Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

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Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
Fogli di viaggio di un Servitore dello Stato.
Devo confessare che sin da ragazzo avevo sognato la carriera militare.
Per difendere il progetto dalle inevitabili critiche familiari, rivelai questa decisione solamente dopo
gli esami di maturità, quando portai a casa un diploma con il massimo dei voti.
Mio padre, un imprenditore nel settore delle costruzioni, cresciuto all’ombra di politici e potenti
della sua generazione, bollò subito l’idea come “idiota”.
L’uomo che si era fatto da solo, creando dal nulla un piccolo impero, sognava per suo figlio un
futuro da politico-imprenditore, in grado cioè di difendere la propria eredità. Bisognava capirlo.
Aveva speso ben cinque anni del suo poco tempo disponibile a spiegarmi come funziona
un’impresa, come fare soldi, come reinvestirli sulle persone giuste e più in generale come utilizzare
gli altri per raggiungere i propri obiettivi. Non si capacitava di come suo figlio potesse aspirare ad
entrare nella schiera dei Servi Sciocchi in livrea, come li chiamava lui.
“Ma io sarò un Ufficiale dei Carabinieri” gli avevo opposto io.
“Capo di Servi Sciocchi, sempre servo sciocco resta” aveva decretato lui nel suo trascinato dialetto
palermitano, conservato nonostante i venti anni trascorsi nella Capitale, per poi concludere così:
“Preferisci stare tra quelli pagati per fare ciò che politici, magistrati e mammasantissima gli
ordinano o tra quelli che li influenzano?”.
Ignorava che proprio gli stage estivi che mi aveva fatto fare in azienda avevano contribuito a farmi
maturare la convinzione che non avrei mai voluto entrare a far parte del suo mondo, troppo sporco
per i miei gusti. Che desse pure tutto a mia sorella - pensavo - a cui brillavano gli occhi appena si
parlava di piccioli. Quanto a mia madre, non poteva dire la sua, perché un male se l’era portata via.
Io volevo percorrere una strada tutta mia. Credevo nel rispetto della legge. Essere sì temuto e
rispettato, ma stando dalla parte dei “giusti” per così dire, e non da quella dei disonesti e dei
corruttori.
Insomma ero uno stupido ingenuo idealista.
Ad ogni modo riuscii ad entrare nell’Accademia Militare al primo tentativo, e mi piace pensare che
lui non interferì. Anche se credo che il suo orgoglio di padre tronfio dei successi del figlio prevalse
su quello ferito da quello stesso figlio che aveva abbandonato la retta via già tracciata.
Al termine di un quinquennio di dura formazione militare, trascorsi i primi anni di servizio saltando
da un Comando all’altro, in giro per l’Italia, com’è consuetudine per i giovani ufficiali.
Giunto al grado di Capitano, una favorevole coincidenza, unita ad un curriculum impeccabile e alla
perfetta conoscenza di alcune lingue straniere, mi dette l’opportunità di entrare nell’élite degli
“Addetti Militari”, impiegati presso certe Ambasciate, al seguito di un Colonnello che mi aveva
preso sotto la sua ala protettiva, conscio delle mie capacità investigative e della cieca fedeltà.
Furono anni di grande euforia e di grande libertà, perché noi, diversamente dai colleghi incaricati
della protezione delle Sedi Estere, quelli cioè con compiti di vigilanza alle Ambasciate e di scorta al
personale diplomatico, che mettono ben poco il naso fuori dai muri che delimitano il “territorio
nazionale”, noi eravamo pagati, ben pagati, proprio per ficcanasare, per tenere relazioni con i nostri
omologhi, con le Forze dell’Ordine e le gerarchie militari locali.
Furono anni di viaggi, di scoperte, di conoscenza del mondo in prima persona e non più letta solo
sulle sinossi militari e sui rapporti classificati. Il mio superiore aveva una capacità di intessere
relazioni umane con chiunque, mettendo a proprio agio l’interlocutore, ed io avevo la capacità di
fargli rivelare informazioni riservate come se stessimo parlando di donne tra amici al bar.
Il primo paese di assegnazione fu la Colombia, ove passammo tre anni indimenticabili. Fu
l’occasione per scoprire che questo paese non è solo la piaga dei Cartelli della droga, o quella dei
Guerriglieri delle FARC e dell’ELN. Gruppi armati, nati con l’idea della rivoluzione comunista, che
avevano dichiarato guerra allo Stato, dimostrando una migliore capacità di controllo del territorio.
