranno una decina in tutta la carriera. E’ una scempiaggine, ecco cos’è…
– Tranquillo, in qualche modo ci rifaremo. Magari cominciando da
questo. Ti chiedo scusa per averti coinvolto, ma non ne posso fare a
meno. E non succederà più, giuro.
– Suvvia, Matteo, non mi dirai che non sai come affrontare una roba
simile…
– Sono in un momentaccio, Ludo. Ho dovuto lasciare Milano dopo
anni di sforzi per imparare a viverci, avevo una storia con una tipa
che è destinata a finire per forza e mi ritrovo in questo mondo che
non conosco più. Sono stanco e sfiduciato e questo caso è diventato
una cosa troppo importante perché non lo risolva presto e bene. Mi
darebbe una bella iniezione di fiducia, un po’ di forza... capisci? Tu lo
sai come ci si sente quando si becca un bastardo.
– Puoi contarci, che lo so. Quando senti l’adrenalina che ti scoperchia
le vene.
– E poi c’è l’impatto con i nuovi colleghi, sai com’è…
– Eh, com’è. La stima, l’autorevolezza, il prestigio. Se parti bene,
campi di rendita, sennò…
– Sennò ti prendi la nomea dell’idiota incompetente e non te la scrolli
più di dosso.
– Chiarissimo. Dunque hai chiamato papà per avere una mano.
– Anche tutte e due, se puoi.
– Be’, probabilmente non ti dirò nulla che tu non abbia già scoperto.
Il fatto è che tu Milano te la sei già buttata dietro le spalle, prima e
meglio di quanto pensi.
– In che senso?
91
– Nel senso che a Milano una scena del genere l’avresti già inquadrata. E’ un po’ insolita ma non è così strana, no?
– Non ti seguo…
– Voglio dire che magari per Grosseto è una cosa inedita e tu l’hai
scartata a priori. Ricordi il caso dei Servi di Satana? Era il novantaquattro, se non sbaglio…
– Novantatre.
– Sì, novantatre, giusto. Non mi dirai che non ti è venuto in mente…
– Me ne sono venuti in mente a decine, Ludo. Di ogni tipo e di ogni
genere, me li ripasso di continuo. Ma quello dei Servi, francamente…
– Be’, è la copia. Non proprio identica, ma le analogie sono davvero
tante. L’unica differenza, è il luogo del crimine. Evidentemente i satanismi si stanno allargando alle province.
– Cazzo, dai…
– Lo sai che su queste cose non scherzo. Quei disegni li hai certo
guardati meglio di me. Alcuni sono una semplice manifestazione di
amore o di adorazione per Satana, ma un paio…
– Un paio cosa?
– Un paio sono messe. Messe nere. E non dirmi che non c’eri arrivato
perché allora ti rinnego. Vuol dire che ho buttato quindici anni a parlare al muro!
Certo che ci era arrivato. Solo che la sua mente non voleva saperne.
Che un segno così chiaro dei guasti sociali sulle nuove generazioni
potesse aver messo piede anche nella terra della sua adolescenza, era
inaccettabile. Di più, impossibile da concepire. E infatti la sua mente
si era rifiutata di concepirlo. Si passò una mano sulla barba, poi incastrò la cornetta tra la spalla e l’orecchio e aprì la cartellina dei disegni. Adesso Pertica era un fiume in piena.
– Guarda come lo hanno ammazzato, è chiaro come il sole. Faceva
parte della setta e lo voleva dire a qualcuno, o forse lo ha detto a
qualcuno. La seconda ipotesi sarebbe più utile, vorrebbe dire che
qualcuno fuori dalla cerchia sa qualcosa e ti basterebbe scovarlo. Ma
non ci contare troppo, sarebbe troppo bello e di solito arrivano sempre
prima i cattivi. La fustigazione, capisci. Una punizione di carattere
biblico, come la lapidazione. E’ una cosa che si fa ai rinnegati, a chi
non si riconosce più in…
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– Cazzo. Una setta satanica. A Grosseto…
– Non ti stupire troppo, Mat. E’ la globalizzazione, bellezza. E la
merda arriva sempre prima del resto. Anzi, a volte arriva solo la
merda e il resto non arriva mai.
Era un colpo di quelli tosti e fu come sentirlo sparato proprio in pieno
petto. Era come se nelle metropoli fosse possibile accettare il peggio,
mentre nei piccoli paesi, nei borghi medievali e nelle verdi e profumate campagne il genere umano non potesse arrivare a deviazioni
della psiche così profonde. Era una stupidaggine pensare una cosa
simile, lo sapeva bene lui per primo, eppure tante volte, di fronte agli
omicidi più efferati, nella sua mente era scattato una specie di antifurto mentale che lo rassicurava e gli raccontava che quella era Milano,
solo Milano, e che il resto del mondo non era così. Che nella sua terra
non sarebbe mai successo. Poi lo leggeva sui giornali, sui rapporti che
giravano nell’ambiente, nei bollettini che questure e centrali si scambiavano, e si accorgeva che stava accadendo anche nelle amene e tranquille località di provincia, ma non era la stessa cosa. Non era come
viverlo.
Adesso gli arrivava addosso come un cazzotto. In quel momento comprese che per qualche giorno si era come rifiutato di fare il suo lavoro
sul serio. Aveva cercato le risposte più lontane e improbabili, saltando
a pie’ pari una pista che uno come lui avrebbe dovuto fiutare al volo e
sulla quale, a Milano, avrebbe già lavorato da un pezzo.
– Matteo. Ci sei ancora?
– Sì, sì. Solo che…
– Solo che adesso è giorno anche per te. Trova quegli stronzi e fagli
un culo come un palazzo. Finché giocano a farsi le pippe con Belzebù
è un conto, sono anche simpatici. Ma quando cominciano ad ammazzare, il gioco finisce. E dopo, lo sai, non si fermano più. Sarà sempre
peggio. Ma generalmente non sono criminali di professione, lasciano
tracce grossolane e si fanno prendere dal panico. Una volta che sei
sulla loro pista, è solo questione di tempo. La cosa più difficile sarà
gestire la stampa. Una notizia del genere, in un posto come quello, li
manderà a nozze. Diventerà un gioco a chi le spara più grosse.
– ... sai che novità. Almeno in questo, tutto il mondo è paese.
– C’è solo un’altra cosa...
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– Ti ascolto.
– E’ un particolare della morte del ragazzo: il referto medico indica
che ci sono state percosse, colpi violenti alla testa e alle costole. Lo
hanno pestato. Anzi, prima lo hanno pestato e solo più tardi lo hanno
fustigato fino a farlo morire.
– Esatto.
– Non lo trovo sensato. Mettere in piedi un baraccone del genere per
ammazzare qualcuno non ha proprio senso.
– Forse in principio volevano solo picchiarlo e solo più tardi hanno
deciso di ammazzarlo. O forse la cosa gli è sfuggita di mano.
– Possibile, ma se aveva parlato o stava per parlare, un pestaggio non
aveva senso. Era più logico ucciderlo subito e nascondere il cadavere.
Più sicuro, capisci?
– Non credo che questa gente abbia una qualche capacità di valutare i
rischi.
– Be’, almeno in linea di massima devi concederglielo. Come in tutte
le cricche, ci sarà qualche testa un po’ più fina che pensa anche per
gli altri. E se c’è, sa bene che non si può giocare per ore con qualcuno
prima di ammazzarlo. E poi: vuoi mettere quanto è più gustoso uccidere qualcuno lasciandolo cosciente di ciò che sta accadendo? Fargli
comprendere che va a morire per qualcosa che non doveva fare, fargli
assaggiare la ricompensa per aver infranto le regole. Invece quando
l’hanno messo sull’albero forse aveva addirittura perso conoscenza.
No, non mi convince proprio.
Rovere si ripromise di pensarci seriamente. Le uscite di Pertica, anche
quelle più scomode, non erano mai dovute a un capriccio. La ricostruzione di un omicidio doveva quadrare al cento per cento. Se quadrava
solo al novantanove non era abbastanza. Era stato uno dei suoi principali insegnamenti: per mandare qualcuno in galera, devi essere disposto a giocarti la vita sulla sua colpevolezza.
– Ludo, non so come ringraziarti.
– Potresti tornartene su, te l’ho già detto che l’offerta di lavoro cresce
ora dopo ora. Ma siccome questo non lo puoi fare, acchiappa quegli
stronzi prima che puoi e non citare il vecchio Pertica nella conferenza
stampa.
– Questo sì che posso farlo.
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– E allora fallo. E se ti serve ancora una mano, eccomi qua.
– Grazie ancora, Ludo. Giuro che appena posso vengo a trovarti.
– Appena puoi. Cioè mai.
– Pressappoco.
– Goditi almeno il sole e il mare. E non scordare le donne.
– Già scordate da un pezzo, maestro.
– Ciao, Matteo, stammi bene.
– Anche tu. Grazie ancora.
Rimase qualche attimo ad ascoltare il suono muto del telefono mentre
l’occhio gli cadeva nuovamente su quei disegni e la sua mente lo ricopriva di insulti per averci dormito sopra. Certo che c’era arrivato, alle
messe nere. A una di queste era anche sicuro di aver partecipato. E
ciò che lo preoccupava davvero era quel desiderio che sentiva ribollirgli dentro.
Il desiderio di farlo ancora.
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12
L’uomo era piuttosto anziano, salire quella rampa per lui era una fatica bestiale. Ciò nonostante teneva duro e continuava ad aggredire la
scalinata, deciso ad arrivare in cima anche a costo della vita. Giunto
sul pianerottolo incrociò una signora che stava appena uscendo dall’appartamento e non fu neppure costretto a suonare. Entrò timidamente guardandosi attorno. La sala d’attesa era vuota e ne fu felice.
Significava che sarebbe toccato subito a lui. Si sedette a riprendere
fiato ma sentiva il cuore fremere di impazienza. Chissà quanto era
dovuto alle scale e quanto, invece, alla pazza voglia di essere ricevuto
dal maestro.
Non dovette attendere molto: un istante più tardi Simone Cranza si
affacciò nella sala d’attesa del suo studio e il suo volto si fece radioso.
– Buongiorno, signor Rizzi. Come va?
– Eh, come vuole che vada, come al solito. Si riscuote la pensione e
poi si viene qua, puntuali come un orologio…
Sì, puntuale come al solito. Al terzo giorno di ogni mese Guglielmo
Rizzi riscuoteva la sua pensione e poi via di corsa allo studio del
Mago Edson. Usciva da quello studio più o meno una mezz’ora più
tardi e tre quarti della sua pensione se n’erano andati, ma lui era felice così. Gli dispiaceva solo di non averne abbastanza e di dover aspettare tutto un mese prima di vivere ancora quell’esperienza.
E Simone Cranza, che con venti minuti di lavoro si metteva in tasca
500 euro alla faccia del signor Rizzi e del fisco, era ancora più soddisfatto. Adesso però l’uomo era nervoso e impaziente, batteva un piede
sul pavimento e non vedeva l’ora di entrare nella stanza magica.
Edson lo accontentò subito.
– Prego signor Rizzi, mi segua.
L’uomo non disse nulla, si alzò e seguì Edson nell’altra stanza. Poi si
sedette e appoggiò i suoi soldi sul tavolo. Cinquecento come al solito,
cinquecento euro per parlare almeno quindici minuti con la moglie e
la figlia. Erano morte dieci anni prima in uno spaventoso incidente
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stradale dal quale il destino aveva invece voluto salvare proprio lui.
– Molto bene – disse Edson accompagnando le sue parole con un sorriso da squalo buono.
– Però, maestro, le volevo chiedere se… insomma… se in qualche
modo potrebbe venirmi un po’ incontro…
– In che senso, scusi?
– Perché… io… lo vede, tutti i mesi sono da lei con tutti i soldi che
mi danno e…
– Non sono io che la costringo – lo interruppe Edson con un tono
pacato, ma deciso.
Aveva compreso da subito dove l’uomo voleva andare a parare.
Succedeva sempre, prima o poi, bastava capirlo per tempo e rispondere nel modo giusto e quella scena non si sarebbe ripetuta mai più.
Decise di fronteggiarlo vestendosi da vittima.
– Io sono… mi sembra di essere un buon cliente – continuò l’uomo –
vengo puntuale, pago sempre, insomma, se mi facesse uno sconticino,
io le sarei grato…
Gli occhi di Edson brillarono come due fiammate. Trattenne il respiro
qualche istante e attese che la calma spegnesse la sua ira come un’onda del mare che inghiottiva un falò sulla spiaggia. Accese un paio di
candele e aprì lentamente il libro delle formule magiche.
– Signor Rizzi, le faccio una domanda. Quando lei esce da questo studio è soddisfatto?
– Certo che sono soddisfatto – rispose l’uomo – lei mi ha dato una
gioia senza precedenti. E quando ci siamo visti per la prima volta non
avrei mai creduto che potesse…
– Dunque è contento?
– Sì... però il prezzo, maestro, è il prezzo che mi sta…
– Si ricorda cosa mi disse la prima volta che ci vedemmo?
– … no, non mi ricordo.
– Glielo dico io: entrò in questa stanza e io vidi davanti a me un
uomo distrutto che si teneva in piedi a stento e che non credeva più in
niente. Era disilluso e stanco. “Ho ricevuto un sacco di promesse, mi
disse, ma neppure un risultato. Solo tante chiacchiere”.
– E’ vero, le dissi così.
– Mi disse anche un’altra cosa, si ricorda?
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– No, mi aiuti lei.
– Mi disse: “Darei qualunque cosa per parlare con mia moglie e mia
figlia”. Qualunque cosa, ricorda? Bene, io le ho dimostrato di essere
la persona giusta per lei, è così?
– E’ vero.
– Però adesso mi viene a dire che non le interessa più così tanto come
aveva dichiarato. Cos’è, si è tolto lo sfizio e adesso le è passata la
voglia?
– Ma no, cosa dice…
– Non sono io a dirlo, è lei. E’ lei che si mette a mercanteggiare su
queste cose come se… o Dio mio. O Dio mio, che…
Edson scosse la testa, sconsolato e amareggiato come se le sue orecchie avessero appena ascoltato la più orribile delle frasi. Il suo volto
era quello di un uomo torturato dal dolore.
– Io non intendevo questo, maestro, io volevo solo chiedere se…
– Lo sa cosa succede quando io entro in contatto con i suoi cari? Ne
ha una mezza idea?
Adesso il tono del mago era freddo e secco come una fucilata.
– No, io… non lo so…
– Provo a spiegarglielo. Ma le assicuro che le parole non bastano a
rendere l’idea. Non possono bastare.
Edson si fermò e cominciò a guardare le pareti della stanza in cerca
dell’ispirazione. Spiegare quello straordinario e spossante fenomeno
medianico doveva essere davvero difficile.
– Quando io entro in contatto con i suoi cari, loro mi afferrano e mi
fanno entrare nel loro mondo. Mi risucchiano dentro. Ma non è una
cosa semplice perché io non sono uno di loro, capisce? Non è come
entrare in un paese straniero, non è come aprire una porta e salire le
scale: io devo entrare in una dimensione diversa... loro dicono che mi
proteggeranno, ma io, mentre oltrepasso quelle barriere, non posso
fare a meno di chiedermi: e se non bastasse? E se qualche essenza più
forte di loro decidesse di annientarmi? E se stavolta ci fosse un
imprevisto e le porte del ritorno non dovessero più aprirsi?
L’uomo ascoltava allibito e ogni tanto sgranava gli occhi. A questi
particolari non aveva mai pensato. Non credeva davvero che potesse
essere così pericoloso.
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– Loro mi usano per parlare con lei, mi utilizzano come un ponte e
per me è uno sforzo terribile, una fatica tremenda. Lo sa che dopo
aver servito lei non posso avere altri clienti per tutta la giornata?
– No, io non lo… ma… veramente?
– Certo. E’ grazia di Dio se mi reggo ancora in piedi. Il contatto mi
distrugge. Il mio medico si infuria ogni volta che ne viene a conoscenza ma… ma lo faccio volentieri se questo può dare sollievo e piacere a qualcuno. Se però adesso diventa una questione di vile denaro,
allora… allora non ci sto più, ecco.
L’uomo pareva un cane bastonato: gli mancava perfino l’aria per controbattere. Poi finalmente la sua bocca si mosse.
– No, no, maestro, cos’ha capito! Ritiro tutto! Lei mi ha dato la gioia
più grande della mia vita, dico davvero. Faccia conto che non le abbia
detto nulla, la prego. Non si è mica offeso, vero?
– Be’, un po’ sì... non glielo nascondo…
– La prego, no! Dimentichi tutto, la mia è stata solo un’uscita infelice. Non glielo chiederò mai più, lo giuro.
Edson scosse la testa e lo guardò con disprezzo. Non troppo, solo un
po’, quanto bastava per la stoccata finale.
– Non crederà che sia un servigio che faccio a tutti… prima di accettare una cosa del genere ci rifletto molto, sa? Il più delle volte rifiuto,
perché magari si tratta di qualche imbecille che ha voglia di scherzare, oppure di qualcuno che non si rende conto di cosa mi sta chiedendo e la prende con leggerezza, come fosse una passeggiata. Con lei
invece ho accettato, convinto di fare una cosa giusta, e adesso eccomi
qua…
– La prego, accetti le mie scuse. Il suo compenso è più che giusto,
dico davvero. La prego, procediamo pure. Sono stato uno sciocco.
– E’ davvero disposto? Perché lei sa che la sua convinzione è fondamentale. Gliel’ho detto più volte: la sua volontà deve essere forte e
determinata, solo così possiamo spezzare le resistenze che ci freneranno. Ci posso contare?
– Ci conti, maestro. Lo voglio con tutte le mie forze.
Edson si alzò e spinse un bottone dello stereo che stava appoggiato
sullo scaffale alla sua sinistra. Il suono dello sciabordio delle onde del
mare invase la stanza e la riempì. Ogni tanto il verso di un gabbiano.
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Ad occhi chiusi sembrava di stare su una spiaggia deserta.
– Lei sa cosa deve fare, Rizzi. Ormai è diventato bravissimo. Si rilassi, chiuda gli occhi e non pensi a nulla. Cerchi di raggiungere il massimo torpore. Quando sarà il momento di partire, la chiamerò io.
– D’accordo.
L’uomo chiuse gli occhi e si adagiò sulla poltrona mentre Edson
cominciava con la solita litania.
– Adesso sei solo, attorno a te non c’è nessuno. Solo in mezzo al
mare. Solo il suono delle onde nel silenzio. E tu ti rilassi, allontani
tutti i pensieri, allontani i ricordi, ripulisci la tua mente. La liberi, la
svuoti finché non la senti volare in alto. Ancora di più, di più…
Andò avanti per un paio di minuti con la sua voce cantilenante, poi:
– Apra gli occhi, Rizzi. Guardi me, soltanto me. Bravo, così, non
stacchi gli occhi da me per nessun motivo. Adesso segua le mie mani,
i miei occhi, mi faccia sentire che vuole entrare nel sacro mondo dei
defunti, me lo dica…
– Voglio entrare nel sacro mondo dei defunti…
– Perché? Cosa sta cercando laggiù?
– Voglio parlare con mia moglie e mia figlia.
– Guardi me, le mie mani, i miei occhi, si concentri sui miei occhi.
Adesso la prendo a braccetto e la accompagno in quel mondo. Io sono
pronto Rizzi, lei è pronto?
– Sì.
L’uomo era andato completamente. Edson gli prese la mano e gli sollevò il braccio. Quando lo lasciò, il braccio cadde sulla sua gamba
come fosse morto.
– Io vado, Rizzi, lei mi segua. Ecco, ci sono vicino, lo sento. Ecco la
luce, mi sta abbagliando. La vede la luce, Rizzi?
– La vedo.
– Quella è l’entrata, chiuda gli occhi e non si lasci abbagliare.
Dobbiamo attraversarla senza fretta. Il nostro mondo ci aspetta dall’altra parte. Ecco, mi segua, che ne siamo quasi fuori. Tra un attimo
vedrà che la luce si attenuerà e diventerà una luce normale. Ecco il
silenzio, ecco la pace delle anime…
La voce di Edson era morbida e calda. Rassicurante e soave come se
giungesse direttamente dal paradiso.
100
– E’ sempre al mio fianco, Rizzi?
– Sì, sono accanto a lei.
– Adesso sa cosa deve fare. Io mi faccio da parte e metto la mia energia al suo servizio. Si faccia avanti ma con molta calma. Non dimostri
impazienza e sarà ascoltato. Non urli adesso, chiami le sue anime con
voce bassa e sicura…
L’uomo fece un singhiozzo. Prima i suoi occhi, poi le sue labbra tremarono, infine arrivò la sua voce:
– Franca, Barbara, sono io…
– Le sento avvicinarsi, Rizzi, sono quasi arrivate. L’hanno sentita, le
guidi verso di lei, le chiami ancora.
– Franca, Barbara, Franca…
– Eccole, Rizzi, io le vedo, le sto vedendo, sono ricoperte di luce.
Sono proprio davanti a noi, riesce a vederle, riesce?
– Io… sì, le vedo. Le vedo!
– Adesso non si muova. Se vorranno, saranno loro ad avvicinarsi...
aspetti che siano loro a parlare.
Edson lasciò che la fantasia dell’uomo si scatenasse liberamente per
un quarto d’ora. Ogni tanto lo imbeccava suggerendogli un argomento
o una domanda, poi lasciava che fosse lui a svilupparne il seguito
come piaceva alla sua mente... poi, passati quindici minuti, pensò che
fosse ora di chiudere. Era difficile e rischioso protrarre uno stato di
ipnosi oltre i venti minuti e poi lui non aveva tempo da perdere.
– Signor Rizzi? Sono io, sono Edson. Adesso dobbiamo andare.
– Un istante soltanto…
– Non posso. Le porte si stanno chiudendo e io sono quasi privo di
energia. Potrei morire restando qua ancora un minuto. Adesso dobbiamo andare, ma può sempre tornare, lo sa che può farlo…
– Va bene – disse l’uomo con un filo di voce.
– Adesso mi segua nel rientro. Usciamo lentamente, troveremo di
nuovo la luce abbagliante.
Il mago fece a ritroso il percorso dell’andata, poi svegliò con delicatezza il suo cliente.
– Signor Rizzi? Siamo a casa adesso. Siamo rientrati. Allora? Com’è
andata?
– Benissimo – rispose l’uomo tra i singhiozzi – è stato meraviglioso…
101
– Adesso si riprenda dallo choc, resti seduto qualche minuto e recuperi le forze, io torno subito.
Edson si alzò e uscì dalla stanza. Fuori c’era una piccola sala d’attesa
e il corridoio che portava all’uscita. Accanto alla porta dell’uscita,
incassata dentro il muro e quasi nascosta, c’era una porticina chiusa a
chiave e verniciata di bianco. L’aprì ed entrò. L’interno era illuminato
soltanto dallo sfarfallio dei due monitor che mostravano le due stanze
dello studio. Sullo schermo di sinistra osservò Guglielmo Rizzi piangere come un bambino. Spense la telecamera ed estrasse la videocassetta dal videoregistratore, la etichettò, poi la sistemò su uno scaffale.
Più di cento lezioni di truffa stavano là, l’una accanto all’altra, pronte
a farsi visionare. Un vero e proprio corso completo che un giorno
magari gli sarebbe tornato utile perché Simone Cranza, abilissimo
manipolatore della mente e della credulità altrui, era convinto che
anche le informazioni fossero un’ottima fonte di guadagno. E lui di
informazioni, con quel mestiere, ne aveva raccolte a centinaia. Ma
questo sarebbe accaduto in un futuro ancora molto remoto. Nel frattempo preferiva dedicarsi alla magia, era quella al momento la fonte
della sua fama e dei suoi guadagni. E mentre rientrava nella stanza e
sorrideva al signor Rizzi, gli balenò alla mente che la sua straordinaria abilità di ipnotizzatore avrebbe potuto dargli mille volte di più di
quanto gli stava dando. Che la sua pratica era ormai perfezionata e
che forse, con un po’ di coraggio, avrebbe potuto mirare più in alto.
L’uomo gli stava parlando e lo stava ringraziando calorosamente per
l’ennesima gioia che gli aveva regalato, ma Edson non lo ascoltava
più. I pensieri gli correvano via lungo le direzioni più svariate. Uno di
questi pensieri, il più forte, puntava verso Ugo Marte, il proprietario
di quella televisione così carina e promettente.
Sarebbe stato lui la prossima preda del Mago Edson.
102
13
Matteo Rovere non amava vivere di ricordi. Trovava triste soffermarsi
sul passato e lo faceva solo quando vi era costretto senza rimedio. Ma
doveva trattarsi di una scelta davvero inevitabile.
Neppure riusciva a ricordare l’ultima volta che lo aveva fatto. La vita,
il lavoro con i suoi ritmi mozzafiato, il suo carattere pragmatico e
burbero lo inchiodavano senza scampo sul presente. Abbandonarsi ai
ricordi, rivisitare il passato con gli occhi dell’età adulta, rivivere le
profonde e intense esperienze dei primi quindici anni era solo una
inutile perdita di tempo.
Ma quella mattina era successo qualcosa. Una sorta di clic era scattato nella sua mente e le cose erano successe così, semplicemente,
senza star troppo a pensarci su. Si era svegliato almeno due ore prima
del solito. Eppure non era assonnato o stanco: per la prima volta da
quando era sceso a Grosseto si sentiva eccitato e presente, pronto a
volare nel momento stesso in cui aveva appoggiato il primo piede per
terra. Fuori il sole era appena spuntato ma la città stava ancora dormendo. Aveva agito come un automa, come se fin da subito sapesse
per filo e per segno cosa fare. Era sceso che ancora il bar della pensione doveva aprire, era salito in auto ed era partito. E con le strade
deserte era arrivato in appena venticinque minuti.
Adesso stava seduto in auto, mentre di fronte a lui il sole cominciava
a farsi coraggio e a mostrare la sua forza, passando da un arancione
sbiadito a un giallo che sarebbe diventato sempre più intenso e più
caldo.
Era lì mentre i pini, investiti da un libeccio leggero e ancora pungente, rilasciavano il loro incantevole profumo che si affiancava a quello
del mare e faceva il giro del paese, percorreva i viottoli e gli stradoni
e si perdeva nelle campagne dell’entroterra.
Era lì mentre la donna si affacciava sulla terrazza, scuoteva un piccolo
tappeto e lo appendeva alla ringhiera. Era una sconosciuta sulla cinquantina che aveva visto per la prima e unica volta sette anni prima
103
quando, assieme a suo marito e davanti a un notaio, aveva firmato
l’acquisto di quella casa.
Quella che una volta era stata la sua casa. Attorno era cambiato quasi
tutto, ma con un po’ di fantasia e con uno sforzo di memoria non era
troppo difficile ricostruire l’ambiente di trenta anni prima. Rovere
spostò lo sguardo verso la pineta che stava di fronte alla casa e in un
attimo i ricordi vennero a galla, come finalmente liberati dalla zavorra
che li teneva sul fondo. Osservò il suo pino, il quinto della seconda
fila, un pino in apparenza come tanti. Col cavolo, che era uguale agli
altri. Quello era unico, con quella forma tale che anche un ragazzo
impacciato e poco agile come lui riusciva a salirci senza troppa difficoltà. Gli sembrò di sentire per un attimo l’odore dolce della resina
appiccicata alle mani e sui pantaloni e la voce esasperata di sua madre
che gli faceva sfilare l’ennesima maglietta rovinata da quella colla e
minacciava di raccontarlo a suo padre.
La donna alla terrazza tese una felpa e un paio di pantaloni, poi rientrò in casa. Rovere la immaginò percorrere il soggiorno, dove un
enorme televisore in bianco e nero, con due lunghissime antenne sulla
testa, stava nell’angolo su un carrello in legno laccato con quattro
ruote che ormai non giravano più. Accanto, incastrato nel grande
mobile a parete che arrivava fino alla tenda, faceva bella mostra di sé
un mangiadischi con un quarantacinque giri di Raffaella Carrà che
fuoriusciva dalla sua bocca. Immaginò la donna percorrere il corridoio largo e buio e fermarsi nella sua cameretta, occupata per almeno
metà dalla grande pista Polystil che aveva ricevuto nel Natale più
bello della sua vita e dove Boninsegna lo osservava con il pallone ai
piedi da sopra la spalliera del letto, attraverso un enorme poster che si
staccava sempre dallo stesso angolo e che nessun tipo di adesivo riusciva a tenere al suo posto.
Poi la immaginò attraversare la casa e affacciarsi dalla terrazza che
dava sul lato opposto, dal quale si scorgevano le fondamenta di un
enorme complesso che sarebbe diventato quello delle scuole medie
del paese. Un edificio che trenta anni prima neppure esisteva e che
adesso sembrava già vecchio, coperto com’era di scritte e disegni
osceni, con i muri incrostati e gli infissi distrutti. E d’improvviso il
suo mondo emerse, tutto intero, e si presentò davanti ai suoi occhi
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come un grande schermo del cinema. Quelle enormi buche fatte da
escavatori giganti che lui e i suoi amici usavano come trincee e come
nascondigli quando giocavano a guerra; quel fosso nascosto dalle
canne e mille volte più bello del mare dove in estate, nonostante le
sanguisughe e le lucertole, si tuffava con i suoi amici; quel tratto di
strada sterrata e polverosa ma libera dalle auto, dove bastavano quattro sassi e un pallone per tirare fino a notte. E quel ragazzino, così
alto e dinoccolato, con quei capelli crespi e neri e quei peli sotto al
naso che sembravano davvero baffi, che tanti anni dopo quel lavoro
duro come la roccia avrebbe trasformato in un'altra persona. Se lo
vide davanti, mentre correva dietro a una palla o chiacchierava, seduto
sul marciapiede, delle grandi tette di tizia e del gran culo di caia.
Uscì dall’auto e respirò a fondo quell’aria così familiare. Quella,
almeno, non era cambiata più di tanto. Il profumo dell’estate, del sole
sulla pelle, delle vacanze spensierate, del sudore, dell’acqua salata
negli occhi e sulle labbra. Il profumo del primo bacio, della prima
ragazza, della carta vecchia dei fumetti prima e delle riviste porno
poi.
L’odore dei copertoni della bicicletta e poi della moto, dell’olio bruciato e del motore ingolfato, dei gas di scarico e della marmitta rumorosa e rovente. L’odore della 127 e della pelle dei sedili marrone chiaro, della porta del garage appena verniciato da suo padre.
Come aveva potuto dimenticare tutto questo? Come era stato possibile?
Che razza di vita aveva condotto per tranciare così di netto il suo passato?
D’improvviso sentì il desiderio di possedere di nuovo quella casa, di
calpestare quelle stanze, di osservare le sue pareti e di contemplare la
vista delle sue finestre.
Osservò la porta basculante del garage e fu come perforarla con lo
sguardo. Le sue cose erano lì, sugli scaffali, sulle mensole, appoggiate
al muro. I suoi giornaletti, le sue collezioni, il suo skateboard, la sua
bicicletta, i suoi adesivi e le sue figurine, il pallone da basket, il
Monopoli e la vecchia macchina da cucire di sua madre. Era tutto lì,
davanti ai suoi occhi, talmente nitido che avrebbe potuto afferrare
qualcosa e stringerla tra le mani.
105
La sua vita, la parte più bella e indimenticabile della sua vita era lì, e
osservava a sua volta quel gigante con la schiena appoggiata all’auto,
gli occhi lucidi e il groppo alla gola.
Era lì, a raccontargli la storia di un ragazzo che era cresciuto in quei
posti e che poi si era perso. Fino a quel momento.
E di colpo si sentì di nuovo a casa.
Nei corridoio della questura c’era uno strano brulichio, un fermento
che si notava a occhio. Assomigliava più a un mercato arabo che a un
edificio per il controllo dell’ordine pubblico. C’era una specie di elettricità che pervadeva le stanze ma anche le persone, una specie di agitazione permanente, un fluire continuo di gente e un chiacchiericcio
che impediva di fermare i pensieri. Ma forse era lui, forse era tutto
dovuto al suo stato d’animo. Si sentiva finalmente riconciliato con la
sua terra e per la prima volta da tanto tempo ottimista sul suo futuro.
Entrò nella sua stanza senza badare troppo a quello che succedeva nei
corridoi e accese il suo computer. Gli appunti e i fascicoli del caso
Boni, impilati sulla scrivania, lo aspettavano come uno sgradevole
compito che non vedeva l’ora di terminare. Eppure si sentiva ancora
così lontano. Si sedette e cominciò a digitare sulla tastiera ma dopo
qualche attimo un agente bussò alla sua porta e si fece avanti.
– Dottore?
– Sì. Cosa c’è.
– I suoi tabulati. Sono pronti.
Andreini era stato di parola. Finalmente aveva un nuovo elemento sul
quale lavorare e dal quale si aspettava qualche risposta utile. Nella
vita dei ragazzi di venti anni il cellulare era più importante e più intimo di un amico. Molti dei segreti più utili potevano davvero essere
nascosti là dentro.
– Grazie, lascia pure qua sopra.
Appena l’agente se ne fu andato, Rovere cominciò a scartabellare i
fogli. Andreini aveva davvero fatto un buon lavoro ed era anche andato oltre: aveva analizzato le chiamate in entrata e in uscita degli ultimi
trenta giorni. Per ogni mittente e per ogni destinatario aveva rilevato
dati anagrafici e residenziali. Allegato ai tabulati c’era infine un grafico a raggiera, con il nome di Boni al centro e i nomi di tutti gli altri
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che gli gravitavano attorno e gli erano collegati tramite una linea tracciata a matita. Indirizzo, numero di chiamate in entrata e in uscita,
brevi dati riassuntivi sul soggetto. Interessante. Rovere decise di analizzarlo per primo ma poté appena scorgerlo perché nello stesso
momento bussarono di nuovo alla porta.
– Sì?
Nicola Perno aprì quanto bastava per mostrare la sua faccia, poi si
fermò.
– Posso?
– Certo che puoi. Entra. Come va con il tuo uomo?
– Eh, mica tanto bene – sospirò Perno abbandonandosi a peso morto
sulla sedia – quello non parla più. Gli hanno assegnato un avvocato e
ora si sente più sicuro. Ha deciso di non spiccicare parola. Quello
stronzo di avvocato gli avrà certamente detto che senza qualche prova
più concreta non ce la facciamo a incastrarlo.
– E tu cerca di scovare le prove. Lo sai che esistono, devi solo farle
saltare fuori.
– Lo farò, stai sicuro. Solo che ogni momento diventa più difficile, lo
sai meglio di me. Uno che lo avesse visto, ecco cosa mi ci vorrebbe…
– Eh, così è troppo facile. Allora tu che ci stai a fare?
– Il coglione, ecco cosa ci sto a fare. A farmi prendere per il culo da
un barbone che cerca di farmi passare per un coglione. Comunque,
sempre meglio coglione che fare la fine di quel disgraziato che hanno
freddato stanotte.
– Stanotte? Cos’è successo, stanotte?
– Non ne sai niente? Allora sei l’unico in tutta la questura. Hanno
ammazzato una guardia giurata nel cimitero di Maglianello.
Rovere appoggiò i gomiti sulla scrivania e si piegò in avanti. La scrivania sparì sotto la sua mole.
– Ammazzato? E dove?
– Proprio dentro al cimitero. Li ha beccati che stavano profanando
una tomba o forse stavano cercando di portarsi via qualcosa. E quelli
non hanno sentito cristi, lo hanno steso e sono filati.
– Ce l’abbiamo noi? L’indagine, intendo.
– No, l’hanno presa i carabinieri.
– Peccato.
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Il cervello di Rovere girava a mille. Erano gli stessi, lo sapeva per
certo. Erano sempre loro, la stessa setta che girava per i piccoli paesi
della provincia in cerca di emozioni forti e di peccati mortali da compiere in gruppo. Le conosceva, quelle prove di coraggio e quelle spedizioni notturne, avevano tutte lo stesso sapore e la stessa filosofia di
fondo. Quel morto, pace all’anima sua, avrebbe potuto forse spiegare
alcune cose che il corpo di Boni non riusciva a spiegare, sarebbe stato
un altro tassello utile verso la verità, forse un tassello addirittura decisivo. Ma l’avevano preso i cugini, e così adesso si ritrovavano a lavorare in due su un caso che probabilmente era lo stesso, ognuno con le
proprie informazioni, le proprie esclusive e il proprio territorio da
difendere. Il modo migliore per buttare tempo e soldi attorno a un
caso. Non era la prima volta che ci passava e non sarebbe stata l’ultima, ma lo faceva sempre incazzare allo stesso modo.
Ma intanto era una conferma della strada da seguire. Quelle non
erano semplici ragazzate. Una ragazzata si sarebbe limitata a entrare
nel cimitero, scavalcare il cancello e passeggiare per qualche minuto
tra le tombe. La profanazione di una bara era invece un atto molto più
pesante del semplice ingresso nel cimitero. Sembrava solo un passo
più in là ma era tutta un’altra cosa. Violare la pace di un morto, aprire
una bara e magari vederselo davanti, sfilare gli anelli, i bracciali o i
denti d’oro con le tenaglie, queste erano cose che una testa calda non
si sarebbe neppure azzardato a pensare. E uccidere un sorvegliante,
poi.
Una setta satanica determinata e spietata, ecco cosa aveva di fronte.
Piena di pazzi, probabilmente psicopatici e deliranti, pronti ad
ammazzare per non farsi prendere o semplicemente per superare una
prova di coraggio.
– Posso chiedere informazioni a qualcuno? – disse mentre apriva nuovamente il tabulato che aveva davanti a sé.
– In che senso, scusa?
– Potrebbe, dico potrebbe avere un nesso con l’indagine mia. Puoi
farmi avere un nome da contattare, qualcuno dei cugini disposto a
collaborare seriamente?
– Sì, te lo trovo io un nome giusto.
– Grazie.
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– Senti, pensavo… così, se una sera ti va di mangiare da noi, a casa
nostra, voglio dire.
– Nostra di chi?
– Mia e di mia moglie. Per cominciare... mica vorrai continuare a
muoverti sempre da solo. Insomma, se ti va…
– Certo che mi va. Che vi hanno raccontato da Milano, oltre al fatto
che sono il cocco di Pertica? Non vi avranno mica detto che sono uno
stronzo con la puzza sotto il naso? Perché se te l’hanno detto, sappi
che un po’ di ragione ce l’hanno.
– No, non me l’hanno detto. E’ che ti aggiri da giorni per questi corridoi da solo, senza scambiare una parola con nessuno, perso nella tua
indagine. E poi quando stacchi sparisci d’improvviso e nessuno ti
vede più fino al giorno dopo. Magari... cominciamo con una cena, poi
vedremo dove… ma… che c’è? Stai male?
Rovere teneva gli occhi sui tabulati e aveva smesso di ascoltare.
– Che c’è? Che hai visto?
– Guarda.
... cominciò a battere sulla carta con un dito. Decine di chiamate ricevute dallo stesso numero nei due giorni precedenti alla morte. Il volto
di Perno si illuminò.
– Interessante, cazzo.
– E qui? Hai letto qui?
Perno spostò lo sguardo a fianco di quei numeri e sentì il sangue
gelarsi. Perché il nome che figurava accanto ai numeri era quello di
Maurizio Breschi. Osservò il viso di Matteo Rovere e immaginò di
avere la stessa espressione.
– Mi sa che stiamo andando nella stessa direzione – gli disse.
– E mi sa che quel barbone non c’entra niente davvero – gli rispose
Rovere. Sono gli stessi, Perno. Sempre gli stessi. Con Boni, con
Breschi, perfino con il custode del cimitero. Cambiano posti e cambiano obiettivi, ma sono sempre loro. Se troviamo l’assassino di uno,
troviamo l’assassino degli altri.
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La Bmw nera sfrecciò lungo il vialone alberato e illuminato come
fosse sul rettilineo di una pista di formula uno. Sulla strada non c’era
nessuno, ma si trattava comunque di una velocità folle per un centro
abitato. Inforcò la rotonda e la percorse per tre quarti, poi uscì da una
delle vie che si irraggiavano dalla piazza e alla seconda traversa
inchiodò di colpo, proprio di fronte a un ristorante cinese che aveva
l’insegna ancora accesa ma la saracinesca alzata solo per metà.
– Merda, è già chiuso. Niente spuntino cinese, tesoro.
Dentro l’abitacolo l’odore di hashish era ancora più forte del volume
della musica. Creedence Clearwater Revival, Ramble Tamble sparata a
un volume assordante. La ragazza rideva come una pazza, con la
bocca spalancata, la testa gettata indietro sul poggiatesta, ma Edson
era convinto che in tutta la sera avesse capito sì e no una parola su
dieci. Meglio così, in fondo non le aveva certo dedicato una serata per
chiacchierare dei massimi sistemi. Era brasiliana, di Fortaleza, ed era
di una bellezza fulminante. Lo aveva incendiato di desiderio all’istante e in pochi secondi l’incendio si era impadronito dei suoi sensi.
Edson conosceva solo un modo per placare quella sete bestiale. E poi
voleva aggiungere quella favolosa puledra a una collezione che
cominciava a farsi davvero ricca e piena di pezzi molto prestigiosi.
Lei si era fatta scopare senza troppi formalismi e lui l’aveva apprezzato molto. Era senza dubbio un punto a suo vantaggio. Le italiane se la
tiravano così tanto, volevano conversare, volevano garanzie, promesse, facevano centinaia di domande: ma tu quanto conti, ma tu mi puoi
aiutare, ma tu cosa dirai, ma tu che influenza hai...
Invece Lucia non aveva perso tempo e aveva cominciato a provocarlo
appena fuori del ristorante. Neppure aveva aspettato di arrivare a casa
del mago; mentre lui guidava lungo la litoranea e si era distratto un
attimo per accendere un cigarillo, la ragazza glielo aveva preso in
bocca. Se l’era ritrovata addosso, con il viso tra le sue gambe. Così si
era fermato sulla prima piazzola libera dopo aver rischiato almeno un
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paio di volte di uscire di strada. Forse aveva sbagliato, si diceva adesso che stava per scaricarla, perché scoparsela a casa sarebbe stato più
piacevole. Ma aveva dato fondo a tutte le sue riserve su quella piazzola e ora riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti. Due ore di sesso
animalesco e carnale proprio come piaceva a lui, con quella gazzella
che non si tirava mai indietro di fronte alle sue richieste e lui che
alzava il tiro sempre di più per vedere se quella era davvero così troia
da accettare ancora. Adesso lo guardava con quella bocca così piena e
carnosa che sorrideva e quel corpetto bianco che metteva in risalto la
sua pelle scura e strizzava quelle tette spettacolari che le davano un
altro punto di vantaggio sulle altre.
– Hai sentito? Niente spuntino, bimba. Si va a dormire?
La ragazza lo osservò un istante come se non lo avesse mai visto
prima, poi scoppiò in un’altra risata.
– Sì, vabbè, questa è andata.
L’auto riprese a muoversi.
– Dove ti porto, bella?
– A casa tua. Andiamo a casa tua?
– No, no, niente da fare. Se ti porto a casa finisce che si scopa tutta la
notte e io ho bisogno di dormire.
– Perché no?
– Te l’ho detto, il perché. Non hai capito, eh? Ma lo capisci l’italiano?
Oppure capisci solo la lingua della minchia, eh?
– Non ti piace? Lucia è brutta? Lucia non ti piace?
– Ma no, cos’hai capito… non sei brutta, no, però… oddio che
palle… dove stai? Dove abiti?
Pronunciò le ultime frasi alzando la voce. Si stava alterando e la
ragazza si spaventò. Fino a un attimo prima era tutto sorrisi e moine e
adesso…
– Via Trento 44.
– Ecco, brava. Ora ti porto a nanna, poi ci vediamo.
– Ma allora tu non sceglie Lucia?
– Ne devo scegliere due, voi siete tredici. Undici devono star fuori per
forza, capisci? Però tu hai buone chance, dico davvero. Solo che io
adesso muoio di sonno e domani ho da fare. Perciò ti prometto che ci
penserò bene.
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– E tu sceglie Lucia?
In quel momento vide la sua mano destra, appoggiata sul volante,
stringersi a pugno e tremare. Riuscì a fermarla prima che partisse e
colpisse al volto quella ragazza. Un impulso potente era scattato come
una molla e gli aveva suggerito di colpirla in faccia finché non avesse
chiuso quella bocca, ma all’ultimo istante era riuscito a dominarlo.
Quando una donna cominciava a fare la stronza lo faceva incazzare di
brutto. E se una donna non sapeva stare al posto suo, era una donna
che faceva la stronza.
– Sì, sì, ti scelgo. Ti scelgo, sei contenta?
La ragazza ricominciò a ridere e lo abbracciò, facendolo sbandare.
