"Alferid" il primo costruttore della Chiesa di S. Giorgio M.

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"Alferid" il primo costruttore della Chiesa di S. Giorgio M.
Si chiamava Alferid ed era longobardo il primo costruttore
della chiesa di San Giorgio M. a Petrella Tifernina
(a cura dell'arc. Franco Valente su www.francovalente.it )
All'interno del nucleo urbano di Petrella, che evidentemente era munito di una rocca che
ritengo coincida con quell’edificio che poi diventerà progressivamente il castello e poi il
palazzo ducale, esisteva una chiesa dedicata a S. Giorgio martire.
Le vicende architettoniche di S. Giorgio martire di Petrella sono ancora avvolte nel mistero e si
sarebbe dovuto approfittare dei vari restauri ministeriali per trovare il bandolo della matassa.
Ultimamente una ricca monografia sull’insigne monumento (F. GANDOLFO, M. GIANANDREA,
W. ANGELELLI, F. POMARICI. Medioevo in Molise. Il cantiere della chiesa di S. Giorgio
martire a Petrella Tifernina, Roma 2012), pur se costituisce una occasione di riflessione per la
grande quantità di interpretazioni che vengono proposte, non ha risolto i problemi fondamentali
della cronologia dell’apparato architettonico che ancora rimane avvolto nella nebbia del tempo.
La basilica di S. Giorgio di Petrella è un singolare monumento dove una grande quantità di segni
nascondono una storia complessa che è possibile dipanare solo attraverso una analisi dei singoli
elementi che la compongono purché sia soddisfatta la definizione del contesto storico entro cui la
realizzazione di quegli elementi vada collocata o dell’altro contesto in cui si colloca lo smontaggio
ed il rimontaggio dei medesimi elementi.
In questa chiesa, infatti, la serie di anomalie costruttive costituiscono una sorta di trasgressione
dell’originario principio regolatore che è ancora possibile rintracciare attraverso una serie di
ragionamenti sulle fasi diacroniche che comunque si nascondono nella sincronia di ciò che oggi
appare alla vista.
Il nostro obiettivo è quello di capire cosa sia accaduto nel tempo alla basilica di S. Giorgio, evitando
comunque quelle tediose descrizioni che interessano principalmente gli amanti della prolissità.
Prima di infilarci nella insidiosa strada delle ipotesi ricostruttive, appare necessario riepilogare le
osservazioni che vengono spontanee a chiunque voglia dare una giustificazione alla particolare
forma che oggi ci appare.
La prima é che l’apparato murario interno ed esterno è costituito interamente da blocchi lapidei di
medie dimensioni, tutti diversi tra loro sebbene in forma di parallelepipedi regolari. Solo sulla
facciata laterale meridionale sono inserite, senza un ordine preciso, lastre lapidee con decorazioni
viminee e figurazioni in bassorilievo che provengono dalla scomposizione di un edificio di epoca
anteriore all’XI secolo.
La seconda riguarda il piano stradale sul lato settentrionale che sembra essere stato ribassato
rispetto al piano del pavimento della chiesa di circa 150 centimetri.
La terza osservazione attiene alla particolare anomalia dell’asse centrale della navata
maggiore con non é ortogonale alla linea delle absidi in quanto piega vistosamente verso sud.
Partirò proprio da questa strana anomalia che in molti hanno ritenuto essere stata programmata dai
maestri costruttori della basilica.
Senza complicare la ricerca con fantasiose ipotesi di presunti significati simbolici, credo che la
modifica dell’asse longitudinale sia dovuto semplicemente ad un accidente che possiamo facilmente
immaginare facendo immediatamente una semplice considerazione di carattere geometrico.
Se si misura la lunghezza della parete laterale interna di sinistra si scopre che è esattamente due
volte la lunghezza della parete di fondo o due volte la parete su cui si aprono le absidi.
A questa dobbiamo aggiungere l’altra considerazione sulle caratteristiche delle semicolonne delle
pilastrature di separazione delle navate sulla faccia rivolta verso la navata centrale. Si noterà che tali
semicolonne si concludono in alto con un taglio netto dal quale sarebbero dovuti partire i costoloni
di volte a crociera che avrebbero dovuto coprire la navata centrale.
Invece la mancanza di una semicolonna nel punto opposto in corrispondenza dell’asse ortogonale
ha tecnicamente reso impossibile la loro collocazione.
S. Giorgio. A sinistra la pianta attuale e a destra la probabile pianta originaria
Diversamente, se si prendono separatamente la due navate, esse sono correttamente voltate con
archi di raccordo tra i pilastri e perfettamente ortogonali alle pareti.
Queste semplici considerazioni aiutano in qualche modo a risolvere almeno il mistero della strana
anomalia della pianta, perché appare evidente che si tratti di un rimontaggio di blocchi lapidei che
erano stati realizzati per un edificio che avrebbe dovuto avere una regolarissima forma
architettonica e che, per un accidente che prima o poi ci verrà rivelato, ne ha avuta un’altra.
