Nostro figlio:BdA - 10 righe dai libri
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Nostro figlio:BdA - 10 righe dai libri
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 3 Nostro figlio ALON ALTARAS Traduzione di Aline Cendon e Alon Altaras ROMANZO Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 4 Titolo dell’opera originale Ze Ha-Yeled Shelanu © by Alon Altaras. Published by arrangement with The Institute for the Translation of Hebrew Literature Traduzione dall’ebraico di Aline Cendon e Alon Altaras © Atmosphere libri Via Seneca 66 00136 Roma www.atmospherelibri.it atmospherelibri.wordpress.com [email protected] Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it) I edizione nella collana Biblioteca dell ’acqua maggio 2014 ISBN 978-88-6564-099-9 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 5 1 L’ho conosciuto nell’esercito, nei lontani giorni dell’inverno 1980. A quei tempi prestavo servizio come impiegato all’ufficio riservisti, ero un soldato semplice nella base dell’aviazione Hatzor. Smarrito. Di quei viaggi per raggiungere la base ho un ricordo vago. Agrumeti rischiarati dall’intensa luce del mattino. Ora, a più di vent’anni di distanza, non mi è ancora chiaro come mai anche lei sia invischiata nella storia di Avi Razi, che all’epoca era ufficiale amministrativo dell’aviazione e poi è sparito dalla mia vita fino al nostro incontro di stasera, in un caffè in centro a Tel Aviv. È stato lui a riportarmi, per un istante, a quelle strade del sud, ed eccomi all’improvviso fare l’autostop lungo via Gea. Tengo in mano un libro per non prendere sonno e, in un inutile sonnecchiare, perdermi il viaggio di un’ora verso il malconcio ufficio riservisti, davanti all’infermeria della base numero quattro. È strano scoprire come nel lampo d’un vago ricordo tutti quei posti diventino isole di giochi amorosi e gli edifici intonacati a calce si intreccino con gli amori della giovinezza, che sospirano e fanno sospirare – non è detto per allegria. Avi Razi dovrà scusarmi tutto questo poetare, perché dopo le cose che mi ha raccontato, di certo, non c’è più tempo per la poesia. Comunque, prima di accettare la sua proposta, o quantomeno di prenderla in considerazione, dovrò cercare di ricordarmi come sia nato questo mio debito, di cui mi ha parlato poco fa, e quale faccenda sia rimasta aperta tra me e questo energico ufficiale, che nel frattempo è diventato calvo e grassoccio; con foga commovente mi ha appena raccontato d’essere stato lui, e non altri, a salvarmi dal carcere militare. Io, devo confessare, ho altri ricordi. Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 6 Razi mi ha telefonato al lavoro, al Centro Programmi Scolastici di Carattere Scientifico, e mi ha detto d’avermi intravisto per caso sotto l’edificio del Comune, vicino al monumento dedicato a Rabin, in compagnia di una giovane donna con i capelli corti che teneva in braccio un bambino. Dopo avermi cercato sull’elenco, mi ha chiamato a casa e così ha avuto il numero del mio ufficio, perché lui è una persona che non si intromette nella vita privata. Io sono l’unica persona che lo può aiutare. Dobbiamo incontrarci, ha detto, è questione vitale. Sin dalla prima telefonata ha fatto leva sulla nostra amicizia ai tempi dell’esercito – un’amicizia che per quanto mi riguarda non è mai esistita. Ho accettato distratto l’ora e il luogo che mi ha proposto, cinque giorni dopo in un caffè di Tel Aviv e adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi, è arrivato il tempo di ricostruire, dal mio punto di vista, i fatti accaduti in quel posto. Dopo esserci congedati ho camminato lentamente, non avevo fretta di tornare a casa, cercando di far luce tra me e me su cosa l’immaginazione disperata di Razi avesse aggiunto alla storia, e cosa trattenessero i miei ricordi. A casa mi aspettavano Yael e la bambina, e non erano la compagnia adatta per rivangare i ricordi che Razi mi aveva risvegliato. La