All’epoca erano specializzati in attentati e sequestri di persona.
Alla ricerca di fonti di finanziamento meno onerose di quelle dei sequestri, negli anni si sono
trasformati in veri e propri gestori e coltivatori di piantagioni di coca. Terreni contesi anche con i
Paramilitari dell’AUC, nati per combattere i rivoluzionari e finiti poi per contendergli il mercato.
Gli occhi della testa videro la bellezza inesplorata di una terra che ancora nasconde le vestigia delle
antiche civiltà Precolombiane, e la natura selvaggia della foresta amazzonica, dove tanti indios
vivono ai margini della civilizzazione. E poi il fascino della costa caraibica e delle sue isole, abitate
per lo più dai discendenti degli schiavi africani, l’armonia dei campi nelle valli interne dove ancora
si coltivano e producono in maniera tradizionale zucchero di canna, cacao e caffè ed infine
l’ebrezza delle Ande ove ancora una buona parte della popolazione vive oltre quota 2000 metri.
Una ricchezza derivante dalla possibilità di incontrare, nello stesso periodo dell’anno, differenti
regioni climatiche. Ai tropici infatti le condizioni ambientali variano solamente con la quota. La
sola modesta variazione annuale è rappresentata dall’alternanza della stagione “umida” e “secca”.
Questo permette ad esempio di avere durante tutto l’anno, nelle regioni appropriate, frutti come
l’anguria, il mango e tutta la celebre frutta tropicale.
Fu interessante scoprire che i popoli delle regioni tropicali non vivono e quindi non conoscono “le
quattro stagioni”, e perciò si abbigliano tutto l’anno con lo stesso tipo di vestiario. Curioso anche il
loro sforzo di scandire il tempo in altre maniere: feste nazionali, feste religiose, anniversari.
Gli occhi del cuore mi permisero di vedere una popolazione, seppure divisa in almeno quattro etnie
diversissime tra loro (Costeños, Indios, Paisa, Andinos), afflitta dall’eccessivo consumo di alcool e
dalla sfrenata libertà sessuale, con conseguente disordine familiare a cui gli europei sono giunti solo
in tempi recenti, con le “famiglie allargate”. Un esempio visibile era la diffusione delle ragazzemadri e delle famiglie con fratellastri. D’altra parte ebbi modo di apprezzare un popolo capace di
fare festa con poco, legato alla musica, alla danza ed alla famiglia come noi non saremo mai più.
Uno dei ricordi che i miei sensi ancora quasi avvertono è l’odore di cibo cucinato in certi angoli
delle strade di Bogotà: delle empanadas fritte, delle arepas al formaggio, del pane dolce e della
carne di maiale arrostita sul carbone di legna.
Fu anche un viaggio dell’anima, in cui conobbi molte ragazze ma non riuscii, o forse non volli,
legarmi affettivamente a nessuna. Era troppo presto, o amavo troppo il mio lavoro, o meglio amavo
sentirmi utile al mio paese, dissetando al contempo la brama di conoscenza che avevo dentro.
Al termine del periodo di assegnazione ci fu prospettata l’Algeria, ed entrambi accettammo senza
esitare. Dopo quell’esperienza di così ampio respiro, fatta da grandi trame, strette di mani criminali,
azioni al limite dello spionaggio, ed intrecci politico-militari a carattere internazionale, io non
potevo neppure concepire l’idea di rientrare definitivamente in Italia, seppure con i gradi di
Maggiore, per comandare un qualche Reparto Investigativo o una Compagnia Territoriale
dell’Arma, per quanto grande ed importante essa fosse.
L’Italia stessa mi sembrava oramai poco più che una macchia sulla carta geografica.
Eppure ne avevo viste e fatte di cose “immorali”, almeno secondo i criteri che avevano ispirato il
mio arruolamento. Ragioni di riservatezza mi impediscono di circostanziare, ma semmai all’epoca
della Colombia nel mio animo ancora albergasse un po’ di quello spirito naif, del “cavaliere senza
macchia”, dell’idealista, ho memoria di certi episodi per i quali già allora non andavo fiero.
Ad ogni modo, dopo una breve sosta a Roma, che coincise con il passaggio generazionale
dell’impresa di mio padre a mia sorella, a cui assistetti senza rimpianti, partimmo per l’Algeria.