– Oh, fai piano, che ci ribaltiamo. Piano! Ecco via Trento, adesso cerchiamo il 44… eccoci qua. Ciao, bellezza.
– Ciao, Edson. Ciao amore mio, ciao ciao ciao.
Lo baciò e scese dall’auto, felice e radiosa per il sogno che si avverava. Valletta a una trasmissione televisiva del Mago Edson. C’era niente di più bello nella vita? Prima ancora di arrivare al portone, e non
erano più di dieci metri, l’auto del mago era già fuori della sua vista.
E le parole che il mago stava pronunciando su di lei certamente non
l’avrebbero resa altrettanto felice.
Stargli dietro non era stato troppo difficile. Noioso sì, visto che lo
faceva da ore, ma non difficile. Sperava che quel cialtrone di Cranza
uscisse dagli studi della tv locale da solo e partisse alla volta di qualche concentramento di mignotte dove si diceva avesse l’abitudine di
passare le notti. Invece aveva al suo fianco quella fata brasiliana che
era salita in auto con lui e lo aveva costretto a rivedere i suoi progetti.
Così aveva dovuto sorbirsi la cena al ristorante, le loro performance
sessuali su una piazzola della litoranea e infine vari giri attraverso la
città. Solo per un attimo aveva perso di vista Simone Cranza, seminato da uno scatto inatteso a un semaforo che lo aveva fatto sparire dal
suo raggio visivo, ma per fortuna era successo in una zona deserta e
così aveva potuto accelerare a piacimento e recuperare il terreno perduto. Dopo la svolta repentina a un viale, si era buttato sull’unico
paio di fari che riusciva a scorgere in lontananza e aveva avuto fortuna. Da quel momento si era imposto di rimanere incollato alla Bmw a
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tutti i costi. Se lo avessero scoperto, non avrebbe esitato a fare ciò che
doveva anche in presenza della ragazza. Ma senza testimoni tra i piedi
sarebbe stato meglio. Adesso la sua pazienza stava per essere finalmente premiata. Appena comprese che Edson si stava dirigendo verso
casa sua e stava girando attorno al palazzo solo per trovare un parcheggio, smise di seguirlo e fermò l’auto sul marciapiede. L’intera
città stava dormendo. Nel silenzio nero della notte avrebbe avuto solo
pochi attimi a disposizione prima di attirare l’attenzione di qualcuno,
ma sapeva che sarebbero stati sufficienti.
Edson imboccò la via di casa poco dopo. Era stanco ma splendidamente appagato. Le cose andavano alla grande, i soldi cominciavano
finalmente ad arrivare e insieme ai soldi, soprattutto, il potere. La
soggezione della gente, il senso di inferiorità che mostravano di provare davanti a lui, la paura che sentiva fuoriuscire dai loro pori quando li minacciava, quando ventilava la possibilità di esercitare i suoi
poteri di mago contro di loro…
Niente al mondo gli dava più piacere. E poi donne a volontà, ogni
sera una diversa, le più belle donne della città ai suoi piedi, a mendicare un posticino di terzo o quarto piano nella sua trasmissione o una
raccomandazione, un favore, una goccia della sua attenzione.
E durerà, cazzo se durerà. E guai a chi mi si mette contro…
La sua camminata sicura e baldanzosa esitò un istante, poi riprese
verso il suo portone, ma molto più lentamente. Accanto alla ghiera dei
campanelli stava un individuo enorme che aveva l’aria di aspettare
qualcuno. Edson mise la mano nella tasca del giubbotto e strinse il
coltello a serramanico che portava sempre con sé. Lo teneva per i suoi
giochini sessuali e non se ne separava mai, e in quel momento fu
estremamente contento di averlo in tasca. Il bestione aveva la schiena
appoggiata al muro del palazzo e guardava dritto davanti a sé, ignorando l’avanzata di Edson.
Forse non è me che cerca, magari aspetta qualcuno che deve scendere. Forse è solo un povero disgraziato che si è appena alzato per
andare a lavorare.
Ma qualcosa lo spingeva a stare in campana: le quattro di notte erano
l’ora ideale per un’aggressione. Si avvicinò al portone ed estrasse le
chiavi, ma mantenne lo sguardo inchiodato su quel gorilla.
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Era veramente enorme e incuteva paura solo con la sua mole. Gli
avrebbe fatto comodo un personaggio come quello per riscuotere i
suoi crediti. Perché con uno così, che ti appoggiava una mano sulla
spalla e accennava appena appena una stretta mortale sulla clavicola,
tante cose non c’era neppure bisogno di spiegarle. Aprì il portone ed
entrò, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle. Solo dopo
aver fatto qualche metro ed essere arrivato alle prime scale si rese
conto che il portone non si era chiuso e che il tizio era entrato dietro
di lui.
– Tu sei Simone Cranza!?
Non aveva il tono della domanda, sembrava più una affermazione da
non discutere troppo. Qualunque cosa fosse, era assai poco piacevole
e in bocca a quel tipo diventava decisamente brutta.
– Io? Sì, sono io. Cosa c’è?
Si mise leggermente di profilo e tolse la mano dalla tasca, nascondendola dietro la gamba. Appoggiò il pollice sul blocco che faceva scattare la lama e si preparò allo scontro. Magari quell’uomo aveva intenzioni pacifiche, ma era difficile pensare una cosa del genere a quell’ora, in quel posto.
Invece il bestione estrasse un innocuo tesserino e glielo piazzò davanti agli occhi.
– Io sono l’ispettore capo Matteo Rovere. Polizia.
Un poliziotto, solo un cazzo di poliziotto. Sentì la tensione svanire di
botto, come una ruota forata da uno spillone. Si rilassò e cominciò a
nascondere lentamente il coltello in tasca.
Un poliziotto rompicazzo, solo questo. Raccontagli due fregnacce e
mandalo a dormire.
– Ho… fatto qualcosa?
– No, non hai fatto niente. Devo chiederti una cosa per un’indagine
che sto seguendo.
– Ma… qui? Nel portone di casa mia? Non mi sembra che…
– Facciamo presto, te lo prometto. Se mi dici di sì, è questione di due
minuti.
E se ti dico di no? Che succede se ti dico di no? Lo pensò ma non
disse niente. Abbassò la testa e allargò le braccia, come a dire che era
pronto ad ascoltare.
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– Si tratta della morte di Ettore Boni.
– Ettore Boni? E chi è?
– Il ragazzo trovato nel bosco, quello che…
– Ah, quello... ho capito. Ma io con quella storia non c’entro niente di
niente. Neppure lo conoscevo, quel poveraccio.
– Non ho detto che c’entri, ho detto solo che devi ascoltare.
– D’accordo, ascolto.
– Ho bisogno di informazioni di un certo tipo.
Edson fiutò aria di rogne e si mise sulla difensiva. Chiuse la bocca e
attese che il poliziotto la sputasse fuori tutta.
– Io in quel mondo non posso entrare, mi fotterebbero subito. Tu
invece ci sei vicino, non dico dentro, ma senz’altro vicino e…
– Ma di che parli?
– Magia nera. Satanismo. Ci stiamo orientando in quella direzione e
tu potresti darci una mano...
Edson si lasciò andare a un sogghigno e scosse la testa.
– Tu sei matto. Io con quella roba non c’ho proprio niente a che fare.
E per dirtela tutta, non penso proprio che in questo buco di culo di
città ci siano satanisti o roba del genere... io faccio magia vera, sono
un veggente...
– Non ti voglio confondere con quella gente, ma qui si tratta di scoprire chi l’ha ammazzato e tu potresti essere decisivo.
– No, non esiste – disse Edson seccamente alzando una mano – non
lo farò mai.
Si voltò e si avviò per le scale.
– Te lo chiedo per l’ultima volta, solo qualche informazione senza
esporti troppo, poi…
– Si, vabbè. Ciao ciao, sbirrone. Trovatene un altro.
Salì i primi tre scalini senza degnarlo della minima attenzione, ma
quando appoggiò il piede sul quarto sentì il terreno mancargli da sotto
mentre una morsa lo afferrava per il colletto della camicia e lo faceva
volare all’indietro. Ruotò attorno al poliziotto e finì sbattuto al muro,
poi Rovere gli fu subito addosso e gli appoggiò la mano sinistra sul
petto inchiodandolo alla parete. Edson diventò paonazzo e cercò di
respirare, ma sotto quel braccio aria non ne passava. Rovere alzò la
destra e chiuse il pugno. Era grande come l’intero volto di Edson e gli
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avrebbe sconvolto i connotati una volta per sempre. Invece all’ultimo
momento diventò uno schiaffo al quale seguì un manrovescio.
Picchiato a ceffoni come un bambino viziato. Edson gemette appena e
si ritrovò senza aria. Era sicuro di morire entro qualche secondo, invece Rovere lo strappò via dal muro e lo fece rotolare sugli scalini.
– Siediti, testa di cazzo che non sei altro.
Edson obbedì come uno schiavo: si sedette, composto, e respirò più a
fondo che poté. Adesso non aveva più sonno e i suoi occhi erano
grandi come due uova.
– Ora – attaccò Rovere – è evidente che tu sei un imbecille. Un povero imbecille che crede di avere il mondo in mano. Invece sei un tiraseghe che campa sulle disgrazie degli altri finché non trova sulla sua
strada uno come me. Il giorno che mi va, il giorno che mi girano i
coglioni o mi alzo con la storta, ti faccio smettere a calci nei denti.
Ma tu mi hai preso sottogamba e mi hai trattato come uno dei tuoi
disperati, e questo dimostra ancora che sei un idiota cresciuto e rifinito. In altre condizioni, ti avrei spezzato le braccia e le gambe e ti avrei
lasciato crepare in un cassonetto. Ma come ti dicevo, ho bisogno del
tuo aiuto. Sei disposto ad ascoltarmi, adesso?
Edson annuì tra i singhiozzi. Se Rovere in quel momento gli avesse
chiesto di volare, lo avrebbe fatto. Chissà come, ma lo avrebbe certamente fatto.
– Prima che tu ti metta in testa di farmi fesso o ti illuda che come
poliziotto non possa andare al di là della legge, ti faccio presente che
il codice penale vieta il mestiere di ciarlatano. E tu, agli altri potrai
anche raccontare di essere un mago dai poteri prodigiosi e miracolosi,
ma io lo so che sei un ciarlatano. Ma lo sai anche tu, vero?
– S-sì…
– Bravo. E sappiamo tutti e due che quel terreno che hai ricevuto in
donazione tre mesi fa in realtà lo hai estorto con l’inganno e con il
raggiro, sai anche questo, giusto?
– S-sì…
– E sappiamo anche che l’auto che ti sei comprato costa tre volte il
reddito che dichiari di guadagnare. Lo sappiamo, no?
– Sì, sì, sì…
– E sappiamo anche che stai facendo la bella vita speculando sulla
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credulità della povera gente. Quello che non sai ancora, e te lo dico
io, è che la tua pacchia sta per finire. Come vedi, stai nella cacca fino
al collo e ce n’è abbastanza per qualche annetto di galera. Quando
uscirai, se ti va bene potrai vendere fazzoletti ai semafori.
– E’ la gente a cercarmi, io non la costringo…
– Non provocarmi su queste cose, stronzetto – gli disse puntandogli in
faccia un dito grande quanto un candelotto di dinamite – sennò ti
rompo il culo per davvero. E poi non ti devi difendere davanti a me,
io se volevo punirti l’avevo già fatto e a quest’ora una bocca per parlare non ce l’avevi più. Diciamo che prima era una proposta di collaborazione, adesso è l’unica strada che ti rimane per salvarti le chiappe.
Edson abbassò la testa verso gli scalini. I suoi piani, i suoi guadagni,
il successo, le donne, stava tutto volando via come fumo proprio
quando era così vicino.
Ma la rabbia di quel bestione che gli ringhiava contro gli faceva più
paura.
– Che devo fare?
– Pare che in città si sia formata una setta satanica. Non so chi c’è
dentro, come è strutturata e soprattutto come agisce. Ho bisogno di
sapere dove si incontrano e chi è il capo.
– In poche parole, tutto. E dovrei farlo io?
– Tu devi solo aiutarmi. Un indizio, una frase, un nome, tutto quello
che ti viene all’orecchio.
– E lo vieni a chiedere a me? Non potete farlo voi?
– Ci vorrebbe troppo tempo e comunque sono cazzi che non ti riguardano. Tu sei la figura ideale per pescare informazioni qua e là, e tu lo
farai. Questo è il mio numero, puoi chiamarmi in ogni momento.
Edson afferrò il biglietto da visita e lesse il nome del poliziotto che lo
stava rovinando. Rovere non gli diede tempo per fare altro.
– Non ti adagiare sugli allori, aspetto notizie già da domani.
– Oh, ma io non sono mica uno di voi, non so neppure come si fa…
– Ti ho già detto di smetterla di raccontarmi cazzate. La fantasia non
ti manca, mi sembra.
Rovere si avviò verso il portone. Non aveva altro da dire.
– Oh, ma io cosa ci guadagno?
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L’ispettore sorrise, ma era un sorriso maligno e pieno di allusioni.
Edson si pentì subito di aver fatto quella domanda.
– Vuoi dire cosa ti risparmi. La galera, ti risparmi la galera. Quando
abbiamo finito con quegli stronzi, rimetti a posto le cose, risarcisci
tutti quei disgraziati che hai fregato, e io mi scordo di te. Ti pare
poco?
Fece un passo verso il portone e lo aprì.
– Ti chiamo domani sera. Porta con te un po’ di notizie.
Uscì dal portone lasciando Edson seduto sugli scalini. Il sonno era
volato via, al suo posto c’era un’eccitazione elettrica che lo fece guizzare in piedi di colpo e gli suggerì di cominciare a darsi da fare. Salì
le scale a piedi, lentamente, sprofondato nei suoi ragionamenti tanto
da salire un piano più su del suo appartamento. Quando se ne accorse
tornò indietro e mentre toglieva le chiavi di casa dalla tasca gli scappò
un sorriso fetente e beffardo. Quel bastardo di ispettore pensava di
averlo incastrato, invece quasi quasi gli aveva fatto un favore. Si girò
tra le dita il biglietto del poliziotto osservandone il nome e il numero
telefonico.
Matteo Rovere – pensò – sei grande, grosso e tanto sicuro di te.
Troppo sicuro. Ma stavolta hai fatto uno sbaglio.
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Il ragazzo staccò la pompa dall’erogatore e la infilò con indolenza nel
serbatoio dell’auto, poi girò la tesa del cappellino verso la nuca,
appoggiò le braccia sul tettuccio e vi sdraiò la testa sopra, voltandola
dalla parte opposta al guidatore. Tentò di spingere i suoi pensieri lontano da quello schifo di posto ma non gli fu possibile.
– Mi scusi… mi scusi, dico a lei.
Si voltò di scatto verso quella voce lamentosa, quasi supplichevole.
L’anziano proprietario dell’auto era sceso e lo stava osservando. Era
sicuramente infastidito dal fatto che lui avesse usato il tettuccio della
sua auto come un cuscino, ma non gliene importava niente. Dicesse
pure quel che voleva, per lui i vecchi andavano ammazzati sulla cinquantina, prima che diventassero dei rompicoglioni di professione.
– Mi darebbe una pulita al vetro, per cortesia?
Il ragazzo lo osservò come se il vecchio avesse parlato in arabo. Solo
un istante, poi fece una smorfia di disprezzo e si girò nuovamente dall’altra parte.
– Grazie – latrò il vecchio indispettito.
L’uomo passò oltre lo sportello, lo chiuse, afferrò con rabbia lo spazzolone e cominciò a passarlo goffamente sulla vetrata anteriore dell’auto. Si bagnò le scarpe e i pantaloni, maledì il ragazzo in silenzio
ma continuò nella sua opera, determinato a non dargliela vinta.
Terminò di pulire il suo vetro e si sedette nuovamente nell’auto
lasciando lo sportello aperto. Il ragazzo arrivò un attimo dopo.
– Sono cinquantuno euro – disse all’uomo senza neppure guardarlo in
faccia.
Il vecchio gli porse prontamente una banconota da cento e volse
anche lui lo sguardo altrove.
– Ancora un euro – disse il ragazzo.
– Non ce l’ho, un euro. E comunque, non te lo avrei dato – rispose il
vecchio acidamente – il rispetto bisogna guadagnarselo, sai?
Il ragazzo sorrise ma i suoi occhi sputavano ira. Si avviò verso il
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casottino a prendere le monete per il resto e tornò qualche istante più
tardi. Il vecchio aveva chiuso lo sportello ed era pronto ad andarsene.
– Ecco il tuo resto di merda – disse il ragazzo, e scagliò le monete e
le banconote dentro l’auto con rabbia.
L’uomo sgranò gli occhi, incredulo, ma il ragazzo, davanti a lui con le
mani sui fianchi, non fece una piega.
– La benzina l’hai avuta, ora levati dai coglioni, vecchio di merda,
sennò ti gonfio di botte come un sacco. E non mi frega un cazzo se
hai ottanta anni e se hai fatto la guerra e tutte quelle stronzate che raccontate ogni volta; se non te ne vai subito ti stacco la testa dal collo a
bastonate.
L’uomo si guardò attorno: il titolare del distributore era impegnato nel
lavaggio di un’auto e prima che fosse arrivato, quello l’avrebbe massacrato davvero. Non c’era nessun altro nelle vicinanze, solo lui di
fronte a quel matto. Chiuse il finestrino, mise in moto con il groppo
alla gola e si allontanò.
Il ragazzo lo osservò sparire con la coda tra le gambe, un sorriso cattivo stampato sulla faccia, e se ne tornò nel casottino ad ascoltare la
radio. Scelse una stazione qualunque, poi si stravaccò sul piccolo
divano che stava nell’angolo e appoggiò i piedi su una sedia.
Che lavoro di merda era quello. A contatto con tutti i rompicoglioni
del paese per due lire al giorno. Era lì da tre mesi ma già da qualche
giorno era certo che non sarebbero mai diventati quattro. Solo una
cosa aveva scoperto, di veramente interessante: che il lunedì sera l’incasso di tutta la giornata restava lì invece di prendere la via della
banca. Il titolare doveva accompagnare sua figlia a un corso di danza
in un paese che stava a trenta chilometri e preferiva non portarselo
dietro. Perciò chiudeva il casottino e tornava a prenderlo dopo almeno
quattro ore. Un malloppo niente male, solo soletto ad aspettare che
qualcuno se lo portasse via e se lo spendesse come meritava.
– C’è da lavare una macchina – gli disse il proprietario affacciandosi
bruscamente sulla soglia del casottino e distogliendolo di colpo dai
suoi sogni di gloria.
– Madonna, che palle – rispose lui alzandosi controvoglia.
– A proposito, guarda che ti ho visto, prima, con il cavalier Graziosi.
Se lo fai un’altra volta, non passare neppure da qui, vattene diretta-
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mente a casa. Anzi, prima ti do due ceffoni, poi te ne vai.
– Me ne vado subito, non c’è bisogno che starnazzi così. Sto posto di
merda mi ha veramente rotto i coglioni.
– Guarda che anche tu hai rotto i coglioni e da parecchio, anche.
Quindici anni li hai passati da un pezzo, adesso sarebbe l’ora di lavorare. Ma se non hai voglia di fare un cazzo, per me va bene lo stesso.
Solo che qui non c’è posto per gli scansafatiche. Ho sopportato solo
per rispetto a tuo padre, ma lo avevo avvertito che non avrebbe funzionato.
Suo padre, il rompicoglioni numero uno. Lui perdeva un lavoro ogni
tre mesi e dopo neanche dieci giorni suo padre se ne veniva fuori con
un mestiere nuovo. In paese conosceva tutti e in un modo o nell’altro
era sempre riuscito a imbucarlo in qualche posto. Chissà se dopo il
benzinaio li aveva finiti una volta per tutte, gli amici.
– Ottimo. Allora dammi i miei soldi che me ne vado.
– I soldi li prendi quando sarà il momento. Passa il prossimo mese e
trovi la busta paga e l’assegno di quello che ti spetta. Ti avverto però
che ti tolgo il preavviso che non mi hai dato e i quattrocento euro che
ti ho anticipato giovedì scorso.
– Bravo, così non mi devi dare più un cazzo. Siete tutti uguali, voi.
– No, sei tu che sei uno stronzo. Ti piacciono i soldi senza fatica, sei
sempre scoglionato e con mille pretese. Ma guarda quello che stai
combinando: mi lasci solo, nel bel mezzo della stagione estiva, però i
soldi li vorresti subito. E un altro che mi dà una mano io dove lo
trovo, eh?
– Non è un problema mio.
– Vattene e ringrazia tuo padre, se non era per lui ti prendevo a calci
nel culo e ti marchiavo a fuoco. Allora sì, che un lavoro non lo troveresti più nemmeno in ginocchio.
– Sai che dispiacere – rispose il ragazzo mentre si sfilava rapidamente
la salopette e la sbatacchiava sul banco senza riguardi.
Uscì dal casottino e l’istante dopo era in sella al suo scooter pronto a
sparire, poi notò con la coda dell’occhio una signora nei pressi della
zona lavaggio. Schizzò verso di lei e fermò lo scooter a un metro dai
suoi piedi facendola sobbalzare.
– Buongiorno, signora! Lo vedi il titolare, quell’uomo in tuta laggiù?
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Dice che ti scoperebbe tanto volentieri, che sei una gran troia e fai
delle pompe da urlo. Per me sei un po’ passata, ma lui ha detto che in
tre ti piace. Perciò eccomi qua. Preparati che adesso arriva anche lui.
La donna restò interdetta, per qualche istante il mondo le sembrò una
cosa lontana e inafferrabile, poi indietreggiò velocemente verso l’auto, salì e mise in moto.
– Ma che fai, non l’aspetti? Guarda che è infoiato come un toro. Oggi
ti diverti alla grande…
La donna scappò veloce come un fulmine. Il ragazzo si incollò con il
suo scooter dietro all’auto per qualche chilometro, ridendo istericamente e ogni tanto affiancandosi allo sportello di guida come un
indiano all’attacco di una diligenza. Il terrore se la stava divorando al
punto che la donna non riusciva a tenere le mani ferme sul volante.
Ma il ragazzo si stufò rapidamente di quel gioco e decise di cambiare
rotta. Al primo bivio imboccò il viale che lo portava fuori dalla città,
diretto sulla litoranea. Libero, finalmente, di nuovo padrone della sua
vita. Sfrecciò sulla strada a tavoletta lanciando un urlo. All’inferno
quel lavoro del cazzo, lui non era fatto per infilare pompe nei serbatoi
tutto il giorno o per sistemare scaffali o infornare pagnotte. Per quattro lire, poi. Adesso aveva voglia di festeggiare il ritorno alla libertà e
sapeva anche come. Gli ci voleva una sbattuta d’ossa con una di quelle negre dalle labbra grosse che aspettavano qualche chilometro più
avanti. Ma questo più tardi. Prima doveva cominciare a riorganizzare
le fila della banda. Percorse un tratto rettilineo e deserto, poi tagliò
nella corsia opposta e si fermò su una piazzola che ospitava una decina di auto e qualche scooter come il suo. L’edificio accanto allo
spiazzo ancora era vuoto e si sarebbe riempito solo a notte fonda ma i
veri aficionados erano già là, come se una forza misteriosa e maligna
li tenesse incollati in quel buco squallido. Gli piaceva, quel locale,
perché era scuro e triste anche in pieno giorno, e poi là dentro lui era
qualcuno. Abile sul panno del biliardo, eccezionale su quello del tavolo da gioco.
Che cazzo me ne faccio, io, di un lavoro come quello?
Era un pensiero che lo accompagnava da sempre, ma adesso gli vibrava in testa forte come un terremoto. La sua strada puntava in una direzione molto diversa.
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A mendicare quattro lire e sempre in affanno per arrivare a fine mese.
Basta. Stavolta basta.
Il ragazzo al banco gli sorrise e gli diede il cinque.
– E’ una vita che non ti si vede da queste parti, Lele.
– Ero impegnato con un lavoraccio di merda. Per fortuna è finita.
– Meglio così. Birra?
– Scura.
Che cazzo me ne faccio, io, di un qualunque lavoro?
Si sedette su uno degli sgabelli lungo il bancone e si guardò attorno.
Sembrava un convegno di allergici alla luce del giorno, tapparelle
abbassate a tutte le finestre, ambiente chiuso e fumoso, mobili scuri e
vecchi che nessuno puliva più da un bel pezzo. Dall’odore vecchio e
rancido che assaliva le narici fin dall’entrata, c’era da scommettere
che là dentro pulissero il pavimento con gli avanzi del vino.
Mancavano solo le mosche, ma qualche mese più tardi sarebbero arrivate anche quelle. Dall’altra stanza arrivò lo schiocco nitido di una
palla da biliardo che spaccava il grappolo e apriva una partita.
Con tutto quello che potrei combinare se solo mi decidessi a tirare su
una cosa seria. Soldi, donne e potere a camionate. Mica come adesso, che è poco più di un giochino da dilettanti…
– Chi c’è di là che gioca?
– Non mi ricordo. Il Roco l’ho visto entrare di sicuro, se ti interessa,
ma non so se sta giocando.
– Seeeh, quello in mano ci tiene solo la sua, di stecca. Dalla mattina
alla sera.
L’uomo al bancone, il padre del ragazzo che lo aveva salutato, si
lanciò in una risata aspra e sibilante che gli tolse il respiro. Poi posò
un bicchiere di birra sul piano del banco. Il ragazzo lo afferrò e si
avviò verso la stanza dei biliardi. La luce smorta del neon ronzava
come una falciatrice affaticata e illuminava fiaccamente il tavolo. Il
resto della stanza era animato da sagome delle quali scorgeva a
malapena i contorni. Il Roco naturalmente non stava giocando.
Sedeva da una parte con un sacchetto di patatine in mano e sgranocchiava con la bocca talmente intasata di roba che gli occhi gli si
chiudevano durante la masticazione. Disgustoso, ma utile. E fedele
fino alla morte.
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– Roco… – sibilò a bassa voce dalla soglia. Poi gli fece cenno con la
mano di avvicinarsi.
Il ragazzo si voltò e i suoi occhi si illuminarono. La sua bocca si
piegò in una smorfia che assomigliava a un sorriso, poi riprese a
masticare. Si alzò prontamente, un soldato a disposizione del suo
comandante.
– Lele, cazzo, sei sparito dalla circolazione! Pensavo che quello stronzo del tu’ babbo t’avesse tagliato i viveri una volta per tutte!
– Magari. No, lui fa peggio. Mi manda a lavorare con certe persone
stronze come lui. Ascolta, ti devo parlare.
– Dimmi.
– No, qui no. Usciamo un attimo fuori, è una cosa seria.
Lo tirò per un braccio lungo lo stretto corridoio che portava all’uscita.
Il Roco lo seguì come un cagnolino estasiato.
Rapine. Una bella squadretta di rapinatori di professione.
Appartamenti, negozi, mobilifici. Un bel gruppetto di gente tosta e
addestrata che non ha paura di niente. Rapine e messe nere, questa
sarà la mia vita finché il destino non…
Poi di colpo gli caddero gli occhi su un giornale locale che stava
aperto su un tavolo. Lesse il nome di Ettore Boni che dava il titolo al
pezzo di cronaca locale e fece cenno al Roco di fermarsi un attimo. Si
sedette a leggere. Il sostituto procuratore che seguiva il caso si chiamava Alberto Somma. Il Messo osservò con attenzione la sua foto e
lo battezzò al volo come un cazzone. Somma ammetteva, pur a denti
stretti, che ancora non c’era una traccia nitida e sicura sulla quale
lavorare. Prometteva massimo impegno e assicurava i primi risultati
entro la settimana successiva. Il ragazzo sorrise, sprezzante e sicuro.
Poi spostò lo sguardo sull’altra foto che stava accanto all’articolo e il
sorriso gli si spense sulla bocca. Era la foto dell’ispettore capo Matteo
Rovere, che seguiva in prima persona l’indagine. Quello sguardo duro
e determinato non gli piacque per niente. Quello era uno che aveva i
coglioni, glielo leggeva dentro, quello era uno che poteva davvero
rovinare tutto. Riprese a leggere l’articolo fino in fondo e si imbatté
in una dichiarazione dell’ispettore. La lesse, poi la lesse di nuovo, poi
la lesse ancora mentre fissava la foto e gli sembrò di vedere la bocca
di quella faccia che si muoveva e pronunciava quella frase: “Io li tro-
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verò. Dovunque siano, possono stare sicuri che li troverò. Dovessi
scendere all’inferno e parlare con il diavolo in persona per farmi dire
dove stanno”. Guardò ancora la foto e fece fatica a deglutire. Spostò il
giornale verso il Roco.
– Lo conosci questo? Questo qui nella foto.
Il Roco allungò il collo verso il giornale. Osservò la foto con due
occhi che sembravano due fari spenti, poi scosse la testa.
– Mai visto.
– Si chiama Matteo Rovere. Mai sentito?
– No. Insomma, usciamo o no?
Il ragazzo osservò la foto un’ultima volta. No, non si sbagliava, quello poteva davvero rovinare tutto ed era già sulla pista giusta. Si
stampò bene in mente la sua faccia, poi buttò il giornale sul tavolo.
– Sì, vieni.
Appena fuori, il ragazzo si guardò intorno con attenzione e si accertò
che il posto fosse deserto.
– Volevo raccontarti una cosa importante, un progetto che avevo in
mente, ma penso possa aspettare. Anzi, deve aspettare per forza.
Perché adesso abbiamo una cosa ancora più importante, una vera e
propria emergenza, e ci dobbiamo muovere. E alla svelta, anche.
– Una… emergenza?
– Sì. Una cosa seria. Quando il gioco si fa duro bisogna capirlo al
volo, Roco. Se dormi ti fottono.Quello che hai visto in fotografia,
quell’ispettore. Forse ancora non ha scoperto niente, forse brancola
nel buio. Ma c’ha l’aria di uno che non molla mai l’osso. Quello è
uno che arriva in fondo e ci può far male. Degli altri non c’ho paura.
Li guardi in faccia e te ne accorgi subito che non vanno da nessuna
parte. Ma lui… lui c’ha uno sguardo che non mi piace. Devo sapere
cosa sta combinando. E se le cose si mettono male, ho proprio paura
che ci toccherà ammazzarlo prima che arrivi troppo vicino a noi. Un
bell’ammazzamento che sembra tanto un incidente.
Il Roco sorrise. Un sorriso vero, largo e gioioso.
– Ammazzare un pulotto. Adesso sì che parli come un vero Messo.
Adesso sì che ti riconosco.
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16
La piscina si era fatta finalmente deserta e silenziosa come piaceva a
lui, solo che stavolta si era svuotata d’improvviso. Rovere stava nuotando in mezzo a un’orda di bambini urlanti e chiassosi e un attimo
dopo si era ritrovato solo, avvolto nella tranquillità ovattata del silenzio. Adesso spingeva sulla superficie, con quelle braccia possenti che
ogni volta che entravano in acqua sembravano due alberi abbattuti da
un fulmine. Si sentiva stanco e senza fiato ma qualcosa lo spingeva a
nuotare. L’istinto gli gridava di non fermarsi. Alzò un attimo la testa e
dal vetro appannato degli occhialetti scorse il bordo ancora lontano.
C’era qualcosa di strano che non riusciva a focalizzare. Nuotò ancora
un po’, poi alzò di nuovo la testa ma il bordo era ancora lontano.
Anzi, addirittura più lontano.
Che diavolo succede?... pensò.
D’improvviso l’acqua si era fatta fredda e densa, sembrava quasi fanghiglia di una palude. Le braccia si muovevano dentro quella colla
sempre più faticosamente, le gambe sembravano inchiodate e il corpo
aveva smesso di scivolare fluido sulla superficie. Si era fatta anche
opaca, di un rosso argilla vischioso e spesso. Rovere cominciò a sentire freddo. Quella sostanza gelida gli entrava nel corpo attraverso i
pori della pelle, si propagava nel petto, nelle spalle, nella testa e gli
accecava i pensieri. E poi c’era quella cosa che lo stava inseguendo.
La sentiva dietro di sé, la sentiva arrivare veloce, agile e aggressiva
come un alligatore furibondo. Non sapeva cos’era, sapeva soltanto
che c’era e che voleva prenderlo. Aumentò il ritmo delle bracciate ma
ormai non riusciva più ad avanzare. Alzò di nuovo la testa per osservare il bordo: ormai doveva essere a pochi metri, addirittura a qualche
bracciata. Ma il bordo della piscina non c’era più, non c’era più neppure la piscina. Era tutto scomparso, adesso. Stava nuotando in mare
aperto, ai suoi lati solo la linea dell’orizzonte che confondeva il cielo
con il mare. E alle sue spalle quella cosa che si faceva sempre più
sotto. Sembrava quasi solleticargli i piedi, voler giocare con la sua
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paura come se potesse sbranarlo in qualunque momento e fosse soltanto curiosa di saggiare la sua resistenza. Il suo urlo di terrore venne
soffocato dalle onde che gli coprivano il volto e uscì sotto forma di
bollicine schiumanti e gorgoglianti.
Spingi! Spingi! Spingi!
Alzò ancora la testa cercando di ragionare in mezzo alla disperazione.
Era impossibile che non ci fosse una via di salvezza. E infatti lontana,
davanti a lui, una spiaggia bianchissima e deserta si allungava per chilometri. Le gambe ormai si muovevano appena, attanagliate dai crampi che lo accecavano dal dolore. O forse era la cosa che aveva cominciato a mangiarlo, gli aveva strappato le gambe e magari stava salendo
lungo il tronco. Non le sentiva proprio più, adesso. Quando la sua
bocca usciva dall’acqua per prendere fiato, lanciava degli urli soffocati che lo lasciavano senza respiro e lo costringevano a nuotare in
maniera sempre più scomposta rallentandogli la corsa. La cosa intanto
lo aveva raggiunto ed era pronta. La sentì scivolare sotto di lui, lungo
il petto, tornare indietro e farlo ancora, poi finalmente stringergli le
caviglie. Proprio allora la sua mano si impuntò nella sabbia e comprese di aver raggiunto la riva. Fece per alzarsi e si accorse che le sue
gambe c’erano ancora: due pezzi di legno freddi e insensibili ma
ancora attaccati al suo corpo. Prese a correre come un ubriaco
rischiando più volte di cadere per terra. Annaspava, singhiozzava e
correva finché cadde sulla sabbia e si voltò verso il mare: la macchia
scura stava lì, a qualche metro da lui, sommersa dal chiaro velo dell’acqua. Restò ferma qualche secondo come se ragionasse sul modo
migliore per attaccarlo. Rovere era esausto. Si preparò a morire aspettando il suo balzo, invece la macchia cominciò a dileguarsi lentamente e a farsi sempre più piccola finché scomparve dalla sua vista.
Rovere si sdraiò sulla sabbia, sfinito, e cominciò a piangere.
Ma che diavolo di situazione era?
Il terrore gli stava ancora addosso, così nuovo e diverso dalla paura di
tutti i giorni, un terrore che si faceva sentire sotto la lingua, tra le tempie, nello stomaco. Ma era anche sopraffatto dalla stanchezza: affondò
la testa tra le braccia e cercò di recuperare le forze.
Cosa era quell’essere che lo stava inseguendo? E quel posto da dove
era spuntato fuori? E come avrebbe fatto ora a tornare a casa?
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Pensava a tutto questo, con il volto che sfiorava la sabbia bianca,
quando il cielo si oscurò di colpo.
Ancora non è finita, pensò.
Nel voltarsi si accorse che l’ombra di qualcuno si allungava su di lui.
Un’ombra lunghissima che copriva il sole e gli impediva di identificare quel volto. Era un uomo alto, forse più di lui, sottile come una
canna al vento. Gli sorrise, e Rovere, abbagliato dal sole, riuscì solo a
scorgere quei denti gialli e deformi che gli imbruttivano la bocca.
Teneva le mani sui fianchi e ridacchiava, godendosi la paura di
Rovere.
– E’ me che stai cercando, straniero?
La cosa che stava dietro di lui nell’acqua. Quell’individuo che lo
sovrastava sulla spiaggia. Erano lo stesso essere. E chissà quante altre
cose ancora poteva diventare.
– Rispondi, è me che stai cercando?
Rovere si alzò in piedi di scatto e prese a correre. Dopo qualche passo
cadde ma si rialzò rapido e riprese a scappare. L’essere dietro di lui
non si mosse. Continuava a ridacchiare, ma prima che Rovere sparisse
dentro la pineta gli gridò:
– Sono io che troverò te! Ricordalo, quando mi servirai sarò io a trovarti!
Correre. Correre e basta. In qualunque posto sulla terra ma lontano da
lì e da quell’essere. I rovi e le frasche degli alberi, le spine dei rami,
gli aghi dei pini, tutto ostacolava la sua corsa ma niente al mondo l’avrebbe fermato. Correva e ansimava, finché l’aria non cominciò a
mancargli e tutto davanti a lui si fece più opaco e lontano.
Dopo. Riposerai dopo. Adesso corri.
Spezzava con le braccia i rami che gli si paravano davanti, chiudeva
gli occhi e si immergeva senza incertezza nelle frasche che gli stavano
di fronte, si tuffava verso la salvezza. L’istinto lo guidava verso quella
direzione.
Quando gli si presentò davanti il crepaccio era troppo tardi. Arrivò
sull’orlo lanciato come un treno e si sentì mancare la terra sotto i
piedi. Si trovò nel vuoto, le gambe e le braccia spalancate, ad almeno
duecento metri da terra. E volò giù, osservando le rocce che, assieme
alla sua morte, si facevano sempre più vicine.
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Quando sgranò gli occhi, si accorse di essere senza fiato. Appoggiò le
mani sul cuscino e cominciò a tastarlo come fosse la cosa più bella
del mondo. Si voltò bocconi e osservò la stanza, appena imbiancata
dai fasci di luce della luna che entravano attraverso le persiane.
Quello era morire, quello era stata la cosa più vicina a morire che
avesse mai provato nella sua vita. Il cuore gli batteva ancora come
una mazza e il suo tonfo arrivava nitido e profondo fino alle orecchie.
Si mise lentamente a sedere, poi si alzò e andò a sciacquarsi il viso.
Infilò la testa sotto il getto della doccia e ci rimase per un paio di
minuti. Quando ne uscì, il peggio sembrava finalmente passato. Si
attaccò alla bottiglia d’acqua che teneva sul tavolo e la vuotò senza
neppure prendere fiato. Poi si gettò di nuovo sul letto, consapevole
che per quella notte non avrebbe più dormito neppure se lo avessero
costretto con una pistola.
Sono io che troverò te. Quando mi servirai sarò io a trovarti.
Rabbrividì nonostante il caldo. Chi era quell’essere che veniva a trovarlo nella sua mente? Cosa aveva a che fare con lui, con la sua vita,
con il suo lavoro? Si alzò e aprì la finestra. La pensione dava su una
piccola piazzetta dove in quel momento tutto era chiuso e spento.
Solo la luna, una palla argentata e squillante, brillava nel cielo a fargli
compagnia. Lasciò che le folate del vento caldo gli massaggiassero le
spalle e cercò di rilassarsi.
Ma d’improvviso, quasi per rispondere alle sue domande, nella sua
mente spuntò il volto del vecchio Leone seduto nella sua giardinetta,
gli occhi sicuri eppure pieni di tristezza. Gli occhi di chi aveva visto.
E insieme al suo volto, spuntarono anche le sue parole:
Non è vero che è tornato, perché quello non se ne va mai. La verità è
che da qui non se n’è mai andato.
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A guardarlo da fuori, il posto sembrava chiuso. Lungo tutta la via, a
quell’ora del primo pomeriggio, soltanto il bar era aperto al pubblico.
Le vetrate degli uffici occupavano tutto il piano terra dello stabile ed
erano nere come la notte ma Simone Cranza non se ne preoccupò.
Scese dall’auto e si diresse verso gli uffici come se potesse passarci
attraverso. Anche l’insegna era spenta e lungo la strada, costellata da
edifici simili a quello, regnava un silenzio quasi innaturale. Neppure
un cane aveva il coraggio di affogare sotto un sole così cattivo.
Cranza picchiò un paio di volte al vetro e rimase ad aspettare. Dopo
qualche secondo picchiò ancora e la porta emise un breve ronzio elettrico e si aprì. Dentro era buio e tanto fresco da farlo rabbrividire per
un attimo, poi arrivò il sollievo. Entrò e si chiuse la porta alle spalle
mentre la donna avanzava verso di lui. Era una signora che andava per
i quarantacinque, di bell’aspetto e curata nei minimi dettagli: un tailleur rosa, intonato con le scarpe e le unghie dello stesso colore, e una
coda bionda che le scendeva lungo la schiena. Un po’ datata, ma
ancora capace di sovrastare tante sciacquette con venti anni meno di
lei. Sorrise al ragazzo e gli strinse la mano.
– Vieni, Simone, accomodiamoci di là. Le vetrate sono schermate
anche qui, ma dietro stiamo più tranquilli.
Cranza seguì la donna sul retro, dove c’era più luce e, già sapeva, un
fornitissimo frigo bar che lo stava aspettando. Un divano in pelle nera
copriva tutta la parete di fronte alla scrivania ma lui preferì una sedia.
Riusciva a vedere meglio le tette della donna, l’ottimo lavoro del suo
chirurgo.
– Prendi qualcosa? Chiese la donna come leggendogli nel pensiero.
– Una birra, grazie.
Mentre la donna apriva il frigo e prendeva una bottiglia di Ceres,
Simone Cranza si sedette e posò una pila di fascicoli sulla scrivania.
– Accidenti – esclamò lei – che periodo copre, questo?
– Ultimi dieci giorni di maggio e tutto giugno.
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– Uau, non so cosa dire…
– Di’ che è una bella notizia.
– Altroché!... è sorprendente. E funziona davvero! Giuro che da sola
non ci avrei mai pensato. Ne sai davvero una più del diavolo tu, eh?
– Non direi. Basta fare due più due. Le possibilità sono davvero infinite. Più te ne inventi, più ne escono di nuove. Una tira l’altra, proprio
come le ciliegie. Io sono un pioniere, Francesca. Un esploratore di un
campo in espansione continua.
Si portò il bicchiere di birra alla bocca e le strizzò l’occhio.
Il campo della disperazione del genere umano. Non esisteva in nessun
trattato di economia, non c’erano analisi in materia, non c’erano indici,
formule, curve e grafici che ne spiegassero il funzionamento e i meccanismi fondamentali. Nessun economista si sarebbe mai degnato di
studiarne i segreti e in principi, le leggi di domanda e di offerta.
Eppure rappresentava uno dei mercati più lucrosi e importanti della
società moderna e Simone Cranza era ben deciso a farne una scienza
esatta. Sesso, amore, risposte certe sul proprio futuro, tre branche da
milioni di euro che aspettavano solo qualcuno che sapesse sguazzarci
dentro come un pesce nel mare. Quello che lui aveva in mente era
qualcosa di ambizioso e stimolante che nessuno aveva ancora avuto il
coraggio di fare: unire gli operatori del settore, che ancora lavoravano
individualmente, in una squadra solida, compatta e imbattibile. Una
macchina da soldi inarrestabile e inattaccabile sul piano giuridico.
L’esperimento di collaborazione che aveva avviato qualche mese prima
con quell’agenzia matrimoniale stava funzionando a meraviglia.
– Ma… quanti sono? Chiese la donna.
– Diciannove.
– Diciannove? Non posso crederci! E’ una percentuale…
– Buona, ma si può fare di meglio.
– Ma… stai scherzando! Siamo sul quaranta per cento! Vuol dire che
su otto persone che entrano qua dentro, almeno tre decidono di contattarti!
– E lo trovi così strano?
– Be’... – rispose la donna sedendosi con una calma studiata – un po’
sì. Che qualcuno potesse accettare, l’avevo messo nel conto, ma il
quaranta per cento…
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– Si può fare di meglio, ti dico. Si può raggiungere l’ottanta. Anche il
novanta, lavorando come dico io.
– Ma dai…
– Fidati, conosco la gente. Conosco quella gente. Nei momenti di
disperazione ti darebbero qualunque cosa. Tu regala loro una goccia
di speranza e ti ripagano con tutto quello che possiedono. Basta che
tu non glielo imponga, devi solo limitarti a indicare la strada. Il resto
crederanno di farlo da soli...
– ... io ho fatto proprio così. Come mi avevi detto: ho solo fatto cenno
al tuo nome, alla tua magia e…
– E si sono riversati in massa nel mio studio. E i risultati eccoli qua.