strada contorta che alla fine mi portò alla base, circondata da agrumeti, si pronunciava già ai primi richiami al servizio militare. Stavo seduto di fronte alla soldatessa che mi stava valutando in una stanza dipinta di verde, un tavolo di formica sbiadita ci separava e lei, dopo aver trascritto i miei dati personali, mi chiese con voce stanca: «Hobby?» «Pallacanestro e cinema. Ho fatto anche un cortometraggio durante il corso Cinema per la Gioventù, su due lesbiche che vivono in Galilea e un poeta che si innamora di loro ma loro non lo vogliono e lui tenta di suici…» «Senti, l’esercito non è interessato alla trama dei tuoi cortometraggi. Usi droghe?» 6 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 7 «No». «Che scuola frequenti?» «Quella serale, vicino a Kikar HaMedinà» risposi prontamente, con voce sicura, cercando di migliorare l’immagine della scuola serale con una reazione decisa. Ma l’esaminatrice, con l’aria di chi sa come rimettere ognuno al proprio posto, dichiarò: «Conosco perfettamente la differenza fra una scuola serale e Kikar HaMedinà. Io scrivo qui che hai fatto dodici anni di studi, senza la maturità, solo dodici anni di studi. Mi auguro che per l’arruolamento tu abbia finito tutti gli esami e allora aggiungerò anche la maturità, inteso?» Tipo strano questa soldatessa, pensai, ha la faccia angelica ma il modo di parlare è più simile a quello d’un ufficiale dei vecchi film di guerra che mio padre ama vedere alla televisione. A quel punto decisi di rispondere con franchezza alle sue domande dirette. «Dove vorresti prestare servizio?» chiese, e un sorriso strano e irritante le sbocciò sul viso. Non riuscii a decifrarlo, forse sdegnoso forse stanco. «Vorrei prestare servizio al settimanale dell’esercito, oppure alla radio militare, o in un reparto che realizza dei film, se c’è qualcosa del genere da voi, qui nell’esercito». Lei rimase interdetta e dopo un breve silenzio disse piano, scandendo le parole, per essere certa che ne comprendessi bene tutto il significato: «Ragazzi come te, che ci arrivano dalle scuole serali, non vengono indirizzati a reparti del genere». Mi fissò con due occhi azzurri e inquieti: «L’esercito non ama le scuole serali». «E tu?» la interruppi, la stanza verdognola e il tono altezzoso della sua voce mi stavano opprimendo, «tu dove hai studiato?» «Nel famoso liceo Ben Zvi» disse con orgoglio, come bastasse questo nome per fugare ogni dubbio. «E questo, come tu sai bene, è un liceo tutt’altro che serale, si trova nella città di Givatayim, se non hai niente in contrario». Tornò a guardare le carte. 7 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 8 «Vedo che sei della città di Ramat Gan, di una zona non lontana dal liceo. Se così stanno le cose, non devo spiegarti la differenza fra la tua scuola serale e il mio liceo». A quel punto avevo perso ogni interesse a polemizzare con lei e decisi di rivelarle un dato che avrebbe quasi certamente incrinato la sua arroganza. Volevo proprio vedere come sarebbe cambiata la sua espressione quando questa informazione l’avrebbe colpita, e come qualcuno che stesse estraendo un gioiello antico e raro da uno scrigno, con voce limpida e decisa, annunciai: «Sono epilettico o, per meglio dire, lo ero fino a poco tempo fa. Lo sono stato dai dodici ai sedici anni, ma forse lo sono ancora, chi lo sa? Se mi spavento o mi emoziono, tutto può succedere al mio cervello, scrivi esattamente ciò che ti sto dicendo, scrivi tutto, ti posso fare lo spelling della parola, se vuoi». «Epilessia?» lei quasi gridò per lo spavento e la sua voce urtò le pareti verdi della stanza. «Proprio epilessia? Con tutti gli spasmi, gli svenimenti, la schiuma alla bocca?» «Sì sì con tutte quelle cose che si vedono nei film. Due attacchi già li ho avuti, e tanti incontri con i neurologi. Fa impressione, no?» Lei non sapeva che atteggiamento assumere davanti a quella improvvisa confessione sull’epilessia, tentò di recuperare