Orbene, mentre le datazioni, le considerazioni stilistiche, le analisi iconologiche ed iconografiche,
possono dare adito a interpretazioni, la geometria non lascia spazio alla fantasia.
La geometria è il punto di partenza per qualsiasi ulteriore approfondimento sulla chiesa di S.
Giorgio di Petrella Tifernina le cui trasgressioni planimetriche insieme al complesso e stupefacente
apparato simbolico sono motivo dinamico per andare alla ricerca di quella regolarità che è stata il
motivo della sua originaria esistenza.
L’impianto originario della chiesa di S. Giorgio era assolutamente
regolare ed era formato, nella sua impostazione complessiva, dall’aggregazione di due quadrati.
Nulla di più semplice. Come per l’originaria cattedrale di Guardialfiera dell’XI secolo, la cui
costruzione sappiamo di poco anteriore all’anno 1075.
Guardialfiera. Pianta della cattedrale
Poi è accaduto qualcosa di imprevedibile che io ritengo essere stato un cedimento della facciata che
corrisponde all’area oggi occupata dalla strada laterale sul fronte settentrionale. Un cedimento che
non ha interessato la linea delle absidi.
I maestri costruttori si trovarono di fronte al dilemma se demolire interamente la basilica, oppure
modificare semplicemente l’impianto mantenendo bloccate le absidi. Fu scelta, per ovvi motivi di
economia, la soluzione meno onerosa, nella piena consapevolezza che, in luogo delle volte a
crociera delle navate, la copertura sarebbe stata realizzata con capriate in legno a vista.
Con questo obiettivo la parete di sinistra, quella che ora si affaccia sulla strada, è stata smontata e
rotata di alcuni gradi senza muovere le absidi. Di conseguenza si sono dovuti modificare gli
allineamenti delle colonne che furono riposizionate sulla linea parallela al muro ricostruito e
sull’asse ortogonale corrispondente alle semicolonne della parete laterale.
Alla riedificazione della parete settentrionale corrispose anche lo spostamento delle colonne di
sinistra che, per ovvi motivi conseguenti al nuovo allineamento, furono poi ricostruite sulla linea
parallela al nuovo allineamento delle colonne di destra.
Stessa sorte per la parete meridionale che molto probabilmente fu ricostruita per ultima con
l’integrazione del paramento esterno con lastre lapidee a intrecci viminei e raffigurazioni in
bassorilievo di antica manifattura provenienti da una fabbrica più antica.
Dunque se i sospetti sono fondati possiamo ipotizzare quattro momenti fondamentali:
* Il primo relativo ad una chiesa che in maniera generica possiamo ritenere di epoca anteriore al X
secolo.
* Il secondo all’epoca in cui si definì un impianto basilicale a tre navate con assetto planimetrico
regolare.
* Il terzo all’epoca della sua ricostruzione nella forma attuale.
* Il quarto al momento delle modifiche barocche poi eliminate in sede di restauro.
Un portale longobardo su una facciata normanna
Ma l’elemento che lascia più dubbi per la sua definizione cronologica è proprio la lunetta del
portale principale che per molti studiosi ha rappresentato un elemento di certezza per stabilire la
data dell’edificio. Proprio questa certezza viene messa in dubbio prima di tutto dai caratteri stilistici
dell’intradosso e dall’estradosso.
L’intradosso è caratterizzato da una serie di 8 cerchi definiti da fettucce monosolcate su cui si
incrociano, sovrapponendosi, identiche fettucce formanti quadrati uniti in punta a rombo e nascenti
dalle fauci di quattro mostri marini posti due a due sulle imposte dell’arco.
Si tratta, come evidenziato anche dall’epigrafe IONAS, della rappresentazione dell’episodio biblico
di Giona inghiottito dal mostro marino, cioè dalla cosiddetta pistrice, che per tutto il medioevo fu
preso come anticipazione profetica della morte e resurrezione di Cristo dopo tre giorni.
Nella lunetta l’episodio è narrato in due tempi e la lettura si fa partendo da destra in alto per
scendere poi a sinistra in basso.
La pistrice, un mostro dal corpo di pesce con la coda pinnata e due zampe anteriori, sta ingoiando
Giona del quale rimane ancora fuori solo la parte inferiore del corpo coperto da una gonnella dalla
quale escono le gambe.
In basso, specularmente, la pistrice sta sputando fuori Giona di cui si vede il capo e le braccia alzate
con le palme aperte.
Tutto sembra avere un senso preciso perché ogni elemento fa parte di una visione globale legata alla
problematica escatologica della vita e della morte, nella prospettiva della resurrezione finale dei
corpi.