Estrasse un foglio da una cartellina e lo spinse sotto gli occhi della
donna. Un elenco, un importo e la percentuale che spettava all’agenzia matrimoniale. Il dieci per cento sugli affari segnalati. La donna
scorse velocemente i nominativi, poi si soffermò sull’importo che le
spettava. Quattromiladuecento euro tondi tondi che le entravano in
tasca solo per aver fatto presente ai suoi clienti che una spruzzata di
magia avrebbe potuto aiutare le loro ambizioni amorose. Un mese
prima era arrivata a millesettecento. La cosa cominciava a farsi davvero interessante e forse quel ragazzo, oltre che bello e spigliato, aveva
pure un bel po’ di sale nella zucca.
– Questi sono i miei nuovi biglietti da visita. Mi raccomando, non
lesinare.
– Molto eleganti, vedo. E hai cambiato la foto.
– Sì, ne ho provate una ventina, poi ho scelto quella. E’ la più tosta.
La donna rise: – Sembri più un… gigolo, o uno spogliarellista, piuttosto che un mago.
– E’ perché sono fico. Non trovi?
La donna non rispose. Lo stavano facendo i suoi occhi.
– E sono uno con le palle che non si ferma davanti a niente. Neanche
davanti a tuo marito.
La donna sorrise ancora. Cranza apprezzò il modo in cui lei stava cercando di resistere, ma la sua capacità di resistenza era quasi al limite.
Ne aveva per stare al gioco ancora qualche minuto al massimo. Poi
l’avrebbe sbranata.
– Ma mio marito possiede tante cose, conosce tanta gente. Fa affari
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con tutti, traffica con mezzo mondo. E possiede anche una televisione. E tu ci lavori, in quella televisione…
– Certo che ci lavoro, ma non vuol dire che mi possiede. E te? Te, ti
possiede?
– Me non mi possiede nessuno... caro…
– A me piacerebbe tanto possederti. Almeno per qualche ora. Non
sono bravo solo nel mio lavoro…
– Ma ti metteresti contro Ugo Marte. Non mi dire che hai davvero
tutto questo coraggio…
Ormai era pronta. Aveva già in mente di scoparsela sulla scrivania e
fece per alzarsi e colpire, ma il suo cellulare squillò squarciando quell’atmosfera come un gessetto che stride sulla lavagna. Lo sfilò rapidamente dalla giacca e guardò il display. Numero riservato, nessuno che
potesse interessargli troppo in quel momento. Lo spense e ritornò
sulla donna. Lei si era alzata dalla sedia e gli si fece incontro. Gli
appoggiò una mano sull’uccello e gli sorrise.
– Se sei bravo a scopare come ad affascinare la gente, ho fatto il
miglior acquisto della mia vita.
Quando la strada cominciò a farsi sterrata, la Bmw rallentò e procedette a bassa velocità ancora per un chilometro. Dietro, la polvere si
alzava in volute talmente bianche e spesse da oscurare la visuale.
D’improvviso le ruote si inchiodarono e grattarono sul terreno.
Cranza scese dalla sua auto, si appoggiò con le natiche allo sportello
e si accese un cigarillo. Perdio, che donna. La chirurgia aveva fatto
miracoli e i suoi quarantacinque si erano nascosti davvero bene.
Niente a che vedere con il corpo di Lucia, ma, cazzo, era stata selvaggiamente focosa. Più di quanto si era immaginato.
Ripensò intensamente a quello scontro sessuale e si accorse che gli
dava ancora un gran piacere. Sarebbe stato bello tornare a trovarla
ogni tanto, lasciare la sua meritata percentuale sulla scrivania e darle
una sbattuta come si deve. Alla faccia di quello stronzo di Ugo Marte.
La distruzione di quel bastardo era appena cominciata.
Poi chiuse quel pensiero e si concentrò sul paesaggio che si stendeva
davanti ai suoi occhi. Un appezzamento davvero interessante, lontano
dalla città ma non troppo, perfettamente curato in ogni centimetro.
133
Piante forti e vigorose, una casetta in legno che sembrava nuova, un
impianto idrico ingegnoso e perfino l’energia elettrica. Non era difficile comprendere che in quel terreno c’era tutta la vita di Valerio
Bolognini. Ma quella proprietà stava per passare di mano. Se l’uomo
non si fosse deciso da solo, al prossimo incontro gli avrebbe dato l’ultima decisiva spallata. Avrebbe smesso di far leva sul rimorso e sul
dolore e avrebbe cominciato a stuzzicare il grilletto della paura. E
allora lo avrebbe visto piegarsi come una canna al vento. Cranza
fumava, appoggiato alla sua auto, e pregustava il possesso di quel
meraviglioso terreno. Già immaginava le modifiche che avrebbe
apportato: via quelle stupide e inutili piante e vai con un bel…
Il cellulare tornò a trillare e lo fece bestemmiare a voce alta.
– Chi cazzo è che rompe i coglioni, adesso…
Lo estrasse dalla tasca ma il display continuava a indicare un numero
riservato. Sospirò e si rassegnò a rispondere.
– Sì.
– Se mi spegni un’altra volta il telefono in faccia ti stacco la testa e la
do in pasto ai maiali. E guarda che dico sul serio.
– Oh, commissario, non sono stato io, è il telefono che si è spento. Io
ho provato a…
– Non sono commissario, pezzo di deficiente. Ricordati questo, prima
di ogni altra cosa: se ti azzardi a farlo un’altra volta ti vengo a cercare
fino al centro della terra e ti squarto un pezzetto alla volta. E’ abbastanza chiaro?
– Sì.
– Ho detto: è abbastanza chiaro?
– Sì! Sì, è chiaro.
– Meglio per te, perché non te lo dirò più. Adesso dimmi cosa hai
scoperto.
– Per la verità niente. Ho appena cominciato a…
– Cominciato un cazzo! Tu devi scoprire, Cranza, tu devi darmi informazioni! Di quello che fai durante il giorno non m’importa un cazzo,
lo capisci? Lo capisci o no?
– Sì, lo capisco.
– Ecco, allora dimmi qualcosa che non so e che non riguarda le tue
vicende del cazzo.
134
– Niente, ecco quello che so. Davvero, non ho saputo niente. Ma
giuro che ci sto lavorando, è la verità…
– Dunque, le cose sono due: o sei un idiota, e allora mi sono sbagliato, o mi stai prendendo per il culo e allora sei morto. Ma stasera ti
dice bene perché non mi voglio incazzare. Ti chiamo domani alla
stessa ora. Se mi rispondi come stasera, sei nella cacca fino al collo.
Se mi trovi in buona, chiedo solo un mandato di arresto e ti fai qualche annetto di gabbia; se ho avuto una giornata di merda, ti troveranno lungo una fossetta della litoranea mentre un cane fa colazione con
le tue palle.
– Ma… è un casino! Io faccio il mago, lo vuoi capire, mica il poliz…
– No, tu sei un cazzone, della stessa razza di quelli che cerco io, solo
un po’ più furbo di loro. Ecco perché lo puoi fare. Il resto non mi
interessa. Domani sera, stessa ora.
– Andiamo, commissario, ma lo vuoi capire che non è possibile! Non
ho la minima idea di come… pronto? Pronto? Ma vaffanculo, bastardo!
Spense il cellulare e prese a calci una ruota dell’auto finché il dolore
al piede lo costrinse a fermarsi. Desiderava che ci fosse la testa di
quello sbirro maledetto, lì sotto. Poi ricominciò di nuovo, una scarica
di calci fino a restare senza respiro.
– Maledetto! Maledetto! Figlio di puttana bastardo! Che vuoi da me,
che cazzo vuoi!
Riprese fiato e cercò di calmarsi. Prendere a calci una ruota non
sarebbe servito a niente, piuttosto doveva farsi venire in mente qualcosa da dare in pasto a quell’armadio. Ci pensò un istante, poi sorrise.
Sì, l’idea era buona.
Povero stronzo d’un poliziotto. Sei tu nella cacca fino al collo e non
lo sai…
E poi quel terreno lo chiamava sottovoce come un’irresistibile sirena
e gli impediva di concentrarsi su altri pensieri. Attraversò la strada,
appoggiò le mani e la faccia sul recinto che delimitava la proprietà di
Bolognini e rimase così per quasi dieci minuti. Le immagini che sfilarono davanti ai suoi occhi in quel lasso di tempo gli fecero ben presto
tornare il buonumore.
Quante cose si potevano fare con un terreno così. Altro che ulivi e
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viti, altro che pesche e pomodori, quello era una miniera d’oro.
Quello poteva diventare il più esclusivo bordello della città. Lontano
dai curiosi, lontano dal paese, con lo spazio sufficiente per nascondere le auto e le targhe dagli sguardi di tutti. Quanti bungalow poteva
ospitare? Non meno di quindici, tutti arredati con buon gusto e misura, pieni di belle sventole a disposizione. Roba per danarosi, per gente
che non amava perdere tempo e voleva il massimo della sicurezza e il
massimo della qualità. Sorrise compiaciuto all’idea di trasformarsi in
magnaccia. L’idea lo affascinava da morire. Sì, il magnaccia, quello
sarebbe stato il suo prossimo lavoro il giorno che si fosse stufato di
fare lo stregone per i tonti. E aveva già deciso chi avrebbe avuto come
partner a gestire l’attività: una donna elegante e affascinante, abile
con la clientela e abituata alla discrezione. Ma per far questo doveva
prima mandare in rovina suo marito. Gli scappò una risata crudele
come un rasoio sulla carne viva.
Mandare in rovina Ugo Marte: questa era addirittura la parte più piacevole di tutto il progetto.
Era un ometto tutto occhiali, dai capelli bianchi e la bocca così sottile
da assomigliare a una tacca lasciata da una mannaia su un tagliere di
legno. Era più basso di Perno di almeno quindici centimetri, ma di
fronte a Rovere sembrava più un pupazzo di peluche appena vinto
dagli scaffali di uno sgangherato luna park. Si muoveva a scatti facendo dondolare esageratamente le braccia avanti e indietro come se lo
aiutassero a darsi una spinta. Rovere lo immaginò mentre alitava
pedante e puntiglioso sul collo dei suoi redattori con quelle movenze
da pezzo di legno animato. L’uomo lesse con estrema attenzione il
foglio che Perno gli aveva consegnato mentre i tre uomini, fermi sulla
soglia del giornale, attendevano pazientemente di entrare e mettersi al
lavoro. Poi alzò la testa e si sforzò di sorridere, anche se la bocca si
mosse appena.
– Il mandato non era necessario, signori. Avremmo collaborato in
ogni caso con la giustizia.
– Ne siamo sicuri, direttore – rispose Rovere – ma è una questione di
procedura, capisce? Se trovi una prova decisiva e non hai rispettato le
procedure, la puoi tranquillamente buttare nel cassonetto.
136
– Già, immagino – rispose lui freddamente – ... bene, allora eccoci
qua. Se mi seguite, vi accompagno al posto di lavoro del povero
Breschi.
Gli ispettori si avviarono dietro il pezzo di legno dai capelli bianchi.
– Era un bravo giornalista, sapete? Un tipo vecchia scuola, gli piaceva
frugare nelle vicende fino ad afferrare il nocciolo... riportava il punto
di vista di tutti, nessuno escluso.
Camminarono un po’, una stanza dietro l’altra come infinite fotocopie
che si ripetevano, poi d’improvviso il direttore si fermò e si voltò
verso di loro.
– Eccoci arrivati, la stanza è questa e il computer è quello.
Rovere fece un cenno con la testa al ragazzo che stava con lui e questi
entrò nella stanza per primo.
– Lo ha toccato nessuno, quel computer? – chiese Rovere.
– Che io sappia no. Posso domandare in giro se…
– Non importa – lo interruppe il ragazzo – non serve a niente. E’ tutto
scritto qua dentro, non c’è bisogno che chieda niente a nessuno.
Quando è morto?
– Quattro giorni fa – rispose Perno.
– Bene. Mi basta questo.
Il ragazzo abbassò la testa, si sedette di fronte alla tastiera e si preparò all’interrogatorio. Sapeva che gli esseri umani ricordavano male,
si confondevano, facevano un sacco di casino e, molto più spesso,
mentivano. Le macchine no, loro ricordavano ogni cosa per filo e per
segno, catalogavano e archiviavano alla perfezione migliaia di ricordi
e li tenevano lì, un libro aperto a disposizione di chi aveva l’abilità e
la pazienza di leggerlo.
– Bene, meglio così – rispose seccamente il direttore – allora vi lascio
soli.
– Grazie – gli rispose Rovere mentre l’uomo si allontanava.
Quando lui e Perno si sedettero alle spalle del ragazzo, la macchina
era già accesa e in fase di avvio. Rovere cominciò subito a sentirsi a
disagio e ad agitarsi sulla sedia. Da una parte la tensione nervosa per
ciò che avrebbe potuto trovare là dentro, dall’altra l’effetto che gli
facevano da sempre quei fichetti della sezione informatica. In fondo,
si diceva spesso per calmarsi, era come ascoltare un esperto di armi,
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di cadaveri o di esplosivi, eppure… eppure non era proprio la stessa
cosa. Quelli dell’informatica avevano la grandiosa capacità di farlo
sentire un tonto di livello mondiale e avevano sempre l’aria di goderci
come bestie. Il ragazzo che gli stava davanti non sembrava troppo
diverso da quelli con cui aveva lavorato a Milano. Si era seduto alla
tastiera con fare solenne, come si preparasse a dirigere la filarmonica
di Vienna, armato delle sue sole mani e del suo infinito e misterioso
sapere. Si godeva la profonda ignoranza di quegli zulù che stavano
alle sue spalle e pendevano dalle sue labbra e che non avrebbero capito niente di niente se lui ogni tanto non si fosse fermato a spiegare i
passaggi fondamentali del suo operato. Ogni volta era la stessa scena,
tanto simile a quella di un adulto che si sforza di insegnare l’alfabeto
a un bambino. Rovere osservò le mani del ragazzo volare sulla tastiera mentre lo schermo si faceva nero.
– Cosa succede? Chiese allarmato Perno. Si è spento tutto!
– Non succede niente – rispose il ragazzo con un tono leggermente
annoiato. Adesso babbo rimette tutto a posto…
– Ci spieghi cosa stai facendo? Almeno a grandi linee, grazie – intervenne brusco Rovere.
– Inserisco un paio di applicativi che ho creato io, poi devo settare la
macchina con parametri nuovi perché risponda prima e meglio ai miei
comandi. Se ci sono password o meccanismi di protezione, il software
li individua e li decritta, poi ci fa entrare nelle cartelle. Poi voglio cercare eventuali file nascosti, oppure file che sono solo transitati sulla
macchina, ma sono stati salvati su altri supporti... un cd, un floppy. Se
non c’è niente, meglio così. Faremo prima.
La macchina si riavviò e dopo qualche istante il ragazzo cominciò a
digitare una stringa di comando dietro l’altra. Sullo schermo sfilavano
centinaia di righe incomprensibili.
– Bene – disse il ragazzo facendo scrocchiare le dita – adesso vediamo i siti che questo tipo ha visitato e i download eseguiti... diciamo…
una settimana prima di andarsene. Direi che è la prima cosa da fare.
– Perché?
– Perché ho visto che lui ha modificato le impostazioni della cronologia in modo da non lasciare tracce. Voleva che il suo tracciato sulla
rete venisse immediatamente cancellato dalla macchina. E se voleva
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che nessuno potesse scoprire il suo percorso su internet forse c’è un
motivo importante.
Schiacciò un bottone e apparve una pagina nera divisa in due colonne.
Da una parte c’era l’elenco dei siti visitati, dall’altra le pagine salvate
o i file scaricati.
– Stampala! – disse Rovere.
Il primo sito era quello del Tirreno, poi c’erano quelli delle agenzie di
stampa più importanti. Poi, a ruota, seguiva un elenco di nomi esoterici e misteriosi.
– Li conosci, quelli? – chiese Rovere al ragazzo.
– Neanche uno. Proviamo a entrare sul primo e vediamo che succede.
Apparve il volto argentato di un vampiro dagli occhi spiritati. Dai lati
dello schermo cominciò a gocciolare del sangue che alla base si incanalava in un fiumiciattolo e andava a sfociare in un laghetto alle spalle del mostro.
– E’ un sito horror – disse Perno.
– No – obiettò Rovere – è qualcosa di più. Credo di aver capito cosa
stava cercando.
Si avvicinò allo schermo e osservò con attenzione.
– C’è niente sui demoni, su Satana, sulle sette sataniche?
– Vediamo subito – rispose il ragazzo.
Digitò un comando e apparvero subito alcune pagine.
– Salvale da qualche parte – gli disse Rovere – poi passa al sito successivo.
Cinque minuti più tardi, anche Perno si era ormai fatto un’idea precisa della natura della ricerca di Breschi.
– Raccoglieva materiale – disse Rovere – raccoglieva dati, usi e
costumi sulle sette sataniche.
– Forse preparava un’inchiesta sulle sette? Ma perché?
– C’è una risposta sola. Se pensi che lavorava per il giornale di questa
città...
Perno lo guardò strabuzzando gli occhi.
– Una setta qui? Nooo, è fuori discussione.
– Lo pensavo anch’io. Ma le cose impossibili sono tutte fuori discussione finché non te le vedi arrivare addosso. A quel punto, devi crederci per forza. E se pensi che ha chiamato Boni almeno dieci volte, e
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provi a fare due più due…
– Porco cane. Boni era la sua fonte. La sua talpa.
– Esatto. E probabilmente era arrivato alla fine del lavoro.
– Cazzo, li hanno stesi per tenere nascosta una setta. Incredibile.
– Già, incredibile ma non troppo. Siamo noi che ne sappiamo ancora
poco, perché magari gli interessi che ci stanno sotto potrebbero essere
molto più grandi di quanto possiamo immaginare. Molti soldi, per
esempio, oppure molta reputazione, molto rispetto e prestigio. Molto
potere... molte donne, sesso facile, entrature negli ambienti più
impensati. Allora tutto diventa credibile.
– Ma se erano quasi alla fine del lavoro, come dite voi – obiettò il
ragazzo alla tastiera – allora qualcos’altro ci deve essere, qua dentro.
– Per esempio?
– Be’, era un giornalista, stava preparando un’inchiesta. Vogliamo
dire che non ha scritto niente? Neppure un abbozzo, qualche appunto,
una scaletta per fissare i punti fondamentali? Succede quasi sempre…
– Può essere…
– Io direi che è quasi sicuro.
– E allora?
– E allora, la cerchiamo e la scoviamo – disse il ragazzo sorridendo.
Forse, pensò Rovere, non era così stronzo come sembrava a prima
vista. Lo guardò volare qualche istante su quella tastiera senza neppure posarci gli occhi, felice come un bambino che ha appena scartato il
suo regalo di Natale.
– C’è una cartella blindata – disse d’improvviso.
– La puoi aprire?
– Ci mancherebbe altro che non potessi. E allora cosa son venuto a
fare.
Ancora un volo delle mani sulla tastiera.
– Adesso lancio il mio software e cracko la password. Dovrebbe essere questione di secondi, non credo sia una cosa complicata… infatti,
eccola qua.
Perno e Rovere si avvicinarono allo schermo come se temessero di
vederla scappare davanti ai loro occhi.
– Aprila, dai.
– Ecco fatto.
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Al suo interno c’erano due file scritti da Breschi. Il primo si chiamava
“appunti sette satan”, il secondo “articolo zero”.
– Apri quello, articolo zero – disse Rovere. E stampalo immediatamente.
Il ragazzo lanciò i comandi e venti secondi dopo Rovere e Perno avevano il cartaceo davanti agli occhi:
IL SATANISMO APPRODA IN MAREMMA
La preoccupante estensione delle sette sataniche
comincia a interessare anche la provincia italiana. A
Grosseto, ormai è certo, esiste una setta di adoratori
del diavolo che si pone sulla scia dei ben più noti
casi di Milano, Roma, Torino, senza voler scomodare
ciò che accade ormai da decenni oltre Atlantico. Per
restare ai fatti di casa nostra, il Tirreno ha intenzione di pubblicare un trittico di articoli per illustrare la struttura, il funzionamento e i nomi dei
componenti della setta. Cosa vogliono? Come agiscono?
Come si entra e a quali condizioni? Qual è il prezzo
da pagare e quali sono i vantaggi? La fonte delle
informazioni, garantita ovviamente dall’anonimato, è
costituita da un soggetto che ne ha fatto parte per
qualche mese e ha potuto toccarne con mano il reale
funzionamento. Certi meccanismi e certe figure gli
sono comunque rimaste inaccessibili proprio a causa di
una struttura fortemente verticistica, che in certi
casi si muove per compartimenti e impedisce la comunicazione tra le diverse fasce alle quali appartengono i
membri. Vi sono comunque nomi insospettabili di famiglie dell’alta borghesia locale affiancati a personaggi meno noti o addirittura già caratterizzati da qualche precedente penale. Un quarto articolo, di taglio
più marcatamente sociologico, cercherà di spiegare
dove e come nasce la necessità e l’esigenza delle
nuove generazioni di abbandonarsi a pratiche di questo
tipo, senza però trascurare il fatto che non si tratta
solo di ragazzi e ragazze in giovane età. Faremo una
panoramica veloce sulle principali sette sparse per la
penisola e un confronto, per quanto possibile, con
quella grossetana. Infine tenteremo di tracciare uno
schema piramidale che riesca a raffigurare in modo
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esauriente la struttura della setta, i nomi e le cariche dei membri e il ruolo di ognuno di loro.
Da domani sul Tirreno.
– Tombola! – esclamò Rovere appoggiando le spalle alla sedia.
– C’era bello dentro, cazzo – disse Perno – l’hanno fermato sull’orlo
del baratro. Tempo qualche giorno e li sputtanava tutti quanti.
– Apri l’altro, vediamo se c’è qualcosa di utile.
Un attimo dopo il video mostrò una tabella. Era quasi tutta vuota e
probabilmente là dentro Breschi contava di inserire le risposte. Era
fatta a cinque colonne: struttura; pratiche svolte; componenti; filosofia, contatti. Poi c’erano tre colonne vuote con eventuali altri dati da
inserire.
– Qui non c’è niente – disse sconsolato Perno.
– Quasi niente – lo corresse Rovere – guarda quello.
Appoggiò il dito sulla colonna componenti. C’erano due soli nomi
affiancati da un punto di domanda: Rocco? Roco?
– Su questo qualche indagine si può fare – disse Rovere speranzoso.
– Ma non sarà una passeggiata. Sono solo due nomi – obiettò Perno.
– E’ più probabile che sia uno solo. Breschi non era sicuro, forse l’ha
sentito solo una volta da Boni e non lo ricordava, o magari l’ha sentito per telefono, forse sono sbagliati entrambi, però…
– Però abbiamo solo quelli.
– Esatto. E dunque lavoriamo su quelli.
– Come pensi di procedere? Mandiamo qualche agente a cercare
informazioni?
– Così in dieci minuti lo sa tutta Grosseto. Neanche per idea.
Si alzò e scostò la sedia con un calcio.
– No, no. C’è una strada meno pericolosa e più efficace. Continuate a
lavorare sul computer, io sparisco per qualche ora.
– Torni qua?
– No, quando avete finito ci vediamo in questura. Può darsi che per
quel momento abbia scoperto qualcosa. Così mettiamo insieme tutti i
pezzi che abbiamo raccolto.
Uscì dalla stanza di fretta. Non vedeva l’ora di raggiungere la questura. Un nome, era solo un nome e neppure sicuro, ma forse quel tizio
era già schedato nell’archivio. Ne era certo, qualche stronzata doveva
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pur averla fatta prima di dedicarsi all’adorazione di Belzebù.
Adesso vengo a stanarti. Arrivo, figlio di puttana…
Finalmente di nuovo quella sensazione, quella miscela esplosiva che
sentiva circolargli in tutto il corpo quando era sicuro di aver imboccato la strada giusta e cominciava ad alitare sul collo della sua preda.
Un uragano interiore che moltiplicava per mille la forza dei suoi sensi
e gli dava la spinta per stare sveglio per giorni, finché non stringeva la
preda tra le sue mani.
Per un istante un pensiero torvo gli si frappose di fronte, come un
enorme nuvolone che arriva all’improvviso a oscurare il sole: e se
l’archivio non gliel’avesse dato, quel nome? Se quel tizio, per un qualunque misterioso caso, fosse ancora incensurato?
Sorrise mentre apriva lo sportello dell’auto. Se le cose fossero andate
così, non c’era che da cercarlo. Anzi, non c’era che da mandare qualcuno alla sua ricerca.
Se le cose fossero andate così, non c’era che da fare un salto in un
posto nel quale, ammise apertamente, non vedeva da tempo l’ora di
entrare. Quel famoso studio in via Pigafetta numero dodici dove il
Mago Edson giocava a prendere per il culo migliaia di persone. Già
solo per questo meritava un bel trattamento, ma adesso aveva cominciato a prendere per il culo anche lui.
Era proprio l’ora di dargli una bella strapazzata.
Nei corridoio della questura faceva un caldo bestiale e c’era più gente
che nel mercato centrale di Istanbul. Extracomunitari a branchi che si
trascinavano da un ufficio all’altro in attesa di un timbro, di una
firma, di un nulla osta. Ma anche personaggi spaesati che si facevano
ore di fila per una autorizzazione o un permesso, e poi coppie di
agenti che stavano appena montando o smontando dal servizio, decine
di impiegati con le loro cartelle sottobraccio. Forse era la sua fretta,
ma a Rovere quel posto non era mai parso così affollato. Scelse le
scale per salire al terzo piano e quando arrivò gli sembrava di sguazzare dentro le scarpe, tanto era sudato. Se non altro, ai piani più alti
c’era meno confusione. Aprì con foga la porta di una stanza e per
poco non la staccò dai cardini.
– Solimeno!
143
– Dica, dottore – rispose l’uomo sobbalzando sulla sedia.
Sembrava quasi tremare per la paura. Ma a trovarsi di fronte un colosso come quello che ti si avvicina con quella foga e quello sguardo
spiritato, era difficile non avere almeno un po’ di soggezione. Di
colpo la stanza si era fatta minuscola.
– Devi cercarmi un tizio.
– Dica pure. Ce l’ha un nome?
– Roco, oppure Rocco. Non so cosa sia, se un nome, un cognome o
magari un soprannome. Non so neppure se è giusto o se è incompleto.
Ce la fai a tirare fuori qualcosa?
– Non lo so, proviamoci. Lo cerco prima come nome intero, poi come
parte di un nome. Ha qualche filtro da applicare? Voglio dire: qualche
categoria da escludere, zone da non tenere in considerazione, per
esempio.
– In teoria nessuna. Cerca prima su Grosseto e provincia, ma non
escludere niente e non ti fermare. Fossero anche mille, alla fine stampi l’elenco e me lo porti. Ok?
– D’accordo. Ci vorrà un’oretta.
– Così tanto?
– Non direi che è tanto. Questa è un’oraccia, il centrale è ingolfato.
Consideri che mi ha detto di non escludere niente e i filtri alleggeriscono un bel po’…
– Va bene, va bene, però un’ora al massimo, d’accordo? Mi serve presto.
– Dovrebbe farcela, credo…
– Tu non lanciare altre ricerche finché questa non è terminata. Se
viene qualcuno…
– Lo faccio aspettare.
– Bravo, lo metti in coda e lo fai aspettare. Io sono al quarto piano.
– Va bene, dottore. Glielo mando su appena pronto.
– Ci conto.
L’ispettore uscì con la solita foga e la stanza riprese le sue dimensioni
normali. Salì al quarto piano e stava per aprire la porta della sua stanza quando un agente, che giungeva dalla parte opposta del corridoio,
si fermò proprio di fronte a lui.
– Dottor Rovere.
144
– Sì?
– C’è… ci sarebbe una denuncia – disse l’agente a voce bassa mentre
con il mento gli faceva cenno di guardare dietro di lui.
A qualche metro da loro, una donna di colore se ne stava in silenzio,
la testa bassa e le braccia attorno alle spalle. Un impressionante
numero di trecce le scendeva lungo la schiena fino alle natiche.
Indossava un vestitino celeste chiaro poco più grande di un fazzoletto
e scarpe dal tacco lungo quanto il palmo di una mano. Non era troppo
difficile indovinare quale fosse il suo mestiere.
– Quella signora, dicevo, dovrebbe fare una denuncia…
– E allora? – chiese Rovere disorientato – Non puoi prenderla tu?
Dov’è il problema, scusa?
– Io l’avrei già presa, ma lei non se ne va. E’ venuta anche ieri ed è
stata qui quasi tre ore, finché non le ho promesso che l’avrei fatta parlare con qualcuno più... in alto. Un superiore, insomma.
Rovere scosse la testa, prese l’agente sottobraccio e lo allontanò di
qualche metro dalla donna.
– Ascolta, Chelli… ti chiami Chelli, vero?
L’agente annuì.
– Chelli, se noi facciamo così con tutti quelli che entrano qui, sto
baraccone salta in aria in tre giorni. L’hai presa la denuncia?
– Sì ma… quella sembra disperata. E’ la prima volta che faccio una
cosa del genere dottore, mi creda. Ha detto che torna tutti i giorni finché qualcuno non la ascolta sul serio.
– Chelli, qui ci sta la polizia. I centri di accoglienza e di aiuto sono da
un’altra parte.
– Ma… pare una cosa seria. Se l’ascolta, si accorge che sta dicendo la
verità. In fondo chiede solo dieci minuti…
L’agente gli tenne gli occhi addosso come se per lui fosse la cosa più
importante del mondo, deglutì e sbatté le palpebre un paio di volte,
ma non mollò la presa. Rovere si voltò verso la donna e la osservò:
due occhi neri come il carbone, disperati, ma fieri e determinati. Un
viso attraente che sarebbe stato bellissimo se un sorriso lo avesse illuminato per un istante.
– Che rapporti hai con lei, Chelli?
– Nessun rapporto, dottore. Mai vista prima.
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– E... come ha fatto a convincerti così, eh? E’ stato il culo o sono state
le tette?... dimmi la verità.
L’agente sorrise nervosamente e scosse la testa come se avesse uno
sciame di calabroni attorno.
– No, dottore, no. E’ una bella figliola, questo non si discute, ma io
non l’ho mai vista. Sono stati i suoi occhi, dottore. Se ci parla, se ne
accorge.
In quel mentre la donna si spostò verso di loro e la conversazione tra i
due cessò immediatamente. Si fermò davanti a Rovere e lo guardò
negli occhi. Aveva una sguardo caldo e disperato al tempo stesso. Era
la richiesta di aiuto più evidente che Rovere avesse mai ricevuto nella
sua vita.
– Ti supplico, dottore. Solo dieci minuti– gli disse in un italiano perfetto – ti devo raccontare una storia.
Rovere non riuscì a reggere il peso di quello sguardo. Si voltò a
osservare il corridoio, prima da una parte poi dall’altra. Fece un
profondo respiro e le appoggiò una mano sulla spalla.
– Venga da questa parte – le disse con la massima dolcezza di cui fu
capace.
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– Temna – rispose la donna quando Rovere le chiese il suo nome.
– Temna, e poi?
– Le generalità le ho già prese tutte io, dottore – intervenne l’agente.
– Bene. Allora, veniamo subito al sodo. Perché vuole parlare con me,
Temna?
La donna lo osservò con quegli occhi scuri come il carbone e cercò di
capire, in quell’attimo che la separava da una risposta così compromettente, se poteva fidarsi dell’uomo che aveva di fronte e con il
quale aveva tanto insistito per parlare. A Rovere parve di una bellezza
intensa e profonda. Non certo la bellezza dei canoni occidentali ma…
accidenti, se era bella. A guastare quello splendido volto, solo un gonfiore strano e stonato sul labbro inferiore, ma quello se ne sarebbe
andato presto o magari, più probabilmente, si sarebbe spostato in
qualche altra parte del suo corpo. Fare quella vita e portarsi dietro
quei segni era un tutt’uno.
Era sicuro che se le avesse chiesto quale ne era stata la causa, si
sarebbe sentito rispondere che era caduta dalle scale o aveva sbattuto
contro qualcosa.
– Voglio fare una denuncia.
– Non mi stupisce. Si tratta di quel gonfiore che ha sul labbro? Che
cosa ha fatto?
– Il mio pappone mi ha picchiata. Mi ha colpito al viso e alle spalle.
Per fortuna il mio colore nasconde i lividi. Ma il dolore ancora non se
ne è andato. Lui sa picchiare bene, tanto dolore e pochi segni. Ti fa
gridare, ti fa anche svenire per la sofferenza, e quando le puttane
bianche si svegliano hanno solo un piccolo segno rosso che sembra
pizzico di zanzara.
– Dunque è venuta a denunciarlo?
– No, no. Tanto, non gli fate niente. Lo sapete da anni che fa il pappone, eppure... sempre libero. Voglio denunciare un’altra cosa.
– Ah, un’altra cosa. E… il pappone?
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– Se vuoi denuncio anche lui, ma lo faccio solo perché me lo chiedi
tu. L’importante è che ascolti quello che dico.
– Ascolterò. Adesso non parlo più, promesso.
– Bene. Mi chiamo Temna, vengo dal Senegal. Sono in Italia da nove
anni, sempre senza permesso soggiorno. Avevo vent’anni quando arrivata qui e due giorni dopo... la puttana. Faccio ancora... ho provato tre
volte a scappare ma mi hanno trovata sempre e se non andavo più
bene per fare puttana, ero già morta. Tra qualche anno, quando sarò
più vecchia, forse mi lasciano andare. Ma ora questo non importa. Io
sono qui per denunciare rapimento.
– Chi sarebbe la persona rapita?
– ... una mia amica, dormiamo insieme da quattro anni. Si chiama
Dirha, è anche lei di Senegal.
– ... fa anche lei la…
– Puttana?!... certo. Quando entri senza permesso, o fai puttana o fai
peggio. Noi siamo state fortunate.
– Perché dice che è stata rapita?
– Perché da quattro giorni non torna a casa. Non chiama, non risponde telefono. Tutti i suoi vestiti sono in casa, anche un po’ di soldi
sono in casa. Non è possibile che è scappata così. Io la conosco.
– Perché no? Potrebbe essere. Magari non lo ha raccontato a nessuno
perché non si fidava…
– No, di me si fidava, lei crede me.
– Perché ne è così sicura? Non potrebbe essere che…
– Sono sicura. L’ho fatta entrare io Italia. Lei mia sorella.
– Aveva detto amica.
– Abbiamo stesso padre. Mio padre quattro mogli. Abbiamo madre
diversa, ma stesso padre. Nel nostro paese siamo una famiglia. Se
voleva scappare me lo diceva, sono sicura.
– ... è per questo che il pappa l’ha picchiata?
– Lui crede – rispose Temna annuendo – che Dirha è scappata e io
l’ho aiutata. Mi ha picchiato per farmi parlare, ma io non so. Ha picchiato anche altre, ma nessuna sa. Adesso anche lui cerca Dirha, ma
se era davvero scappata l’aveva già trovata.
– Forse stavolta è più difficile.
– No... non è più difficile! Ma perché non mi crede!? Qualcuno l’ha
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portata via. L’ho vista la mattina, l’ho vista all’ora di pranzo, poi non
l’ho vista più!
Adesso il suo sguardo era furente. Quell’ispettore era partito bene, ma
alla lunga si stava rivelando come gli altri. Temna si avvicinò al tavolo e vi appoggiò le braccia.
– Pensi che io mi diverto a venire qua? Lo hai capito che sono... clandestina? Se non mi credete e mi rimandate al mio paese, cosa ci ho
guadagnato a venire?
La donna si fermò un istante, ma prima ancora che Rovere valutasse
appieno il peso di quelle parole, riprese a parlare.
– Sono entrata qua dentro e tutti mi hanno guardato come se avevo il
colera. Fuori da qui mi guardano in modo diverso... qui dentro, invece, fanno finta di scandalizzare. Hanno subito pensato che ho fatto
qualcosa, che ho qualche problema con legge... e sono buona solo per
scopare. Credi che questo è un piacere, per me?
– No, no. Non credo proprio. Anzi, penso che sia doloroso e difficile,
e forse io non sarei capace di sopportarlo. Ma io faccio il mio lavoro,
Temna, le domande mi servono per capire se ci sono davvero gli
estremi per un’ipotesi di rapimento, non certo per scoprire se lei racconta bugie. Non dubito che lei sia convinta di ciò che dice, però a
volte le cose sono molto diverse da come appaiono…
Proprio mentre pronunciava quelle parole, ebbe una sorta di intuizione lampo, una folgorazione che illuminò solo per un attimo la possibile strada da seguire. Fu un bagliore istantaneo che si spense subito,
talmente fulmineo da impedirgli di afferrare la risposta prima che
piombasse nuovamente nel buio. La cosa lo disturbò e lo mandò in
confusione. Non riuscì più a seguire attentamente i discorsi della
donna.
– Allora ti dico altra cosa, dottore: tre mesi fa sparita altra ragazza. E
anche allora successo casino, capi infuriati... hanno alzato le mani. La
ragazza si chiamava Yemba e aveva ventidue anni. Io credo che era
scappata davvero, che ce l’aveva fatta, almeno lei... ero contenta. Ma
poi scoperto che era sparita. Non l’hanno trovata più.
Rovere si agitava sulla poltrona cercando di limitare al minimo i
movimenti. Ma i suoi pensieri, quelli non poteva fermarli. Avevano
cominciato a turbinare intorno all’ipotesi del rapimento e ora gli strin-
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gevano il cervello come un enorme tarlo che scavava senza tregua.
Era come cercare di mordere l’acqua: ogni volta che si sentiva vicino
a una possibile risposta, i pensieri gli si sfaldavano davanti e volavano
via come polvere. Fu la ragazza a proporre una prima plausibile ipotesi.
– Io penso che vendono organi.
– Organi?
– Occhi, cuore, reni. Se clandestina sparisce nessuno si accorge. Lei
in Italia non esiste. Si prende corpo e si vende a pezzi... affare buono.
– E’ possibile, ammetto che potrebbe essere. Ma non mi convince. E’
complicato, serve una organizzazione formidabile…
– Non importa se ti convince... importa se puoi fare qualcosa. Puoi?
– Posso fare qualcosa, ma se fossi in lei non mi farei illusioni. I suoi
capi sanno dove cercare e hanno cominciato prima di noi. E se non
l’hanno trovata loro…
– Non la trovate neanche voi. Ma tu puoi scoprire perché puttane sparisce. Questo puoi?
– Posso… provarci.
– Prometti?
Rovere sospirò.
– Sì, ci proverò.
– Promesso?
– Promesso, ci proverò. Ma non si aspetti grandi cose.
– Questa è grande cosa, dottore.
Appoggiò la schiena alla sedia e sembrò rilassarsi un attimo.
– Adesso cosa fate, mi mandate in Senegal?
– Be’, in effetti – intervenne Chelli – la legge stabilisce che…
– Lascia perdere la legge, Chelli. La legge ne dice tante... se ne torni
a casa, se vuole. A meno che non decida di denunciare quel bastardo
che l’ha picchiata…
– La prossima volta – rispose Temna sorridendo – ... promessa.
Poi afferrò una penna sul tavolo ed estrasse un fazzolettino di carta
dalla sua borsa.
– Cosa sta facendo, scusi?
– Ti do mio numero di telefono e mio indirizzo.
– Cosa dovrei farci?
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– Io per te ci sono sempre. Se hai bisogno di nomi o di informazioni,
se vuoi sapere qualunque cosa, basta che chiami e io arrivo.
– Guardi che non funziona così. Per quello che intende lei ci sono gli
investigatori privati. Io devo avviare un’indagine ufficiale e per questo…
La donna gli prese la mano e la strinse alla sua. Rovere smise di parlare e osservò con attenzione quel gesto. Era un messaggio di disperazione e di paura. Temeva per sua sorella e temeva per sé, perché sapeva che la prossima avrebbe potuto essere lei. E nessuno, a parte quell’ispettore, ne avrebbe mai più saputo nulla.
– Ti prego, dottore. Prendi numero. Metti in cassetto. Non dà fastidio
a nessuno.
Poi si alzò e si avviò verso la porta con una grazia che per un attimo,
chissà perché, ricordò a Rovere l’eleganza e la grazia della sua Kun.
Aprì la porta e prima di uscire si voltò verso di lui.
– Non credevo che accettavi, dottore. Da nove anni, quando chiedo
qualcosa, nessuno risponde sì. Tu sei eroe, per me.
Gli lanciò un sorriso solare e scomparve dietro la porta, lasciandolo
alle prese con l’agente Chelli e con un tarlo che in quel momento
assomigliava tanto a una trivella.
Si aspettava una cosa più elegante, magari con la classica segretaria
sculettante e il sorriso sempre pronto, un forte odore di incenso o di
aromi penetranti, una musica soave e celestiale, le pareti ricoperte di
immagini, quadri e disegni esoterici e suggestivi, decine di citazioni
pseudofilosofiche appese ai muri. Invece lo studio di Simone Cranza
era molto più sobrio e concreto, per non dire decisamente squallido.
Pareti bianche, nessun profumo e nessuna segretaria, solo una mezza
dozzina di sedie in legno duro e spigoloso lungo il perimetro della
sala d’aspetto, muri scrostati e un pavimento vecchio di almeno sessanta anni. Solo sull’angolo della stanza, quasi in disparte, stava
un’armatura, probabilmente medievale ma con quel buffone di Cranza
non si poteva mai dire, di un guerriero che teneva una scimitarra in
una mano e una lunga catena nell’altra.
Rovere aveva suonato e il portone si era automaticamente aperto.
Salito al primo piano, aveva aperto la porta con quanto più garbo era
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riuscito a raccogliere e si era seduto accanto a una vecchia signora
che aveva cominciato a squadrarlo da subito.
Riuscì a resistere solo un paio di minuti, poi si alzò in piedi e cominciò a girare per la stanza. La vecchia non gli toglieva gli occhi da
dosso. Lo osservò girare una decina di volte attorno ai muri come un
gorilla in gabbia, poi cercò di calmarlo.
– Non sia nervoso. E’ la prima volta che viene ricevuto dal maestro?
– Come dice, scusi?
– Dico, è la prima volta che chiede un incontro con il maestro?
Guardi che è un tipo gentile e premuroso, non deve essere così preoccupato. La metterà sicuramente a suo… ma che fa?
Era troppo. Sentì arrivare l’uragano di rabbia e si avventò sull’entrata
della stanza adiacente spalancando la porta.
– Chi cazzo è che mi… – urlò Cranza inferocito.
Poi vide arrivare verso di lui Rovere, ancora più inferocito, e alzò le
mani come se l’ispettore impugnasse un bazooka.
– No, commissario, aspetta, fermo, aspetta un attimo. Ho una seduta
delicata, se per favore puoi aspettare…
– Ti ho detto che non sono commissario, pezzo di idiota. Che cazzo
stai facendo qui?
– Il mio lavoro. La signora mi ha chiesto un consulto e io la sto aiutando.
Rovere digrignò i denti e afferrò Cranza per la giacchetta. Lo sollevò
quasi alla sua altezza e lo appoggiò con le spalle al muro.
– Tu hai un lavoro solo da fare, lo capisci o no? Il lavoro che io ti ho
affidato. E devi fare quello, solo quello, niente altro! Con queste cazzate hai chiuso per sempre, lo vuoi capire, eh?
La donna che sedeva di fronte a Cranza era sbigottita. Tremava al
punto da non riuscire neppure a respirare. Rovere la guardò, solo un
istante, poi tornò su Cranza.
– Cosa le hai fatto?
– Ma niente, cosa vuoi che…
– Che cazzo gli hai fatto! – urlò Rovere.
– Mi… mi ha chiesto un talismano per il suo cane. Dice che è disturbato da qualche maleficio e non mangia più. Gli ho preparato quel
collare…
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Indicò con il dito un pezzo di piombo grigio e ricurvo che stava sul
tavolo accanto alle mani della donna. Rovere lo afferrò e glielo mise
davanti al volto.
– Un pezzo di piombo… questo sarebbe un talismano contro i malefici?
– Libero di non crederci, se vuoi, ma la signora… oh, ma che fai?
Rovere gettò il ferro per terra e prese la signora sottobraccio.
– Andiamo, signora, si alzi. La pagliacciata è finita. Quanto le ha
chiesto per quell’aggeggio?
– Io… lui diceva che avrebbe funzionato…
– Certo. Per il suo conto in banca avrebbe certamente funzionato. E’
un pezzo di ferro, signora. Non serve a niente. Se il suo cane non
mangia, il suo posto è da un veterinario, non da questo farabutto.
Quanto le ha chiesto?
– Io… gli ho dato seicento euro…
– Però! Io li prendo in una settimana. E bravo Cranza. Adesso però
tira fuori quei soldi .
– Oh, ma questo è un libero accordo tra…
– Cranza. Se non le dai quei soldi subito, ti pesto a sangue e ti trascino in galera per i capelli, quanto è vero iddio. Nel rapporto scrivo che
hai fatto resistenza e cercato di ammazzarmi. Quando esci di galera,
non ti ricordi più nemmeno com’è fatto il sole.