un tono formale così che ognuno tornasse nei ranghi. «Hai la documentazione di tutto questo casino medico?» «Non giro con un certificato da epilettico in tasca» le chiarii, ma la mia battuta non la divertì. Si riprese: «Per il secondo richiamo devi portare tutta la documentazione, i medici e lo psichiatra dell’esercito ti faranno dei controlli e vedranno cosa può fare l’esercito con la tua malattia». Insistetti, assumendo un’aria fintamente seria: «Dimmi, cosa ne facciamo della radio militare, del settimanale dell’esercito o il mensile dell’aviazione, o quantomeno di un reparto che fa film per l’esercito? Ho qualche speranza di arrivarci? Potrei essere il primo studente serale epilettico che presta servizio in uno di questi posti, no?» 8 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 9 Lei mi guardò, come avrebbe guardato chi farfuglia parole senza senso, e suggerì sbrigativa: «Non essere ridicolo, e non dimenticarti i certificati medici quando verrai la prossima volta. A noi qui non piace essere presi in giro». Il suo avvertimento fu chiaro, non me ne sarei dimenticato e in quel momento non sorrisi. In seguito portai i certificati richiesti e in quella stanza fu stabilito che andassi a fare il primo addestramento con altre persone di salute precaria – un mese a Sebastia, in Samaria, nell’aria fredda dicembrina, in compagnia di autisti principianti e altri ai quali il futuro nell’esercito riservava ruoli di cuoco o magazziniere. Non sapevo che una parte di tutta quella meraviglia sarebbe stata riservata a me e aspettavo con nervosismo la fine del primo addestramento, per avere notizia di dove avrei passato quell’irrilevante lasso temporale di 18-21 anni. Il trattino che separava dei numeri scelti a caso – proprio quel trattino era diventato la preoccupazione maggiore della mia vita militare. Alla fine i notabili della diagnostica militare mi spedirono alla scuola tecnica dell’aviazione, corso per magazzinieri. Il sottoscritto, Itai Zer, che non è in grado di trovare le chiavi di casa, cui talvolta capita di dimenticare gli occhiali in frigorifero, sarà responsabile di un intero magazzino di pezzi di ricambio per cacciabombardiere. Impensabile. Il tragitto che porta dal magazzino all’errore e al carcere militare è corto e doloroso. Vagavo in mezzo alle tende da campo portando sottobraccio, ben in vista ad ogni ufficiale, il romanzo Tmol shilshom di Agnon, con una copertina rossa che attirava l’attenzione, e sotto l’altro il volume di poesie di Yona Volah, in copertina il dettaglio di un quadro di Klimt: una donna circondata tutt’intorno da fiori. Camminavo lentamente. Dalle tende si levava la voce del cantante Boaz Sharabi, “Amerò solo te stanotte, io non ho niente, solo parole”. Seguivo un percorso fisso, con la speranza che uno dei responsabili del corso si sarebbe accorto dell’insolito comportamento del candidato al ruolo di magazziniere tecnico. 9 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 10 Soltanto l’indomani una di loro notò questo soldato malinconico che vagava fra i sentieri della base. Stavolta non avevo usato soltanto libri. Con le cuffie del walk man sulla testa non avevo più bisogno delle radioline transistor che si sentivano nelle grigie tende piene di soldati in attesa dei corsi. Boaz Sharabi mi arrivò dritto alle orecchie e mi fece tremare il cuore, speravo sarebbero arrivate finalmente anche le lacrime che mi avrebbero portato dritto dallo psicologo militare per liberarmi da una quotidianità minacciosa – piccoli pezzi di ricambio, bulloni, ganci, cacciaviti di varia misura che avrei dovuto conoscere per nome e per uso. Dovevo andarmene. A questo servivano le lacrime versate e la mano che tiene stretti i libri come fossero l’unica salvezza. Ma anche musica nelle orecchie, che fa nascere la volontà di camminare fino al cancello, uscire dalla base e aspettare in camera mia, a casa dei miei genitori, l’arrivo della polizia militare. Grazie