Algeri ci accolse con un sole abbagliante, a cui non ero più abituato dopo gli oltre tre anni trascorsi
sotto il cielo coperto di Bogotà, a 2600 metri di quota.
Il primo impatto non fu molto positivo. Trovai gli algerini ancora più falsi di quanto mi aspettassi.
Le comunicazioni inoltre erano complicate dal fatto che, benché buona parte della popolazione parli
correntemente anche il francese, la lingua ufficiale è l’arabo classico e la popolazione parla l’araboalgerino, che ha poco o nulla a che vedere con la lingua del Profeta. Perciò ci trovammo spesso a
dipendere da personale civile locale “di fiducia”.
La società algerina è ulteriormente complicata dall’esistenza di tre etnie principali e da altrettante
lingue: quella Berbera dei Cabili, quella d’origine Araba e quella dei Tuareg, i Berberi del Deserto.
La mia simpatia accrebbe quando mi resi conto che il paese soffriva i problemi di qualsiasi altro
Stato povero o “in via di sviluppo” e cioè: corruzione senza freni, inquinamento ambientale
smisurato, alto tasso di disoccupazione, bassa scolarizzazione, elevata incidentalità stradale,
scadente servizio sanitario e maggiore mortalità per malattie prevenibili, limitato accesso all’acqua,
al cibo di qualità nonché ad una serie di servizi essenziali per una vasta parte della popolazione.
Eppure il paese era stato per ben 132 anni sotto la dominazione francese e ne adottava ancora
norme, standard tecnici, organizzazione. Faticavo a giustificare la povertà, talvolta inconsapevole,
nella quale vedevo vivere tante famiglie, tanti bambini.
Quello che più mi turbò fu la condizione di inferiorità sociale in cui la donna era ed è volutamente
tenuta, con il pretesto di “tradizioni” che poco o nulla hanno a che vedere con l’Islam. Elemento che
vedevo stridere con l’operosità di queste donne che, spesso coperte da veli, vesti o cappotti, si
sobbarcavano di fatto non solo il buon andamento delle loro famiglie, ma della società tutta intera.
L’idea che mi sono fatto è che la religione sia strumentalizzata dagli uomini per mantenere in essere
un modello di società basato sulla libertà sessuale maschile e la repressione di quella femminile,
sull’ozio degli uomini e sulla fatica delle donne. Generalizzare può fare male, ma rende l’idea.
L’Islam che si praticava nel paese rientrava nel filone considerato “moderato”, ma la presenza di
estremisti era costantemente controllata, in quanto il paese usciva da un decennio di autentica
guerra civile tra i gruppi islamisti integralisti, ed il neonato governo militare laicista, che aveva tolto
loro il potere per timore di una deriva senza ritorno verso un modello di Stato basato sulla legge
coranica (Sharìa).
Impegnato per lo più in attività finalizzate alla valutazione del pericolo nei confronti dell’Europa,
legato dalla presenza di gruppi terroristi affiliati ad Al-Qaeda, in due occasioni mi trovai a
viaggiare, con dei gruppi di beduini, in compagnia di un gendarme francese, alla volta del Sahara.
Ricordo che mi venne da ridere quando vidi che la carovana era costituita da quattro pick-up Toyota
i cui piani di carico erano colmi di taniche di acqua, gasolio, nonché di sacchi contenenti pezzi di
ricambio, cibo, stoviglie, tende e tappeti.
Quella del viaggio in auto verso il deserto è un’esperienza che ogni occidentale dovrebbe fare
almeno una volta, ad un certo momento della propria vita.
L’abbandono della città, l’attraversamento dei piccoli centri, degli alvei torrentizi spesso secchi,
seguiti da pochi villaggi disseminati lungo terre brulle e secche, ed il loro diradarsi sino ad entrare
nell’aspro e vasto deserto montagnoso, tagliato talvolta dai palmeti delle oasi che sorgono là dove la
falda acquifera è più superficiale. E poi all’improvviso la visione sconfinata delle dune di sabbia.
Una distesa immensa, nelle infinite tonalità del giallo e del rosso, che si stagliano sul cielo limpido.
E’ un lento cammino di svuotamento di sé stessi, perché la natura immensa e selvaggia ha il potere
di ridimensionare l’uomo, di riportarlo a quello che è.
Il silenzio del deserto rotto solo dal vento, la nudità del paesaggio, la semplicità del cibo e la
lentezza delle persone, hanno un potere taumaturgico in grado di guarire qualsiasi anima alla ricerca
di risposte. L’esperienza del bivacco notturno tra le dune, seduti intorno al fuoco sorseggiando the
alla menta, risveglia sensazioni profonde che toccano le corde dello spirito.