Cranza abbassò la testa e sospirò. Poi si frugò in tasca ed estrasse sei
banconote da cento. Le buttò sul tavolo senza aprire bocca.
– Le prenda – disse Rovere – e cerchi sull’elenco il nome del veterinario più vicino. E non metta più piede in questo posto. La prossima
volta arresto anche lei.
La donna afferrò le banconote e si allontanò con la sveltezza di un
gatto. Non più di tre secondi dopo stava scendendo le scale di gran
lena. L’altra, quella in sala d’aspetto, la seguì a ruota.
– Bravo, complimenti – latrò Cranza – se mi vuoi rovinare, hai proprio…
– Io non ti voglio solo rovinare – gli disse Rovere afferrandolo di
nuovo per la giacca – io voglio fare di peggio. Quelli come te vanno
schiacciati quando sono ancora merdine. Se io ti do il tempo e la possibilità di prosperare, tu diventi una catastrofe per questa comunità. E
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io non lo permetterò.
– Lasciami… mi… fai…
– Sta’ zitto e ascolta. Adesso io ti do un nome e tu me lo trovi entro
domani. Poi chiudi baracca e burattini e sparisci da questa città. E io,
come ringraziamento, mi scordo di te e delle tue porcate.
Naturalmente restituisci i terreni che hai sottratto, risarcisci le tue vittime, poi sgombri le tende.
– E’ illegale, non puoi farlo!
Rovere gli rise in faccia e gli diede un’altra scotolata. Cranza gemette
come un cane bastonato.
– Non posso? Fatti trovare ancora qui tra dieci giorni, e vedrai se non
posso. Non farmi perdere altro tempo. Devi cercare uno che si chiama
Rocco, o Roco, e probabilmente frequenta o capeggia questa setta di
stronzi. Lo trovi, me lo segnali, poi sparisci di qui.
– Non c’è altro?
– No, non c’è altro.
– Davvero? Non è che appena te lo trovo mi chiedi un’altra cosa, e
poi un’altra ancora fino all’eternità? Perché questo è un ricatto…
– Non giocare con la legge, farabutto... non ti chiedo altro. Se te ne
vai, naturalmente.
Gli diede una pacca sulla spalla e fece per allontanarsi.
– Rocco, o Roco. Domani. Poi è finita.
Uscì dalla stanza lasciando Cranza immerso nel suo silenzio. Scese le
scale lentamente, godendosi la paura e la disperazione di quel ciarlatano. Ma fu soltanto un attimo. Arrivato al portone, sentì il tarlo farsi
di nuovo vivo e ricominciare a scavare. Adesso era quasi arrivato a
destinazione.
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Gli abbaglianti dell’auto nel buio della notte come una lama, poi l’auto entrò lentamente nel piazzale e vi si fermò proprio al centro.
L’uomo scese e si avviò verso il capannone lasciando l’auto in moto.
A mano a mano che si allontanava dalla luce dei fari, la sua sagoma
nera si confondeva con la notte, lasciando intravedere soltanto il puntino luminoso della sigaretta che pendeva dalla sua bocca. Si fermò
alle vetrate di ingresso, allungò il collo e scrutò dentro, la mano
destra sempre appoggiata al calcio della pistola. Poi fece un giro
lungo il perimetro dell’edificio, controllò il piazzale che stava sul
retro, tornò a scrutare dall’ingresso. Quando fu più che sicuro di essere solo, arrotolò il biglietto che portava l’ora e la data del controllo e
lo infilò tra le due ante della grande porta di entrata. Tornò all’auto
lentamente, sempre con la mano sul calcio della pistola, voltandosi
almeno due volte a osservare ancora. Poi salì in auto e un minuto più
tardi era già lontano.
A cento metri di distanza, dentro la boscaglia che stava proprio sul
retro dell’edificio, il Roco lanciò la chiamata per telefono. Il Messo,
comodamente seduto dentro un furgone a qualche chilometro di
distanza, rispose prontamente.
– Sì?
– Il cavallo è passato.
Il Messo riattaccò e mise il cellulare in tasca, poi si rivolse all’uomo
che stava al volante.
– Possiamo andare.
Arrivarono al piazzale cinque minuti più tardi. Il guidatore scese e
aprì gli sportelli posteriori, poi passò sopra il furgone un enorme telo
nero che lo ricoprì completamente. Accanto alla macchia scura, lontano dalla strada e dalle luci, scorgerlo era praticamente impossibile.
Sfilò la scala dal retro e la allungò al Messo.
– Quindici minuti al massimo – gli disse – poi scappo via come il
vento. Se non ci siete, cazzi vostri.
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– Ci siamo, ci siamo. E smettila di agitarti così che non serve a niente.
– Sì, intanto però qua fuori c’è il mio furgone.
– Sì, però intanto là dentro ci andiamo noi…
– Vabbè, lasciamo stare. Quindici minuti da ora.
– ’Ndiamo, Roco – disse il Messo voltandosi verso il suo colonnello
prediletto.
Piazzarono la scala sotto un grande finestrone che aveva l’apertura
basculante dall’alto verso il basso. Il proprietario aveva la mania di
lasciarlo leggermente aperto per favorire il ricircolo di aria all’interno
dell’edificio. Stava molto in alto, ma con un po’ di fortuna e molto
coraggio non era impossibile arrivarci. Il Messo infilò i guanti e
guardò verso l’alto, poi fece un gran respiro.
– Tienimi la scala – disse al Roco mentre saliva agilmente verso l’ultimo gradino.
Aprì il finestrone fino al massimo, poi si fece passare dal Roco la
spranga di ferro e cominciò a far leva per scardinare le due grappe
laterali che tenevano la finestra. Ci volle un attimo: il finestrone
cedette e sbatacchiò al muro interno producendosi in uno schianto che
rimbombò nel silenzio dell’edificio.
– Io vado – disse.
Estrasse un cappuccio dalla tasca, se lo infilò in testa e un attimo
dopo i suoi piedi tonfarono sul pavimento all’interno dell’edificio.
Il Roco arrivò qualche istante più tardi, penando un po’ per via della
sua mole. L’edificio era un enorme negozio all’ingrosso di elettronica
con un sistema di allarme antiquato e del tutto inefficiente.
– Che prendiamo? Chiese il Roco.
– Roba poco ingombrante. Più costa, meglio è.
Si divisero le corsie del magazzino scorrendole con un grosso sacco
di tela in mano e versando dentro a manate tutto quello che capitava.
Mp3, cd portatili, videogiochi, telecamere digitali. Furono veloci e
sicuri, non si persero in stupidaggini, non si curarono di eventuali
telecamere né di una possibile presenza umana. Quello era il momento di arraffare, il momento più bello e appagante di tutta l’operazione.
Ogni secondo, ogni attimo andava sfruttato al meglio. Ogni istante
poteva significare guadagnare o perdere una montagna di soldi. Si
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diressero verso gli scaffali più redditizi, che conoscevano a memoria,
e li svuotarono in un lampo. Quando i sacchi furono sul punto di
scoppiare, decisero di levare le tende. Trascinarono insieme un tavolo
sotto il finestrone e un momento dopo erano fuori. Chiusero la scala e
si affrettarono verso l’uscita, appesantiti dai sacchi.
L’uomo del furgone stava appoggiato su una parete del veicolo e
fumava coprendo con una mano la luce della brace della sigaretta.
Dodici minuti, un tempo di tutto rispetto.
– Dentro, dentro! Disse sottovoce.
I due si infilarono nel retro del furgone assieme al bottino, l’uomo
chiuse gli sportelli, tolse il telo nero e lo appallottolò tra le braccia,
poi salì alla guida e sgommò verso la strada. Il prossimo giro di sorveglianza sarebbe passato cinquanta minuti più tardi ma non avrebbe
notato niente di anomalo.
– Quattromila euro. Duemila per uno.
– E dai, cazzo, non fare la carogna. Qua dentro ci saranno trentamila
euro di roba.
– Sì, ma voi il vostro lavoro l’avete finito. Io la devo piazzare, mi
espongo con i compratori, rischio più di tutti. Se la polizia mi becca,
al gabbio ci vado solo io.
– Non dire stronzate, se ti promettono uno sconto spalanchi la bocca
come una puttana. E scarichi tutta la colpa su di noi. Andiamo, vienici
incontro. Dobbiamo dare la stecca al commesso del negozio che ci ha
dato la dritta.
Il commesso faceva parte della setta. Aveva predisposto tutto nella
maniera migliore, si era accertato che il proprietario avesse lasciato il
finestrone aperto, altrimenti lo avrebbe fatto lui. Aveva indicato gli
scaffali da ripulire e le zone coperte da antifurto sonoro. Alla chiusura
del negozio li aveva chiamati per informarli che non c’erano stati
intoppi e tutto era andato come al solito. Per questo si era meritato un
cinquecento.
– Duemilacinque a testa e non se ne parla più.
– D’accordo – disse il Messo storcendo le labbra – però questo è un
furto nel furto. Noi l’abbiamo fregata al Ricciotti e tu l’hai fregata a
noi.
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– Sono cinquemila pezzi, mica uno. E se mi riesce, la prossima settimana vi chiamo per un lavoro che ne vale il triplo.
Il Messo scuoteva la testa e fingeva di essere poco convinto. In realtà
quei soldi gli servivano come l’aria, ma quel rapporto prometteva di
continuare e dare altri frutti; non sarebbe stato saggio rivelare così
apertamente la propria disperazione. Il Roco lo guardava, stupito dai
suoi tentennamenti. Alla fine non riuscì a trattenersi.
– Lele, sono un pacco di soldi…
– Dici? Ma anche quelli che gli restano in tasca sono un bel po’.
Comunque ci stiamo – disse all’uomo e allungò la mano verso di lui.
Quello la strinse, poi estrasse di tasca un rotolo di banconote allacciate.
– Sono cinquanta pezzi da cento, puliti e sicuri.
– Sta bene – rispose il Messo – quando hai bisogno facci un fischio.
– Se sapete tenere la bocca chiusa, i lavori li passo tutti a voi.
– Se tu dai tutti i lavori a noi– disse il Messo sorridendo – sapremo
tenere la bocca chiusa…
Si lasciarono con quell’impegno. L’uomo sparì rapido nel buio, diretto verso la periferia della città dove aveva il suo centro di ricettazione.
I due ragazzi, euforici e pieni di soldi, dovevano solo scegliere tra le
mille possibilità che una notte d’estate offriva su un piatto d’argento.
– Andiamo al Quattro rose? – chiese il Roco – La meglio roba è là…
– Non lo so. E’ pieno di froci che rompono il cazzo e di troiette che
se la tirano.
– Se gli fai vedere la grana, non se la tirano più.
– Sì, ma è un posto che mi sta sul cazzo. E poi sta’ attento: sei fai
vedere la grana che ti trovi in tasca, domattina sei il primo sospettato.
No, no, stasera dobbiamo starcene tranquilli.
– Cazzo, Lele, quando siamo a secco non si combina niente perché
non c’è la grana, adesso che siamo pieni di soldi…
– E’ per questo che quelli come te li beccano sempre – lo riprese il
Messo alzando la voce – perché fanno gli stronzi, proprio come hai in
mente di fare adesso. Appena si trovano due lire in tasca, subito a fare
i galli, a gridare ai quattro venti che sono pieni di soldi. E la mattina
dopo si fanno svegliare dai caramba che gli frugano in casa e li trascinano in caserma. Usa questa, testone – gli disse picchiandosi con il
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dito sulla fronte – e fra qualche giorno li spendi come ti pare. Ma
adesso no.
– Hai ragione, è solo che dopo un periodo di magra c’era bisogno di
un botto…
– Lo facciamo tra qualche giorno, il botto. Stasera si passa dal biondo
e si prende un po’ di roba di quella buona. Poi ci carichiamo in macchina una cassa di birra e ce ne andiamo sulla spiaggia.
– Boh – borbottò il Roco abbassando la testa – meglio che niente…
La spiaggia alternava lunghi tratti deserti a zone illuminate dai fuochi
attorno ai quali sedevano gruppi di ragazzi chiassosi e scomposti. Il
Messo e il Roco si erano fermati al parcheggio del “Quattro Rose” e
avevano fatto il pieno di erba dal biondo e di birra dal bar. Adesso
camminavano lungo l’arenile e cercavano un posto tranquillo dove
farsi fuori la loro birra e stonarsi un po’ lontano dagli schiamazzi e
dagli sguardi curiosi.
– Questa – disse il Messo buttandosi di schianto sulla sabbia – deve
diventare una cosa seria.
Il Roco stappò una lattina e gliela passò.
– Seria? Che vuol dire seria?
– Vuol dire che bisogna farla finita con i giochetti.Va bene scopare, va
bene Lucifero e tutto il resto, ma la setta è un’occasione d’oro, per
noi, e non la dobbiamo buttare al vento.
Il Roco lo osservava, ancora lontano dal comprendere le sue parole, e
sbatteva lentamente le palpebre come se non dormisse da un mese.
– Occasione… d’oro?
– Sveglia, Roco! La manovalanza della setta obbedisce a tutto. Se la
presenti come una richiesta di Lucifero, puoi chiedere ogni cosa e
quelli obbediscono come soldatini. Hai visto il commesso di Ricciotti,
no? Basta dire che è per la causa e ti portano pure la mamma in regalo. Le donne ci fanno scopare, e va bene così. Loro sono a posto. Ma
i ragazzi… con loro, cazzo, possiamo scalare le montagne.
La luce della luna piena rimbalzava sulla superficie calma del mare e
riverberava sugli occhi accesi del ragazzo. Quel progetto era ormai
diventato la sua vita.
– Dobbiamo mettere su una banda per fare soldi. Gente che obbedisce
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e non ha paura di niente. Pronta a rubare, ammazzare, affrontare di
tutto.
Il Roco si accese una canna e la passò al Messo.
– Tu capo, io secondo. Mi piace.
– Sì, ma solo gente cazzuta. Per questo dobbiamo cominciare a sgrassare la setta. Negli ultimi tempi sono entrate persone che non mi convincono. Non so fino a dove hanno il coraggio di arrivare.
– E tu fagli fare la prova. Chi la passa sta dentro, chi non la passa…
– Chi non la passa, dobbiamo levarlo dai coglioni.
– Stessa cosa per le donne: dentro solo quelle disposte a tutto.
– No, le donne basta che scopano. Nel resto dell’attività, meglio che
stanno lontano. Hanno la lingua lunga e fanno solo danni. Ti ricordi
quell’ispettore che ti ho fatto vedere?
– Quello sul giornale? Quello che ci sta addosso?
– Proprio lui. Mi sa che diventerà la prossima prova.
– Cazzo, una roba tosta.
– Più tosta è, meglio è. Chi vuole stare dentro, deve dimostrarlo. Chi
ammazza l’ispettore è dentro, chi non lo fa o si fa beccare, è fuori.
Dieci giorni di tempo per superarla.
– Mi sa che qualcuno non accetterà di farla.
– Chi non accetta è già morto…
Mezz’ora dopo erano completamente andati. I falò ancora accesi, in
lontananza, prendevano davanti ai loro occhi le forme più strane e
bizzarre, le onde appena accennate del mare si trasformavano in
rumori laceranti e insopportabili. Presero a ridere senza motivo e
senza riuscire a fermarsi. Durò un po’, poi l’effetto dell’erba cominciò ad attenuarsi. Era notte fonda, ormai. I fuochi erano quasi tutti
spenti. Le coppie che si erano formate scopavano disinvolte come se
fossero tra le mura di casa, secondo un tacito patto per il quale nessuno avrebbe disturbato gli altri.
– Lele, guarda…
Il Roco indicò con la mano la scalinata esterna dell’Hotel Miramare.
Sotto una luce fioca una ragazza stava scendendo silenziosamente le
scale che portavano all’arenile.
– E’ una cameriera dell’albergo, l’ho già vista qualche volta.
– E allora?
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– E allora mi arrazza come un toro. Solo che non me la dà.
Il Messo sorrise osservando il passo agile e flessuoso della ragazza
che si dirigeva verso la riva della spiaggia. La sua pelle nera si
confondeva nel buio, ma non abbastanza da nascondere le seducenti
forme del suo corpo.
– E tu vai e prenditela. Stasera sei invincibile.
– Dici? E se mi vede qualcuno?
– Ci sono quattro gatti in tutta la spiaggia e sono tutti fatti. Vai, vai.
Stasera te la fai di sicuro.
– Quella neppure mi guarda. Sta con un negraccio lungo lungo che fa
il vucumprà nel parcheggio della Coop. Che cazzo ci troverà in quello…
– Appunto. E te ti fai fregare da uno così?
Gli accostò la bocca all’orecchio.
– Tu sei un luciferiano, lo capisci o no? Se tu azzardi, Lucifero è con
te. E non ti fermerà mai nessuno, capisci?
La ragazza, convinta di essere sola, si era spogliata e aveva lasciato i
vestiti sulla riva. Adesso aveva l’acqua alle ginocchia e continuava ad
avanzare. La luce della luna scivolava sulla sua pelle nera trasformandola in una statua d’ebano. Una meravigliosa statua d’ebano.
– Cazzo, come me lo tira…
– Vai, stupido. Entra in acqua e fattela. Ma ti dico una cosa: quando
sei dentro, non fermarti. Una volta che hai deciso, devi andare fino in
fondo. Mamma mia, c’ha proprio un bel culo. Lo sai che hai ragione?
E’ una fica…
Le iridi del Roco brillavano di desiderio. Seguiva il corpo della ragazza, adesso immerso nell’acqua, e immaginava di essere un alligatore
che le strisciava dietro. Lei nuotava, placida e silenziosa, godendosi il
mare deserto e calmo. Guizzava sott’acqua, poi si lasciava andare a
lunghe bracciate finché le reggeva il fiato. Il Messo lo lasciò scalpitare qualche altro istante, poi gli diede la botta finale.
– Sarà una scopata grandiosa. Cercavi il botto, no? Eccolo qua. Vai,
testone, che io ti copro.
Il Roco lo guardò, cercando conforto negli occhi dell’amico. Era spaventato, ma il desiderio prevaleva su ogni altra cosa. E poi adesso la
ragazza stava uscendo dall’acqua. Entro qualche minuto avrebbe rac-
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colto i suoi vestiti e se ne sarebbe tornata nella sua stanza d’albergo
riservata al personale. Un’occasione così non l’avrebbe più avuta.
– Questa è una notte speciale, Roco. Sei pieno di soldi, sei fatto, e
una gazzella nera ti aspetta sulla spiaggia. Se non lo fai, ti prendo per
il culo davanti a tutti. Lo giuro.
– No, vado. Però giurami che non verrai a rovinare tutto, eh?
– Giuro. Resto qui e controllo la situazione.
– Non ti presentare all’improvviso per…
– Non voglio sapere niente, Roco. Me ne sto qui e non mi muovo finché non mi chiami. Promesso.
Il Roco si tolse di foga le scarpe scalzandole con i piedi.
– Allora vado – disse sorridendo
Meglio se non le sorridi, pensò il Messo. Poi si sedette e si preparò a
intervenire. Dieci a uno che sarebbe andata proprio come aveva previsto lui.
Il Roco lasciò che la ragazza uscisse del tutto dall’acqua. Lei si fermò
sulla riva e attese che l’acqua sgocciolasse dal suo corpo. Si strizzò i
capelli, poi si abbassò a prendere i vestiti.
Il Roco zampillò fuori dal nulla.
– Ciao…
La ragazza diede un urletto di spavento, poi si ricompose. Infilò di
corsa i pantaloncini senza parlare.
– Ti ho detto ciao…
– Ciao. Cosa vuoi?
– Passavo e ti ho vista. Sei… sei… bella…
Il suo respiro si fece affannoso. La ragazza si avviò velocemente
verso l’albergo senza neppure indossare la maglietta..
– Ora vado.
– Aspetta – fece il Roco mettendosi alle sue spalle – aspetta un attimo…
– Non posso. Devo andare.
– Aspetta, voglio dirti una cosa.
La ragazza non rispose e accelerò il passo. Il Roco cercò di fermarla
prendendole un braccio, ma lei guizzò via, agile e determinata.
– Lasciami, devo andare.
– E aspetta, cazzo. Mica ti mangio.
162
Lei non rispose. Continuò a camminare verso l’albergo con quelle
lunghe gambe nere e quelle natiche che ondeggiavano sotto gli occhi
infoiati del Roco. Il colpo le arrivò proprio sotto la nuca, secco e
potente. Si accasciò sulla sabbia senza dire nulla, come un pupazzo
gettato dalla finestra.
– Stronza negra di merda. Così ci devi trattare la tua gente, brutta
troia.
La afferrò per le mani e la trascinò lungo l’arenile. Sentiva il respiro
salire di ritmo per l’eccitazione e la paura mentre le parole del Messo
gli rimbombavano nella testa come martellate.
Una volta che hai cominciato devi andare fino in fondo.
Si fermò accanto allo scafo rovesciato di una barca e lasciò andare il
corpo sulla sabbia. La ragazza era ancora svenuta e non si muoveva.
Il Roco si mise sopra di lei a gambe larghe, si inginocchiò e le appoggiò il pene sul viso. Gli scappò un gemito di eccitazione. Allora si
alzò per togliersi in fretta e furia i pantaloni ma cadde a terra e continuò da seduto, poi tornò sulla ragazza. Le si sdraiò sopra, affondò il
naso nel suo collo, poi prese a leccarle i capezzoli.
– Allora, te la fotti o no?
Sentì il cuore schizzargli fino alle tempie. Era troppo eccitato per
riconoscere la voce.
– Cazzo, Lele, a momenti ci resto secco…
– Dai, scopatela una volta per tutte. Guardala: sta lì, a cosce aperte,
tutta per te. Che aspetti?
Il Roco si sdraiò nuovamente, grugnì di desiderio e inarcò il bacino
per penetrarla. La ragazza aprì gli occhi proprio in quel momento:
due luci abbaglianti, due perle d’argento che gridavano orrore. Le
servì solo un istante per comprendere, poi prese tutto il fiato che poté
e aprì bocca per lanciare un urlo che però le soffocò in gola. Il Roco
le appoggiò una mano sulla faccia e la costrinse al silenzio.
– Sta’ zitta, negra.
La ragazza prese a dimenarsi con furia. Tirava calci e pugni come
poteva e il Roco non riusciva a immobilizzarla. Menava fendenti, sollevava il bacino nonostante la pesantezza del ragazzo, graffiava, piegava la testa da una parte all’altra.
– Cazzo, Lele, aiutami che c’ho una mano occupata!
163
Il Messo si godette la scena ancora un po’, poi si inginocchiò di fronte al Roco e afferrò le mani della ragazza.
– Così va meglio, cazzo.
Ma la ragazza continuava a mugolare, muoveva la testa e piegava le
gambe. Il Roco non ce l’avrebbe mai fatta.
– Cazzo – disse il Messo – questa è selvaggia come la sua gente.
Questa qua non la domi, caro mio…
Il cazzotto le arrivò in pieno viso. Fece un rumore sordo e cattivo. Il
Roco ebbe l’impressione che il braccio gli fosse sprofondato nella
sabbia fino al gomito.
– Adesso vedi se non la domo, porca troia.
La ragazza perse di nuovo i sensi. Il suo corpo si rilassò e finalmente
si concesse. Il Roco la penetrò con rabbia mugugnando come un
gorilla. Venne quasi subito. Poi si rialzò, ancora col fiato grosso e gli
occhi fissi su di lei.
– Stronza. Mi ha fatto incazzare... manco voleva parlarmi…
Poi la rabbia scivolò via. Sparì d’improvviso come l’acqua dentro un
secchio sfondato. Un attimo dopo i suoi occhi erano tornati a essere
quelli di un ragazzo smarrito e confuso. Una richiesta d’aiuto a chi
poteva salvarlo da quel casino.
– E ora? Che si fa ora, Lele?
– E che ne so. Certo, hai combinato un bel casino.
– Lele, quella mi conosce…
– Magari è clandestina, vedrai che non ti denuncia. Fossi in te, dormirei tranquillo.
– Sì ma… e se mi denuncia?
– Allora sei nella merda. Di quella alta.
Il Roco respirava di nuovo affannosamente. Si mise le mani sulla testa
e cominciò a girare in tondo.
– Cazzo cazzo cazzo. Che coglionata di merda…
– Ormai è fatta. Ora devi pensare a salvarti il culo.
– Sì ma… tu sei con me, vero? Mica mi molli in mezzo a…
– Tranquillo, no che non ti mollo. Anzi…
– Cosa? Cosa?
Il Roco fissava il Messo senza neppure respirare.
Fissava la sua bocca e aspettava con ansia le sue parole.
164
– Perché non la nascondiamo fino a domenica?
– E poi?
– E poi la offriamo a Lucifero. Anzi, tu la offri a Lucifero. Lo farai tu,
davanti a tutti i fratelli.
Vide gli occhi del Roco riprendere luce. Accendersi prima di speranza, poi di gioia e di piacere.
– Vedrai – gli disse– sarà la fine del mondo. Al confronto, questa scopata ti sembrerà come raccattare spazzatura.
165
20
La ragazza avanzava lungo il corridoio come se sfilasse su una passerella illuminata dai flash dei fotografi e dalle luci di supporto delle
telecamere. Aveva davvero ogni cosa al posto giusto per lavorare
come modella, chissà perché si era accontentata di rimanere in uno
studio notarile. A osservare la sua avvenenza, il suo portamento, la
sua eleganza, quel lavoro le stava davvero molto stretto. Per Simone
Cranza, vederla arrivare verso di lui e desiderare di farsela fu tutt’uno.
Subito dopo gli venne da pensare che quello era probabilmente un territorio già posseduto, quasi certamente dal titolare dello studio notarile. Interessante ragione in più per provarci quanto prima, anche subito, se le cose fossero andate come aveva pianificato. La ragazza restituì i documenti che aveva fotocopiato e regalò loro un sorriso abbagliante.
– Da questa parte, signori, il notaio vi aspetta.
– Bene – rispose Cranza – siamo pronti. Dottor Marte, vogliamo
andare?
Ugo Marte si alzò molto lentamente e si fece trascinare verso la stanza del notaio come se si trovasse in quel posto solo per caso. Cranza
lo teneva sotto controllo con un occhio mentre con l’altro teneva sotto
controllo le natiche della segretaria e lasciava che la sua fantasia sprigionasse tutta la sua forza. Percorsero un corridoio arredato da decine
di quadri e carte nautiche, poi finalmente la ragazza aprì la porta della
stanza principale. Il notaio De Gregori sedeva dietro una scrivania
enorme, che ostentava un legno chiaramente raro e pregiato. La sua
sedia era altrettanto pregiata, quanto, a giudicare dalla sua espressione, estremamente scomoda. Dietro di lui si ergeva un muraglione di
volumi antichi di diritto che raggiungeva un soffitto decorato fino agli
angoli di affreschi appena restaurati. Era talmente alto e imponente da
ricordare la galleria di un museo. Quando avrò sistemato le faccende
più urgenti, mi stabilirò qui, pensò Cranza, e a quell’idea ebbe un
guizzo di eccitazione che gli percorse la schiena.
166
– Buongiorno, signori... benvenuti. L’atto è pronto, scritto di mio
pugno seguendo alla lettera le vostre disposizioni. Ne ho predisposto
cinque copie, e adesso…
– Siamo prontissimi – lo interruppe Cranza – ci dica solo dove dobbiamo firmare.
– Prima devo darne integrale lettura – rispose cortesemente il notaio.
Cranza alzò le braccia e si sforzò di piegare le labbra verso un abbozzo di sorriso.
– D’accordo. Allora, faccia pure…
Si sedette e Marte gli si affiancò meccanicamente. Il notaio inforcò
gli occhiali e prese subito la parola.
– Oggi, davanti a me notaio Astolfo De Gregori, presso il mio studio
sito in…
Cranza cercò di tranquillizzarsi e rallentò la respirazione. Si guardò
attorno concentrandosi sui mobili antichi che arredavano la stanza, sui
drappi rosa chiaro che affiancavano la grande finestra come due imponenti guardie svizzere, pensando al giorno in cui quell’appartamento
sarebbe stato suo. Poi controllò l’espressione tranquilla e un po’ ebete
di Ugo Marte. Stava andando tutto per il meglio e mancava solo qualche minuto alla fine. Quello sarebbe stato senza dubbio il suo capolavoro, l’azzardo più geniale di cui era stato capace fino a quel momento. E dopo… dopo sarebbe stata tutta un’altra storia. Arrestò un sorriso
beffardo che gli chiedeva di uscire dalla bocca: da qualche giorno si
stava scervellando per trovare il modo migliore di fottere quel bastardo
di Marte e portarlo alla rovina, ed ecco che quello stupido si era offerto sotto le sue fauci senza neppure farlo penare troppo.
– Sono presenti i signori Ugo Marte, titolare della Unimarte srl, con
sede legale in Grosseto, alla via…
Era successo appena due giorni prima e Cranza non aveva davvero perso
tempo. Aveva appena terminato la registrazione di una puntata della sua
ormai celebre trasmissione. Il regista, mentre lui usciva dalla stanza con
la sua inseparabile valigia stretta nella mano, gli aveva annunciato che
Marte voleva parlargli e lo aspettava come al solito nello spiazzo antistante l’edificio della televisione.
In quel momento si era preparato al peggio: l’ultima battaglia l’aveva
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vinta lui, ma con un figlio di puttana come Marte non era mai detta l’ultima parola. Quello era un serpente a sonagli e bastava distrarsi un attimo
per venire morso. Non che questo gli facesse paura più di tanto, anzi, ma
era comunque saggio stare in guardia. Marte fumava nervosamente il suo
sigaro e lo aveva accolto senza i sorrisi e le moine della volta scorsa.
Evidentemente anche lui aveva fatto tesoro di quel colloquio.
– Premesso che le parti hanno deciso di dare vita a un progetto televisivo denominato L’arte della magia, condotto dal signor Simone
Cranza sotto forma di striscia quotidiana di due ore dal lunedì al
venerdì per nove mesi a partire dal giorno dieci luglio prossimo venturo…
Marte lo aveva preso a braccetto e lo aveva portato lontano dall’edificio, quasi in aperta campagna, prima di confessarsi.
– C’è qualche problema? Gli aveva chiesto Cranza.
– In effetti, sì. E anche piuttosto grosso.
– Sentiamo.
– Ecco... la trasmissione sta andando benissimo e la striscia quotidiana in preparazione promette ancora meglio. Abbiamo raccolto una
montagna di inserzioni pubblicitarie. Lo share è in continua crescita,
in città ne parlano tutti e tutti aspettano di vedere com’è fatta la nuova
trasmissione.
– Fin qui non vedo problemi…
– Giusto. Il problema è il tuo compenso.
– Il mio compenso lo abbiamo concordato a suo tempo e non è proprio il caso di tornarci sopra.
– Già. Il fatto è che… non so come spiegarmi, ma…
– Non hai i soldi per pagarmi.
– Diciamo che… sì, più o meno è così..
– Ma se hai appena detto che le inserzioni sono una montagna…
– E’ vero, ma quelli pagano a trenta e sessanta giorni dal passaggio
degli spot in tv. Tu invece i soldi li vuoi subito, no?
– Tutti i lunedì, come stabilito. Cinquemila in nero e cinquemila…
– Con fattura, lo so. Ma io in questo momento sono un po’ a corto di
liquidi, sai com’è, i fornitori, i dipendenti…
168
– Certo. E le scommesse, il gioco, i regalini alle puttane… eh già,
immagino proprio che tu sia un po’ esposto. Ma non è un problema
mio.
Era stato in quel preciso momento che gli si era accesa la lampadina.
Marte cercava di minimizzare, ma in realtà stava piantato nella merda
fino al collo. Aveva preso impegni, pubblicizzato la trasmissione,
magari riscosso acconti e assunto persone per realizzare quel progetto. La macchina era partita e fermarla non era più possibile. Avrebbe
schiacciato chiunque avesse cercato di opporsi, Marte queste cose le
sapeva bene. In quel momento lo sentì nelle sue mani, avrebbe potuto
chiedergli qualunque cosa.
– Non ho detto che non voglio pagarti. Volevo solo chiederti se potevi
aspettare un po’, diciamo qualche settimana. Se mi dai un po’ di
respiro li avrai tutti, i tuoi soldi.
Non era vero, Marte i soldi non riusciva a tenerli in tasca. Erano troppe le tentazioni e i vizi di cui era vittima. Ma ormai Cranza non puntava più ai soldi.
– La risposta è no. I termini di pagamento fanno parte dell’accordo.
Importo e tempi di pagamento sono entrambi essenziali. Se uno dei
due salta, allora salta l’accordo.
– Ma così salta la trasmissione…
Marte si era passato una mano sulla fronte e aveva aperta un altro bottone della camicia. La merda cominciava a sommergerlo e prima di
tirarlo fuori Cranza aveva deciso di aspettare che ne sentisse ben bene
la puzza.
– Mi metti nei casini, cazzo! Devo restituire un sacco di soldi, licenziare della gente che mi farà causa! E poi, Cristo, la figura di merda
con tutta Grosseto…
– Mi dispiace, questa parte dell’organizzazione era di tua competenza.
Se hai calcolato male i costi, non so cosa farci.
– … premesso che il compenso complessivo a favore del signor
Cranza per la conduzione della trasmissione sopra descritta è pari a
euro duecentomila e che il signor Cranza dichiara espressamente di
rinunciare fin da ora alla corresponsione dello stesso…
169
Lo aveva osservato annaspare, passarsi il fazzoletto sulla faccia e
pulirsi gli occhiali, divorare il suo sigaro e sprofondare nella disperazione. Si era limitato ad aspettare in silenzio, come il più glaciale dei
predatori.
– Ma perché non ti fidi, cazzo! Se ti ho detto che te li do, vuol dire
che…
– Ascoltami bene, sacco di merda che non sei altro. Mi sa che la volta
scorsa non ti è bastato. Quei soldi li trovo in qualunque televisione,
hai capito? Se non me li dai tu, me li dà qualcun altro. Ti devo ricordare che ho ancora il numero di Fede?
– Cranza, se mi fai una cosa del genere, è finita. E non farà bene neppure a te, questo tonfo…
– Può darsi, ma io mi riprendo nel giro di qualche mese, per te è chiusa, finita per sempre. Cos’è, bancarotta fraudolenta? Truffa?
Fallimento? Non lo so, ma di sicuro non è una passeggiata.
– Non è possibile, non può finire così, proprio adesso che era tutto
pronto…
– C’è un’altra soluzione. La vuoi ascoltare?
– Non è che ho molta scelta...
– Diciamo che io rinuncio al mio compenso. Non ti chiedo un centesimo e mi faccio tutta la trasmissione. Nove mesi filati senza battere
ciglio, ti lascio incassare i tuoi soldi senza starti addosso, faccio
decollare la trasmissione e la rete, la faccio diventare il gioiello della
regione. E lo sai che posso riuscirci.
– Rinunci al compenso. E… in cambio?
Marte lo aveva fissato, con quegli occhi che una volta erano quelli di
uno squalo e adesso assomigliavano tanto a quelli di una preda.
Cranza si era goduto quegli istanti dal primo all’ultimo, li aveva
lasciati sfilare in religioso silenzio e avrebbe voluto che durassero in
eterno, un eterno brodo bollente nel quale cuocere Ugo Marte. Ma
poi, nel silenzio buio e spesso dello spiazzo alberato, se ne era uscito
con quella richiesta tagliente e dolorosa.
– In cambio... mi cedi metà della televisione.
– Metà… della…
– Televisione. La metà delle quote della Unimarte. Tu rimani l’amministratore e continui a gestirla, metà della proprietà passa al sottoscrit-
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to. E’ una soluzione accettabile, dimmi cosa ne pensi.
Marte sembrava appena uscito da un linciaggio. Succhiò avidamente
il suo sigaro come se potesse regalargli l’idea della salvezza.
– Me la metti giù bella dura, cazzo... mi stai prendendo per il collo.
I suoi occhi si erano fatti enormi e disperati, l’iride minuscola e circondata da un mare di bianco che stillava paura. Ugo Marte aveva
capito, troppo tardi, di essere in trappola.
– Dici? La vedi in questo modo? A me era sembrato di offrirti una
eccellente possibilità di tirare le zampe fuori dalla merda. Ma certo, lo
sai meglio di me, ogni cosa ha un prezzo.
– Se tu entri nella tv…
– Se io entro nella tv cambiano un po’ di cose, questo è sicuro come
la morte. Ma non è detto che per te sia un male, potrebbero esserci
anche dei risvolti positivi. Però se io non entro nella tv e stasera
mollo tutto, per te è l’inferno.
Ugo Marte aveva abbassato la testa e ingoiato la sconfitta. L’aveva
fatta franca talmente tante volte che forse aveva finito per credere che
il vento potesse soffiare in eterno alle sue spalle e mai contro. Ma stavolta buttava davvero male, e Cranza non avrebbe certo dimostrato
pietà. Anzi. Gli aveva dato una pacca sulla spalla alla fine, per completare l’opera di umiliazione.
– Su con la vita, socio. Resti l’amministratore, conservi metà delle
quote e tra un anno questo carrozzone varrà cinque volte quello che
vale oggi. Non starei troppo a lamentarmi se fossi in te.
Ugo Marte con il gioco e con le puttane aveva dilapidato una montagna di soldi, ma non il cervello. Sapeva bene che questo era vero, ma
era solo una faccia della verità. Il rovescio, decisamente più importante, riguardava chi avrebbe realmente tenuto il timone tra le mani.
– Il signor Ugo Marte cede al signor Simone Cranza, il quale accetta…
Nell’allontanarsi, Edson aveva sfoderato un sorriso tetro e crudele.
– Domani avverto il notaio De Gregori, dopodomani facciamo l’atto.
Per te va bene, no, socio?
Marte aveva annuito in silenzio, ormai svuotato di energia. Si era pas-
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sato il fazzoletto sulla fronte e sulla bocca, poi, mentre Cranza scompariva nel buio (era singolarmente bravo a sparire nel buio) lo aveva
appoggiato sugli occhi. E a quel punto non era riuscito a fermare le
lacrime.
– … il 51% (leggasi cinquantuno per cento) del totale complessivo
delle quote della società Unimarte srl, per un valore complessivo pari
a euro 220.000 (leggasi duecentoventimila) come da perizia allegata
al presente atto…
Il notaio alzò velocemente gli occhi dal foglio e squadrò i due uomini
davanti a sé. Cranza, le mani intrecciate sulle gambe, gli sorrise baldanzoso, Marte sembrava una statua e non ebbe nulla da obiettare.
Dunque inforcò nuovamente gli occhiali e riprese a leggere. Nel giro
di qualche minuto ebbe terminato.
– Una firma sul fianco di ogni foglio, per cortesia, e una in calce al
documento.
Cranza terminò rapidamente, per Marte servì qualche minuto in più.
– Bene – disse De Gregori quando le operazioni di firma furono terminate – nel giro di qualche giorno la cessione verrà formalizzata e
resa pubblica. Naturalmente, è operativa da subito.
– Tante grazie, dottore – disse Cranza alzandosi – spedisca pure la sua
parcella all’ufficio del dottor Marte, verrà saldata immediatamente.
Gli strinse la mano e accompagnò Ugo Marte verso l’uscita.
– Vi faccio accompagnare – disse loro il notaio.
Chiamò la stessa ragazza che li aveva introdotti.
Quando fu sulla porta, Cranza spinse Marte verso l’esterno e si preparò a sedurre la ragazza. Lei gli sorrise, quasi in attesa di una sua
frase, ma Cranza si fermò d’improvviso.
Non adesso, si disse. Nessuna fretta. Ti prenderò assieme a tutta la
baracca. Entrerò qua, e comprerò tutto.
Compresa la tua fica.
– Ecco qua, dottore, guardi che meraviglia. E senta che profumino…
– Signora Franca, se andiamo avanti di questo passo, mi fa diventare
un pallone…
– Eh, che sarà mai un piatto di pasta?!... vuol campare di aria? Se a
172
pranzo si fa un panino, bisogna che la cena sia sostanziosa. Senta
queste telline come profumano, sono freschissime. Le ha tirate su
Bruno stamattina. C’è venuto un sughetto…
Purtroppo per lui, era vero. Le mani gli scesero d’istinto sull’anello di
ciccia che contornava i fianchi e si faceva ogni giorno più spesso.
Provò a stringere le dita, sperando che il senso di colpa riuscisse a
fermarlo in tempo, ma il profumo dello spaghetto e le tante ore di
digiuno spazzarono via ogni perplessità.
– Grazie, signora.
– Glielo porto un po’ di bianco? Facciamo un quarto?
– Niente vino stasera, grazie.
La signora Franca si allontanò con un sorriso felice stampato in faccia
e Rovere cominciò a mangiare. Niente vino, quella sera: aveva bisogno della massima lucidità di pensiero. Doveva fare il punto della
situazione, riassumere tutte le informazioni che aveva raccolto, cercare di legarle secondo un senso logico e buttare giù un tracciato che lo
conducesse alla risposta. Doveva incrociare i dati e cominciare a
prendere decisioni. Sperava che durante il sonno il suo cervello rielaborasse quel crogiuolo di elementi e ne tirasse fuori qualcosa di utile.
Il tempo cominciava a stringere e ora c’era bisogno di risultati concreti.
Terminato lo spaghetto si fece portare un caffè, poi si fermò qualche
minuto nella saletta tv. La signora Franca era ovviamente davanti alla
televisione, euforica come non l’aveva mai vista.
– Ah, perdio. Son contenta come una Pasqua…
Rovere si accorse che stava ridendo anche lui.
– Lo sa che dalla prossima settimana il Mago Edson va in onda tutti i
giorni?
– Il mago… ah quello della televisione, dice. Edson.
– Sì, quello! Tutte le sere dalle nove alle undici, in diretta! Che bello.
Guardi: regalo più bello non me lo potevan fare!
– Eh, immagino. Un sacco di consigli utili. E poi è anche bello…
– Piace anche a lei dottore, vero?
– Eh sì, neanche se lo immagina quanto mi piace…
– Lo sa che la potrebbe aiutare molto. Lo sa, vero?
– Aiutare me? E perché?
173
– Via dottore, guardi che io qualche annetto più di lei ce l’ho e le cose
le vedo, che crede!
Rovere tacque, disorientato ma curioso, in attesa che la donna si
aprisse.
– Non è il primo e non sarà l’ultimo che ha qualche problema d’amore. Mica se ne deve vergognare, sa. E poi non è mica brutto. Ma se
uno non incontra, non incontra... e vabbè, non è mica un crimine.
Dico bene?
– Ah, diceva per quello. Eh, ha ragione, ma sa come vanno queste
cose: il lavoro, il trasferimento, sempre in giro ad acchiappare i delinquenti.
– E intanto gli anni passano…
– Giusto.
– Se lei va da Edson, quello le fa trovare moglie in un soffio. Ma
sicuro come l’oro…
– Eh, quasi quasi… ce la farei volentieri una chiacchierata.
– Perché non gli telefona. Mica stasera: quando si sente pronto...
comincia col telefono, poi, quando si sente più sicuro, lo va a trovare
allo studio.
Così magari gli spacco la faccia una volta per sempre.
– E’ un’idea. Magari tra qualche giorno, quando ho terminato questo
lavoro, lo…
Si bloccò di colpo. Restò fermo e muto sulla poltrona come un elettrodomestico privato all’improvviso della corrente.
– Dottore? Dottore, ma… si sente male?
– Niente… io… non ho niente… devo salire… buonanotte.
Si avviò a grandi passi verso la camera divorando le scale due a due.
Stava sudando come una fontana, sentiva persino il fiato grosso e il
cuore picchiare forte. Ma non si allarmò, perché era una sensazione
che conosceva bene e che provava ogni volta che il tarlo, dopo tanto
scavare, raggiungeva finalmente lo scrigno sepolto nel suo cervello e
di colpo ne sollevava il coperchio portando alla luce qualche tesoro
nascosto. Sperava tanto di essersi sbagliato, lo sperava davvero mentre girava rumorosamente la chiave nella toppa e ripensava al viso
dolce e caldo di Temna.
Sperava proprio di non dovere darle quella brutta notizia, sperava che
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la sua fosse solo suggestione, o magari un abbaglio, di aver fatto confusione, di aver accavallato insieme troppi pensieri. Sperava tutto questo mentre apriva il cassetto del vecchio comodino in legno e tirava
fuori la cartellina con i disegni di Boni. Continuò a sperare mentre li
sfogliava uno dietro l’altro, a cercare quello nel quale…
Eccolo, quello giusto. Lo appoggiò sulla piccola scrivania che stava di
fronte al suo letto, si sedette, ci passò sopra le mani più volte per
ridurre al minimo le grinze. Poi appoggiò i gomiti sul piano e lo
osservò, e ancora e ancora e ancora, ma proprio non c’erano dubbi.