alla sollecitazione della responsabile, mia salvatrice, lo psicologo mi ricevette per un colloquio e mi mandò direttamente dallo psichiatra dell’aviazione. Mi chiese come mi chiamavo, come stavo, e fissando l’espressione del mio volto lesse a voce alta il resoconto dello psicologo, secondo il quale io, soldato semplice Itai Zer, gironzolavo per ore nella base tecnica dell’aviazione, piangendo e talvolta mormorando frasi insensate, tipo ‘luce rossa segnala allerta grossa, la mia libertà rubata cammina fino al cancello e torna al macello’. Feci cenno con la testa che sì, la descrizione corrispondeva, così il militare esperto dei meandri dell’anima decretò che il soldato Itai, matricola 3311243, soffriva di seri problemi di adattamento al sistema militare, e pertanto doveva essere collocato in un posto dove poter svolgere mansioni tranquille, da impiegato, che non lo mettessero in ansia e non risvegliassero dal letargo l’epilessia. Venni perciò mandato alla base militare numero quattro dell’aviazione. 10 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 11 Arrivato a casa, non raccontai a Yael dell’incontro con Avi Razi. Sprofondai nella vecchia poltrona che stava davanti alla televisione, e mentre Tami piagnucolava nella stanza accanto, chiusi gli occhi e feci finta di appisolarmi. Sapevo che Yael mi stava guardando, ma sentivo che era meglio non raccontarle del risveglio dei miei ricordi. Avi Razi mi parlava di Neta, del responsabile della disciplina, dei suoi aiutanti georgiani e dell’infermeria vicino all’ufficio riservisti. Devo ammettere che rammentava con chiarezza dettagli che nella mia memoria erano già svaporati – quantomeno fino all’incontro di oggi. Ho aperto gli occhi per un secondo, ho intravisto Yael e li ho richiusi. Sapevo che non sarei riuscito a nasconderle a lungo l’emozione che il nome di Neta ancora suscitava in me. Ventuno anni erano passati da quando, per la prima volta, l’avevo vista all’infermeria della base. Rasar mi aveva ordinato di presentarmi dal responsabile della salute mentale. Arrivato dall’impiegata militare le avevo consegnato la busta con il mio referto medico, sulla quale io stesso avevo scritto, in brutta calligrafia, Itai Zer/problemi psicologici. L’avevo fatto per evitare che sbagliassero di nuovo la mia collocazione militare. “Itai Zer”, aveva detto pronunciando il mio nome, e la sua voce era bassa e un po’ roca, e i suoi occhi erano occhi di gazzella marroni e grandi, in quel momento mi stregò il contrasto netto fra la sua altezza, la sua lunga treccia, i suoi movimenti eleganti e tutto il fracasso dell’infermeria che vorticava intorno a lei. Mi aveva guardato, e dando un’occhiata al mio nome e alla diagnosi che avevo fatto a me stesso, in bella evidenza sulla busta, mi aveva chiesto: «Soldato semplice Itai, vuoi incontrare subito la psicologa tenente, oppure questa cosa può aspettare fino a quando il responsabile avrà deciso dove metterti?» L’avevo fissata e lei mi aveva sorriso dall’altra parte del tavolo. «Soldato semplice» aveva ripetuto, ed era chiaro che qualcosa la stesse divertendo, «è strano che tu da solo, con la calligrafia di un bambino problematico, faccia sapere a tutti qual è il tuo stato psicologico». 11 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 12 Non le avevo risposto. Soldatesse dall’aria malinconica erano in attesa di un’impegnativa medica, una fra loro si teneva la pancia e si lamentava. Le sedeva accanto un soldato con la mano ingessata e il gesso era coperto da scarabocchi e dai nomi degli amici commilitoni. Due addetti alla disciplina avevano condotto un fermo a un controllo medico. Neta trattava tutti come la receptionist di un albergo di lusso, mentre noi ospiti casuali ci trovavamo lì per errore e dai nostri vestiti si capiva che non eravamo all’altezza di stare fra quelle mura. Una strana sensazione mi travolse, come una bufera che facesse tremare le pareti dell’infermeria. Chiusi gli