L’estrema sinteticità della rappresentazione contiene elementi sufficienti per poter affermare che si
tratta di una ulteriore generalizzazione della vicenda di Giona e del suo ritorno alla vita dopo essere
stato tre giorni nel ventre del mostro marino.
Un particolare appare sicuramente interessante. Giona che viene sputato dal mostro ha il capo privo
di capelli. Secondo la tradizione apocrifa quando Giona fu inghiottito gli abiti furono bruciati per il
gran calore e fu preso da un tale spavento da perdere tutti i capelli.
Più in basso un serpente si avvolge in forma di spirale piatta mantenendosi a pancia all’aria con la
bocca aperta come se volesse mordere Giona che esce dalla pistrice. Sulla destra un Agnello
crucigero con la testa rivolta all’indietro regge con la zampa sinistra l’asta della croce dai bracci
decussati. Nello spazio tra il serpente e l’Agnello si legge il motto giovanneo ECCE AGNUS DEI.
Sulla fascia inferiore l’epigrafe che ha determinato una serie incredibile di errori, tutti derivati dalla
forzatura interpretativa delle ultime lettere leggibili.
Per quanti sforzi si vogliano fare oggi si riesce a leggere non più di tanto:
AD ONOREM DEI ET BEATI
GEORGI MARTIRIS EGO
ALFERID D?SC?LO _ _ GEO_ _ _ _ _ ? _ _ _ _ MDECIM _ _
Ai punti interrogativi corrispondono le lettere poco chiare, mentre alle linee corrispondono tratti
definitivamente abrasi.
Nonostante l’evidenza della incoerenza stilistica, l’epoca della lunetta è stata desunta dalle
incomprensibili lettere finali …MDECIM… che, correttamente interpretate nella successione delle
consonanti e delle vocali, sono state lette con molta fantasia come parte di una data: (A D
MCCV)MDECIMO, poi sciolte in Anno Domini Millesimo Ducentesimo Undecimo, ovvero 1211!
Ma a parte le considerazioni sull’assoluta inattendibilità della data (che ha dato origine ad una serie
impressionante di errori interpretativi), un elemento di evidente chiarezza per ricondurre all’epoca
longobarda (o comunque antecedente a quelle normanna e sveva) si trova nel nome dell’autore che
si firma EGO ALFERID.
Si tratta in tutta evidenza di un nome longobardo che fa anticipare l’esecuzione della lunetta ad un
epoca sicuramente compatibile con i caratteri stilistici dei rilievi.
Una volta attribuita una data errata alla lunetta sono seguite considerazioni stilistiche fortemente
condizionate. Per questo motivo i girali dell’intradosso della lunetta, essendo localizzati
impropriamente nel XIII secolo, sono stati considerati reminiscenze di forme artistiche del passato.
Alla stessa stregua delle datazioni delle figurazioni della vicina S. Maria della Strada che,
nonostante l’evidenza dei caratteri stilistici, sono state post-datate sulla scorta di una interpretazione
iconologica fuorviante di Evelina Jamison.
Purtroppo l’entroterra molisano da una certa cultura è stato sempre considerato incapace di
esprimere architetture ed opere artistiche che avessero sincronicamente gli stessi caratteri di quei
monumenti che, per una serie di circostanze, hanno avuto l’attenzione della critica storica. Per
questo motivo anche nelle basiliche di S. Maria della Strada e di S. Giorgio la storiografia è povera
di studiosi che abbiano avuto il coraggio di liberarsi dei condizionamenti derivati dagli studi
pregressi, finendo per ripetere sempre le stesse cose senza affrontare il cuore del problema.
Una lezione in tal senso ci viene da S. Vincenzo al Volturno dove le peculiarità di un’architettura
che possiamo definire longobarda-carolingia sono venute alla ribalta solo dopo una grande
campagna di scavi e una conseguente divulgazione delle scoperte che ha permesso, soprattutto nel
campo pittorico, di esaltare i rapporti tra principi teologici e concretezza delle immagini sull’onda
delle indicazioni del concilio di Nicea II del 787.
Una data precisa a cui corrisponde l’inizio di un ripensamento dei programmi iconologici ancora
legati sostanzialmente alla importanza dell’aspetto simbolico piuttosto che alla rappresentazione
didascalica dei racconti.
Per questo motivo le decorazioni puramente geometriche si arricchiscono con la presenza di animali
che nella sostanza servono a dare forza al concetto di sopravvivenza eterna di fronte alla
drammaticità della morte.
Il tema della vita pertanto è la motivazione che si nasconde anche dietro quei cosiddetti “tralci
abitati” delle due transenne litiche che sopravvivono come lacerti erratici rimontati all’interno della
basilica.
Ambedue trovano riferimento stilistico parallelo e sincronico in analoghe decorazioni che, sulla
scorta di ragionamenti supportati da una più ampia disponibilità di fonti di sicura databilità, intorno
al IX secolo.