Al centro una selvaggia ammucchiata di sesso, corpi che si avvinghiavano uno sull’altro fino a rendere impossibile ogni distinzione. A sinistra, un gruppo di persone che ballavano dietro al solito instancabile
suonatore di tamburi. E in alto, nell’angolo di sinistra, una donna.
Pelle scura, due grossi seni, capelli neri e due occhi divorati dal terrore. Camminava a quattro zampe come un cane, completamente nuda e
con la bocca aperta a gridare la sua paura. Gli sembrò quasi di sentirla, di sentire quel grido strozzato e gonfio di morte, di vederla muoversi a scatti e goffamente, cercando un inutile e impossibile rifugio.
E dietro di lei, un ragazzo calvo con un lungo pizzetto che gli scendeva dal mento, un braccio alzato e, chiuso nella mano, un pugnale
dalla lama lunga e scintillante. Non c’era bisogno di entrare in quel
disegno per capire come erano andate le cose. Non c’era proprio bisogno di altro. Gli scappò un’imprecazione rassegnata, quasi sussurrata.
Sospirò e si stese sul letto, portandosi dietro il disegno e continuando
a osservarlo.
– Ciao, Dirha. Adesso so chi ti ha portato via. Adesso purtroppo so
come sei morta.
175
21
Il caso Boni lo stava devastando. Era la prima volta in quindici anni di
lavoro che un’indagine arrivava a condizionarlo in modo così incisivo.
Non riusciva a scacciare l’immagine del volto addolorato di Temna, del
suo lamento soffocato e dignitoso, disperato eppure composto. Era l’atteggiamento di chi ha imparato ormai da secoli ad accettare e a convivere con il dolore e sembra quasi vivere in attesa di quello, meravigliandosi quando non arriva e ti lascia invece un po’ di tranquillità. L’aveva
sempre saputo, Temna, ma quando Rovere le aveva dato la conferma si
era finalmente sentita autorizzata a piangere quella morte. Adesso l’ispettore rivedeva quel volto in primo piano tra i suoi pensieri, incantevole anche durante il pianto eppure distorto dalle smorfie, deformato dalla
sofferenza e dalla rabbia. La donna non aveva nascosto neanche una
goccia della sua disperazione, si era lasciata andare al pianto finché ne
aveva avuto la forza e il fiato e Rovere non aveva saputo fare altro che
starle accanto. Eppure non era ancora detto che le cose fossero andate
così, anche se nessuno dei due nutriva il minimo dubbio.
– Devi darmi qualche indumento suo, Temna. Forse so come trovarla.
– Che indumento? Aveva risposto la ragazza tirando su con il naso.
– Indumenti sporchi, non ancora lavati. Meglio se sono mutandine,
ma va bene anche una sottoveste, una canottiera, una maglietta che
stava a contatto con la pelle. Mi puoi aiutare?
La donna aveva cambiato espressione. Si rendeva conto che quella era
una delle pochissime cose che ancora poteva fare per la sorella. Alzò
la testa, fiera e determinata, e gli puntò addosso gli occhi come fossero due dardi.
– Certo, che posso. Trovo tutto quello che vuoi. Ma tu, dottore, devi
trovare lei.
Sarebbe quasi meglio di no, aveva pensato Rovere.
Nel cestello del bagno c’era ancora qualche indumento della donna.
Temna ne raccolse un paio di capi e li portò a Rovere.
– Erano mischiati con i miei. Non so se va bene.
176
– Meglio di niente. Faremo con quello che abbiamo.
Li aveva chiusi in un sacchetto di plastica e se li era messi in tasca.
Poi, spinto da una forza incontrollabile, si era lasciato andare a una
carezza verso il viso della donna. Lei lo aveva osservato, con due
occhi meravigliosi e meravigliati nonostante tutto, e lo aveva lasciato
fare. Non erano gesti ai quali fosse molto avvezza. Aveva appoggiato
la testa su quella grande mano come se la stesse aspettando da tutta la
vita. Durò solo un istante, poi ognuno venne risucchiato dal proprio
ruolo. Rovere sorrise malinconicamente. Breschi, poi Boni, adesso
Dirha. La lista dei morti cresceva e crescevano i suoi obblighi verso i
vivi. Li aveva sempre onorati tutti e lo avrebbe fatto anche stavolta,
ma quello verso Temna, se ne era accordo immediatamente, sembrava
pesare mille volte più degli altri.
Adesso la Ford Focus avanzava lentamente sulla stradina sterrata e
polverosa. Le ruote cricchiavano sui sassi e alzavano un polverone
secco e fastidioso che rimaneva per minuti sospeso nell’aria, quasi
indeciso sulla direzione da prendere. Il paesaggio attorno era brullo e
severo. Qualche albero solitario ogni tanto, ma per lo più rocce e terra
arida bombardata dal sole. Nell’auto l’aria condizionata riusciva ad
alleviare solo in parte gli effetti della calura. Gli occhi del vecchio
Leone non si fermavano un attimo e passavano in rassegna tutto ciò
che gli stava davanti. Gli accessori dell’auto, poi il paesaggio esterno,
le rocce, le rare piante, la strada tortuosa e sempre più stretta. E poi il
suo fedele Achille che trottava lungo il campo alla loro destra. Si portò
una mano leggermente tremolante alla bocca, poi osservò Rovere.
L’ispettore non staccava gli occhi da Achille se non per controllare il
sentiero ed evitare che finissero nei campi. Era concentrato e nervoso.
– Senti, Matteo, però ti devo chiedere una cosa.
– Vi ascolto. Non vi guardo perché seguo Achille, però vi ascolto.
– Ma… e la polizia non ce l’ha i cani per queste cose?
– Certo che ce l’ha. Le unità cinofile della polizia sono eccellenti.
– E… allora perché non le hai usate? Voglio dire, Achille è un cane
eccezionale, ma non ha un addestramento per queste cose. Lui ha l’istinto, tu gli fai sentire un odore e lui segue l’usta fino in capo al
mondo, se ancora c’è.
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– E vi sembra poco? Il corpo del povero Boni l’ha trovato lui.
– Sì, però non è il suo mestiere. Secondo me, se chiamavi le unità
cin… quelle, insomma, facevi prima e meglio.
– La verità è che non posso farlo. Primo, perché non so neppure cosa
sto cercando. Alla base della mia teoria non ci sono testimonianze o
prove certe, capite? C’è un disegno su un pezzo di carta. Per me basta
e avanza, ma per giustificare un’operazione come questa è troppo
poco. Non posso chiedere tre o quattro cani e impegnarli una giornata
in giro per la provincia senza neppure sapere da dove partire.
– Invece almeno questo lo sapevi: esattamente da dove abbiamo
cominciato noi…
– No, non è vero. Siamo partiti dal posto in cui abbiamo trovato il
cadavere di Boni proprio perché non sapevo da dove cominciare.
Sono andato per esclusione, capite? In realtà è una specie di tentativo
disperato. Anzi, è un vero e proprio sparo nel buio. Tra l’altro, l’usta è
molto vecchia, forse non esiste più da giorni. Ma dovevo farlo, lo
devo a quella ragazza.
– Sì ma mi domando: le indagini non si fanno per scoprire le cose? Se
sapevi già tutto, allora non c’era bisogno di indagare, no?
– C’è un altro motivo, Leone. Sono tornato a Grosseto da troppo poco
tempo. Non conosco nessuno, né tra i buoni, né tra i cattivi. E quelli
che sto cercando io potrebbero avere un radicamento nel territorio
molto più forte di quanto uno possa immaginare. L’ho sperimentato
su a Milano: questo tipo di criminalità tesse una ragnatela che con il
tempo cresce e coinvolge sempre più gente. E soprattutto sale di
grado. Burocrati, poi funzionari, poi stanze dei bottoni, fino a coinvolgere chi comanda. E finché non sono certo di quello che ho in mano,
non posso agitare troppo le acque. Sono arrivato adesso, capite?
Appena dieci giorni fa, e già do il via a operazioni in grande stile,
ordino il setaccio del territorio con le unità cinofile e tutto il resto.
No, ancora non si può fare.
– Boh. Speriamo che Achille ti basti.
– Che vi devo dire? Noi ci proviamo. E poi se trovo quello che cerco,
non voglio giornalisti e curiosi tra le palle. Sarebbe un’informazione
troppo importante.
Il cane non si era mai fermato. Aveva annusato a lungo le mutandine
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della persona che stavano cercando e aveva cominciato a girare lentamente in cerchio, fiutando con pazienza per agguantare la scia giusta.
A vederlo così, apparentemente spaesato, Rovere aveva smesso immediatamente di nutrire qualche speranza. Invece, di colpo, il cane aveva
imboccato deciso una direzione ed era partito. Tranquillo, senza scatti
repentini o strappi improvvisi, si era avviato per una strada lasciandosi guidare dall’usta.
– L’ha acchiappata – aveva detto il vecchio.
– Sicuro? Non è che magari…
– No, no. Quando fa così, vuol dire che l’ha presa. Tu abbi solo
pazienza, e vedrai che ti porta nel posto giusto.
Il cane aveva trottato per una buona mezz’ora senza mai fermarsi.
Adesso si erano allontanati di un bel po’ dal posto dal quale erano
partiti, eppure la bestia procedeva ancora sicura senza mai rallentare.
– Vogliamo dargli una rinfrescata? Gliela facciamo annusare ancora?
– Secondo me non serve, ma se vuoi – rispose Leone.
Il vecchio si affacciò dal finestrino dell’auto e lanciò un fischio secco
e tagliente. Il cane rizzò le orecchie e si bloccò all’istante, rimanendo
in attesa di un ordine. Il vecchio fischiò ancora e Achille si lanciò
verso l’auto.
– Vieni bello, vieni e annusa ancora. E’ questo che devi cercare, capito?
Appoggiò le mutande sul naso della bestia per qualche istante, poi gli
accarezzò la testa rendendolo l’animale più felice della terra.
– Vai, ora, vai e cerca. Vai, Achille! Fagli vedere, a questo miscredente!
Il cane si riportò nel campo dal quale era venuto e riprese a trotterellare nella stessa direzione. Adesso, a qualche centinaio di metri da
loro, scorreva una macchia intricata e scura come la notte. Rovere
sperava tanto di evitarla, ma appena il bosco era apparso aveva compreso che quello era il posto ideale per far sparire un cadavere per
sempre. Se la donna era da quelle parti, prima o poi sarebbe stato
necessario entrare.
– Spero tanto che non la trovi, Matteo. Mi dispiacerebbe per le tue
indagini, ma sarebbe meglio così.
– Da una parte lo spero anch’io. Ma non vi fate illusioni, Leone: se
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non la troviamo è solo perché sta in un altro posto, ma non cominciate nemmeno a sperare che sia viva. E’ solo questione di trovare il
luogo giusto, ma la sorte di quella donna è già segnata.
– Sarebbe davvero troppo, perdio. Per questo paese, voglio dire: così
tanti morti in così poco tempo. E per quale motivo, poi? Almeno, una
volta si ammazzava per i soldi o per conquistare una terra. Ma morire
per niente, accidenti. E’ proprio peggiorato questo mondo. Ha fatto la
fine di questi terreni. Se penso a com’erano belli quaranta anni fa…
– Belli? Questi terreni? Ma se sono una landa desolata…
– Sì, adesso lo sono. Tu non li hai mai visti nel loro splendore, neppure potresti immaginare. Questa era una grande tenuta. Era una proprietà enorme, smisurata. Credo che sia ancora della stessa famiglia,
anche se non so neppure che fine abbiano fatto. Ma come vedi, non ci
sono più recinzioni o divieti.
– Volete dire che siamo sulla proprietà di qualcuno?
– Che io sappia, sì.
– E lasciano la terra in questo stato? In Lombardia una cosa del genere sarebbe inconcepibile.
– Non chiedermi il perché, non lo so. Dopo la disgrazia è cambiato
tutto. I pochi superstiti hanno mollato ogni cosa. Non ho più visto
nessuno di loro.
– Disgrazia? Quale disgrazia?
– Una notte ci fu un incendio tremendo. Il casale prese fuoco e in
pochi minuti le fiamme si mangiarono tutto, poi presero a divorare i
campi. Si è sempre pensato al dolo, ma le inchieste del tempo non
scoprirono nulla. Sai com’è, quella era gente potente e prestigiosa, ma
quando sei così potente hai anche tanti nemici. Quella notte nel casale
erano in diciannove, compresa la servitù. Si salvò solo il più vecchio
della famiglia e una delle figlie, mi sembra quella di mezzo se la
memoria non m’inganna. Tutti gli altri morirono.
– E poi?
– E poi basta. Il vecchio non l’ho più visto. Immagino che se non l’ha
ammazzato l’incendio l’avrà schiantato il cuore. Vedere decenni di
lavoro andarsene in fumo e tutti i suoi eredi crepare tra le fiamme…
la figlia non l’ho più vista. Ha certamente lasciato la città, ma non
credo che abbia mai venduto. Sarebbe davvero assurdo che uno aves-
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se comprato un terreno così vasto e lo avesse lasciato incolto per
decenni.
– E il casale? Che fine ha fatto?
– E’ bruciato con il resto. E’ rimasto in piedi, ma era ridotto male.
Quando lo hanno abbandonato la macchia se l’è ripreso. E’ qua da
qualche parte, in mezzo agli alberi. Magari proprio a questa altezza,
però per vederlo devi entrare per forza dentro.
Rovere sentì il tarlo rimettersi in moto e ricominciare a scavare. Era
talmente forte che se avesse appoggiato una mano sulla testa era sicuro di riuscire a sentirlo.
– Potete farmelo vedere? Mi sarebbe utile, davvero.
– Dici sul serio? Sono solo un po’ di muraglioni con sopra un tetto
pericolante…
– Voglio togliermi un dubbio. Vi sembrerà pure strano, ma non
dimenticate che io ragiono da poliziotto. Ho bisogno di dare un’occhiata a quel posto e di escluderlo una volta per sempre dai miei
dubbi. Non potrei continuare un’indagine sapendo di aver trascurato
qualcosa.
– ... che cavolo, ci vorrà un po’ a trovarlo, ma certamente la terra non
se lo sarà ingoiato. Se terminiamo alla svelta con Achille, ci possiamo
provare.
Ma il cane di fretta non ne aveva proprio. Continuò a trottare per un
altro quarto d’ora. I campi si estendevano ancora per chilometri, terrosi e morti, accompagnati da un bosco sempre più fitto. Era un paesaggio talmente monotono che per un attimo Rovere ebbe il sospetto
di continuare a girare in tondo.
– Secondo me ha perso la traccia…
– Non ha perso proprio niente, stai tranquillo. Considera che lui segue
l’usta in mezzo a centinaia di altri odori: altre persone, altri animali,
gli aromi delle piante. Considera che sono passati diversi giorni e che
ha pure piovuto. Se ti sembra poco.
– No, non mi sembra poco, anzi è proprio per questo che… guardate… guardatelo!
Il cane aveva cambiato di colpo la sua andatura. Adesso correva a
spron battuto e si stava fiondando senza esitazione dentro la macchia.
– Ci siamo – esclamò Leone – dobbiamo scendere dalla macchina e
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seguirlo. Tu non preoccuparti per me, stagli dietro e lui ti guiderà.
Lascia stare le vanghe, quelle le prendo io. Tu pensa solo a non perderlo troppo di vista.
Rovere neanche rispose. Fece grattare le ruote sull’asfalto finché l’auto non si fermò, poi scese come un fulmine e si mise all’inseguimento
del cane.
– Stai attento, Matteo – gli gridò Leone ormai da lontano – Ci sono
animali pericolosi là dentro!
Ce ne sono di più là fuori, pensò Rovere mentre già sentiva arrivare il
fiatone. Poi incollò i suoi occhi su Achille, che si faceva sempre più
piccolo e lontano, e badò a non perdere troppo terreno. Un attimo
dopo il cane sparì dentro la boscaglia. Rovere, qualche metro dietro di
lui, dovette fermarsi e cercare uno spiraglio per entrare. I rami delle
piante stavano ancora tremolando per il passaggio dell’animale.
Riprese fiato, poi si abbassò ed entrò con cautela. Il posto era buio e
umido, l’odore di muffa era fortissimo e penetrante. Il terreno era
molle e dava l’impressione di poter sprofondare da un momento
all’altro. Forse il vecchio Leone sarebbe stato capace di seguire le
tracce del suo cane, ma Rovere non ne era in grado. Il terreno presentava segni per lui indecifrabili. Solo qualche rametto spezzato e qualche arbusto fuori posto poteva aiutarlo a seguire il sentiero giusto, ma
dopo pochi metri si era già perso.
– Achille! – chiamò a gran voce.
– Achille… cazzo, se mi lasci qui non ti troverò mai!
Il cane, come se avesse compreso la richiesta di aiuto, cominciò ad
abbaiare a intervalli regolari e Rovere si mosse in direzione del latrato. Ogni tanto cercava conferma delle sue decisioni negli arbusti calpestati o nei solchi che trovava davanti a sé, ma senza i latrati del
cane non avrebbe mai potuto muoversi. A poco a poco i suoni si fecero più chiari e vicini. I rami schioccavano sotto i suoi piedi e qualche
volta si vendicavano con frustate secche che lo colpivano in tutto il
corpo. Gli sembrava impossibile che anche un solo animale potesse
vivere in un posto così buio e inospitale. Spezzò ancora un po’ di
rami per crearsi un passaggio adeguato, poi scorse d’improvviso le
zampe del cane.
– Achille… arrivo…
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Il cane stava ancora abbaiando, forse eccitato da qualcosa che era
convinto di aver scoperto. Saltellava come un cavallo imbizzarrito e
continuava a girare attorno a un piccolo spiazzo di terra. Appena
Rovere gli fu accanto, il cane si fermò di colpo e cominciò a ondeggiare la testa, quasi soffrisse disperatamente per il fatto di non possedere la parola. Il terreno era ancora più molle e più scuro, chiaramente smosso di recente.
– Fermo qui, Achille. Fermo qui.
Rovere pensava di essere in buona forma fisica, eppure dovette riposare qualche istante. Sotto l’occhio destro sentiva una pulsazione
dolorosa per una frustata che si era preso qualche metro prima.
Adesso, bagnata dal sudore, bruciava e picchiava al ritmo del suo
cuore. Poi tornò indietro a cercare il vecchio, preoccupandosi di
lasciare tracce evidenti e numerose per ritrovare agevolmente il sentiero. Ma non dovette fare neppure cinquanta metri: il vecchio Leone
era appena più dietro di lui. Teneva le vanghe in una mano e sembrava fresco come si fosse appena svegliato.
– Sono arrivato, ormai – gli disse il vecchio notando la sua espressione sorpresa – mi sa che te la cavi meglio nella giungla di cemento,
eh?
– Credo che l’abbia trovata.
– Porco cane, speriamo di no…
Tornarono allo spiazzo scuro e Rovere cominciò a scavare senza neppure perdere un istante.
– No, Matteo, io non posso. Non posso vederne un altro, abbi pazienza.
– Nessuno ve lo chiede, Leone. Allontanatevi pure, faccio tutto da
solo.
– Non ti dispiace, vero?
– Assolutamente no. E poi non potreste neppure. Oltre a me, ci metterà mano solo la scientifica. Sempre che ci sia qualcosa, ovviamente.
– Certo che c’è – rispose il vecchio quasi sottovoce.
Aveva le lacrime agli occhi, ma conosceva troppo bene il suo cane. E
quella bestia gli aveva già detto tutto.
– Andate pure – gli disse Rovere piantando con energia la vanga dentro il terriccio – appena ho finito vi chiamo.
183
– Vieni, Achille... ’ndiamo .
Appena il vecchio e il suo cane furono scomparsi, Rovere cominciò a
scavare con fervore. Ad ogni palata di terra la sua convinzione cresceva. La terra era troppo morbida. Veniva via troppo facilmente per non
essere fresca. Era tale l’impazienza che ogni due palate si fermava e
gettava un’occhiata dentro la buca, sperando di continuare a sbagliarsi. Ma non ci volle molto: dopo pochi minuti la vanga trovò un ostacolo e smise di scendere.
Ci siamo, pensò Rovere, adesso fatti coraggio e vai fino in fondo.
Ma dissotterrare cadaveri non era il suo mestiere e pur con tutto l’addestramento e l’esperienza che poteva metterci dentro, temeva di non
avere la forza necessaria. Quando la buca fu abbastanza larga, trovò il
coraggio di gettarci dentro uno sguardo.
E la vide. Era una coscia, probabilmente. Nera come il terriccio e
quasi mimetizzata, eppure inconfondibile.
Un altro morto. Porca puttana, un altro morto…
Scavò intorno alla buca con rabbia e dolore e dopo dieci minuti riuscì
a portare il cadavere alla luce. Non lo estrasse dal sito, si limitò ad
osservarlo con attenzione. Era una ragazza giovane. Un lungo taglio
le attraversava orizzontalmente il collo da orecchio a orecchio, proprio come nel disegno di Boni. I vermi e gli scarafaggi avevano già
cominciato il loro lavoro, incuranti delle pessime vicende umane che
stavano dietro quella morte. La ragazza era completamente nuda e
aveva gli occhi ancora aperti, anche se ricoperti dalla terra.
Neppure gli occhi le hanno chiuso, quei bastardi.
Fino a quel momento, in preda al furore, neppure aveva sentito il fetore nauseabondo che esalava dalla tomba. Ebbe un conato di vomito e
fu costretto ad allontanarsi per qualche istante. Si appoggiò a un ramo
e cercò di recuperare. Mai come in quel momento sentì di desiderare
la cattura di quella banda. Sarebbe stato anche disposto a scordarsi
del Mago Edson, delle sue truffe e delle sue trasmissioni, pur di avere
di fronte gli autori di quel massacro. Poi inspirò profondamente un
paio di volte, afferrò una vanga e cominciò a ricoprire il corpo. Se l’avesse trovato qualche animale carnivoro, la scientifica avrebbe dovuto
accontentarsi degli ossi.
Aveva quasi terminato quando sentì il grido del vecchio Leone.
184
– Matteo! Matteo!
Era un grido lontano e preoccupato.
– Leone! Sono qua! Che succede, Leone!
– Vieni qua, svelto! Vieni!
Sì, ma dove? Muoversi in quel groviglio era …
Achille sbucò da un cespuglio in suo soccorso. Era nervoso ed eccitato come il suo padrone. Girò un paio di volte attorno alle gambe di
Rovere, poi partì nuovamente, forse sperando che quell’essere umano
così impacciato e spaesato avesse capito le sue intenzioni. Rovere gli
guizzò dietro deciso a non farsi seminare. Dopo un centinaio di metri
e di altrettante frustate in faccia, il bosco cominciò a diradarsi. Rovere
incappava in buchi di luce sempre più frequenti e sempre più ampi. Si
accorse che quella che stava percorrendo non poteva essere una strada
vergine e immacolata: non era un vero e proprio sentiero ma presentava troppe differenze rispetto al resto del bosco. Molte cose lasciavano
immaginare il passaggio di qualcuno.
– Matteo! Sono qui!
La voce di Leone si era fatta più vicina ma ancora non riusciva a
vederlo. Achille invece rispose subito al richiamo del vecchio. Rovere
era curioso ma anche atterrito. Si aspettava altri morti, un mucchio di
cadaveri abbandonati e dilaniati dagli animali. Quello che aveva scoperto fino a quel momento lo autorizzava ormai ad azzardare qualunque pensiero. Dopo un ultimo squarcio tra le piante gli apparve la
schiena del vecchio.
– Leone! Non mi dite che ci sono altri morti perché…
– Forse c’è anche di peggio – rispose il vecchio – forse qui c’è la
causa di tutte quelle morti. Guarda…
Davanti a loro si ergeva un muraglione incerto eppure altissimo e contornato da alberi che lo abbracciavano morbosamente fino a soffocarlo.
– Il casale…
– Esatto, il casale.
Il vecchio prese Rovere per un braccio e lo accompagnò fino a un
buco che portava dentro l’edificio. Solo quando si fermarono lì davanti l’ispettore si accorse che aveva il volto solcato dalle lacrime. Si
abbassò per entrare nel buco, mantenendo lo sguardo sul vecchio.
185
Leone annuì con la testa.
– Vai, vai. Ma stai pronto al peggio.
Rovere si infilò nel buco e quando alzò la testa sprofondò di colpo nei
disegni di Ettore Boni. Tutto quello che aveva visto e immaginato era
lì. I carboni, ormai non più ardenti, l’effigie di Lucifero ovunque, le
scritte rosse in latino inneggianti al demonio, le statue e i simboli
demoniaci disegnati o scolpiti, le fiaccole diventate ormai tizzoni e
appoggiate alle pareti dentro grossi ganci arrugginiti. Perfino due
enormi tamburi, defilati in un angolo, tali e quali a come li aveva
immaginati.
Eccolo, finalmente. Eccolo, il mio punto d’arrivo.
Il vecchio Leone gli si accostò e lo strinse di nuovo al braccio.
Adesso aveva rotto ogni resistenza e stava singhiozzando. La mano
gli tremava, la voce era incrinata dal dolore. Guardò l’ispettore, gli
occhi gonfi e disperati.
– Te l’avevo detto, Matteo, che non se n’era andato. Sonnecchiava e
aspettava il momento giusto per svegliarsi. Ma andarsene, no. Quello
non se ne va mai.
186
22
Mentre Alvise Bolognini apponeva con mano tremante e incerta le
sue firme sull’atto di donazione del terreno di sua proprietà, il notaio
De Gregori non poté fare a meno di fissare gli occhi di Simone
Cranza. Solo un attimo, poi il gelo che quegli occhi sprigionavano, in
netto contrasto con una bocca che si sforzava senza successo di simulare un sorriso, lo costrinse immediatamente a posare il suo sguardo
altrove. Che diavolo aveva, quell’uomo, di così speciale? Nell’ultimo
anno si era fatto donare tre terreni e la maggioranza delle quote di un
network televisivo senza sborsare un centesimo. Qual era la sua
straordinaria forza? Aveva qualche misterioso potere? O forse si trattava di un particolare talento per gli affari?
– Molto bello questo studio, signor notaio.
– Gra… grazie molte.
De Gregori sentì uno strano brivido dietro la nuca. Fu come appoggiare la testa su un cuscino di spilli. Cranza osservava la stanza compiaciuto e interessato. Decisamente troppo interessato. Per un
momento gli sembrò un lupo seduto nel bel mezzo di un pollaio.
Guardava, annuiva ammirato di fronte a un bel quadro o a un affresco
sul soffitto, ignorando il dramma interiore di Bolognini, il quale a
ogni firma doveva fermarsi per asciugare i suoi occhi con il dorso di
una mano.
– Mi tolga una curiosità, De Gregori: quanto può valere, oggi, un
appartamento come questo?
– Mah… non saprei. Dipende… dipende da tante cose. L’uso che se
ne fa, e… ma perché me lo chiede?
– Così. Diciamo… curiosità.
La sua bocca rilasciò un sorriso di cortesia. Il notaio la interpretò
invece come l’esibizione sfrontata di trentadue lame affilate pronte a
colpire. I suoi occhi grondavano di una avidità incontenibile. Era
chiaramente divorato dal desiderio di possedere quello studio. Quello,
pensò De Gregori, era un uomo pericoloso e qualcuno avrebbe dovuto
187
fermarlo. Ammesso che si fosse ancora in tempo. Non vedeva l’ora
che se ne andasse e cercò di velocizzare le operazioni.
– Signor Bolognini, ha bisogno di aiuto?
L’uomo si passò ancora una mano sul volto, poi sospirò per darsi la
forza di parlare.
– No, grazie. Ho quasi finito.
– Mi piace il modo in cui l’ha arredato – intervenne Cranza – ha classe. E’ uno studio davvero perfetto.
– Lei è troppo buono, dottor Cranza. E poi non sono stato io, ci ha
pensato un amico che fa l’arredatore.
– Be’, almeno alle segretarie avrà pensato lei, no?
– A quelle sì – rispose il notaio.
Un groppo gli stava chiudendo la gola.
– Tutte molto carine, devo dire. Ma quella mora, quella che mi
accompagnò la volta che sono venuto con Marte…
– Yulia.
– Così si chiama?... un fascino davvero fuori dall’ordinario.
Il notaio cercò di allentare il nodo della cravatta finché non si rese
conto che non era quella a stringergli la gola, poi si passò il fazzoletto
sulla fronte. Il condizionatore funzionava a pieno ritmo, eppure la
stanza sembrava arroventata. Gli pareva di stare in un forno. E in
mezzo a quel dialogo assurdo e ai limiti del reale, un poveraccio stava
cedendo un terreno a titolo gratuito e con esso un pezzo della sua vita
se ne stava andando.
– Ah, mi piacerebbe proprio uno studio così. Un giorno forse, chissà…
Il brivido del notaio scese lungo la schiena. Sentì i testicoli ritrarsi
come se lo avessero scaraventato nel Mare del Nord. Eppure negli
occhi dell’uomo che aveva di fronte non c’era la minima traccia di
follia. Determinazione, crudeltà, desiderio, sicurezza dei propri mezzi,
ma niente follia. Cercò di deglutire ma non ci riuscì. La saliva gli si
fermò in bocca e gli riempì il palato, impedendogli di parlare. Se la
cavò con il solito fazzoletto.
– Lei ha nemici, notaio?
– Come dice scusi? – rispose il notaio nascondendo il fazzoletto dentro il cassettone della scrivania.
188
– Le ho chiesto se ha dei nemici. Qualcuno che la detesta, che la ostacola o semplicemente la mette in difficoltà.
– Direi… direi di no.
– Lei conosce il mio mestiere?
– So che si occupa di cartomanzia.
– Non esattamente. La cartomanzia è solo per l’apparenza. La pratico
perché ha una buona riuscita televisiva e alza lo share. E’ telegenica,
insomma. In realtà io sono un praticante dell’arte magica. Magia
bianca e magia nera. Mi segue?
Il notaio annuì ma non osò aprire bocca. Non ne aveva la forza. Gli
occhi di Cranza lo stavano risucchiando come due enormi tentacoli.
– Percepisco una fortissima aura negativa attorno a lei...
– Credo proprio che sia in errore. Io non…
– ... no che non mi sbaglio. Io non mi sbaglio mai.
Cranza sorrise ancora, poi estrasse il libretto degli assegni e lo appoggiò sul tavolo. Ne firmò uno, lo staccò e lo consegnò al notaio.
– Scriva lei la cifra, De Gregori. So bene che non mi deluderà.
Andiamo, Bolognini, qui abbiamo finito.
L’uomo fece per alzarsi, ma ebbe un mezzo mancamento. Le sue
gambe cedettero e si accasciò di schianto sulla sedia.
– Signor Bolognini! Si sente…
– Sta bene, stia tranquillo. E’ solo un po’ emozionato. Tra qualche
giorno sua moglie sarà finalmente guarita ed è questo che conta, no?
Non è così, Bolognini?
L’uomo fece di sì con la testa, appoggiò le mani alla scrivania e stavolta riuscì a tirarsi su. Neppure salutò il notaio. De Gregori si
domandò se avrebbe avuto l’occasione di rivederlo o se il dolore l’avrebbe ucciso prima.
– Signor Bol…
– Lo lasci andare, notaio. E’ un po’ sconvolto e c’è da capirlo, ma per
lui non possiamo fare proprio niente. Piuttosto – ed estrasse dal
taschino un biglietto da visita appoggiandolo sul piano della scrivania
– voglio lasciarle questo. Non cerco di influenzarla, mi creda. Le sto
solo offrendo il mio aiuto prima che sia troppo tardi.
– Non mi serve il suo aiuto. Le ripeto che non ho nemici – ribatté
bruscamente il notaio.
189
Ma non appena notò il repentino cambio di espressione sul volto di
Cranza si pentì subito di aver usato quel tono. Il mago serrò gli occhi
per una frazione di secondo. Un attimo nel quale si concentrò e si
sforzò di tenere a freno tutta la sua rabbia e il suo odio. Fu in quel
momento che De Gregori si rese conto della pericolosità di quell’uomo. Fino a qualche attimo prima l’aveva solo intuita, ma in quel
momento la sentì irrompere nella stanza come se potesse toccarla.
Invece Cranza gli strinse la mano e recuperò prontamente il suo sorriso di ghiaccio.
– Lo conservi, mi dia retta. I tempi buoni sembrano sempre durare in
eterno, finché un bel giorno finiscono. Arrivederci, notaio. Non mi
accompagni, conosco la strada.
De Gregori lo osservò uscire dalla stanza con quella camminata così
sicura di sé. Lo vide fermarsi un attimo prima di posare la mano sulla
maniglia della porta, girare su se stesso, osservare di nuovo la stanza
e lasciarsi andare a un’ultima smorfia di compiacimento.
– Mi piace questo posto. Mi piace proprio…
Quando la porta si chiuse alle spalle del mago, il tonfo gli sembrò
un’esplosione assordante e lo fece sobbalzare. Poi si accasciò sulla
scrivania e si accorse di aver appena vissuto la paura più profonda
della sua vita. Non una paura violenta e manifesta, ma una paura sottile e strisciante, che lo divorava dall’interno e continuava a lavorare
anche quando la sua causa sembrava essersi allontanata. Sentiva in
bocca un sapore metallico e rugginoso, come se avesse appena masticato un lastrone di ferro. Prese il fazzoletto dal cassetto per appoggiarlo sulla lingua ma quando aprì la bocca cominciò a gocciolare del
sangue sulla superficie della scrivania. Si sentì ridicolo, eppure il suo
primo pensiero andò alla forza del Mago Edson. Una maledizione,
pensò, quello mi ha lanciato una maledizione.
Cranza uscì dalla stanza e si mise a percorrere il corridoio con la massima calma. In fondo era a casa sua, mancavano solo da sbrigare alcune formalità. Si mise a esplorare con curiosità le varie stanze dell’appartamento. Mentre stava per aprire una porta, scorse Bolognini che
gli si faceva incontro con foga.
– Maestro…
– Bolognini, sei ancora qui? Cosa c’è ancora?
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– Volevo dirle una cosa importante… per quel terreno… solo una
cosa. Mi raccomando: l’ulivo, quello grosso che sta nell’angolo… ha
cinquant’anni, lo ha piantato mio nonno quando ero ragazzino…
– Bolognini, ascolta bene. Ti ho consegnato un amuleto potente ed
efficace. Tua moglie guarirà tra qualche giorno e sarete di nuovo una
famiglia felice. Ma adesso quel terreno è mio, capisci? Mio!
Scordatelo una volta per tutte e pensa alla salute di tua moglie.
– Volevo solo chiederle di trattarlo…
– No. La risposta è no. Quel cazzo di ulivo farà la fine che mi pare. In
ogni caso, non sono più cazzi tuoi, è abbastanza chiaro? Arrivederci
Bolognini. Ho detto: arrivederci.
L’uomo si morse il labbro inferiore e fece dietrofront. Qualche istante
più tardi scomparve dietro la curva del corridoio che portava verso
l’uscita dallo studio. Cranza invece non aveva nessuna voglia di
andarsene. Aprì la porta della stanza che aveva di fronte e una signora
sui quaranta alzò sorpresa gli occhi dal monitor e lo guardò.
– Sì?
Cranza chiuse la porta senza rispondere. Aprì la porta accanto, ma la
stanza era vuota e buia. Allora percorse l’intero corridoio e più avanti
trovò un’altra coppia di porte. Aprì la prima senza bussare e gettò lo
sguardo all’interno. Due ragazze smisero immediatamente di chiacchierare e di ridere e si voltarono verso di lui. Una stava fotocopiando
un fascicolo, l’altra digitava sulla tastiera.
– Buongiorno, signor Cranza – disse una delle due sorridendo.
La luce dei suoi occhi, ecco qual era la sua forza. Ecco cosa l’aveva
colpito di più. Gran bel culo, gran belle gambe eccetera eccetera, ma
quella luce… quella era la vera risposta. Ciò che davvero lo attirava.
– Buongiorno, Yulia. Vederti è un piacere che non ha pari.
– Conosce il mio nome?
Cranza si avvicinò alla ragazza fino a fermarsi di fronte a lei.
Ricambiò il suo sorriso e le parlò.
– Mi sono informato. Come faccio a invitarti a cena se non so neppure come ti chiami?
– Me lo chieda – rispose lei sorridendo – provi a chiedermelo e basta.
La luce di quegli occhi diventò abbagliante. Cranza la sentì entrare
nei suoi e diffondersi nel suo corpo fino a provocargli la solita potente
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erezione. L’aveva trovata, la creatura della sua esistenza. Stavolta l’aveva trovata davvero.
– Facciamo sabato sera?
– Facciamo sabato sera.
– Otto e mezza?
– Otto e mezza.
– Passo a prenderti sotto casa. Ceniamo al Quattro Spade. Non voglio
sapere dove stai. Lasciami il piacere di scoprirlo da solo. Ti auguro
una buona giornata, la mia lo sarà certamente.
Indietreggiò verso la porta senza voltarsi e senza staccare gli occhi da
quella creatura. Quando la chiuse, gli venne da pensare che anche
l’altra ragazza avrebbe meritato una certa attenzione, ma non quanto
Yulia. Nessuna quanto lei. Quella era una donna con qualcosa in più.
L’aveva sentito nell’aria, come una bestia che fiuta un suo simile.
Sei mesi, continuava a pensare scendendo le scale, sei mesi e questo
studio diventa mio.
– No. Non è possibile.
– Come sarebbe “non è possibile”? Ho lavorato con voi per anni!
Quando ho costruito questo quartiere…
– Dottor Marte, lasci stare il passato. Questa è una banca, la gratitudine e la riconoscenza sono lussi che non ci possiamo permettere. Io
devo guardare al presente e al futuro. Il mio lavoro è questo.
Il direttore posò su Marte uno sguardo gelido e sprezzante. Si sistemò
la cravatta stirandola con una mano, poi osservò le unghie dell’altra,
alla fine tornò sugli occhi di Ugo Marte, ma ormai guardava già oltre.
Per lui la questione era chiusa e archiviata. Niente concessioni e niente allargamenti di fido.
– Così mi mandate a fondo, Cristo! Mi basterebbero trecentomila
euro per ripartire. Una volta li tiravo su in una settimana, brutti stronzi!
Batté con violenza una mano sulla scrivania ma il direttore neppure
socchiuse gli occhi. Scene come quella erano per lui all’ordine del
giorno. Ne aveva affrontati di ben più disperati e bastardi, figurarsi se
poteva fargli paura uno come Marte. Accennò un sorriso avaro e rapido come un serpente, poi tornò alla sua espressione di ghiaccio.
192
Decise di perderci qualche altro minuto lasciando che Marte sfogasse
la sua rabbia.
– Ma a quei tempi non mi trattavate mica così. Eh no... a quei tempi
quando entravo mi stendevate un tappeto ai piedi: buongiorno dottor
Marte, come va dottor Marte? Brutti figli di puttana…
Marte scosse la testa e si tolse gli occhiali scuri per ripulirli dalla patina di sudore. Anche il volto era sudato e pallido, i capelli in disordine, la giacca stropicciata. Aveva il fiato grosso e la voce strozzata
dalla rabbia.
Un uomo al capolinea, pensò il direttore. Non era il primo perdente
che gli sedeva di fronte, non sarebbe stato l’ultimo. In ogni caso una
causa persa, inutile investirci sopra. E il suo mestiere non consisteva
nel fare assistenza ai poveracci o a quelli che si sputtanavano il patrimonio nei casini e nei casino della zona. Afferrò il telecomando del
condizionatore e abbassò la temperatura al minimo. Voleva che l’aria
fosse gelida. La stanza sembrava la zona sterile di un laboratorio:
bianca e smorta lungo tutte le pareti, anonima, concepita per evitare
qualunque distrazione a chi ci passava la giornata dentro, con qualche
quadro triste e un tendaggio soffocante e ingrigito dal fumo vecchio
di anni appiccicato sui muri e sul soffitto.
Marte appoggiò le mani alla scrivania e le unì, quasi a preghiera.
Esitò un attimo alla ricerca delle parole giuste.
– Dottor Sartori, quattro anni fa ho dato il via alla mia tv. Sembrava
un gioco, eppure all’inaugurazione c’era anche lei con la sua signora.
Ricorda la festa alla mia villa, dottore? Quando lei era ancora vicedirettore e dichiarava di credere nel mio progetto, diceva che la banca
l’avrebbe appoggiato e che sarebbe stato di grande impulso per tutta
la comunità, che avrebbe creato posti di lavoro e…
Il direttore era al limite della sopportazione. Sospirò, gettò lo sguardo
sulla libreria alla sua sinistra. Smise di ascoltare quei suoni fastidiosi
e si mise a leggere i titoli sulle costole dei libri. Finanza, soprattutto,
ma anche qualche libro d’arte sulla pittura fiamminga o sul rinascimento. Costole decorative che qualcuno aveva posato su quegli scaffali e che nessuno avrebbe mai aperto. Poi di colpo interruppe Marte.
– Altri tempi, Marte. I fatti non le hanno confermate, quelle promesse.
– Brutto bastardo figlio di troia! – gli gridò Marte sbavando e spruz-
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zando schizzi di livore sul bancone della scrivania.
Poi lo prese per la giacca e cercò di tirarlo verso di sé, ma l’uomo
non perse la calma neppure in quel momento. Afferrò i polsi di Marte,
li strinse con forza e li staccò dal colletto della sua giacca.
– Lasciami, stronzo. E siediti. E ora ascolta senza rispondere, perché
giuro che se lo fai, chiamo la vigilanza e ti faccio sparare un colpo in
fronte. Non fai più paura a nessuno, Marte. Mi hai solo fatto incazzare ancora di più.
Si alzò e gli girò intorno fino a mettersi dietro di lui. Marte aveva
ancora il fiatone e il suo mento non smetteva di tremare. Rabbia,
odio, paura, era un uomo pronto al collasso. Ormai, pensò il direttore,
aveva raggiunto il fondo del pozzo e non sarebbe mai più risalito.
Tanto valeva dargli la mazzata finale. Voltò lo schermo del laptop che
aveva sul tavolo in modo che Marte potesse vederlo, poi si piegò fino
a raggiungere il suo orecchio.
– La vedi, quella? Quella è la tua esposizione debitoria nei confronti
di questa banca. Trecentottantaseimila euro, ottantaseimila in più del
massimo scoperto che abbiamo concordato. Ottantaseimila euro che
rivoglio su quel conto entro tre giorni. Poi, entro altri sette giorni,
voglio il resto dei soldi. Dieci giorni per tornare in pari. Se questo
non succede, avvio la procedura di recupero dei crediti e ti mangio
anche il cuore. Mi sono spiegato?
– Sei un pezzo di merda. Te la faccio pagare, quant’è vero Iddio che
te la faccio pagare…
– Tu sei un disperato... hai solo un modo per salvarti, ed è quello che
ti ho appena consigliato io. Altrimenti, stai pur certo che…
– Vaffanculo – disse Marte alzandosi dalla sedia e spostando l’uomo
con un braccio – vaffanculo, te e la tua banca del cazzo! Ma credi
davvero di tenere sotto le scarpe uno come me? Ah, povero stronzetto
arrogante che non sei altro! Tu la differenza tra i soldi e il potere non
sai nemmeno dove sta di casa! Il potere è la vita, caro Sartori. E io –
aggiunse appoggiando la mano sulla maniglia della porta e lasciando
che gli occhi brillassero di cattiveria – ... io stasera la vita te la strappo con le mie mani. Quando esci di qui, Sartori, sei un uomo morto.
– Lascia stare ’ste stronzate, Marte. Tre giorni per rientrare...
– Tre giorni mi bastano e avanzano per ammazzarti. Tu morirai molto
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prima.
Uscì dalla stanza sbattendo la porta e si diresse verso il portellone
dell’uscita senza neppure alzare la testa. Era furioso e sentiva le mani
fuori controllo. Tremavano e pulsavano mentre una palla aggrovigliata
gli aveva occupato lo stomaco. Si diresse alla sua auto con passo deciso, entrò, mise in moto e avviò il condizionatore. Si tolse gli occhiali
e li pulì con il fazzoletto che teneva nel taschino interno della giacca.
Le lenti erano appannate, le stecche bagnate di sudore. Attese che l’abitacolo raggiungesse una temperatura accettabile, abbandonandosi
per qualche istante all’osservazione della gente che sfilava davanti a
lui passeggiando spensierata o, al contrario, immersa nei propri pensieri.
Quando sentì che una piacevole frescura aveva cacciato quel calore
opprimente, si abbassò verso il cruscotto dell’auto, lo aprì ed estrasse
la sua vecchia compagna di viaggio. Perfettamente oliata, calda e
maneggevole, nera come la morte che portava con sé e che lasciava
dietro di sé. Marte osservò la canna scintillare al sole, la strinse in
mano gustando quel senso di forza e di onnipotenza che ben poche
altre cose riuscivano a infondere in quella misura. La puntò verso un
passante ignaro e simulò con la bocca il rumore di uno sparo.