occhi e li riaprii, e lei era ancora lì, si alzava, sorrideva e indicava una sedia libera. Era tornata a sedersi alla scrivania e mi fu chiaro che stava sfogliando i documenti che avevo raccolto nei primi due mesi del mio servizio militare. Si era alzata di nuovo, mi aveva guardato, poi sorriso un’altra volta. Non la ricambiai. I dettagli del mio dossier medico mi mettevano in imbarazzo. «Torna qui domani. Jafa, la psicologa, ti riceverà», aveva ordinato la sua voce, e forse disse qualcos’altro, ma io non la stavo più ascoltando. Rapimento del cuore, così chiamai fra me e me quello che avevo provato in quel momento all’infermeria. Lei indubbiamente non era consapevole del suo potere, ma io soldato semplice Itai, dalla divisa ben stirata e la piastrina metallica, lustra e visibile, la garza nel taschino sinistro chiuso per bene da un bottone, ho impresso nella mia memoria che Neta è stata la prima ad aver avuto tale potere. Yael, la madre di Tami, nostra figlia, è un altro tipo di rapimento del cuore, forse quello che manca ad Avi Razi – considerato quello che mi ha appena raccontato. Gli occhi sono chiusi e i piani maldestri. Andrò ad Ashdod, in via Rogozin 56, una fermata prima della stazione centrale, salirò al terzo piano, all’appartamento dei suoi genitori, e chiederò dove abita oggi la loro figlia – se mai accetteranno di aprire ad uno straniero che bussa all’improvviso alla loro porta. È impor12 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 13 tante per me sapere dove la posso trovare, cosa le è accaduto dal giorno che ho lasciato la base di Hazor e non le ho più parlato, nel bene e nel male. Con chi si è sposata, e come si chiamano i suoi figli, ma forse non si è mai sposata, o forse addirittura è già divorziata, e adesso è sola – perché le voglio chiedere se sono vere le cose che mi ha raccontato l’ufficiale Avi Razi. Mi sono alzato dalla poltrona all’improvviso e sono andato in cucina, sperando che mia moglie non indagasse la ragione di quei movimenti bruschi. Che cosa è stata Neta per me, in quei mesi? Avevo scritto per lei delle poesie commosse, e quando Yael ed io abbiamo cambiato appartamento, le ho nascoste a casa dei miei. Poesie scritte da un cuore di vent’anni, innamorato, che quando il fervore poetico si è andato affievolendo ho ricacciato nel cassetto. Non ricordavo bene i versi e il contenuto continuava a sembrarmi nebuloso. Niente di più che moti del cuore di chi teme che le sue poesie ne rivelino i segreti. Le ho scritte due settimane dopo tutto quel casino, che pare Avi Razi ricordi in ogni dettaglio. Stavo in cucina appoggiato al frigorifero sul quale erano appiccicati i magneti con le foto della bambina. «Yael, ti ho mai raccontato di Avi Razi?» «No, non ho mai sentito questo nome. È un tuo amico d’infanzia?» «No, è qualcuno che ho conosciuto nell’esercito, nella base di Hazor, e oggi l’ho visto al centro commerciale Gan Hair» «E allora, cos’è successo? Gli hai parlato?» «Non penso mi abbia riconosciuto, forse mi sono persino sbagliato. Quel tizio si è affrettato ad entrare in un negozio di fiori e per un attimo ho pensato d’essere già arrivato all’età in cui uno si ricorda con nostalgia che una volta aveva vent’anni e gli sembra di incontrare per la strada i visi conosciuti nei tempi andati». Mi chiedevo se Yael avesse notato che le stavo nascondendo qualcosa. «Vedo che anche gli impiegati dell’ufficio riservisti provano nostalgia per la divisa e la loro penna Parker» mi stuzzicò, «e io 13 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 14 che pensavo che la nostalgia per la puzza dell’esercito fosse solo roba per combattenti». Mi sentii sollevato. Prima di addormentarmi decisi che il venerdì avrei cercato le vecchie poesie scritte a Hazor, e avrei cercato di calmare l’agitazione che mi aveva preso. Ho aspettato che Yael si addormentasse, al buio ascoltavo il suo respiro. Ero vicino al suo corpo caldo e desideravo un sogno che mi riportasse a quegli anni, ma non arrivò. 