Immaginò la testa di Sartori schizzare in aria, spappolarsi in mille
pezzi contro tre, quattro, cinque, sei spari uno dietro l’altro, spietati e
cattivi, e ancora e ancora finché non fosse rimasta solo una brodaglia
appiccicosa e confusa.
Così. Lo avrebbe ammazzato proprio così. Poi avrebbe gettato la
pistola a terra e avrebbe alzato le mani, aspettando docilmente che la
polizia lo portasse via da quel mondo.
Ma ancora prima di quella straordinaria vendetta voleva concedersi un
altro massacro. Doveva concederselo. Non poteva accettare di scendere dalla giostra senza prendersi quella agognata rivincita. Non poteva
vivere in gabbia il resto dei suoi giorni senza prima aver annientato la
causa principale della sua rovina. Non poteva chiudere per sempre i
giochi senza aver prima infilato una palla nella testa di Simone
Cranza.
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Il ragazzo si sedette dietro alla coppia di tamburi e cominciò a ticchettare con gentilezza sulla loro pelle. Quello era il segnale che la
messa stava entrando nella parte più interessante. Poi il suono si fece
gradualmente più forte e profondo. Un ritmo lento e ossessivo che
avrebbe accompagnato e reso più emozionante il resto del rituale.
L’odore dell’erba era ancora nell’aria ma nessuno ne aveva più, ognuno si era avidamente fumato la sua dose per agguantare prima e
meglio l’estasi e il piacere della cerimonia. Le ragazze cominciarono
lentamente a spogliarsi. Come predicava da sempre il Messo, la parte
sessuale era la parte più importante della celebrazione, quella in cui si
raggiungeva la piena e assoluta identificazione con Lucifero. Al centro del palco il Messo impartiva silenziosamente le istruzioni ai suoi
colonnelli e con cenni della testa veloci e nervosi autorizzava o bocciava le loro richieste. Adesso che il vento si era fermato, il suono dei
tamburi si allargava nell’aria nitido e profondo senza trovare ostacoli
o interferenze. Le ragazze raggiunsero lentamente il centro del palco
e cominciarono a muoversi in modo sensuale e provocante. Erano
completamente nude e completamente fatte. Il giorno dopo avrebbero
ricordato ben poco di quella notte, ma questo non aveva nessuna
importanza.
Il Messo alzò un braccio e puntò lo sguardo verso il Roco. Il ragazzo
annuì e uscì rapidamente dal casale. Nell’attesa che tornasse, il Messo
si ficcò in mezzo a due ragazze e si mise a toccarle. Ridevano, rapite
dalla forza degli allucinogeni, e gli chiedevano di continuare. Poi il
Roco rientrò assieme a un altro colonnello che lo aiutava a trascinare
un corpo che si teneva in piedi a stento. Il ritmo dei tamburi cominciò
a rallentare. Il Messo quasi tremava dal piacere e dall’eccitazione. I
suoi occhi osservavano intensamente l’ambiente attorno a lui e quella
schiera di ragazzi pronti a seguirlo nella sua follia. Prese la parola di
colpo, senza esitare minimamente.
– Fratelli, non voglio nascondervi che la setta è in pericolo. Qualcuno
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sta turbando la sua esistenza e ne minaccia la sopravvivenza. Il nemico di Lucifero si è messo all’opera e si sta organizzando rapidamente.
La polizia, un ispettore in particolare, sta indagando su di noi. Se
sapremo tenere il segreto e comportarci da veri luciferiani non troverà
niente e non ne verrà mai a capo. Ma cercherà comunque di attaccarci
e noi lo dobbiamo fermare.
Adesso il suo volto trasudava collera. Li guardò a uno a uno come un
generale che passa in rassegna la sua truppa. Li fissò negli occhi alla
ricerca dei dubbi, delle indecisioni, delle paure. Ma trovò rabbia e
incoscienza. Quei soldati l’avrebbero seguito fino alla morte.
– Questo bastardo – riprese –si accanisce contro di noi. Scava, interroga, raccoglie informazioni. Ci vuole distruggere, fratelli, vuole
essere la nostra rovina. Ma noi faremo prima di lui e il nostro attacco
sarà mortale. Di questo parleremo più tardi, quando sarà il momento
di proporre la prova della setta. Vi chiederò molto, soprattutto ai fratelli più giovani che sono appena entrati. Ma è Lucifero che vi chiede
di agire per lui, di essere la sua mano e di portare la sua opera nella
casa dei suoi nemici. E per voi sarà un’occasione grandiosa…
Si avvicinò alla ragazza catturata. I due luciferiani cercavano di tenerla ferma per le braccia, ma lei si dimenava come una furia, inarcava la
schiena, puntava i piedi e cercava in tutti i modi di divincolarsi. Era
forte e disperata e consapevole che le stava per arrivare addosso qualcosa di terribile. Il Messo la indicò con un dito.
– Ma adesso, fratelli, dobbiamo dedicarci al sacrificio. Stasera doniamo al nostro signore Lucifero un altro corpo. Chiediamo che ci dia la
forza e la capacità di azzardare, per vivere sempre al limite, per sperimentare le gioie e i piaceri massimi della vita, al di sopra delle sciocche e ridicole leggi fatte da coloro che vogliono limitare gli esseri
umani e ridurli a schiavi! Chiediamo a Lucifero di esaltare la nostra
vita e gli offriamo una vita umana in cambio.
Due ragazze cominciarono a baciarsi e a toccarsi e il Messo fu pervaso da un guizzo elettrico di euforia. Cominciavano ad abituarsi all’idea del sacrificio umano, stavano imparando a considerarlo come un
atto necessario. Il prossimo passo sarebbe stato abituarli a viverlo
come un vero e proprio atto di piacere. A quel punto, la sua setta
sarebbe diventata un’armata formidabile. Almeno finché fosse durata.
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La ragazza era imbavagliata e legata, ma perfettamente lucida. Il
Messo aveva preteso che non venisse drogata e che fosse consapevole
di tutto. Vederla lottare con tutti i suoi mezzi contro la morte sarebbe
stato più eccitante. Fu in quel momento che ebbe l’idea di liberare le
mani della ragazza. Le avrebbe lasciato legate soltanto le gambe.
Sarebbe stata una lotta più lunga ed equilibrata e poi avrebbe messo
alla prova anche il Roco. La ragazza continuava a impuntarsi, si tendeva come un arco e strillava, ma il nastro adesivo sulla bocca riduceva i suoi strilli a gemiti penosi e sofferenti. D’improvviso diede un
brusco strattone e riuscì a divincolarsi dai due ragazzi. Fece un paio
di salti indietro, ma i due la ripresero quasi subito anche se per immobilizzarla dovettero penare un po’. Il Messo era divertito e provava
anche un pizzico di ammirazione per quella ragazza. Per essere una
nera, non si difendeva malaccio, anzi. Il Roco, sovrappeso e sempre
insicuro, se la sarebbe dovuta sudare fino allo stremo.
– Sarà il fratello Pietro a condurre questo sacrificio a Lucifero.
Stanotte il fratello Pietro ha finalmente deciso di compiere il salto
finale. Stanotte il fratello Pietro diventa Lucifero, si unisce a Lui e si
abbandona completamente in Lui. Gli offre un sacrificio supremo e
stringe con Lui un legame che non si spezzerà mai più.
Si avvicinò alla ragazza e la guardò negli occhi. Vi lesse una perfetta
miscela di rabbia e di disperazione. Girò dietro di lei, si fermò alle
sue spalle e cominciò a tagliare il nastro adesivo che le teneva ferme
le mani. Attorno si era fatto silenzio, il suonatore dei tamburi si era
fermato, ma nessuno se n’era accorto.
Il Roco non si aspettava quella mossa e ne fu spiazzato. Cercò gli
occhi del Messo per chiedere spiegazioni, ma non li trovò e lo smarrimento lo assalì. Non gli restava che ammazzare la negra.
– Vai, fratello Pietro, soddisfa la sete di sangue del tuo Signore!
Il Messo gli tirò il coltello, ma il Roco si scansò d’istinto e lo lasciò
cadere a terra. Si sentì invadere da un tremore prepotente e maligno
non appena comprese. Quello stronzo del Messo lo aveva fatto apposta, voleva godersi il combattimento e la resistenza della ragazza. Si
abbassò con fatica per afferrare la lama e quando si rialzò si accorse
che la ragazza si era messa in guardia. Aveva le gambe avvinghiate da
almeno dieci giri di nastro adesivo, la bocca blindata e una respirazio-
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ne difficile, ma due occhi talmente carichi di odio che per un attimo
fu tentato di lasciar perdere.
Deglutì con difficoltà, si pentì di aver accettato quel compito, poi
cercò di spazzare ogni paura pensando alla figura di merda che avrebbe fatto se avesse rinunciato. Per non dire di peggio. Per non dire di
lasciarci la pelle.
Vaffanculo, negra del cazzo. Ora ti sbudello.
Si avviò deciso verso di lei e quella fu l’ultima cosa che riuscì a fare.
Il bagliore gli aggredì gli occhi con la rapidità di un proiettile, lo
accecò e lo lasciò paralizzato. Un lampo abbacinante seguito da un
altro e da un altro ancora. Poi un sibilo sempre più intenso che penetrava nelle orecchie come un trapano e sembrava farle sanguinare e
l’aria che si faceva velenosa e irrespirabile. Il Roco ebbe il tempo di
sentire l’acredine scendere in gola, farsi largo nei polmoni e stringerli
come una morsa. Sentì gli occhi gonfiarsi come due palle sul punto di
scoppiare e fu certo di essere sulla soglia della morte. La sua mente
doveva ancora cominciare a domandarsi cosa stava succedendo, quando una sagoma nera, agile e veloce come un falco, spuntò fuori da
quella nuvola bianca e spessa e lo stese a terra con un paio di colpi
più dolorosi di due coltellate. Il Roco lanciò un grido di dolore, ma la
sagoma neppure lo ascoltò, gli afferrò invece le braccia e gliele tirò
brutalmente dietro la schiena fino a farlo urlare di nuovo. Il Roco
sentì il ferro delle manette stringere sui polsi e un paio di mani forti
che lo perquisivano rapidamente e con sapienza dalla testa ai piedi.
Solo allora, e non erano passati più di dieci secondi, realizzò che i
giochi erano chiusi prima che potessero davvero cominciare. Sdraiato,
le lacrime che gli velavano la vista, voltò la testa dalla parte opposta.
Tra i fumi che andavano diradandosi scorse altre tre sagome nere,
incappucciate e armate di mitra, che accerchiavano il gruppo degli
altri ragazzi. Uno di loro teneva il piede schiacciato sulla schiena del
Messo e stava parlando con qualcuno attraverso una ricetrasmittente
che teneva incollata alla bocca. Le scariche elettriche che emetteva
somigliavano al pianto di un gruppo di uccellacci appena catturati.
Era successo tutto in un attimo, appena il tempo di respirare. Una
manciata di secondi e una furia brutale e devastante si era accanita su
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di loro senza che neppure riuscissero a rendersene conto. Attorno a lui
volavano grida di disperazione e di terrore e ordini e messaggi in
codice che rimbalzavano tra gli sbirri.
Un istante dopo ne arrivarono altri. Tra loro un uomo enorme che
teneva la ricetrasmittente in mano e camminava con decisione davanti
a tutti gli altri. Si fermò proprio accanto al Messo, gli enormi piedi a
pochi centimetri dalla sua faccia, aprì il contatto dell’apparecchio e
parlò.
– Paris, mi senti?
– Forte e chiaro, dottore.
– Allora? Che mi dici, ci siamo?
– Tutto perfetto. Registrato dall’inizio alla fine da quattro angolazioni
diverse. Ce li abbiamo tutti.
– L’audio?
– Nitidissimo e perfettamente comprensibile.
– Insomma, andiamo tranquilli?
– Tranquillissimi, dottore. Le immagini sono schiaccianti.
– Bene. Hai finito di filmare?
– Chiudo proprio adesso, dottore.
Finalmente una giornata come si deve.
Rovere aveva l’aria dell’avvoltoio davanti a dieci carcasse tutte per sé.
Appoggiò il piede sulla faccia del Messo e spinse finché quello non
fu costretto a gemere dal dolore. Gli infilò la punta della scarpa in
bocca, poi gli girò con forza la testa in modo che riuscisse a guardarlo
in faccia.
– Ciao, grande capo – gli disse – il tuo momento di gloria finisce qui.
Lucifero ti ha mollato in mezzo alla strada e ora sei di nostra proprietà. Io sono quello che volevi ammazzare. Però ti ho fregato e
adesso ti faccio un culo così.
Estrasse il piede, pulì la punta della scarpa sulla maglietta del Messo,
poi lo abbandonò alle cure della sagoma nera che non lo aveva mollato neppure per un istante. Si avviò incontro a un’altra di quelle sagome e gli tese la mano.
– Comandante, siete stati perfetti. Vedervi lavorare è un piacere.
– Dovere, dottore. Quello che conta è che sia andato tutto liscio. Mi
sembra ci siano tutti.
200
– Certo che sono tutti. Venti, già contati e inventariati. E tutti pronti
per la gabbia.
Attorno a loro procedevano le operazioni di ammanettamento e trasferimento dei membri della setta. Appena fuori del bosco erano pronti
furgoni e pantere. La polizia aveva sistemato due grossi fari che sparavano la luce all’interno del casale e illuminavano a giorno tutto
l’ambiente. Un altro illuminava a giorno il sentiero che conduceva
all’esterno, anche se dopo qualche decina di metri la macchia tornava
più forte e si ingoiava gradualmente la luce sommergendola. A mano
a mano che si attenuavano le urla, il baccano infernale dei primi istanti, gli scoppi, le bestemmie, gli schianti, il silenzio si fece largo e
tornò padrone del luogo. Il resto dell’intervento si svolse in una calma
che aveva davvero dell’anormale rispetto a ciò che era avvenuto pochi
minuti prima. I membri della setta rimuginavano sulla loro sconfitta.
Ognuno di loro, riportato bruscamente alla realtà, cominciava a farsi i
conti degli anni di galera che l’aspettavano e delle possibilità di riduzione della pena che poteva giocarsi. Nessuno l’avrebbe ammesso, ma
in ognuno di loro si faceva largo il pensiero della delazione. Il tempo
dell’amicizia, dei patti di ferro, dell’avventura fantastica e leggendaria
a fianco di Lucifero era già un ricordo.
Adesso, ognuno per sé.
Rovere era sfinito. Si sedette su un mucchio di calcinacci che stava a
un angolo del casale e cercò di godersi da solo quel momento di successo. Erano stati due giorni massacranti, vissuti di corsa, senza mangiare e senza dormire, senza pensare a niente altro che a quell’operazione. Dopo la scoperta del cadavere della sorella di Temna gli eventi
si erano susseguiti rapidissimamente, come tanti vagoni di un treno
lanciato. Prima il recupero del cadavere e l’inizio della sua analisi da
parte del laboratorio di anatomopatologia, poi il ripristino del sito con
una cura e un’attenzione maniacali in modo che nessuno potesse
accorgersi della scoperta.
Infine Rovere aveva deciso di piazzare le telecamere e i microfoni
all’interno e all’esterno del casale. Era stata un’operazione pesante,
velocizzata al massimo e condizionata dalla paura che qualche membro della setta potesse accorgersi dell’imboscata che la pula stava preparando. Era stato necessario nascondere alla perfezione i microfoni e
201
gli obiettivi delle microcamere, testarli a fondo e collaudarli per ottenere un audio e una qualità video soddisfacente. Nel frattempo era
stata allertata una squadra dei Nocs, i nuclei operativi specializzati in
azioni d’assalto come quella che sembrava profilarsi all’orizzonte. Il
problema più grosso era la data dell’assalto: a meno di un’improbabile e fortunosa soffiata, nessuno avrebbe potuto conoscere in anticipo
il giorno dell’intervento. L’incursione sarebbe stata decisa su due
piedi, valutando al volo se c’erano o meno le condizioni per effettuarla. Non appena le immagini avessero rivelato la preparazione di una
messa nera, l’operazione sarebbe partita. I Nocs avevano studiato l’incursione solo sulla carta, come per la verità avveniva piuttosto spesso.
Avevano usato le piante e le planimetrie disponibili, avevano ricostruito l’ambiente attraverso le foto scattate e avevano simulato le
diverse possibilità di manovra che la situazione avrebbe offerto. Poi
tutto si era fermato ed era rimasto in sospensione come la polvere
all’interno di una stanza chiusa da anni, nella snervante attesa che
qualcosa cominciasse a muoversi. La mattina del primo giorno il nervosismo era già alle stelle. Rovere aveva puntato su quell’operazione
tutto sé stesso. Del resto non riusciva proprio a scorgere un’altra strada da percorrere. I monitor avevano continuato a trasmettere il nulla
ancora per una giornata. Il nulla a eccezione del rumore di qualche
civetta, di qualche gufo, di qualche predatore diurno che passava nei
pressi del casale.
Poi, a metà di quel pomeriggio, Giulio Paris, il responsabile delle
riprese audio e video, lo aveva avvertito al cellulare che qualcosa si
stava muovendo. Un paio di ragazzi erano entrati nel casale e stavano
avviando i primi preparativi. Tutto faceva pensare che quella sera si
sarebbe tenuta una messa. A quel punto gli eventi erano precipitati.
La squadra dei Nocs e quella dell’investigativa si erano preparate a
distanza in attesa. Si erano avvicinate, come dicevano sempre i Nocs,
silenziose come la notte e pazienti come il migliore dei predatori.
Avevano pianificato, avevano aspettato e nell’attimo giusto avevano
colpito. Tutto alla perfezione. Ma nel momento in cui Rovere aveva
scoperto che la setta stava preparando un altro sacrificio umano, aveva
sentito il cuore palpitare. Un conto era fallire un’operazione, buttare
tempo e soldi senza ottenere risultati, un conto era fallire quando di
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mezzo c’era il salvataggio di una vita. Tutto si era fatto improvvisamente più delicato e al tempo stesso più pesante. Aveva sentito la
pressione salire, farsi insopportabile, schiacciargli la testa fino a farla
scoppiare, aveva sentito i denti scricchiolare e le mascelle stringere
come due tagliole. Si era sentito in fondo all’oceano, a migliaia di
metri di profondità.
Adesso che tutto sembrava finito, si era concesso dieci minuti su quel
sasso per riprendersi almeno un po’ dallo stress di quei due giorni
infiniti. Ma quei dieci minuti erano volati in un lampo. Si alzò e si
diresse verso l’esterno seguendo il sentiero illuminato dal faro mentre
i poliziotti perquisivano da cima a fondo il posto.
Fu sorpreso dal suo primo pensiero dopo quel successo: il volto che
aveva davanti agli occhi era quello di Temna. Il volto solare e armonioso di Temna. Era con lei che sentiva di voler condividere il successo di quella notte.
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In estate faceva giorno presto. Il sole stilettava la sua luce acuta attraversi i fori dell’avvolgibile già a partire dalle sei di mattina. Rovere
osservava a una a una quelle lame di luce entrare come raggi laser,
attraversare la stanza e posarsi sulla parete opposta, bucare il pulviscolo in sospensione e scaldare l’aria fino a renderla insopportabile.
Seguiva con gli occhi il loro percorso, avanti e indietro, sperando che
servisse a rilassarlo un po’. Ma non aveva funzionato. Nonostante la
stanchezza, non era riuscito a dormire neppure per un minuto. Gli
eventi continuavano ad accadere impetuosi e imprevedibili l’uno dietro l’altro e non gli avevano neppure lasciato il tempo per decidere
come reagire.
Nonostante avesse cercato di pianificare ogni cosa con la massima
attenzione, aveva ancora la sensazione di cavalcare un’onda mille
volte più grande e più forte di lui: era meraviglioso quando ti portava
nella direzione desiderata, ma non sempre andava così.
A volte poteva travolgerti con la sua forza, altre volte deviava improvvisamente il suo percorso e allora poteva scaraventarti molto lontano
da dove avresti voluto essere.
L’adrenalina in corpo era ancora tanta e gli aveva tenuto gli occhi
sprangati e il cervello acceso. Lo faceva sentire vivo come non si sentiva da tempo. Adesso alcune lame di luce si erano posate su una bellissima maschera in ebano di un guerriero Tutsi. Stava appesa alla
parete accanto a un mobile sul quale poggiavano decine di ninnoli in
legno, un piccolo strumento dal suono gentile e allegro, alcune statuine di animali, una collana e un piccolo tamburello di mille colori. Un
pezzo di Africa che probabilmente aiutava Temna a sentirsi meno lontana da casa sua. Rovere si voltò su un fianco a guardarla mentre dormiva: un corpo meraviglioso che risaltava su quelle lenzuola bianchissime e una massa di lunghi capelli ancora più scuri che le nascondevano il viso. Solo in quel momento, dopo una notte passata ad amare
quella donna, gli venne da domandarsi cosa stava facendo e perché.
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Aveva solo lasciato che succedesse (in verità aveva fatto in modo succedesse), si era fatto guidare dai sensi e dall’istinto. Era un’attrazione
fisica potente, quasi brutale, eppure non era soltanto quella che lo
aveva spinto verso di lei. Era stata un’intesa di quelle che non si spiegano e non si costruiscono neppure con tutto l’impegno del mondo.
Un’alchimia unica e perfetta che aveva provato da subito, dalla prima
volta che Temna gli era apparsa davanti agli occhi. Da quel momento
non aveva fatto altro che pensare a lei senza smettere un solo istante.
Le accarezzò la schiena con un dito, poi avvicinò il naso alla sua
pelle e affogò nel suo odore acuto e penetrante.
Dopo la retata l’aveva chiamata nel cuore della notte. Il gesto di un
pazzo, di uno squilibrato.
Era elettrizzato per il successo della grande operazione che aveva
steso per sempre i luciferiani. Gli succedeva ogni volta che concludeva un’indagine, era una furiosa esplosione di energia, un’esaltazione
senza confini che sentiva il bisogno di condividere con qualcuno. Le
aveva chiesto di vederla, di vederla subito, e lei aveva incredibilmente
detto di sì. Allora lui aveva volato per le strade della città, deserte e
accarezzate dalla luce sbiadita dei lampioni che sfilavano uno dietro
l’altro. Aveva lasciato l’auto incastrata in un buco qualunque, tra un
cassonetto e un furgone scassato, finalmente libero da quella maledetta indagine, da quei poveri morti che avevano gridato vendetta e adesso l’avevano trovata. Libero da quei bastardi assassini che finalmente
non erano più senza volto e senza identità. Libero dai giornalisti…
Libero.
Un’altra indagine chiusa. Qualche ora, al massimo qualche giorno di
pace e di piacere, di vita autentica, poi la pressione sarebbe tornata a
schiacciarlo. Un caso nuovo, un morto nuovo, un’altra mattanza selvaggia che avrebbe rivelato qualcosa di insospettabile sulla natura del
genere umano. E la giostra sarebbe tornata a girare.
Ma non quella notte.
Quella notte era stato tutto splendido e indimenticabile e Rovere
aveva accettato di riconciliarsi con il mondo, di guardarlo con occhi
diversi, certo non innocenti, ma almeno disposti a ricominciare a sperare nel bene che vince sul male.
Temna lo aveva accolto sulla soglia. Indossava una tuta grigio chiaro
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e un paio di ciabatte da casa, ma era certamente più bella che in abiti
da lavoro. Lo aveva guardato salire velocemente l’ultima rampa di
scale senza chiedergli nulla, fissandolo con due occhi vivi che non
riuscivano a nascondere la sua curiosità.
– Li abbiamo presi tutti – aveva sussurrato Rovere entrando in casa –
tutti!
Lei aveva sfoderato un sorriso caldo. Gli si era attaccata al collo, un
gesto istintivo che non era riuscita a fermare per tempo, e lo aveva
baciato. Rovere era rimasto immobile, rigido come una stalagmite, e
la donna si era ritirata immediatamente.
– Scusami – gli aveva detto abbassando la testa.
Lei non poteva avere reazioni del genere. Lei era una puttana. Un
marchio per l’eternità senza possibilità di riscatto, venticinque di
bocca, cinquanta di fica. E come se non bastasse, era anche una
negra. Lo scalino più basso della piramide. Anzi, lo scantinato dove si
posteggiano le cose vecchie e inutili poco prima che diventino per
sempre rifiuti.
Il suo gesto, la sua testa bassa, il suo sguardo imbarazzato, la sua
mano che spostava una ciocca di capelli, la sua voce tremolante, gli
dicevano proprio questo. Gli raccontavano di una donna che aveva
smesso di sentirsi tale. Una puttana negra di proprietà di qualcuno che
ogni giorno vendeva un pezzettino della sua vita e delle sue speranze.
Rovere aveva sentito una collera amara divampare come il fuoco sulla
benzina e gonfiargli il collo e il cuore. Ma dietro quel gesto aveva
anche provato un piacere assolutamente irrinunciabile.
– Fallo ancora.
Lei lo aveva guardato negli occhi, cercando di capire se l’uomo stava
scherzando o era pazzo davvero.
– Ti prego.
Si era avvicinata e lo aveva di nuovo stretto tra le sue braccia e stavolta Rovere non si era irrigidito. Si era abbandonato in quell’abbraccio
che voleva forse essere di gratitudine eppure era pregno di sensualità
e di erotismo. Lei aveva colto la sua eccitazione autentica e aveva
sentito il sangue scorrere come una cascata. Aveva sentito tra le sue
braccia un uomo e aveva riscoperto, finalmente dopo anni, la differenza con un cliente. Erano finiti sul letto in un attimo.
206
– In questo letto non è mai entrato nessuno... – gli aveva sussurrato –
soltanto tu.
L’unica verginità che poteva concedergli.
Ripensando a quei momenti, nei quali aveva scelto di andare fino in
fondo, Rovere cercò di alzarsi dal letto senza fare rumore, ma non ci
riuscì. Temna aprì gli occhi ed ebbe bisogno di qualche secondo per
mettere a fuoco una situazione del tutto nuova: un uomo nella sua
stanza e nel suo letto. Quello era un essere umano autentico, un uomo
che l’aveva amata com’era e per quello che era.
E adesso? Quello fu il suo primo e unico pensiero. Le invase il cervello e non lasciò spazio per niente altro. E adesso che succede? E’ cambiato qualcosa oppure torna tutto come prima? Rovere le si sdraiò
accanto e lei appoggiò la testa sul suo petto. Chiuse gli occhi e sparò
la sua domanda a bruciapelo.
– Matteo.
– Sì.
– Mi vuoi ancora?
– Perché non dovrei?
– Lo sai, il perché.
– No, non lo so il perché.
– Io appartengo a qualcuno. Ho una vita che non…
– No, tu non appartieni proprio a nessuno. Sei una donna libera, adesso. Anzi, sei una donna e basta.
– Mi ammazzeranno.
– Non ti ammazzerà nessuno – rispose lui accarezzandole il viso –
devi solo fidarti di me... se vuoi provarci, allora devi fidarti di me. Lo
farai?
– Sì. Ma ho paura. Quelli ammazzano davvero. Torturano e…
– Tu dammi i nomi. Solo i nomi. Il resto lo faccio io.
Era già tutto pianificato. Aveva deciso che lo avrebbe fatto anche se
non avesse avuto una storia con lei. Anche se quella attrazione così
profonda ed elettrica non fosse sfociata da nessuna parte. In un modo
o nell’altro avrebbe ottenuto i nomi e avrebbe spazzato via l’organizzazione che gestiva la tratta delle nere in quella zona. Non che sarebbe servito a molto: nel giro di qualche mese una nuova cricca avrebbe
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occupato il posto lasciato libero, esattamente come un parassita che si
sostituisce a un altro. Ma se non altro qualche ragazza avrebbe trovato
la libertà. Una goccia nell’oceano, era solito dire con amarezza.
Sempre meglio che niente, era solito rispondergli Ludovico Pertica.
Rovere aveva pensato a quel rifugio qualche giorno prima. A Temna
non aveva detto nulla, ma era sicuro che in qualche modo l’avrebbe
convinta ad accettare. E adesso sentiva dentro qualcosa che poteva
addirittura assomigliare alla felicità.
Fermò l’auto e le chiese di scendere. La campagna attorno a lei, adesso che il sole non era ancora alto e soffocante, sembrava volerle gridare il suo benvenuto.
– Che te ne pare?
– E’ bello. E’ tuo?
– Eh, magari. No, non è mio, però è un posto sicuro. Dovrai starci
qualche giorno. Starai bene, i proprietari sono brava gente. Sanno
tutto quello che devono sapere, non ti faranno domande e saranno
gentili.
La porta che stava in cima alla scalinata esterna che correva lungo il
muro della casa si aprì. Il vecchio Leone, in canottiera bianca, li
accolse alzando un braccio in segno di saluto.
– Allora l’hai portata! L’hai convinta davvero!
– Non è stato difficile. E’ una ragazza intelligente.
Rovere si voltò verso la donna cercando i suoi occhi.
– Adesso ti lascio, ma non starò via per molto. Tu devi solo stare qui
e aspettare. Non fare colpi di testa, non chiamarmi per nessuna ragione, d’accordo?
Temna annuì e si lasciò baciare. Prese la valigia e si diresse lentamente verso la scalinata di pietra dalla quale Leone era ormai quasi sceso.
Si voltò un istante a guardare Rovere per un’ultima volta. Per osservare l’uomo che qualcuno, forse i suoi antenati, magari i suoi nonni che
l’amavano e la guardavano dal mondo dei morti le avevano mandato
in dono. Ma lui era già salito in auto e mentre metteva in moto e innescava sbrigativamente la retromarcia, teneva gli occhi su un foglietto
pieno di nomi. Girò l’auto e sgommò verso la questura.
La pace era già finita. Cominciava una nuova caccia.
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A Milano, prima o poi ci si abituavano tutti. Gradualmente, secondo
un processo strisciante e inconsapevole. Dopo un po’, non c’era più
niente che riuscisse a fare effetto. Potevi mettere un poliziotto come
Rovere, con più di quindici anni di servizio sulle spalle, di fronte a
una montagna di cadaveri, magari conciati nel modo più barbaro, e al
massimo avrebbe tirato su col naso e avrebbe scosso la testa amareggiato. Avrebbe pensato che la vita era così. Fine dello stupore. A volte
lo stesso Rovere, meravigliato dalla sua inquietante assenza di reazioni, si domandava come potesse essere un poliziotto di Tokio o di Los
Angeles con trenta anni di servizio dietro di sé. E se uno che era stato
costretto dalla vita a raggiungere un tale livello di sopportazione
potesse ancora definirsi un essere umano.
Ma era così anche per i successi. Le retate, le operazioni di cattura, i
blitz che portavano all’arresto di un criminale erano solo la logica
conclusione di un’indagine. Arresto oppure archiviazione del caso tra
gli insoluti. Fine della storia, punto e a capo. Era una procedura e
come tutte le procedure aveva un inizio, uno svolgimento e una fine.
Ma a Grosseto non era ancora così. Quel giorno mancavano solo le
campane. Mille sorrisi, mille strette di mano, pacche sulle spalle,
saluti pieni di stima, di ammirazione, di congratulazioni. Un bel
segnale, la dimostrazione di una comunità che non era ancora abituata
alle efferatezze metropolitane.
Rovere si muoveva in quel mare di allegria come un orco incazzato. Il
caldo lo stava torturando, erano diversi giorni che non si concedeva i
suoi settantacinque minuti di nuoto e il viso di Temna non voleva proprio uscire dai suoi pensieri. Dispensò sorrisi e ringraziamenti, ma
non si fermò neppure un istante. Gli premeva di sistemare un’urgenza
(ce n’era sempre una), e poi alle undici e trenta era prevista la conferenza stampa e quella se la doveva fare proprio. Tra un sorriso e un
saluto salì le scale fino al secondo piano e arrivò alla stanza che gli
interessava. Aprì la porta con la solita foga e l’anta adiacente cominciò a tremolare. Il suo rumore rimbombò nella stanza e fece sobbalzare l’uomo che fino a un attimo prima stava concentrato sul monitor.
– Solimeno!
– Ah, dottore, è lei… non potrebbe fare un po’ più piano quando
entra? Mi fa prendere certe paure… comunque complimenti per que-
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sta notte, siete stati grandiosi. Ne parla tutta la città.
– Meglio così.
– Be’, se la goda finché dura, allora.
– Godo in altri modi, Solimeno. E qua dentro non godo mai. Al massimo m’incazzo un po’ meno del solito, come oggi... vabbè, lasciamo
perdere. Guarda questi nomi.
Appoggiò sulla scrivania un foglio.
– Stesso giochetto dell’altra volta. Tutto quello che ti riesce scovare:
nomi, agganci, luoghi, complici, passato e presente, tutto. Operano
nel settore della prostituzione e dell’immigrazione clandestina, ma
non escluderei il contrabbando. Questa è gente che trasporta merce di
ogni tipo. Se è di carne o di ferro, gli interessa poco.
– Bene – rispose Solimeno annuendo esageratamente – per quando le
serve?
– Lo sai, per quando – gli disse Rovere avviandosi verso l’uscita –
per prima che ti riesce. Prima mi dai le informazioni, prima li vedi in
galera. E prima ci godiamo una giornata come oggi.
Solimeno lo guardò uscire. Sembrava che l’aria dietro di lui mulinasse dopo il suo passaggio. Digrignò i denti e chiuse forte gli occhi
mentre la porta sparava il suo solito colpo di cannone. Poi posò lo
sguardo sul foglio e digitò il primo nominativo.
– Mohamed Krim Feda Diop. Tu ancora non lo sai, ma la tua pacchia
è quasi finita.
La prima mail della giornata gli era stata inviata alle sei e quarantacinque. Poche righe di immenso valore. Rovere le fissava, la schiena
appoggiata su una sedia sempre più sofferente, e cercava di rispondere alla domanda che quelle righe lasciavano trasparire. L’ultima riga,
quella maledetta ultima riga alla quale non riusciva proprio a rispondere. No, non era per niente semplice, porca puttana. Si agitò nervosamente sulla sedia, cambiò un paio di volte posizione sentendola
gemere di dolore, poi decise di stampare quel messaggio. Forse di
fronte a un foglio di carta, più docile e privo di quello sfarfallio fastidioso e dei noiosi riverberi della luce del monitor, sarebbe stato più
facile.
La stampante sputò il foglio qualche attimo dopo e lui lo afferrò con
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foga. Rilasciava un fastidioso odore chimico ed era caldo e sgradevole, quasi quanto quell’ultima maledetta riga. Perché aveva davanti a sé
i complimenti e le congratulazioni di uno dei più grandi ispettori del
paese, ma Ludovico Pertica, era la prima cosa che Rovere aveva
imparato, non terminava mai le sue considerazioni con un complimento. Troppo facile, cazzo.
Il Gigante toscano colpisce ancora! Sei stato perfetto. Appena il
tempo di rimettere piede a Grosseto e ti sei già fatto conoscere. Ma io
lo sapevo già. In fondo è per questo che ti hanno allontanato da qui,
perché due così bravi sono un lusso che nessuna questura del mondo
si può permettere. Per tutti gli altri sarebbe finita qui, ma tu lo sai
che non è così. Tu lo sai.
Perché c’è un’ultima domanda da farsi. Ce l’hai già, la risposta?
Tuo Ludovico Pertica.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Divaricò le lamelle della tendina
con due dita. Lungo il viale alberato, una Mercedes cercava ostinatamente di entrare in un buco a malapena sufficiente per una Panda.
Socchiuse gli occhi e lasciò che quella benedetta domanda galleggiasse per qualche secondo nel suo cervello, libera di fluttuare tra le sue
pareti.
I conti tornano? Tornano tutti?
Era un imperativo che aveva ereditato dal suo maestro. Un’indagine
non terminava quando i colpevoli venivano catturati, neppure quando
confessavano. E neppure quando l’ultimo e supremo organo della giustizia li condannava al massimo della pena. Per un ispettore, un’indagine era conclusa davvero quando tutti i conti tornavano alla perfezione. Quando tutti i tasselli si incastravano senza sforzo. Non al novantanove per cento, quello non era neppure abbastanza, quello non era
niente. Era un’ossessione che Pertica gli aveva trasmesso assieme alle
sue numerose cognizioni, e quel figlio di puttana aveva lavorato a
fondo per fargliela assimilare prima e meglio di tutto il resto. Devi
durare almeno trenta anni, gli diceva sempre, e non puoi permetterti
di combinare errori. O per lo meno, ne devi fare il minor numero possibile. Se rovini la vita a qualcuno, dovrai fare i conti con il suo spet-
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tro tutte le notti. Diventerà una malattia. Perciò ricordati sempre di
quella domanda.
I conti tornano? Tutti?
Serrò le labbra e strinse a pugno le mani appoggiandole sul davanzale
della finestra. Il “sì” non voleva uscire. La Mercedes comprese dopo
l’ennesima manovra che in quel buco non sarebbe mai entrata e
abbandonò l’idea. Rientrò di prepotenza in strada, costringendo l’auto
che arrivava alle sue spalle a frenare bruscamente, poi s’involò lontano. I conti tornano?
Il vialone sfociava in una piazza che aveva al suo centro un’enorme
fontana. Decine di statue zampillavano il loro getto d’acqua nella
grande vasca in mosaico blu. Qualche turista si rinfrescava sciacquandosi il viso.
– Non lo so – sussurrò candidamente – ancora non lo so se tornano, i
conti.
Strinse le mani con forza: doveva rispondere a qualche domanda. E
ancora non ci riusciva.
Sentì bussare alla porta, un attimo dopo un agente aprì e si affacciò.
– Dottore, dobbiamo anticipare. La devo portare in procura adesso.
– Adesso? Perché?
– Il dottor Somma le vuole parlare... c’è stato un problema nell’interrogatorio.
In qualche modo se l’aspettava. Non conosceva più di tanto Alberto
Somma, per lui era un sostituto procuratore e basta. Era solo il magistrato che aveva seguito e coordinato le indagini sul caso Boni. Era
colui al quale consegnava periodicamente le informazioni e gli
aggiornamenti. Forse era anche bravo, magari era un eccellente oratore, chissà. Ma i colloqui veloci e convulsi che aveva avuto con lui non
gli avevano lasciato una impressione troppo lusinghiera. Dunque non
fu sorpreso da quella notizia. Gli interrogatori erano roba ostica e
contorta. Difficile uscirne vincenti, perfino per uno sveglio e determinato. O magari Somma aveva avuto qualche problema perché... perché i conti non tornano. E’ per questo, vero?
Scosse la testa. No, impossibile, il problema era Somma, soltanto lui.
Aveva certamente scelto il tono sbagliato, aveva giocato male le sue
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carte e l’interrogatorio aveva fatto flop. E adesso, prima di mandare
tutto a puttane, cercava di salvare il salvabile e lui era la sua chance
migliore.
Forse qualcuno gli aveva raccontato della sua abilità negli interrogatori. Forse, oltre alle puttanate su Pertica e sui loro rapporti, a Grosseto
era arrivata anche qualche voce seria. In fin dei conti lui era quello
che aveva condotto l’indagine fino in fondo e aveva catturato quegli
stronzi. E poi la sua mole e la sua rabbia in un faccia a faccia come
quello potevano essere determinanti. Qualche volta su a Milano era
successo davvero. Forse Somma aveva fatto questo ragionamento o
forse non sapeva più a che santo votarsi.
O forse... o forse sono i conti che non tornano.
– Proprio no, cazzo – esclamò sommessamente.
– Cosa? Chiese l’agente alla guida.
– Niente, niente. Pensavo.
– La lascio qua, ispettore. Io parcheggio sul retro.
– Dove devo andare?
– Terzo piano, ma non so quale stanza hanno scelto. Quando arriva
su, chieda.
– Bene.
Percorse in fretta il tratto che lo separava dall’entrata del grande
palazzo che ospitava la Procura e cominciò a salire le scale. Sentiva il
cervello vorticare in mezzo a mille pensieri. La voce sicura di
Ludovico Pertica lo accompagnava passo passo e si ostinava a ripetere a oltranza quella maledetta domanda.
I conti tornano tutti?
Ripassava mentalmente quella telefonata con Pertica, le sue parole a
una a una, i suoi dubbi. Non erano mai dubbi gratuiti, lo sapeva.
Giunse al terzo piano e si diresse allo sportello che gli stava di fronte
per chiedere informazioni. Lo dirottarono lungo un interminabile corridoio fatto di grandi vetrate opacizzate dalla polvere su un lato e di
un grande muraglione in cemento grigio sull’altro. Lo percorse, svoltò
a destra e scorse in lontananza un crocicchio di persone. Un paio
erano agenti in divisa, gli altri sembravano funzionari. Parlottavano a
bassa voce e si zittirono subito quando il rumore dei suoi passi pesanti arrivò alle loro orecchie. Rovere si presentò quando stava ancora a
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venti metri dal gruppo.
– Ispettore Rovere. Il dottor Somma è qui?
– Buongiorno, ispettore – gli rispose uno di quelli vestiti in borghese
facendosi avanti – sono il dottor Menna, assistente del procuratore.
L’uomo tese la mano e Rovere la ingoiò dentro la sua.
– Mi hanno parlato di qualche problema negli interrogatori…
– Diciamo che non stanno andando come vorremmo – rispose l’uomo
posando le mani sui fianchi.
– Perché?
– Ecco… vede… la situazione è… come dire… strana. Abbiamo raccolto decine di dichiarazioni, a volte divergenti, a volte addirittura
conflittuali.
– Chi avete interrogato?
– Quasi tutti, ormai. Ognuno spara addosso agli altri e cerca di salvare la pelle. Il problema è che molti di questi disgraziati sanno poco o
nulla. I capi li hanno tenuti all’oscuro, li hanno usati come manovalanza e li hanno istupiditi con una valanga di bugie. Un classico. Però
ce ne sarebbero due o tre che potrebbero fare un po’ di luce e…
– E allora? Voi torchiateli e vedrete che…
– Lo abbiamo già fatto. Almeno, ci abbiamo provato, ma hanno una
paura tremenda. Mai visto un terrore del genere, se la fanno letteralmente addosso.
– Di chi? Di chi hanno paura?
– Del loro capo. Lo chiamano il “Messo”. Solo al sentire il suo nome
sono come paralizzati. Li dovrebbe vedere: cominciano a sudare, si
guardano attorno come se lui potesse vederli, passare attraverso i muri
e ammazzarli. E’ una cosa che ha dell’assurdo, eppure ci sta creando
un sacco di grane.
Rovere sorrise. Conosceva mille modi per sbloccare una paura come
quella. In fondo era come schiacciare un chiodo con un altro: bastava
sovrastarla con una paura più forte. Sentì che l’idea lo stava esaltando, gli risvegliava i sensi e gli gonfiava i polmoni.
– Sono stato chiamato per questo?
– In realtà no. Non è con loro che dovrebbe parlare. Abbiamo parlato
anche con il capo, o meglio: abbiamo cercato. Non ha aperto bocca.
Impassibile, indifferente, sembra che neppure sia nella stanza. Non
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sembra spaventato, e neppure il suo avvocato è riuscito a convincerlo.
Lo abbiamo tenuto sotto più di un’ora... credo che non abbia neanche
respirato. E quel bastardo sa tutto, lui sì che sa davvero tutto. Ma non
vuole parlare.
– Se mi date mano libera, a me lo dirà. Sicuro come la morte. Mi racconta tutto, da quando ha cominciato a camminare fino a stamattina.
Ma se non posso neanche toccarlo, allora è inutile, non vale neppure
la…
– Parlerà. Ce l’ha promesso.
– Forse mi sfugge qualcosa. Mi ha appena detto che…
– Stamattina presto lo stavamo portando via – lo interruppe Menna
alzando una mano – ormai ci avevamo rinunciato, ci aveva preso per i
fondelli più di un’ora ed eravamo stanchi e irritati. Con quel sorrisetto
arrogante… a un certo punto, mentre si alza dalla sedia, mi guarda
negli occhi e mi dice: “Lo sbirro che mi ha acchiappato. A lui, gli racconto tutto. Ma solo a lui”. Ora, io non lo so cos’abbia in testa, ma
abbiamo pensato che un tentativo si potesse fare…
– ... mi domando perché proprio io.
– Sarebbe difficile capirlo con un soggetto normale, figuriamoci con
uno così...
– Comunque – disse Rovere togliendosi la giacca – per me va bene.
Basta che facciamo presto.
– Avverto il dottor Somma.
L’avrebbe volentieri massacrato di colpi, quel figlio di puttana pluriassassino senza cuore. Rovere guardava quel volto spigoloso, quelle
labbra sottili che sembravano sempre scivolare verso un sorriso ironico e beffardo, quegli occhi piccoli. Maligni. Lo guardava e sentiva le
mani stringersi a pugno. Si pentì di non averne approfittato la notte in
cui l’aveva catturato. Una volta che Paris aveva smesso di filmare
avrebbe dovuto togliersi qualche soddisfazione in più, invece si era
limitato a un piede in bocca e qualche insulto, neppure dei peggiori.
Davvero troppo poco. Però magari chissà, se fosse riuscito a provocarlo nel modo giusto…
– Allora, grande capo – fece Rovere allargando le braccia e sedendosi
di fronte a lui – sono tutt’orecchi. Cos’è, ti serviva un pubblico più
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qualificato? Eccomi qua. Ma ho diverse cosette più importanti da fare.
Perché io ce l’ho ancora una vita fuori da qui. Perciò vedi di darti una
mossa.
Il Messo non aprì bocca. La stanza era squallida, triste, pregna di
fumo. Rovere inspirava sempre più rumorosamente, quasi mugugnando per l’impazienza, il Messo roteava lentamente la testa e osservava
le pareti. Poi si voltò verso la telecamera, posizionata su un treppiede
al loro fianco, e sorrise.
– Cos’è, ci vuoi prendere per il culo ancora un po’? Ti andava di fare
un’ultima bravata prima di marcire in galera?
Il Messo continuava a tacere. Rovere si piegò in avanti verso di lui.
Appoggiò i gomiti sul tavolo fino a curvarne il pianale. Parlò a bassa
voce.
– Lo sai che succede se spengo quella telecamera? Succede che
diventi mio. Mio. Afferri? Saranno momenti piuttosto difficili per te.
Io non sono una femminuccia con le mani legate. Io ti faccio male sul
serio.
Sollevò le spalle e piegò le labbra in una smorfia di disprezzo.
– Mi invento una qualunque cazzata. Che ne so: ti sfondo di botte, poi
ti metto in mano un coltello, un pezzo di vetro, un cacciavite. E il
gioco è fatto. Stai cercando questo? Guarda che non mi pare il vero di
accontentarti…
Il Messo sembrava non ascoltare. Continuava a osservare le pareti
come se fosse solo.
– Quanto mi piacerebbe che ci provassi con me. Che provassi a sgozzarmi davanti al tuo pubblico di dementi. Anche legato, non importa,
anche drogato. Le mezze seghe come te non mi fanno paura neppure
da ubriaco. E’ facile con una donna legata, eh? O in dieci contro un
ragazzo solo, è una passeggiata, eh? Ti sei divertito con Boni, vero?
Scommetto che quando lui ti ha chiesto…
– Non l’ho ammazzato io, Boni.
Era stata una risposta secca, quasi offesa. Il Messo era improvvisamente tornato sulla terra, lo sguardo vivo e presente, il tono stizzito di
chi si è appena sentito azzannato. Rovere comprese di aver schiacciato finalmente il tasto giusto. Adesso il Messo era partito.
Era il momento di fargli vuotare il sacco.
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– Non cercate di appiopparmi la morte di Boni, tu e i tuoi colleghi
stronzi, perché io con quello non c’entro proprio un cazzo.
– Senti senti. Ti sei svegliato... ma sei partito subito male. Alla prossima cazzata che mi racconti…
– Non è una cazzata – disse il Messo con una voce strozzata mentre
scuoteva con forza la testa.
– Non è una cazzata?
– No. Noi facciamo sacrifici a Lucifero. Gli doniamo la vita. E non
gli avrei mai donato un pezzo di merda come Boni.
– Interessante. E quante vite gli avete… donato?
– Tre. Le prendevamo dalla litoranea e le nascondevamo al casale.
Quella stronza che si è salvata doveva essere la quarta.
– Abbiamo trovato un corpo. Dunque ce ne sono altri due.
– Bravo. Sei stato attento.
– Dove sono?
– Non lo so. Non li ho sepolti io.
– E chi lo sa?
– Il Roco. Lui lo sa di sicuro. Ha ammazzato anche un ciccione che
era entrato nella setta, ma non valeva un cazzo. Gliel’ho ordinato io,
di fargli fare una prova e di ammazzarlo, tanto lo sapevo che quell’imbecille non la superava. Doveva portarci il cuore di un morto, ma
se l’è fatta addosso e ha combinato un casino.
– Il cimitero di Maglianello? Parli di quel caso?
– Sì.
– Cristo santo, gli hai fatto ammazzare una guardia.
– Quello l’ha deciso da solo. Te l’ho detto che era un coglione.
Rovere decise di alzarsi. Mostrare le sue dimensioni serviva sempre.
Appoggiò le mani sul tavolo, curvo verso il Messo, e si inchiodò nei
suoi occhi.
– Al Roco penso più tardi. Ora voglio sapere di Boni e di Breschi.
– Boni l’ho picchiato. Prima però l’hanno picchiato loro.
– Loro chi?
– I miei soldati.
– I tuoi… soldati?
– Esatto. Poi sono rimasto solo con lui. L’ho massacrato di calci e lo
rifarei. Chiedeva pietà, quello stronzo. Supplicava. Col cazzo. Più
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supplicava, più lo pestavo, mi faceva incazzare ancora di più. Era
indegno. Quando me ne sono andato l’ho lasciato nel bosco. Era concio da far paura, una maschera di sangue... e frignava come una verginella. Però era vivo...
– ... interessante. Poi si è incatenato a un albero, si è preso a frustate
fino a scuoiarsi ed è morto. Eh sì... fila liscio, non ti sembra?
– Non me ne frega un cazzo di come fila. Pensala come ti pare, ma io
l’ho solo massacrato. Con l’albero, le frustate e tutto il resto io non
c’entro proprio niente.
– Non c’entri niente? Eh no, lui non c’entra niente! Hai ammazzato
tre donne, ne avresti ammazzata un’altra come bere un caffè, e con
Boni non c’entri niente?
– No.
Tenere a freno le mani diventava sempre più difficile.
– E Breschi, il giornalista?
– Breschi l’ha ammazzato qualche barbone al parcheggio.
– No, caro il mio testa di cazzo. Breschi stava indagando su di voi.
Boni era la talpa, Breschi era quello che stava per sputtanarvi. E li hai
ammazzati tutti e due. O forse li hai fatti ammazzare dai tuoi soldati,
ma non è che cambi molto.
– Bene. Ho capito.
– Hai capito cosa?
– Ho capito che mi volete appioppare tutta la merda che non sapete
come smaltire. La scaricate su di me, tanto che differenza fa? Tre
morti o cinque… non è così?
Rovere si appoggiò allo schienale e cercò di rilassarsi. Quello scambio era partito male e stava andando peggio. Era un dialogo contaminato, disturbato da una strana tensione. Era come un sottile fruscio
sotto una canzone. Forse era solo la sua rabbia. Ma era tanta e troppo
forte per contenerla. Così vicino alla verità e così incapace di agguantarla…
– Sai cosa penso di te, grande capo?
– Non mi interessa.
– Lo immagino, non credo siano molte le cose che ti interessano, a
parte sgozzare le donne. Pazienza, te lo dico lo stesso. Penso che sei
un vigliacco cacasotto, e questo vale anche per i tuoi amici. Ognuno
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di voi si sta vendendo la pelle degli altri per spuntare qualcosina. Sei
mesi, un anno di sconto. O magari un carcere non troppo tosto, di
quelli dove si vivacchia tranquilli senza troppi patemi. Fate schifo.
Grandi amici, tutti uniti in nome di Satana…
– Non è Satana. E’ Lucifero.
– Non cambia una sega... vi credevate un esercito indistruttibile e alla
prima difficoltà vi siete cacati in mano come le scimmie. Ma tu… tu
sei il peggiore. Uno stronzo razzista, una bestia senza cervello e senza
cuore. Mai visto uno così vigliacco. Sei talmente stronzo da ammazzare tre donne senza batter ciglio. Tre donne nere. Coi bianchi però è
diverso, eh? Coi bianchi ritorni il cacasotto di sempre, vero? Perché
confessare di aver massacrato un bianco non è…
– Non li ho ammazzati io!
– Certo, certo. Continua pure su questa strada. Lo stronzo sono io che
sto qui ad ascoltarti, a perdere tempo con una nullità. I fatti ci sono
tutti, bastano quelli a condannarti.
Spostò la sedia con un calcio e si allontanò dal tavolo.
– E con questo ho finito. Ti ho dedicato anche troppo tempo.
– Ma perché non capisci, cazzo... perché non capisci?
Ora il volto del Messo aveva abbandonato ogni indifferenza. Le labbra si erano fatte affilate come rasoi, i denti serrati e in bella mostra
come quelli di una belva, gli occhi cupi e incerti. Smarrimento.
Rabbia violenta e soffocata. Fine della tracotanza. Fine dell’arroganza. Inizio della disperazione.
– Io capisco quello che vedo, grande capo. Vedo una bestia che annusa la fine della sua libertà e annusa la galera, tanta galera. Un bel po’
di pestaggi e qualche bel negro che se lo sbatte come si deve e lo fa
strillare dal dolore. Annusa tutto questo, e cerca di salvarsi le chiappe.
Solo che ha scelto la strada sbagliata. Avrei potuto fare qualcosa per
te. Niente di speciale, ma avresti mangiato qualche cucchiaio di
merda in meno. Poco, ma meglio di niente.
– Tu non puoi far niente per me. Nessuno può. E smettila di raccontare cazzate, perché non lo faresti comunque.
– Eh, dimenticavo, tu sei il capo della setta. Tu parli col diavolo.
Si sedette di nuovo, con una calma studiata, come se ogni piccolo
errore, un suono fuori posto, un gesto sopra le righe potesse rompere
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l’atmosfera.
– Avanti, parlami di Boni.
– T’ho già detto tutto quello che so.
– Raccontami di Breschi.
– Non so niente di Breschi.
Porca puttana. Rovere bestemmiava dentro di sé e sentiva le risposte
allontanarsi. Il quadro si disuniva invece di completarsi. Si alzò veloce.
– Be’, grande capo, la tua occasione l’hai avuta. Te la sei giocata di
merda, ma questo non mi stupisce.
– Al contrario – rispose il Messo sfoderando di nuovo il suo sorriso
indisponente – me la sto giocando alla grande. Tu aspetta e vedrai…
– Non posso aspettare. Fuori da qui ho una vita da vivere. Libero.
Spense la telecamera e aprì la porta della stanza. Nel corridoio tre
agenti e il dottor Menna stavano aspettando. L’aria era satura di fumo,
per terra decine di mozziconi, per aria nervosismo e tensione. Due
degli agenti entrarono immediatamente nella stanza, si affiancarono al
Messo e lo trascinarono fuori senza troppi complimenti. Menna fremeva come un insetto. Rovere fiutò il nervosismo del burocrate che
non vede l’ora di terminare il compitino. Lo vide prendere fiato e
azzardare la sua domanda più importante.
– Com’è andata?
– Mah, poteva andare meglio. In ogni caso è tutto registrato. Ma non
penso che ne tirerete fuori qualcosa di utile. Quello è un cervello
bacato. In gabbia e la chiave in mare.
Rovere aveva un’espressione buia, quello scambio di battute gli aveva
fatto male. Come se quel malato lo avesse infettato. Gli aveva lasciato
addosso una sensazione orrenda. Perfino la sua bocca aveva un sapore
disgustoso. Neppure si accorse degli agenti che gli passavano a fianco
e portavano via il ragazzo. Mentre lo interrogava si era sentito con le
caviglie nelle sabbie mobili: un passo giusto ed era la salvezza, un
passo sbagliato ed era la rovina. E non era riuscito a trovare la via
giusta. Che senso aveva un dialogo come quello? Che razza di animale era quello che aveva avuto di fronte? E cosa gli aveva detto? Cosa
gli aveva fatto sapere? Perché, in fin dei conti, aveva voluto parlare
con lui? Solo per dirgli che lui non c’entrava con quelle morti già
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sapendo che nessuno gli avrebbe creduto?
Me la sto giocando alla grande…
Era matto? Certo, che lo era, ma non fino in fondo.
Su certe cose sembrava avere le idee chiare. Con l’infermità mentale
non ce l’avrebbe mai fatta. Era folle, non matto. Era una mente che…
un urlo disumano lo risvegliò dai suoi pensieri tormentati. Alzò gli
occhi e davanti a sé, proprio in mezzo al lungo corridoio, scorse un
groviglio di uomini. Una palla umana dalla quale fuoriuscivano braccia, teste, urla di dolore. Il Messo sembrava un enorme serpente, si
era avvinghiato attorno al corpo di uno dei due agenti e si stringeva a
lui con tutta la forza che aveva come un enorme boa costrittore. I due
caddero a terra mentre l’altro agente tentava di staccarli e gridava
insieme a loro.
Fu un attimo.
– Lascialo, imbecille! Che cazzo fai!
I due rotolarono per qualche metro, sempre più avvinghiati. L’agente
a terra aveva afferrato il Messo per le spalle e cercava inutilmente di
staccarlo da sé, l’altro aveva afferrato il Messo per la vita e dava strattoni violenti e brutali che facevano gemere perfino il collega, ma il
Messo teneva duro, tutto concentrato in silenzio sulla sua missione.
Nella foga, nella velocità turbinosa di quegli istanti, nessuno aveva
pensato alle mani. Erano ammanettate ma potevano ancor afferrare. Il
Messo le aveva strette attorno alla pistola dell’agente e stringeva spinto dal suo odio e dalla determinazione di portare a termine la missione. Rotolava, prendeva calci, sentiva la schiena spezzarsi, per un attimo temette di aver perduto le gambe. Il dolore incandescente lungo la
colonna vertebrale lo faceva piangere. Batté la testa sul pavimento
lastricato, batté i denti e forse se ne ruppe anche un paio, vide il sangue scrosciare sotto il suo mento e raggrumarsi in una piccola pozza.
Ma non si staccò.
Liberò il bottone della fondina, incurante degli insulti, delle bordate
che gli piovevano addosso. Gli altri ebbero solo il tempo di osservare
la scena da lontano.
– Lascialo... t’ho detto che…
L’ultimo strappo staccò il Messo dal corpo dell’agente. Il suo collega
cadde a terra trascinato dalla forza del suo stesso strattone. Cadde a
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terra anche il Messo, ma fu il primo a rimettersi in piedi. Strinse le
mani sulla pistola e nello stesso momento alzò gli occhi a cercare il
suo obiettivo. Non si perse nei dettagli, cercò la sagoma più voluminosa e appena i suoi occhi la incontrarono sistemò la pistola sulla
traiettoria. Era stato veloce, era stato un fulmine. I due poliziotti
erano a terra, ansimanti e ancora lontani dal comprendere cosa stava
per accadere. Era stato sovrumano, come se il demonio vero, non
quello che si era inventato per trasformare la sua vita in qualcosa di
meno noioso e squallido, lo avesse spinto con il suo alito, gli avesse
infuso la sua forza, la sua potenza, la sua agilità. Menna aveva fatto
appena in tempo a blaterare un “oddio, ma che succede…”, perso dietro ai suoi occhiali spessi che trasformavano il mondo in qualcosa di
incomprensibile e spaventoso. L’agente che gli stava a fianco aveva
avuto un riflesso più efficace, si era avviato verso la rissa, ma non era
neppure a metà del corridoio quando il Messo si era rialzato e aveva
puntato la sua pistola contro Matteo Rovere.
Era stato rapido.
Mille volte più veloce di come si era pensato e ripensato durante la
notte, quando aveva promesso a se stesso che lo sbirro l’avrebbe
pagata e con la mente aveva vissuto quella scena decine di volte.
Era stato una folgore.
Ma quando sentì il petto infiammarsi proprio mentre stava per spingere sul grilletto, ebbe il tempo solo per un ultimo pensiero.
Pensò che quel bastardo di sbirro era stato ancora una volta più veloce di lui.
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Tutto andava come doveva. Era talmente semplice, talmente fluido
che cominciava a diventare noioso. Avrebbe dovuto alzare la posta e
azzardare di più. Mirare a obiettivi più alti e apparentemente irraggiungibili. Quella sera Simone Cranza era eccitato fino a perdere la
ragione. L’onnipotenza a un passo. Tutto andava come doveva.
Il centralino della tv era andato in tilt, intasato da centinaia di chiamate. Volevano parlare con lui, sentire la sua voce, ascoltare i suoi consigli. Volevano vivere secondo le sue regole.
Si mettevano in coda e aspettavano pazientemente il proprio turno
solo per gridargli che era fantastico, che la sua trasmissione era
imperdibile, che non potevano fare a meno di lui.
Che non sapevano più muoversi senza di lui.
Che erano niente senza di lui.
Un nuovo esercito. I suoi fedeli. Lo esaltavano. Lo amavano. Lo cercavano. Lo aspettavano. Erano pronti a dedicargli la vita.
Li aveva resi dipendenti dalla sua volontà e dalla sua presenza.
Ancora non erano molti, ancora non erano tutti, ma lo sarebbero
diventati. Con il tempo, con la pazienza necessaria, con un uso intelligente della sua tv e delle sue doti, sarebbero diventati tutti.
Tutta la città. E poi il passo successivo. Con calma, ma con una determinazione granitica. Chi stava con lui, avrebbe goduto del suo potere,
avrebbe sfruttato la sua scia, avrebbe beneficiato delle briciole, avrebbe fatto parte del suo clan.
Chi stava contro di lui…
Il direttore della tv sbatté più volte le palpebre. Forse non aveva capito bene. Chiese a Cranza di ripetere.
– Ho detto che mi servono più ore. Almeno cinque, tutti i giorni.
Nella fascia di massimo ascolto.
Il direttore sorrise. Un sorriso forzato, quasi pietoso, come quelli elargiti a un povero idiota incapace di capire.
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Quel tipo si era montato un po’ troppo la testa. Adesso era ora di
rimetterlo al suo posto.
– A parte il fatto che è una bischerata fuori dal mondo, mi spieghi
come faresti tu a reggere cinque ore di televisione tutti i giorni? Ma ti
rendi conto?
– Non ho detto che le voglio per me. Voglio cinque ore per trasmettere una serie di trasmissioni che ci faranno salire. Salire ancora di più.
– Ah, ci faranno salire. E da quando sei diventato un esperto di programmazione televisiva?
– Non farmi incazzare, Scotto. Dammi quel tempo e…
– Ce n’hai anche troppo di tempo, cazzo! Il nostro è un pubblico
variegato, che ti credi che stanno a guardare solo le trasmissioni di
magia?
– Tu non mi stai ascoltando, non ho mai parlato di magia. Dammi
cinque ore e non te ne pentirai. Ti lascio tutti i meriti, se vuoi.
– Ah, lui mi lascia i meriti! Ma vai a cacare, stronzo! Cinque ore tutti
i giorni? Praticamente è come lasciarti il posto di direttore. Ma ti
ascolti quando parli, Cranza?
– Non sono io che devo ascoltare. Sei tu.
– Sta’ a sentire, bello – replicò secco il direttore mentre si alzava dalla
sedia e gli si piazzava di fronte – ora stai davvero pisciando fuori dal
vaso. Sei bravo, e va bene, tiri su lo share, e va bene, sei pagato come
nessuno, e posso ingoiare anche questo. Ma il direttore sono io e il
palinsesto lo faccio io. E’ chiaro? E’ chiaro o no?
– No, non è chiaro. Non è chiaro per niente.
– Cazzi tuoi, caro. Se non lo capisci, il problema è solo tuo. Qui
comando io. Finché Marte non mi rimuove, al timone ci sto io.
Cranza annuì solennemente e gli diede una pacca sulla spalla. L’uomo
cercò d’istinto di indietreggiare.
– Molto bene. Il capoccia sei tu. Tu disponi, noi obbediamo. Funziona
così, no?
– Esatto. Funziona così.
– Bene – disse Cranza spostando lo sguardo a terra – bene. Io ci ho
provato. Stammi bene, direttore.
Guadagnò rapidamente l’uscita della stanza. Aprì la porta e sparì
senza voltarsi.
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L’uomo rimase a osservare la sua schiena senza aprire bocca.
Lasciò che la porta si chiudesse, poi cercò di frenare alla meglio il
tremito dell’ira che lo stava assalendo.
– Ma tu guarda ’sto stronzo…
Era livido di rabbia. Furibondo. Non gli era mai stato simpatico quel
ciarlatano con l’aria da dio mandato sulla terra ad alleviare le pene dei
comuni mortali, ma adesso lo odiava a morte. Bastardo figlio di puttana. Bisognava fermarlo prima che allungasse troppo le mani e le infilasse dove non avrebbe dovuto. Avrebbe parlato con Marte e lo avrebbe messo con le spalle al muro. O lui o io, gli avrebbe detto.
Lo aveva fatto agitare, quello stronzo arrogante, e adesso gli veniva da
vomitare. Nel suo stomaco si era scatenata una tempesta. Corse verso
il bagno lungo il corridoio, trascinando le gambe pesanti e molli.
Quando afferrò la maniglia della porta si accorse che la sua mano tremava e non riusciva nemmeno a stringere. Bastardo d’un bastardo.
Con quei sorrisetti cattivi, quegli sguardi penetranti e violenti. Un serpente da schiacciare, prima che fosse lui a mordere. Aprì con fatica la
porta e appena dentro si accasciò sul lavabo e spalancò la bocca.
Contrasse l’addome, spinse, lanciò un urlo strozzato. Poi si tirò su lentamente e osservò atterrito quel grumo viola di sangue che scivolava
indifferente verso il buco. Tossì, un colpo secco e vetroso che gli
rastrellò brutalmente il petto e lo piegò in due come una bastonata
sulla schiena. Un altro grumo si spiaccicò sulla superficie bianca e
rilucente del lavabo. Sembravano due occhi strappati da un cadavere.
Che mi ha fatto? Che cazzo mi ha fatto quel bastardo?
Fu la sua ultima domanda. Poi attorno a lui si fece tutto sfocato e
confuso.
Simone Cranza camminava pigramente verso la sua auto fischiettando
un pezzo dei Deep Purple. La camicia bianca era aperta fin quasi
all’ombelico e il medaglione che pendeva dal suo collo risplendeva
sotto la luce della luna. Si fermò a metà strada per accendersi un cigarillo e si voltò a osservare l’edificio in mattoni rossi che ospitava la
sua tv. L’esterno non sarebbe cambiato, per ora, ma all’interno erano
in arrivo grandi novità. Via tutte le cariatidi, via tutte le trasmissioni
sportive e i documentari, via quella patina di provincialismo che ren-
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deva tutto così triste e squallido. Via, via, via. Una bella accelerata,
una bella spinta in avanti. Via tutte quelle pidocchiose resistenze.
Entrò in auto e cominciò a trafficare con lo stereo. Scorse a uno a uno
i cd nell’astuccio e si fermò sui Red Hot Chili Peppers. Lo sportello
alla sua destra si aprì proprio mentre estraeva il cd dall’astuccio.
– Ciao, serpentello. Adesso mi diverto un po’ io…
Ugo Marte, l’aria sconvolta, i capelli intricati in poche ciocche fradicie di sudore, il respiro pesante, si sedette al suo fianco sprofondando
sul sedile. Poi si voltò su un fianco e puntò la pistola verso Cranza.
– Marte. Che cazzo vuoi fare?
– Che voglio fare? Tra un po’ te lo faccio vedere, che voglio fare.
Guida, forza. Allontanati da qui.
L’auto uscì lentamente dallo spiazzo alberato e si immise nella stradina che ricongiungeva alla litoranea.
– Marte, sei fuori di cranio. Datti una calmata, poi cominciamo a
ragionare…
– Certo, che ragioniamo. Puoi contarci, che ragioniamo. Solo che ora
comando io, porca puttana!
– Andiamo, socio, non vorrai mica…
– Io non sono tuo socioooo!
Gridava fino a farsi scoppiare il collo.
– Avanti, gira verso la pineta. Veloce, infilati dentro.
– E’ lì che mi vuoi ammazzare, Marte? Mi ammazzerai lì?
– Sicuro che ti ammazzo lì. E poi ti nascondo tra le frasche. Prima
che qualcuno ti trovi, ti avrà mangiato qualche cinghiale. Anzi, no, ci
ho ripensato: prendi quella deviazione. Gira, dai, gira qui.
L’auto svoltò a sinistra e inforcò una strada ancora più stretta. Era
sterrata e priva di segnaletica. Al di là dei pochi metri illuminati dai
fari, il nero ingoiava ogni cosa. Le buche facevano sobbalzare l’auto e
costringevano Cranza a rallentare continuamente. Edson osservava la
strada ma lo sguardo gli cadeva sempre più spesso sulla pistola.
L’arma tremava, lucida e nera, e dava la pericolosa impressione di
essere sul punto di esplodere.
– Dove stiamo andando?
– Sulla sponda dell’Ombrone... non ti troverà nessuno, laggiù.
– Senti, Marte, voglio farti una proposta…
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– Sta’ zitto! Zitto!
Gli attaccò la pistola alla tempia. Era un fascio di tremore e di singulti che non riusciva a frenare.
– Va bene va bene va bene. Sto... zitto.
Proseguirono in silenzio per qualche minuto. Poi Marte recuperò la
calma e cercò di rilassarsi. Ma ormai la sua follia aveva infettato l’abitacolo. Cranza era convinto di riuscire a fiutarla. La strada ormai era
solo abbozzata. Non era più neppure una mulattiera.
– Dobbiamo fermarci. Oltre non si può andare.
– Si può, si può. Tu continua e sta’ zitto. E non ti preoccupare per la
macchina. Da morto non ci fai niente.
Emise un sorriso sinistro, i bronchi in sofferenza. Un guaito allucinato
e pazzoide, ma Cranza non sembrava preoccupato più di tanto.
Sorrise insieme a lui.
– Ti diverti, Cranza? Ti fa divertire tanto? Vedrai che tra poco non ti
diverti più.
– Non lo so. E’ tutto così… buffo. Sei tu che sei buffo, Marte. Sei
proprio…
– Sta’ zitto, porca troia d’un bastardo che non sei altro.
Cranza cominciò a fischiettare.
– Smettila.
– Nervoso, Marte? Ma non sono io quello che deve morire?
– Tu sei una rovina. Tu sei una rovina per tutti. E stasera quant’è vero
Iddio te la faccio pagare. Il mondo mi ringrazierà.
– Mmm, sai che penso? Penso che non ce la fai a sparare. Non ti ci
vedo, socio. Stendere uno così, a freddo. Ci vogliono i coglioni, sai?
– Sta’ zitto…
– Insomma, guardati. Sei… ti sembra di essere in grado di sparare a
uno? Di ammazzarlo? Di ammazzarlo, dico.
– Basta così. Ferma.
Marte scese e girò attorno all’auto. Teneva in mano una torcia. La
accese e la puntò sul viso di Cranza.
– Scendi, mago dei miei coglioni. Scendi che adesso…
– Stai commettendo uno sbaglio, Marte.
– Stai zitto, idiota. Lo sbaglio l’ho fatto prima, quando mi sono confuso con un verme come te.
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– Allora adesso ne stai facendo un altro ancora più grande. Sei ancora
in tempo a fermarti.
– Parli troppo, Cranza. Per fortuna hai quasi finito.
Il fiume era ancora lontano, ma in quel silenzio profondo il suono
gorgogliante dell’acqua giungeva nitido. Faceva da tappeto a quella
assurda conversazione.
– Avanti, ricomincia a camminare. Fino alla sponda, dai.
Cranza scosse la testa. Poi si incamminò lentamente. Marte, qualche
passo dietro di lui, gli faceva luce con la torcia.
– Sai, Marte, io in fondo ti avevo già dimenticato. Ti avrei lasciato
vivere la tua miserabile vita senza darti altri fastidi. In fondo, cos’altro potrei volere da uno come te?
– Cammina. Cammina e chiudi la bocca.
– Ti ho portato via la tv, ti ho scopato la moglie. Davvero, che altro
mi può dare un pezzente come te...
– Se devi raccontare una cazzata, fallo un po’ meglio. Mia moglie
neppure lo guarda, uno come te.
– E’ questo che pensi? Ma allora sei ridotto davvero male. D’altronde,
è l’unica spiegazione. Per venire a sfidare me, devi essere proprio
cieco.
– Sfidarti? No, io non voglio sfidarti. Io ti ammazzo come un cane.
Proprio qui. Fermo, fermo. Girati, adesso.
A qualche metro da loro, il fiume scorreva placido e ancora incendiato dal caldo della giornata. La luna rimbalzava sulla sua superficie
crespa e colorava di bianco il suo letto e la macchia circostante. Un
manto di colore che ricopriva anche i due uomini e imbiancava i loro
volti.
– Tu, figlio di puttana, tu adesso crepi. E’ l’unica cosa che meriti. Tu
adesso…
Prese ad ansimare. Guardava quel bastardo davanti a sé e di colpo le
forze sparirono, risucchiate via da qualche misterioso fenomeno. Alzò
di nuovo la pistola verso di lui, verso quegli occhi maligni che lo
guardavano e lo paralizzavano.
Perché non spari? Perché?
– Te lo dico io, perché. Perché sono io che conduco le danze. Sono io
che decide chi muore.
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– Non ti muovere, Sta’ fermo…
– Fermo? E perché dovrei? Chi me lo impedisce? Me lo impedisci tu?
Marte stringeva la pistola fino a farsi male, spingeva su quel grilletto,
gli sembrava di aver chiamato a raccolta tutte le sue forze, ma quel
grilletto non scattava. Qualcosa, qualcuno gli impediva di ammazzare
quel verme. Provò, provò ancora. Poi comprese.
Comprese che non bastava stringere una pistola tra le mani per essere
sicuri di ammazzare qualcuno. E comprese che in un faccia a faccia
come quello non era lo strumento di morte che ognuno si portava dietro a fare la differenza: era la volontà reale di uccidere l’altro. E lui la
volontà di ammazzare quel cane che gli stava di fronte, per quanto
stronzo fosse, non riusciva proprio a trovarla. Perché assassini si
nasce. E lui era nato puttaniere, bugiardo e maneggione, ma assassino
no.
Cranza aveva smesso di ridere e la sua faccia si era fatta seria.
Marte gli guardò dentro e percepì chiaramente che quello la volontà
di ammazzarlo ce l’aveva, eccome. Si portava dietro solo le sue mani
e le sue parole, ma con quell’energia velenosa che sputava fuori come
lapilli, quegli strumenti erano più che sufficienti.
– Ancora non ti rendi conto del perché siamo qui, Marte? Ti sfuggono
ancora così tante cose?
– Fermo. Non ti avvicinare…
– Sei ancora così lontano dalla verità, povero stupido…
– Lasciami, lasciami!
– Non ti sto neppure toccando, Marte. Quella che senti è la tua paura.
La paura di chi finalmente comincia a capire. Perché adesso tutto
comincia a farsi chiaro, no?
– Ma chi sei? Chi sei? Lasciami…
– E’ l’ora, Marte. E’ l’ora di chiudere.
– Non è vero. Non è vero…
Marte strinse la pistola con tutta la sua forza. La strinse e cercò di
tenere il suo braccio fermo e puntato verso quel demonio che si avvicinava. Ma le forze non c’erano più, e forse non c’erano mai state.
Era tutto così confuso, adesso.
E lui era così spossato…
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26
Le braci sotto la griglia andavano spegnendosi lentamente e di quando in quando mandavano ancora qualche guizzo. Le leggere folate di
maestrale portavano al naso di Rovere l’odore del pesce arrostito sulla
graticola un paio d’ore prima. La luce del giorno era ormai fievole ed
entro qualche minuto avrebbe fatto completamente buio. Rovere
appoggiò la schiena sulla sedia da giardino e si lasciò massaggiare i
piedi dall’erba fresca e rasata alla perfezione. Era morbida e piacevole, lo invitava a chiudere gli occhi e volare con la fantasia, nonostante
lavorare di fantasia non fosse esattamente la sua specialità. Le cicale
si erano zittite da qualche minuto e i grilli si preparavano a prendere
il loro posto per la notte.
– Allora, mangiato bene? – gli chiese Perno.
– Da Dio. E guarda che sono abituato mica male. Da quando sono
tornato qua non faccio che mangiare. Ma stasera non potevo davvero
tirarmi indietro. Tua moglie dovrebbe farlo di mestiere…
– L’ha fatto di mestiere, l’ha fatto per anni... scuola alberghiera, i
primi contratti come cuoca e via discorrendo. Poi è arrivata la bimba
e ha smesso, ma la passione per la cucina le è rimasta.
– Me ne sono accorto...
La donna uscì di casa un attimo dopo. Sfilò una sedia da sotto il tavolo e si sedette accanto al marito. Si chiuse i capelli in un fermaglio e
gli sorrise. Era una donna graziosa e minuta, con una voce che si
accostava all’orecchio piano piano, con delicatezza.
– Si è addormentata? – chiese Perno.
– Mi sembra di sì. Era sfinita e cominciava a innervosirsi. Scusa
Matteo, ma ho dovuto metterla a letto per forza...
– ... ma scherzi? Dopo una cena così, ti è permesso di tutto!
– Mi dispiace, vi ho fatto mangiare da soli…
– Sì, però ci hai fatto mangiare per quattro.
– Se volete smaltire, basta aiutarmi a sparecchiare.
– Lascia stare, ti prego. Lo facciamo domattina.
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– Non esiste, caro. Lo faremo stasera.
La donna sorrideva, ma il suo sguardo era deciso, e Perno sapeva che
stava dicendo sul serio: non si lascia mai una sala da pranzo in disordine.
– Va bene, va bene – sbuffò Perno – ... ma almeno un quarto d’ora di
relax ce lo puoi concedere?
– Tutto il tempo che vi pare, anche tre ore. Sappi però che non si va a
letto se prima non è tutto in ordine.
La bambina ricominciò a piangere. La madre si alzò dalla sedia.
– Vado a vedere – disse.
Appena la donna fu in casa, Perno ricominciò con le lamentele.
– Certe volte le sue manie mi mandano fuori di testa. Sempre così
attenta, così precisa…
– Dai, che in famiglia uno così ci vuole. Se non fosse stata lei, saresti
stato tu.
– Meglio, almeno sarei stato il carnefice, invece che la vittima. Tu,
piuttosto: sei sposato?
– Macché. Libero come un passerotto.
– Bravo. E restaci.
Rovere sorrise. Era un consiglio che sentiva da anni, ma mai da uno
che si trovasse nella sua stessa condizione. Erano sempre gli sposati,
a dirglielo.
– Caro Perno, ti manca sempre quello che non hai, ricordalo. A te
manca la libertà, a me manca una famiglia. Però, detto tra noi, mica
sempre... solo qualche volta.
– Senti, cambiando discorso, cos’è questa storia della piscina? Dicono
che passi un sacco di tempo a nuotare.
– E’ un’abitudine che mi è rimasta. Se smetto per qualche giorno
vado in paranoia. Per me è come mangiare o dormire. Dopo aver giocato tanti anni…
– Giocato? A cosa?
– Pallanuoto, su a Milano.
– Dove?
– Seconda divisione.
– ... sarebbe come la serie B del calcio, no?
– Più o meno.
231
– Non è proprio poco…
– Diciamo buoni livelli. Non sono certo le olimpiadi, ma l’impegno è
lo stesso. Quando ho dovuto smettere è stato un periodaccio. Allora
mi è rimasta la vasca. Quella non la mollo proprio.
– Però da eccellente atleta ti sei trasformato in un eccellente ispettore.
– Cos’è, anche questo lo dicono in giro?
– Sì, lo dicono. Sai, prima che tu arrivassi giravano le voci più strane
su di te: di tutto, s’è sentito di tutto. Però chiunque parlava di te giurava che eri bravo. Ora sappiamo che è vero. Con questo caso della
setta, la medaglia d’oro non te la leva nessuno.
– Dici?
– Cazzo, in otto giorni hai ricostruito il caso dall’inizio alla fine e li
hai presi tutti. Se non è medaglia d’oro questa…
Il volto di Rovere si era repentinamente rabbuiato. Perno ne fu sconcertato.
– Porca miseria, Matteo, dovresti fare salti di gioia. Ti sei presentato
come meglio non si poteva. Senza contare che di casi ne hai risolti
due, perché attaccato al tuo c’era il mio. Non ci sono dubbi. Tu sei il
mio eroe del mese…
– Non lo so... – rispose Rovere sospirando rumorosamente.
– Che vuol dire “non lo so”?
Rovere aggrottò le sopracciglia, continuando a guardare lontano. Era
come se frugasse nell’oscurità.
Perno si alzò e trascinò la sua sedia accanto a quella di Rovere. Si
sedette e appoggiò i gomiti sulle cosce. Unì le mani a incastro.
Stavano accanto come due viaggiatori su un autobus.
– Vediamo un po’ cos’è che mi sfugge. La setta l’hai presa. Il capo
della setta ti voleva mandare al creatore e tu l’hai fregato prima che ci
riuscisse. Quell’altro, come si chiama… il Roco ha saputo della morte
del capo ed è stato il più svelto di tutti a vuotare il sacco. I corpi delle
ragazze li abbiamo trovati esattamente dove ci ha detto lui. Idem per
quel ragazzo della setta che hanno ammazzato a Maglianello. Ho tralasciato qualcosa?
– No.
Perno si accese una sigaretta. Ne offrì a Rovere, ma lui rifiutò.
– Dimenticavo che sei un atleta. Dunque, se non ho tralasciato niente,
232
adesso ti chiedo: ti comporti sempre così quando risolvi un caso o c’è
qualcosa che io non so?
Era stata una gran bella serata. Una cena all’aperto, una coppia cortese e simpatica, una bambina deliziosa, ottimo pesce cucinato in modo
magistrale. Aveva solo due difetti, quella serata. Uno era l’assenza di
Temna. Rovere sentiva crescere dentro di sé la mancanza di quella
donna. Sentiva l’urgenza di correre da lei, ma era una difetto al quale
avrebbe rimediato presto e la consapevolezza di questo lo aiutava a
sopportare. Poi c’era l’altro problema. E con quello non era ancora
riuscito a trovare una via d’uscita.
Il tarlo.
Aveva ripreso a scavare. Trivellava dentro, e gli ricordava che lui era
lì, che stava continuando a dissotterrare.
E che prima o poi sarebbe arrivato al fondo, gli avrebbe fatto vedere
cosa c’era. Ecco perché gli servì qualche secondo per rispondere alla
domanda di Perno.
– Quando risolvo un caso, generalmente sono soddisfatto.
– E allora?
– E’ che… che non sono sicuro di averlo risolto davvero, questo caso.
In effetti, credo che ci sia veramente qualcosa che non sai.
– E cioè?
– Non lo so. Non lo so neppure io.
– Rovere, ma... stai bene? Se vuoi dirmi qualcosa, cerca di essere più
chiaro, perché da solo non ci arrivo. Sarà il caldo, sarà la cena, abbi
pazienza ma non ci arrivo.
– Voglio dire che i conti non tornano. Manca un tassello.
– Non… tornano? Cazzo, Matteo, più di così! Hai i filmati, hai la flagranza di reato, hai una confessione scritta e spontanea. Quante volte
ti è capitato in carriera di avere dei filmati così schiaccianti, eh?
– Che mi ricordi, nessuna.
– E allora? Cos’altro ti serve?
– Mi serve che i conti tornino.
Perno scoppiò a ridere, ma più che una risata gli uscì un lamento strascicato.
– Cristo santo, non ci credo! E’ la prima volta che incontro uno così!
Sei davvero unico, Rovere! Ho conosciuto gente che non si dà pace
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per risolvere un caso, ma tu li batti tutti. Tu non ti dai pace per un
caso risolto...
– Fidati, Perno... i conti non tornano.
Rovere sembrava quasi in trance, sprofondato dentro la febbrile analisi di quel caso maledetto. La voce di Perno gli arrivava da un’altra
galassia.
– L’hai letta la confessione del Roco? L’hai letta, Perno?
– Certo che l’ho letta. Ha ammesso tutto. Tutto!
– No. Ha ammesso quello che sa. E’ diverso. Ma tutto quello che il
Roco sa, lo sapevamo anche noi. Ce lo avevano già detto le prove.
Sono parole inutili, Nicola. Il Roco ha solo confermato. Interessante,
certo, ma tutt’altro che decisivo. A noi servivano informazioni sul
resto, su quello che lui non sa. Ci servivano informazioni sul buco
nero che abbiamo e che nessuno vuole vedere. Ci servivano informazioni su Boni e Breschi.
– Su Boni e Breschi poteva aiutarci solo il loro capo, ma lui non ha
voluto. Ha preferito morire... ti dispiace? Non credo, l’alternativa alla
sua morte era la tua morte.
– No, non mi dispiace. Resta il fatto che su quelle vicende noi andiamo per deduzione. E la deduzione è diversa dalla confessione.
– Non è un argomento sufficiente per riaprire un caso.
– Infatti non ho nessuna intenzione di riaprire il caso. Ho intenzione
di chiuderlo. Di chiuderlo come dico io.
– E’ già chiuso, Matteo.
– No che non è chiuso. Non ancora.
Erika, la moglie di Nicola Perno, spuntò silenziosamente dal buio e si
sedette vicino a loro.
– Si lamentava un po’ – disse a suo marito – credo che abbia caldo.
– Tra un po’ la temperatura scenderà. Starà meglio.
– Allora, Matteo, piaciuta la cena? – chiese la donna.
– Te l’ho già detto, sei una cuoca di serie A. Una da evitare come la
peste, per quanto mi riguarda. Se fossi mia moglie, viaggerei sicuro
sui centocinquanta chili.
Lei sorrise lusingata.
– Mi piace cucinare bene. Quando cucino per qualcuno deve essere
tutto perfetto. Chiamala deformazione professionale, ma se c’è un
234
difetto in una portata, anche solo un difettuccio, non mi do pace.
– Be’, stasera non ce n’erano. Faccio fatica ad alzarmi... se casco per
terra, meglio che vi teniate a distanza. Ho l’impressione di pesare
mille chili.
Chiacchierarono fino alla mezzanotte. Rovere stava bene, sentiva che
la coppia viaggiava su una lunghezza d’onda non troppo lontana dalla
sua. Sarebbe stata la serata giusta per dimenticare il suo lavoro.
Se non fosse stato per quel maledetto tarlo.
Verso la mezzanotte Rovere trovò la forza e il coraggio di alzarsi
dalla sedia.
– O adesso o mai più – disse sospirando – se non trovo la strada per
l’albergo stavolta, stramazzo a terra. Erika, è stata una serata perfetta.
Grazie di tutto.
Salutò la donna complimentandosi per la bimba, poi lasciò che Perno
lo accompagnasse all’auto. Sapevano entrambi che il loro scambio di
opinioni non era ancora terminato.
– Quindi domani ci torni sopra? – gli chiese Perno senza perdere altro
tempo.
– Non lo so. Domani ho una giornata libera e mille cose da fare.
– Bravo. Allora goditi la giornata e vaffanculo la setta.
– Non funziona così. Finché il tarlo non mi lascia, non posso passare
ad altro. Mi conosco, Perno. Purtroppo so già come andranno le cose.
– Ascolta – lo interruppe Perno afferrandogli un braccio – ascolta
bene. Hai più anzianità di me e sei certamente più bravo, ma questo è
un consiglio di vita. Non lasciarti ossessionare da questo caso, non ne
vale proprio la pena. Buttatelo alle spalle e passa ad altro. Devi andare oltre... ne va della tua salute mentale…
– Non è così semplice come credi. Ma, scusa, non ti è mai successo?
Non dirmi che non…
– Certo che mi è successo. Ci sono un paio di casi che continuano da
anni a grattarmi la testa. Però a mano a mano che il tempo passa ho
imparato a conviverci... non li possiamo prendere tutti, Matteo, non li
possiamo vendicare tutti. E’ una partita persa in partenza, si cerca
solo di limitare i danni. L’unica alternativa è farla finita e cambiare
mestiere. Ti compri un’edicola, o magari un ristorante, così ti presto
mia moglie in cucina e non ci pensi più. Ma se vuoi continuare…
235
allora un’altra via non c’è. Ascoltami.
Rovere tacque. Aprì lo sportello e salì in auto. Abbassò il finestrino.
– Grazie per la cena, Nicola. Però ricordati: un’altra via c’è sempre. E
i tasselli vanno sempre a posto. Basta volerceli mettere, al loro posto.
Adesso l’aria della notte si era fatta piacevolmente fresca. Entrava dai
finestrini dell’auto e gli frustava la faccia. Rovere sperava che lo
risvegliasse un po’, che lo aiutasse a riprendersi da quella colossale
mangiata e magari, già che c’era, che gli rimettesse in moto l’intuito.
Non successe. Era talmente immerso nei suoi pensieri che aveva persino dimenticato di accendere lo stereo. Che sensazione fastidiosa,
quella che lo accompagnava: come dover correre con una enorme
vescica sotto la pianta del piede. Pensava a Temna di continuo.