14 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 15 2 La mattina dopo, appena sveglio, presi una decisione: andare ad Ashdod, all’indirizzo di quando era giovane, che ancora ricordavo. Uscii come di consueto, come chi va al lavoro. Il nome della via, il piano e addirittura il numero dell’appartamento erano impressi nella memoria di una tiepida giornata davanti all’ufficio riservisti. Neta era sdraiata sullo spiazzo di cemento, davanti alla mia finestra, quella sopra il tavolo delle mansioni di impiegato; aggiornavo i dati personali dei riservisti che passavano per il nostro ufficio prima di prestare servizio: meccanici, autisti, cuochi, controllori di volo. Con la mia non bella calligrafia seguivo i cambiamenti, piccoli e grandi, delle loro vite. Cambiavano indirizzo, posto di lavoro, si sposavano, diventavano padri, si separavano. Questo era il ruolo affidatomi dopo l’incontro con la psicologa della base, la tenente Jafa. Lì, all’ufficio riservisti, al comando dell’ufficiale Beni Dremer, dovevo passare il servizio militare. Vicino all’infermeria, non lontano da colei che senza saperlo aveva suscitato in me il rapimento del cuore. Ero uscito dall’ufficio andandole più vicino, lei mi aveva detto, ad occhi chiusi, «Soldato Itai, dove vai? Passi di qua e nemmeno saluti?» «Sei sdraiata qui come una lucertola al sole, non volevo disturbarti», avevo risposto. «Ti vedo anche con gli occhi chiusi» mi aveva assicurato Neta, togliendosi le cuffie del walkman, «avvicinati a me, Itai, e sentirai una bella canzone». Anch’io avevo chiuso gli occhi e ascoltavo con attenzione ogni parola. Alla fine l’hanno trovato sdraiato sotto un albero di pompelmi, 15 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 16 pensavano fosse la fine, perché tutto può succedere, poi si rivelò che per ora lui sta bene, due schiaffi e si è svegliato, ma portato in camera sua… L’avevo riconosciuta subito, era la voce di Meir Ariel. Canzone di festa, ricorrenze e fallimenti. Due schiaffi e non si è svegliato, nemmeno portato in camera sua, lei comunque aveva capito, anche senza gli sguardi di quei due… Catturato dalla voce del cantante avevo osservato le sue labbra che a bassa voce ripetevano quello che sentivo, «ho pianto anch’io con lei, io che la amavo, Erroll Erroll». E adesso stavo andando verso la sua città, binomio strano “sua città”, specialmente se non ci abita più – città che non era nulla più d’un ricordo sfumato. Mi augurai di arrivare ad Ashdod in un lampo. Ricordavo con chiarezza la sua figura, in quella limpida mattina di sole. Eccomi a rimetterle le cuffie alle orecchie, a chiederle con ingenua emozione, «Perché mi hai fatto sentire questa canzone?» E lei non aveva risposto, ma sul palmo della mia mano aveva messo un bigliettino stropicciato, e rimanendo sdraiata mi aveva ordinato: «Itai, vai allo spaccio, comprati della cioccolata fredda e un panino e nascondi il rossore che ti accende le guance». Allora avevo aperto il bigliettino stropicciato sul quale era riportato l’indirizzo dove stavo andando in quel momento, senza che Yael sapesse nulla. Non sto mica andando dalla mia amante, cercai di calmarmi, per negare l’entusiasmo che mi aveva preso, soltanto a casa di chi mi ha dato il suo indirizzo più di vent’anni fa, via Rogozin 56. 16 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 17 Uno strano mantra. Lo ripetei lungo la strada che collega Tel Aviv ad Ashdod. Una volta, durante un viaggio di notte, mentre tornavamo da una festa di matrimonio celebrata in un agrumeto, uno dei pochi rimasti, e attraversavamo strade deserte, Yael mi disse: «Strano, passiamo per le città di Rishon Le Zion, Hulon, ma non c’è nessuna differenza, nella notte tutto sembra una città continua, che ogni tanto cambia nome». Ora, all’entrata di Ashdod, sentivo che via Rogozin era una storia diversa, e se volete chiedetelo a Erroll, che altri non è che me stesso