L’avrebbe regolarizzata, magari sarebbe anche riuscito a farla rientrare sotto la tutela di un programma di protezione. Le avrebbe cambiato
la vita come, era sicuro, lei avrebbe cambiato la sua. Pensava che
quella storia avrebbe potuto funzionare davvero. Era una storia così
strana, così assurda che avrebbe potuto passare indenne tra le fiamme
degli ostacoli della vita senza neppure bruciacchiarsi un po’. Pensò
che quella donna era magnifica e monopolizzava i suoi desideri come
non accadeva da anni. Come non era accaduto neppure con la bellissima Kun.
Poi spuntava il tarlo. Fastidioso. Rognoso. Insopportabile. E il lungo
elenco di perché si srotolava ancora una volta davanti ai suoi occhi
come i titoli di coda di un film.
Perché nessuno sapeva qualcosa di Boni e Breschi a eccezione di
Daniele Gaspari, il Messo? Neppure un particolare, anche insignificante? Perché gli restava attaccata sulle spalle la sensazione che quelle morti avessero con la setta una connessione diversa rispetto alle
altre? Perché cazzo era sempre così difficile far tornare i conti alla
perfezione? E, soprattutto, perché lui era fatto così? Perché era così
dannatamente uguale al suo maestro, così ossessionato dalle imperfezioni, dalle incongruenze microscopiche, dalle increspature appena
visibili? Perché altrimenti Pertica non ti avrebbe scelto, si rispose. In
realtà lui non ti ha insegnato a essere così, lui ti ha solo scelto. Ti ha
scelto perché tu sei così. Come lui.
236
Alla reception della pensione non c’era nessuno. Era tutto spento e
silenzioso. La signora Franca gli aveva lasciato le chiavi sul bancone.
Ormai era di casa, là dentro. Pensò che magari la vecchia era stata
anche in pensiero perché lui non rientrava. Sorrise e si mosse lentamente nel buio guidato dai raggi di una lampada da lettura che illuminava proprio la chiave della stanza.
L’indomani si sarebbe messo in cerca di un appartamento. Vedere
Perno e sua moglie, una bambina per casa, una famiglia, lo aveva
incoraggiato. Aveva voglia di provarci anche lui. Doveva provarci. E
doveva farlo con Temna. Difficile da spiegare, lo sentiva e basta. E
come insegnava Ludovico Pertica, a volte una sensazione è l’unica
luce che ti guida, ma lo fa bene. L’idea lo rese euforico, almeno per
qualche minuto, ma quando aprì la porta della sua stanza il tarlo era
già tornato ad aggredire la sua mente.
Gesù, quanto aveva mangiato. Si sentiva pesante e stanco. Si spogliò
a fatica e buttò i vestiti su una sedia. La stanza sembrava un enorme
bollitore, l’aria era calda, i muri erano caldi, il pavimento era caldo.
Spalancò la finestra e si appoggiò qualche istante al davanzale, ma
l’aria esterna era appena più fresca. Decise di farsi una doccia, ma
anche l’acqua fredda scendeva tiepida e non riuscì a rinfrescarlo come
avrebbe voluto.
E il tarlo continuava a scavare.
Afferrò la bottiglia d’acqua sul tavolo. Era ancora piena per tre quarti
e adesso aveva una sete del diavolo. La tracannò senza neppure fermarsi a riprendere fiato, ma era tiepida e collosa, scorreva lungo la
gola senza dissetarlo e anzi gli accresceva la sete. E poi faceva schifo,
ma se ne accorse solo quando posò il vuoto di vetro sul tavolo e un
rigurgito prepotente gli sparò sul palato un saporaccio insopportabile.
Lasciò accesa l’abat-jour sul comodino, la spostò a terra per evitare
che scaldasse troppo vicino a lui, poi si sdraiò sul letto per pensare. Il
suo stomaco gorgogliava paurosamente e sapeva che il sonno era
ancora molto lontano. I dubbi, i pensieri, le domande lo avrebbero
tenuto sveglio chissà ancora per quanto. Incrociò le braccia dietro la
testa e lasciò che il vortice si scatenasse. Le conseguenze della tempesta le avrebbe analizzate più tardi, adesso era il momento di dare
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fondo alle domande senza pietà. Non era più tempo di censurare le
proprie teorie perché agli altri dava fastidio. Che lo rinchiudessero
pure nel peggiore manicomio del mondo, lui alla verità non avrebbe
rinunciato, perché per lui significava vivere, vivere bene.
Adesso le vedeva scorrere una dietro l’altra, le domande, implacabili
e spietate come sono tutte le domande che vogliono realmente conoscere il senso delle cose. Ma le risposte non arrivavano.
Finché il sonno, d’improvviso, lo catturò.
C’era già stato, in quel posto. Mentre correva riconobbe il sentiero e
provò la stessa orribile sensazione della volta precedente. Aumentò la
velocità, spostando con foga i rami che gli si paravano davanti. Fu
allora che si ricordò dell’inseguimento. Di quella cosa che lo aveva
inseguito in acqua e poi sulla spiaggia e poi dentro il sentiero.
L’inseguimento era ricominciato esattamente da dove era stato interrotto, come il secondo tempo di un film. Provò a fermarsi, ma sapeva
che non ci sarebbe riuscito. Perché il film così doveva andare e così
sarebbe andato. Giunto sul bordo del crepaccio puntò le gambe, ma fu
inutile: una forza mille volte più grande di lui lo spinse alle spalle e lo
scaraventò di sotto. Gli sembrò di volare per un periodo eterno. In
certi momenti aveva la sensazione di fluttuare nell’aria come una
piuma, in altri si sentiva sprofondare giù inghiottito da una feroce
forza di gravità. Sotto, centinaia di metri più giù, giaceva un terreno
arido fatto di sassi e di terra rossastra fino all’orizzonte. In quegli
istanti si domandò come sarebbe stato, cosa avrebbe provato schiantandosi a terra dopo un volo così. Si domandò come sarebbe stato
morire. Un istante dopo la sua schiena sbatacchiò sul terreno producendo un tonfo sordo. Non sentiva dolore, non era morto. Ma non riusciva a muoversi. Supino, riusciva solo a girare il collo. Le gambe
erano pesanti, l’addome non rispondeva e non lo aiutava a rialzarsi.
Era paralizzato.
Nel cielo il sole era alto, quasi allo zenit. L’aria, incandescente e pregna di quella terra rossastra e leggera, gli entrava nei polmoni e gli
bruciava dentro. Alla sua sinistra il nulla. Solo un deserto che pareva
infinito e ondate di calore. Girò la testa alla sua destra e lo vide.
– Leone! Leone! Aiutatemi! Sono paralizzato!
238
Il vecchio era seduto di profilo su una roccia e guardava davanti a sé.
Il suo occhi si perdevano nel paesaggio come se non potesse o non
volesse guardarlo. La terra rossastra cominciò a rimulinare attorno a
loro, piccoli mulinelli che si muovevano a coppia, quasi sincronizzati,
ondulando lungo la landa sterminata. Rovere sentiva la terra entrare
negli occhi, ma non poteva far altro che tenerli chiusi.
Le gambe erano due macigni, ma adesso il torpore stava aggredendo
anche le mani. Fu preso dal panico.
– Leone, aiutatemi! Per favore…
Il vecchio scosse la testa energicamente, ma non si girò a guardarlo.
– Leone, perdio…
– Non posso, Matteo. Quel che potevo fare l’ho già fatto. Era poco,
ma l’ho fatto. L’ho già fatto…
Il vecchio scoppiò a piangere come un ragazzino. Era sconvolto.
– Fatto? Ma cosa? Cosa avete fatto?
– Ha cercato di aiutarti, straniero. Ha cercato, ma non ti è servito.
Quella voce cavernosa lo spinse a voltarsi dall’altra parte. Lo fece, ma
la testa si mosse molto lentamente. Il torpore stava raggiungendo il
collo. L’uomo stava sopra di lui e gli parava il sole, proprio come l’altra volta. Era vestito di nero dagli stivali fino al largo cappello da ranchero. Gli speroni scintillavano alla luce del sole e tintinnavano quando l’uomo si muoveva. Rovere notò che sui chiodi acuminati delle
rotelle c’era ancora del sangue coagulato. Per un attimo pensò che
poteva anche non essere sangue di animale. L’uomo si accosciò e
appoggiò due dita sulla gola di Rovere.
– Te ne stai andando, straniero, non manca molto ormai.
Gli sorrise con quei denti gialli e spaventosi. I suoi occhi erano pieni
di crudeltà, ma dietro vi traspariva anche un pizzico di autentico piacere.
– Mi hai deluso, straniero. Mi hai davvero deluso molto. Io i segnali
te li ho dati, lo faccio sempre quando decido di combattere contro
qualcuno. Per rendere più interessante la lotta, capisci?... altrimenti
non sarebbe leale. Ma tu non hai saputo leggerli. O forse, e la cosa mi
delude ancora di più, non hai voluto leggerli.
Adesso il torpore si era fatto davvero minaccioso. Rovere lo sentiva
avanzare come uno sciame di formiche rosse affamate.
239
Saliva senza arrestarsi, prima gli avambracci, poi le braccia, cominciava a infiammare le spalle.
– Mi hai girato attorno per giorni, straniero. Eri là e non hai visto. Eri
là e non hai sentito. Hai guardato senza vedere.
Rovere osservò il medaglione che gli pendeva dal collo. Quel medaglione lo conosceva, o almeno credeva di conoscerlo, ma adesso era
tutto così confuso.
– Troppo razionale, straniero. Ecco il tuo vero difetto – disse l’uomo
toccandosi la fronte con un dito – troppa mente e poco spirito. E’
stato questo il tuo errore.
Il respiro. Il torpore stava arrivando al respiro. L’aria. Rovere sentiva
la gola chiudersi e i polmoni perdere forza. Succhiare aria si faceva
sempre più difficile. Era il penultimo passo, lo sapeva. Il prossimo
sarebbe stato il cuore. Comandò alle braccia di afferrare quel bastardo
per il collo, di stringere fino a strozzarlo, di sbatacchiarlo a terra, ma
non successe nulla. I comandi partivano, sempre più lenti e incerti,
ma il corpo non rispondeva più. L’uomo lo guardava e godeva di
quella situazione. Si godeva la sua impotenza e il suo sordo terrore
della morte.
– E’ questo, straniero. Ecco com’è morire. E’ così.
Rovere tentò di ribellarsi un’ultima volta. Nella sua mente doveva
essere un grido folle e lancinante, doveva essere un turbinare di braccia e gambe che avrebbe steso quel bastardo che gli stava davanti.
Invece fu soltanto un minuscolo gorgoglio che gli morì sulle labbra.
– E’ inutile, è tutto inutile. La tua battaglia l’hai persa, straniero.
Adesso devi solo accettare ciò che sta arrivando.
Si abbassò ancora, fino all’orecchio di Rovere. Sussurrò.
– Adesso, straniero, devi venire con me.
Un suono acuto e interminabile squarciò il silenzio. Rovere si svegliò
mentre l’auto sotto la finestra della sua camera continuava a suonare
il clacson. Aprì gli occhi e riconobbe le pareti della stanza, la finestra
alla sua destra dalla quale entrava ancora la coda di quella strombazzata, il tavolo alla sua sinistra, l’armadio in legno rustico di fronte. Il
sollievo durò un microsecondo, poi si accorse che quel maledetto
sogno stava continuando anche nella realtà. Le gambe erano immobili, le braccia erano sdraiate lungo i fianchi e pesavano tonnellate.
240
Ma che cazzo sta succedendo? Dio mio. Dio mio!
Il respiro era al limite. Stava morendo davvero? Era inchiodato nel
suo letto. Sentiva il collo chiudersi, come strozzato da una morsa
imperiosa. Pochi secondi alla morte. Solo un’ora prima stava progettando il suo futuro e adesso si trovava sulla soglia della morte.
Com’era successo? Cosa era successo?... Temna, chi avrebbe badato a
lei? Perno, perché non correva in suo aiuto? Il Messo che puntava la
pistola contro di lui. Il vecchio Leone e il suo pianto. Temna sdraiata
nel letto al suo fianco. Milano. Ludovico Pertica. Kun. Ancora
Temna.
Perché? Perché in questo modo?
Aprì la bocca. Inspirò l’ultimo sorso d’aria singhiozzando. I suoi
occhi caddero sulla bottiglia che stava sul tavolo e fu un attimo: da lì,
la morte veniva da lì, da quel liquido disgustoso che aveva buttato giù
senza neppure pensare.
Un flash. Un medaglione che penzola al collo. Come hai potuto?
Come hai potuto non capire? Come hai potuto seppellire così il tuo
istinto? Fissava quel recipiente di vetro verde scuro e capiva, afferrava
a morsi la verità mentre la morte afferrava a morsi la sua vita.
L’avrebbero capito solo durante l’autopsia. Avrebbero capito che non
si trattava di una semplice crisi cardiaca.
E’ questo, straniero. Ecco com’è morire. E’ così.
Ma non avrebbero mai capito cosa cercare. Chi cercare. Un errore,
uno solo in tutta quella storia. Una condotta perfetta, impeccabile, ma
un solo, unico errore, e si vedeva la vita sfilargli via da sotto i piedi.
Assurdo. Impossibile. Inaccettabile.
Ancora Temna, il suo viso dolce pieno di speranze che la vita le
avrebbe stroncato ancora una volta. Sperava di andarsene così, con lo
sguardo affogato nel volto di lei, ma all’ultimo istante il viso di
Temna si trasformò in quello di Leone. Un viso solcato dalle lacrime.
Lui non se ne va mai, Matteo. Magari sonnecchia, ma non se ne va.
Lui è sempre in agguato.
Emise un ultimo rantolo. Un ultimo sovrumano sforzo per sottrarsi
alla morte.
Poi il suo cuore si fermò.
241
27
L’uomo camminava goffamente lungo la spiaggia dando le spalle alla
telecamera. Rallentò fino a fermarsi, si voltò e indicò con la mano un
punto della battigia. La telecamera allargò sullo spazio alle sue spalle
evidenziando un cordone biancorosso che impediva l’accesso ai non
autorizzati.
– E’ qui – esordì il giornalista – che è stato trovato il corpo senza vita
di Ugo Marte. Ha dato l’allarme un addetto alla apertura degli
ombrelloni dello stabilimento Airone, che si trova a pochi metri da
questo punto. Erano le sette e trenta di stamattina. Il titolare dello stabilimento ha prontamente avvertito i carabinieri di Grosseto che
hanno appena terminato di effettuare i rilievi e hanno permesso da
qualche minuto l’accesso alle tv. La zona è stata naturalmente subito
isolata e verso le otto e trenta il medico legale di turno ha avviato i
primi rilevamenti sul corpo. L’uomo era completamente vestito e
aveva con sé anche i documenti. Sulle cause della morte gli inquirenti
non si sono ancora pronunciati, ma a prima vista sembra da escludersi
una causa violenta. Pare infatti che il corpo non presenti segni di colluttazione o ferite di alcun tipo. Adesso gli inquirenti stanno cercando
di ricostruire le ultime ore di vita di Ugo Marte, che era uno degli
imprenditori più affermati della provincia, uno dei più importanti
costruttori degli anni Settanta e Ottanta. La sua ultima scommessa era
stata Antenna Tirreno, la piccola tv che da qualche mese si stava
facendo prepotentemente spazio tra le grandi attraverso…
Sdraiato sul letto della sua camera, Simone Cranza tolse l’audio del
televisore e lasciò che scorressero silenziosamente le immagini di
repertorio relative a un Marte sorridente che stringeva mani e rilasciava interviste. Quando il servizio tornò in diretta, il giornalista stava
intervistando un militare. Una scritta in sovrimpressione lo identificò
come Capitano Alfredo Mandragola, Carabinieri di Grosseto. Cranza
lo osservò con interesse muovere le labbra e rassicurare l’opinione
pubblica che le indagini avrebbero cercato di fare luce sul mistero.
242
Fai pure, capitano, basta che non ti metti contro di me. Non ti conviene proprio.
Spense la tv e si accese un cigarillo, poi abbassò la temperatura del
condizionatore. Appoggiò la schiena alla spalliera del letto in ferro
battuto e ripensò ai suoi ultimi istanti con quell’idiota di Marte.
Gli era impossibile crederci. Aveva una pistola tra le mani e la puntava contro l’uomo che odiava di più al mondo, eppure era lui a sentirsi in pericolo. Edson sollevò appena la testa facendo sporgere il
mento e sfidandolo apertamente. I suoi occhi mostravano una sicurezza spaventosa. Era lui, tra i due, ad avere il pieno controllo della
situazione. Marte strinse ancora più forte il calcio della pistola cercando in quell’oggetto la sicurezza che gli serviva, ma sentì solo un
pezzo di ferro tra le mani. La paura non se ne andò.
– Povero stronzo che non sei altro – gli sussurrò Edson – non è me
che devi ammazzare, lo capisci?
Gli si avvicinò ancora, calmissimo, sicuro che quell’uomo non avrebbe mai trovato dentro di sé la necessaria dose di veleno per sparare.
Gli si fermò a un metro, dove riusciva a sentire la puzza del piscio
che esalava dalle sue gambe. Poteva prendergli la pistola, o fargliela
cadere dalle mani con un calcio, tentare una qualunque altra mossa.
Ma lui preferiva le parole. Lui preferiva soggiogare la mente. Lui
usava la suggestione, la manipolazione, l’inganno. Lui adorava
ammazzare senza sporcarsi.
– La tua vita è uno schifo e la colpa non è mia. Tua moglie ti ha mollato da un pezzo e si fa sbattere da mezza città. Le banche ti strozzano, i creditori ti cercano giorno e notte e non ti fanno più dormire. Ti
piace ancora la bella vita, ma costa troppo e la grana non c’è più. E
non ci sarà mai più, lo sai bene. Niente più fica, niente più macchine
di lusso, niente più villa al mare. Nessuno che stende più tappeti dove
passi. E’ finita, Marte, e sei tu che l’hai fatta finire. Quella che ti
aspetta è una vita di stenti, la vita di un barbone che fa il giro dei
centri di accoglienza. Ti succhieranno il poco sangue che ti resta, poi
ti butteranno come una cartaccia. Lo sai bene, perché quel mondo lo
conosci meglio di me. E io non c’entro niente, sai bene anche questo.
Sei solo un povero sciagurato che una volta trasformava tutto in oro.
243
Ma la magia è finita, e ora tutto quello che tocchi diventa merda.
Vuoi davvero rendere un servizio utile alla comunità? Davvero vuoi?
L’uomo gemeva come in preda a un elettroshock, fissava Edson con
due occhi spiritati e sentiva il terrore chiudergli il cuore come una
cinghia.
– Allora devi farla finita. Devi eliminare la vera causa di tutto questo
schifo. E poi sì che tornerai a stare bene come una volta…
Marte non riusciva a togliersi di dosso quegli occhi. Erano come due
terribili ganci da macello. Si erano piantati nei suoi e ora gli sembrava impossibile poter guardare altrove. Là dentro, in quel pozzo scuro,
c’era una forza velenosa che valeva più di dieci pistole. E poi, in
fondo, Edson non aveva neppure tutti i torti. Gli stava solo sbattendo
in faccia la verità. Un po’ cruda, forse, ma proprio per questo autentica. Caustica ma genuina, un fedele ritratto della sua vita attuale. E
quelle parole sul suo futuro da barbone suonavano così vere. Così
reali…
Mentre Edson parlava, lui si era immaginato dentro una fila di barboni pidocchiosa e puzzolente ad aspettare un piatto di minestra, con
il freddo che gli mordeva i piedi, la barba lunga di giorni, intricata, e
le ascelle che gli prudevano mentre le croste di sporco ricoprivano a
poco a poco il suo corpo. Si era immaginato mentre frugava nei bidoni o dormiva in un angolo della stazione con la gente che gli passava
accanto indifferente o che magari, qualche volta, sfogava la propria
rabbia su di lui. Due flash improvvisi che gli avevano fatto male come
lame arroventate sulla carne. E non era fantasia, lo sapeva bene. Era
il suo futuro, forse dipinto anche meglio di come sarebbe stato nella
realtà. Quella era una vita che non gli apparteneva. Era un mondo
nel quale non avrebbe saputo muoversi e dove le miserie più autentiche, la fame, la povertà, gli istinti più bassi, guidavano gli esseri
umani nelle loro azioni.
– Ti sarà possibile accettare quel mondo, Marte?– gli chiese Edson
come se gli avesse letto nel pensiero – Anche lì esistono squali e
pesciolini, no? E tu riuscirai a fare lo squalo, eh? Senza soldi, senza
conoscere qualcuno che ti aiuti, non pensi che ti si mangeranno in
pochi giorni? Vale proprio la pena continuare a resistere?E per cosa,
per un piatto lurido di minestra ogni tanto? O forse speri che qualcu-
244
no dei tuoi vecchi amici si ricordi di te e ti lanci un salvagente?
Quanti ne hai cercati prima di passare da me? E quanti ti hanno
risposto? Nemmeno uno, scommetto…
Tutto vero.
– E di fronte a questo pantano di merda – riprese Edson togliendogli
dalla mano la pistola con la tranquillità di chi stava afferrando un
giocattolo – tu pensi di riuscire a sfangarla ammazzando me? Me?
Pensi di tirarne fuori le zampe prendendo a pistolettate uno come
me? Sei solo un ometto patetico, uno che non riesce ad accettare con
dignità neppure i casini che si è creato lui stesso. Sei diventato la
controfigura di quello che eri una volta.
Ugo Marte aveva cominciato a piangere. Quelle parole erano come
sale sulla carne viva. Vere, brutali e più dolorose delle bastonate.
Dell’Ugo Marte di venti anni prima non era rimasto davvero nulla.
Dell’uomo che entrava nelle stanze dei direttori di banca senza bussare, che nei night-club di tutta la provincia aveva il tavolo migliore
riservato a tutte le ore, che nei casini aveva in esclusiva le mignotte
più costose, che nel mondo degli affari era considerato il più stronzo,
ossia il più abile. Al suo posto c’era un fantoccio delirante.
Cadde in ginocchio, privo di forze, e prese a guaire come un cagnolino bastonato.
– E’ proprio finita, Marte. E’ stata una bella cavalcata, ma è finita. I
bei tempi non tornano più. Ti rimane solo una cosa, e sai bene qual è.
L’importante è farlo con dignità: niente sangue, niente crani spappolati o corpi devastati.
Ugo Marte alzò la testa e osservò Edson. Gli sembrò immenso e
dotato di una forza interiore alla quale lui non avrebbe mai potuto
resistere. E le sue parole gli indicavano la salvezza.
– Vieni con me – lo esortò Edson con una voce morbida – non sei
stanco di lottare e perdere sempre?
Marte si alzò senza rispondere. Fece qualche passo, barcollò, rischiò
di cadere. Edson lo sostenne per un braccio come avrebbe fatto un
figlio nei confronti di un vecchio padre malato.
– Dignità – gli sussurrò – è la dignità che fa la differenza.
L’uomo si diresse verso la sponda del fiume. Si fermò proprio sul
bordo. La luna colorava l’acqua di un bianco raccapricciante.
245
– Ecco la soluzione, Marte. Dignitosa e indolore.
In quel tratto il fiume correva verso il mare impetuoso e selvaggio. I
gorghi che crescevano numerosi al centro del suo corso erano potenti
e imprevedibili. Nemmeno un provetto nuotatore avrebbe potuto
scamparla.
E lui era così stanco…
Anche i grilli avevano smesso di cantare. Sembrava proprio l’ora giusta. Marte emise un ultimo gemito strozzato, poi non ebbe tempo di
fare altro. Edson lo spinse giù con un colpo deciso prima che qualcosa potesse rovinare quel momento perfetto. Marte non avrebbe potuto
fermarlo neanche se ci avesse provato, ma non fece resistenza.
Accompagnò docile quella spinta e un istante più tardi la corrente
delle acque se lo era ingoiato.
Ci aveva messo meno di tre minuti a morire.
La doccia del bagno smise di gocciolare e quel piacevole sottofondo
sonoro che accompagnava le sue riflessioni scomparve di colpo.
L’improvviso silenzio lo riportò al presente, nella suite di un albergo
appena fuori delle mura della città. Qualche attimo dopo Yulia si
affacciò sulla soglia della stanza. Il suo corpo statuario e abbronzato
risplendeva in tutta la sua esplosiva sensualità, esaltato dai raggi del
sole che entravano dalle finestre e parevano concentrarsi solo su di
lei. Profumava piacevolmente di un qualche olio che aveva appena
applicato sulla pelle. I capelli, ancora umidi, le scendevano lungo la
schiena raccolti in una coda corvina che lasciava scoperto il suo bellissimo viso gitano.
– Buongiorno, signor Cranza! Te la prendi piuttosto comoda al mattino. Il mattino per la verità è già passato da un pezzo...
Lui si stiracchiò lanciando uno sbadiglio che pareva un barrito. Non
aveva proprio intenzione di alzarsi dal letto.
–Ma che ore sono?
– E’ l’una passata. Non mi dire che fai sempre quest’ora…
– Solitamente no. Ma è stata una notte piuttosto movimentata...
– Accidenti. Mi sono svegliata che erano quasi le undici. Ho dovuto
chiamare in ufficio e inventare una balla. Il notaio era furioso, queste
cose non le sopporta.
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– Ah, il notaio. Ma che ci fai tu in un posto così? A lavorare per un
coglione come quello?
– Eh, non lo so. Si vede che non ho mai trovato di meglio – rispose
lei scoccandogli uno sguardo provocatorio.
Gli piacevano quegli occhi neri come la notte. Erano vivi e curiosi. Su
due occhi così, gli venne da pensare, Dio aveva davvero dato il
meglio di sé. Sentirseli addosso faceva quasi male. Quella era una
creatura che andava solo spronata. Presa per mano e condotta lungo la
strada fino a farla diventare una compagna perfetta. E ogni minuto era
prezioso. Era necessario cominciare subito. Se poi non avesse funzionato... allora avrebbe dovuto rimediare rapidamente al suo errore di
valutazione. Ma quello sarebbe stato in fondo un problema da poco.
Sarebbe stato invece molto più doloroso doversi privare di una bellezza così dirompente.
– Vieni qua. Dai, accanto a me. Devo parlarti.
– Solo parlarmi? Dici sul serio?
– Perché non dovrei?
– Non lo so. Forse perché da due giorni non facciamo altro che sesso.
Mi piacerebbe se tu volessi conversare un po’, dico davvero, ma non
so se è la verità. Guarda che sono stanchissima, non ce la faccio a
ricominciare.
– Vieni qua – disse lui sorridendo – non ti toccherò. Giuro.
– Adesso ti metti a giurare? In due giorni mi avrai raccontato un centinaio di bugie...
– Forse anche di più, ma stavolta dico la verità. Devo raccontarti una
storia. Una specie di confessione. Ho bisogno che tu mi ascolti con
attenzione.
– Una… confessione?
– Sì... è per questo che ti ho scelta.
– ... ti senti bene? – chiese lei aggrottando le sopracciglia.
– Mi sento benissimo. Ma ora ho bisogno della tua attenzione. Sei
pronta ad ascoltarmi?
– Se è davvero così importante…
– Certo che è importante. Ma è anche una cosa molto delicata. E
anche compromettente. Sai, io penso di potere offrirti qualcosa di
meglio rispetto a quel coglione di De Gregori. Dico sul serio. Ma se
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vuoi tirarti indietro, il momento è questo. Se adesso decidi di ascoltare, dovrai andare fino in fondo. Fino in fondo. E’ chiaro?
– Tu sei un gran furbo, Simone Cranza – rispose Yulia sorridendo – e
io a sentire queste parole dovrei drizzare le antenne. Dovrei mettermi
in guardia. Invece…
Invece non ci riusciva. Perché l’attrazione e la curiosità erano molto
più forti della diffidenza. Nell’avvertimento di Cranza c’era un tono
che non prometteva niente di buono. Eppure tirarsi indietro non le era
possibile. Cranza interpretò quel silenzio come un sì.
– De Gregori è arrivato, Yulia. E’ al capolinea.
– Al capolinea? Tu sei matto. E’ lo studio più affermato della città!
– E’ un bluff, dammi retta. Un castello di carta. Alla prima ventata si
sfalda in mille pezzi. Prima della fine dell’anno quello studio sarà
mio. Ti conviene ascoltarmi, su queste cose non sbaglio mai.
La ragazza si sdraiò sul letto per guardarlo bene negli occhi. Edson
appoggiò una mano in mezzo alle sue natiche e si limitò ad aspettare.
Ormai era pronta. Le lasciò il tempo di rimuginare sulle sue parole
senza dire altro. Sentiva che quello era il momento decisivo. In quei
trenta secondi lei avrebbe potuto alzarsi, vestirsi in tutta fretta e
lasciare quella stanza. Poteva decidere che quello era un campo troppo pericoloso per lei e tornarsene a timbrare quaderni dal suo notaio.
Oppure poteva decidere di andare a scoprire le carte che lui aveva
appena messo sul tavolo. Ed era sicuro che Yulia avrebbe scelto la
seconda via. Mai stato così sicuro. Attese tranquillo finché la ragazza
sciolse di colpo i suoi dubbi.
– Chi sei tu, Cranza? Voglio dire… chi sei… veramente?
– Questo vuol dire che hai deciso di ascoltarmi? – domandò lui sorridendo.
Yulia annuì senza parlare e senza staccargli gli occhi di dosso.
– Dunque, chi sono. Nessuno, direi. Ancora non sono nessuno. Ma
diciamo che… mi sto aprendo la strada. E devo dire che pensavo
fosse molto più complicato. Invece... non sono ancora nessuno, Yulia,
ma ho le idee piuttosto chiare. E ho anche i mezzi. Quello che conta è
saper calibrare i passi, evitare iniziative che vanno oltre le proprie
possibilità. E’ questo che ha fregato tanta gente…
La ragazza si mise a giocare con la peluria del suo petto.
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Non aveva compreso bene il significato di quella risposta ma tutto
sommato non aveva granché importanza: quell’uomo l’attirava come
una mosca il miele, c’era una specie di ponte elettrico che li univa. E
in fondo a quell’attrazione trascinante percepiva anche, intuiva, un
buco nero spaventoso dal quale sentiva che avrebbe dovuto allontanarsi. Ma già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Quell’uomo, quell’essere così misterioso e affascinante, era la sua perfetta metà.
– Guarda che non intendevo in quel senso, non parlavo di un’affermazione professionale. Volevo dire…
– So perfettamente cosa volevi dire. Ma spiegartelo non è così semplice... è la prima volta che ne parlo a qualcuno. Ed è una cosa così
preziosa, così potente che ho il terrore che mi sfugga di mano. Che mi
abbandoni. Perché finché questa forza mi guida, io sono invincibile.
Il sorriso di Cranza aveva perso ogni traccia di calore e si era fatto di
colpo freddo e sinistro. I suoi occhi si erano illuminati mentre sibilava
quelle parole, e la luce che vi brillava dentro non aveva nulla di tranquillizzante. La ragazza sentì una frustata di gelo attraversarle il
corpo. Rabbrividì di colpo e i suoi capezzoli si fecero duri e dritti
come due piccole vette. Ma non era paura. Era un brivido di piacere
folle e intenso. Ecco com’era Simone Cranza: una perfetta fusione di
piacere peccaminoso e di azzardo al limite della follia. Lo era a letto,
lo era certamente nella vita di tutti i giorni.
– Vuoi sapere chi sono veramente, Yulia? Se non vuoi, nessun problema. La nostra storia finisce qui. Ognuno per la sua strada senza rancore e senza rimpianti. Sono stati due giorni di quelli che non si
dimenticano. Vorrei tanto che ce ne fossero altri, ma non posso certo
costringerti. D’altronde se scegli di ascoltarmi niente sarà più come
prima. Quando avrò finito di parlare, vedrai le cose in un altro modo.
Vedrai soprattutto me sotto un’altra luce. Lo vuoi davvero? Pensi di
essere pronta?
La ragazza cercò di deglutire, ma la sua gola si era chiusa. Inspirò
facendosi forza, poi si lanciò.
– Io… certo che sono pronta.
– Lo sapevo – disse Cranza sorridendo.
Si alzò dal letto e andò a curiosare alla finestra. Il sole era alto e gli
diede subito fastidio agli occhi. Si voltò di spalle.
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– Simone Cranza è morto circa un anno fa.
– Ma che dici? E allora…
– Era un ragazzo timoroso e impacciato – riprese lui alzando una
mano per zittirla – pieno di ambizione e di progetti, ma senza palle.
Era un perdente con i desideri del vincente. La peggiore combinazione al mondo per un essere umano. Non sarebbe mai arrivato da nessuna parte e le vicende della vita glielo confermavano ogni giorno fino
alla nausea. Non sapeva imporsi, non sapeva dominare. Il mondo se lo
stava masticando. Aveva davanti a sé due alternative: trascinarsi in
quella vita da fallito e spegnersi un giorno dopo l’altro, senza aver
brillato neppure per un minuto, oppure morire subito e uscire di
scena. Gli eventi lo hanno spinto verso la seconda via. E Simone
Cranza si è fatto da parte. Una sera una voce lo ha convinto a morire.
Yulia lo osservava senza ancora aver capito a fondo quelle parole.
Riusciva solo a intuire che la discesa verso il buco nero era appena
cominciata.
– E dunque?
– E dunque ha lasciato spazio a un’altra persona. Quella sera è nato il
Mago Edson. Lui indossa lo stesso corpo e porta ufficialmente il
nome di Simone Cranza, ma gli elementi in comune finiscono qui.
Perché Edson è proprio un’altra persona. E la sua vita è completamente diversa. Edson non si ferma davanti a niente. Sa come dominare le persone, sa come usarle, come distruggerle quando serve, come
approfittare delle loro debolezze e delle loro paure.
Gli occhi di Edson sembravano due dardi. Era visibilmente eccitato
nel raccontare per la prima volta nella sua vita quella fantastica e
inspiegabile mutazione.
– Io… io voglio il potere, Yulia. Senza il potere, tutto il resto è niente.
C’è qualcosa dentro di me che ha una fame pazzesca di potere. Mi
spinge a osare dove Simone Cranza non avrebbe mai osato. Anzi,
dove nessun essere umano oserebbe. Mi fa rischiare, mi fa azzardare
gesti che lì per lì mi sembrano folli, eppure… eppure funzionano! Ho
imparato a soggiogare la gente. La prima volta successe per caso, fu
un tentativo fatto più per divertimento che per convinzione. Invece
andò alla grande. Mi accorsi che le persone, quasi tutte le persone,
sono manipolabili. Hanno punti deboli, tentazioni, paure, ossessioni,
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preferenze. Hanno mille tasti, basta premere quelli giusti e ti si sdraiano davanti come tappeti. E quando io domino una persona è come
avere un orgasmo. E ho imparato che quando una cosa ti piace te la
devi prendere senza farti troppi problemi. Basta trovare il modo giusto e tutto si può avere. Sapevi che Hitler era un mediocre pittore di
cartoline prima di arrivare a dominare mezza Europa?
– No – rispose Yulia – non lo sapevo. Ma adesso che c’entra…
– Questo per dirti quanto si può arrivare lontano anche partendo dal
nulla. Io credo di sentire lo stesso fuoco che bruciava dentro di lui, la
stessa furia che non ti dà pace e ti spinge ad accumulare conquiste.
Che siano territori, popoli o soldi, cambia poco. Sento dentro lo stesso furore che mi spinge a impormi sugli altri, con le buone o con le
cattive. A piegarli perché ti obbediscano o ad annientarli quando provano a resistere. Immagina cosa dev’essere guidare un popolo intero.
Una sensazione fantastica. Affacciarsi da un balcone e vederli ai tuoi
piedi, tutti pronti a darti la vita se solo glielo ordini… dev’essere
mille volte più forte di un orgasmo. E io voglio questo, Yulia. Sono
partito dal niente, ma te l’ho detto: mi sto aprendo la strada. Chi sta
dalla mia parte godrà dei miei favori, chi mi sta contro verrà spazzato
via senza scampo. Dovranno ammazzarmi per fermarmi. Ma prima
che qualcuno ci provi, sarò già arrivato dove voglio.
Il suo sguardo era perso dentro ai suoi progetti di grandezza. Edson
parlava e immaginava e quelle fantasie gli infiammavano cuore e pensieri. E gli gridavano che doveva continuare, farsi sempre più coraggioso, azzardare sempre di più, un passo dopo l’altro fino allo scalino
più alto.
– E perché hai voluto dirmi queste cose? Perché proprio a me?
– Perché tu mi piaci da morire, Yulia. E io non posso più stare solo.
Ho bisogno di condividere la mia scalata con qualcuno. Una donna
che mi stia accanto e viva insieme a me questa avventura.
– E’ un’avventura pericolosa…
– Certo che è pericolosa, ma questo rende tutto più vivo, no? Io
voglio una vita intensa: non mi interessa un lavoro normale, una famiglia normale, una vita scandita nei minimi termini fino alla morte,
senza scossoni e atrocemente noiosa. Io non cerco la normalità, io
cerco l’eccellenza. Voglio arrivare in cima alla vetta e sento di avere
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le capacità e le forze per farlo. E’ pericoloso? Meglio, sarà più interessante.
– E’ vero, ma può anche finire male. Il tuo Hitler, tanto per restare in
tema, non ha fatto una gran fine…
– Ma finché è stato in sella, cazzo, ha condotto a modo suo. E ha
avuto milioni di persone sotto di sé. Una cosa come quella quanti
anni di vita vale?
– Oggi son tempi diversi. Guarda quei ragazzi che avevano messo su
una setta. Anche loro ci hanno provato, però…
– Ma lascia stare quei rubagalline – latrò Edson mentre il viso gli si
infiammava di rabbia – quelli erano dei coglioni che usavano Satana
per rimediare un po’ di fica! Meritavano di finire scannati come animali, ma in fondo va bene anche così. Non era il caso di alzare troppa
polvere, non ancora. Quello che conta è che adesso nessuno avrà più
il coraggio di giocare alle messe nere.
La ragazza lo guardò perplessa. In quel preciso momento realizzò
concretamente che si stava inoltrando in una zona proibita. Era come
se con quelle parole Edson le avesse consegnato le chiavi dell’ultima
porta, quella più importante. Quella che dava accesso ai suoi segreti
più intimi. Era l’ultimo limite. Non c’erano altre vie: fermarsi su
quella soglia o infilarsi dentro.
Edson la guardava e sorrideva divertito. Lasciò che le sue parole rimbalzassero tra i muri della stanza e svanissero lentamente. Il suo era
un sorriso venato di una crudeltà dura. Suggeriva troppe cose che era
meglio non sapere. Che era meglio immaginare senza scendere nei
particolari. Ma non sempre si è capaci di fermarsi al momento giusto.
– Tu sei... sei uno di loro? Insistette la ragazza.
Edson scosse la testa bruscamente.
– Io quelli così li odio. Soprattutto il loro capo. Il Messo aveva dietro
di sé un codazzo che cominciava a farsi troppo numeroso. Ogni giorno prendeva piede e arruolava nuova manovalanza. Era un povero
imbecille, ma sugli imbecilli come lui faceva una gran presa e stava
mettendo su un giro troppo vasto. Andava fermato prima che diventasse un problema. Quelle masse sono mie. Adesso non mi servono,
ma quando mi serviranno voglio averle a disposizione e non voglio
dividerle con nessuno. E comunque era un dilettante del cazzo e
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basta. Squallido e triste. Pensava così in piccolo che riusciva addirittura a farmi pena. Non sarebbe mai andato oltre quelle minchiate, ma
non aveva il senso della misura e prima o poi avrebbe sollevato un
polverone. E quando la polizia si infila in un’indagine e comincia a
scavare, non si sa mai dove va a parare. Magari finisce per caso sui
tuoi piedi e te li pesta. Nossignore, nel mio territorio si fa come dico
io. Vedessi la gente che gli andava dietro, porca puttana. Erano pronti
a uccidere per entrare in quella cerchia del cazzo. Ma ora quel problema è... risolto.
– E adesso? Vuoi prendere il loro posto? Vuoi formare una setta tua?
Edson la osservò come se gli avesse posto la domanda più stupida del
mondo. Ma la perdonò subito. Era ovvio che certe cose non le fossero
ancora chiare, spettava a lui il compito di mostrarle la strada.
– Perché me lo domandi? Tu hai mai avuto la voglia di entrare in una
setta? O di farne una?
– Ma sei matto? Certo che no!
– Naturalmente. E sai perché? Perché sono tutte boiate. Non c’entrano un cazzo con le cose di cui parlo io. Tutte le sette del mondo sono
una colossale stronzata. Sai cosa serve davvero per addomesticare le
masse?
– Cosa?
– Un nemico. Qualcuno o qualcosa che non li faccia dormire la notte,
che sia una pura espressione di terrore dalla quale non riescono a liberarsi. Può essere una banca che ti strozza con le sue pretese, può essere una mandria di clandestini che bussa alle tue frontiere, può essere
un cane rabbioso che ti aspetta fuori della porta. Chiunque sia, deve
fare paura. E l’importante è trovare il nemico giusto per ogni mandria. A quel punto, quando la paura li azzanna al cuore, sono pronti a
fare qualunque cosa tu gli chieda. In fondo lo strumento è sempre lo
stesso, sia con una che con migliaia di persone: se fai breccia nell’abisso di ognuno di loro, ti consegneranno le chiavi e si lasceranno
guidare per sempre. Ma devi avere una forza che ti spinge, Yulia, devi
sentire il fuoco che ti arde dentro e non trova pace. E io lo sento.
Cazzo se lo sento…
Yulia osservò attentamente quel ragazzo. Un profilo perfetto, un sorriso che catturava al primo colpo come una perfida ragnatela. La luce
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del sole si appoggiava sulla sua pelle esaltando il suo fisico da modello e la profonda oscurità dei suoi occhi. Non era solo bello, era speciale. Era un tipo tosto con le idee chiare, uno che guardava lontano e
puntava in alto. La sua personalità era forte e intrigante come una perversa spirale. E poi scopava anche bene. Ogni atomo di se stessa era
spinto verso quell’uomo con la forza di un uragano.
– Hai già deciso tutto tu, mi pare – gli disse cercando di provocarlo –
e che succede se trovi sulla tua strada qualcuno che non è d’accordo?
– Sulla tua strada ci sarà sempre qualcuno che non è d’accordo. Ma
bisogna vedere quanta cattiveria possiede e se è abbastanza deciso da
andare fino in fondo. Ma per ora non ne ho incontrati molti. Uno
solo, direi...
– Uno? Un tizio alla... tua altezza? E chi sarebbe?
– Era un poliziotto. Uno forte come un toro, con una rabbia interiore
che quasi potevi annusare. Era bravo, e io l’avevo sottovalutato.
L’avessi conosciuto prima, mi sarei risparmiato tutta la sceneggiata di
Boni.
– Sceneggiata? Che sceneggiata?
– Le catene, le torture, tutto quello spettacolo. L’avevo messo su perché i pulotti se non gli dai la sveglia arrivano sempre dopo la musica.
Ormai per sapere di quella setta bastava girare per le strade e tenere le
antenne dritte, eppure loro erano ancora al buio. Perfino i giornali
avevano annusato qualcosa...
– Invece quel poliziotto...
– Lui era un tipo sveglio. In quattro balletti ha scoperto la setta e la
faccenda delle negre. Non pensavo facesse così presto. Un mastino di
prima categoria. In certi momenti mi ha davvero fatto sudare freddo.
Ma alla fine ha perso anche lui. Alla fine la forza fisica non serve a
niente se non hai la determinazione per usarla davvero. Se non hai la
volontà di andare fino in fondo. E’ questo che conta. E naturalmente
una buona capacità di muoversi nell’oscurità. Di confondersi tra le
ombre, colpire e sparire, affogare nel buio senza lasciare traccia,
come fanno i migliori predatori...
– Vedo che queste fantasie ti fanno un bell’effetto. Anche più del mio
corpo – commentò lei con un’espressione divertita ed eccitata al
tempo stesso.
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Edson abbassò gli occhi sul suo pene e solo allora si accorse di avere
un’erezione prepotente. Sorrise compiaciuto.
– Quando ti ho detto che per me è come un orgasmo non stavo scherzando...
Tornò sul letto e si sdraiò sopra di lei. Yulia lo baciò con passione, poi
gli sorrise adorante. Finalmente aveva trovato il suo dio. La sacra
guida che stava cercando da una vita. Adesso il suo volto sembrava
illuminato da un sole pallido e malato.
– Erano anni che aspettavo uno come te, Mago Edson.
Il Mago Edson si abbassò a baciarle l’ombelico, poi salì lentamente
fino ai seni.
– Ma io sono sempre stato qui, amore mio. E non ho nessuna intenzione di andarmene. Dai posti che mi piacciono non me ne vado mai.
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Finito di stampare da Edizioni Nuova Prhomos
nel mese di maggio 2007
per Editrice effequ Orbetello
www.effequ.it – tel. 0564 867262