in quei giorni lontani, perso nella luce intensa degli agrumeti intorno alla base di Hatzor, proprio lì dove avevo raccontato alla soldatessa dell’infermeria e alla psicologa i dettagli di una epilessia già passata, e mi ero comportato come chi, in ogni instante, può perdere coscienza e non sapere più dove si trovi. Una base vicino a casa, questo è ciò di cui ho bisogno, magari vicino alla casa di Neta, che sembrava più una ragazza di kibbutz che non una giovane donna del centro di Ashdod. Mi avvicinai all’edificio, meglio parcheggiare la macchina, pensai. La via aveva cambiato aspetto, mi accorsi, questo viaggio che all’inizio aveva una qualche ragione di entusiasmo ora stava diventando scialbo, ancor prima di arrivare alla stazione centrale, prima di salire le scale dell’appartamento dei suoi, al numero 10, fino in camera sua. La famiglia Barkai non abita più qui, disse la vicina del terzo piano, e poi Neta si è sposata tanto tempo fa e ha lasciato Ashdod. «Tu chi sei? Un parente, un caro amico?» chiese, e io mi ritrovai a rispondere stizzito: «No, non caro, e certamente non un parente». Scesi le scale farfugliando l’indirizzo non più valido. Quale stupido entusiasmo mi ha portato a queste vecchie case? Cosa speravo di trovarci? L’infermeria, dipinta tutta di bianco? O lei in persona, appoggiata al battiscopa di pietra, con le cuffie del walkman sulla testa, in attesa per tutto questo tempo di un Itai quarantenne, che passa di qua per sentirla raccontare come sono passati per lei tutti questi anni. 17 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 18 La via era punteggiata di scritte in cirillico, che avevano occupato le insegne dei negozi di salumi, di pesce affumicato, di cancelleria e giornali russi. I musicisti di un quartetto d’archi, vestiti con dei completi sbiaditi, suonavano sul marciapiede una melodia malinconica. «Cosa state suonando?» chiesi con discrezione alla violoncellista e lei, fiera, rispose, «Mendelsson, grazie che signore interessa». Il signore non si interessa, pensai, il signore è un emerito idiota, ed è meglio che si sbrighi a tornare da sua moglie e sua figlia e mandare al diavolo il piano di Avi Razi. La macchina invece non mi portò verso Tel Aviv, all’uscita di Ashdod scelsi la strada verso sud, in direzione dell’incrocio Masmia, fino alla base numero quattro. Di quegli agrumeti che una volta si perdevano a vista d’occhio non era rimasto molto, e tuttavia speravo di trovare, lungo la strada serpeggiante che costeggiava il kibbutz Hazor, qualcosa che mi ricordasse quella che una volta chiamavo “la luce dei frutteti del sud”. Le nuove abitazioni, prive di luce, mi accompagnarono fin quasi al cancello della base. Non mi lasciarono entrare – già sapevo che, anche se gli avessi raccontato del mio inutile viaggio, non avrebbero cambiato idea e non avrebbero detto, entri signore entri pure, vada a vedere l’infermeria, lo spiazzo grigio di cemento davanti all’ufficio riservisti, entri lì, cerchi la soldatessa dell’infermeria e le chieda scusa. Ma scusa di cosa, scusa di che cosa, mi domandavo mentre sentivo salirmi un senso di angoscia, e alla sentinella il cui labbro superiore faceva trapelare una leggera irritazione, dissi: «Ho prestato servizio qui non tanto tempo fa, diciamo dieci anni, e adesso vorrei entrare, vedere se conosco ancora qualche comandante». Gli parlavo come un anziano ormai, io stesso non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Ha un documento da riservista?» ha chiesto con indifferenza la sentinella. «No» mi sono giustificato, «ho solo la carta di identità». «Una carta così non basta» ha sentenziato il soldato con il tono di chi è pratico di seccatori come me. «La carta di identità ce l’hanno tutti». 18 Nostro figlio:BdA 14-04-2014 15:06 Pagina 19 Mi sentii sollevato di non poter entrare. E quando sono ripassato per l’incrocio di Ashdod, ero contento che a quell’indirizzo non mi aspettasse nessuna donna. 19