La pace di quei luoghi lontani, immuni dalla follia e dalla frenesia umana, mi risuona ancora dentro.
Ricordo ancora il fremito premonitore che ebbi ai piedi della tomba di Charles de Foucauld, un
ufficiale francese di nobili origini che nel corso delle sue missioni attraverso il Sahara, alla fine
dell’800, fu colpito da una profonda crisi spirituale che lo portò all’abbandono della carriera
militare. In un primo tempo per vivere la vita dell’esploratore e quindi, pochi anni dopo, arrivando
alla scelta della vita monastica nel deserto, a servizio dei Tuareg, nell’estremo sud dell’Algeria,
dove poi fu assassinato.
Quanto alle donne, la mia relazione fu inevitabilmente complicata dalla barriera religiosa. Le poche
giovani che riuscii ad avvicinare cercavano tutte il matrimonio con un uomo che accettasse di
convertirsi sinceramente all’Islam e di integrarsi nella complessa, per non dire opprimente, realtà
familiare che contraddistingue ancora oggi la società algerina.
Pur non essendo un cattolico praticante, non mi ci vedevo proprio a mescolarmi tra i barbuti della
moschea il venerdì mattina, dopo essermi lavato piedi, mani e viso, e a indossare la tunica bianca,
né tantomeno a fare digiuno da cibo e acqua durante tutto il mese del Ramadan.
In conclusione, ogni relazione ebbe vita breve.
Rientrai ben poche volte in Italia durante quei quattro anni, l’ultima delle quali per il funerale di
mio padre, scomparso improvvisamente proprio quando aveva cominciato a godere dei frutti di una
vita interamente dedicata al lavoro.
All’apertura del testamento e della successione non restai tanto stupito, scoprendo che il grosso del
patrimonio lo aveva già diviso in vita tra la “compagna” degli ultimi anni e mia sorella.
Quest’ultima aveva già incassato il pacchetto di maggioranza dell’impresa, mentre alla bella donna
che lui stesso aveva posto a capo delle Risorse Umane della società, e che per un inspiegabile
pudore non aveva mai voluto sposare, erano andate delle interessanti polizze vita.
Fu allora che sentii che era giunta l’ora di un cambiamento, di dare un senso più profondo alla mia
esistenza, che dietro l’etichetta del “Servitore dello Stato” nascondeva una vita fatta di privilegi e di
avventura, rivolta essenzialmente a soddisfare me stesso. L’unico elemento davvero positivo erano
la complicità, gli insegnamenti e l’appoggio che il mio superiore continuava a offrirmi.
Rischiavo di ridurmi peggio di mio padre, a consolare le mie solitudini con una qualche impiegata o
collega di lavoro. Oltre tutto, non avendo figli, se fossi morto all’indomani gran parte dei miei beni
sarebbero stati automaticamente ereditati da mia sorella e dai suoi figli.
Il cambiamento non tardò. La settimana in cui mi giunse l’inaspettato avanzamento al grado di
Tenente Colonnello, al mio Comandante pervenne la nomina a Generale di Brigata.
Per l’occasione tenemmo una memorabile festa serale all’Hotel Sheraton di Club des Pins, nota
spiaggia esclusiva poco lontano da Algeri. Io ero felice per lui, ma triste perché sapevo che il nostro
sodalizio era terminato. Avrei dovuto proseguire da solo la mia missione e la mia vita priva di scopo
esistenziale, tra gente senza scrupoli, che se avesse potuto mi avrebbe strappato il cuore dal petto
con le proprie mani, per mangiarselo ancora grondante di sangue.
Di lì a poco infatti lui rientrò a Roma ed a me arrivò la proposta di passare ai Servizi Segreti
Militari, con cui già collaboravo. Quello stesso giorno inviai la mia domanda di congedo dall’Arma.
Ero nella grande sala partenze dell’aeroporto internazionale Houari Boumediene di Algeri quando
notai una bella donna, verosimilmente italiana, parlare in un francese stentato con il venditore in un
negozio di datteri. Reprimendo una volta tanto l’abitudine di farmi i fatti miei, le feci cenno di
lasciar perdere. L’Algeria produce datteri, come i pregiatissimi “Deglet Noir”, tra i migliori al
mondo, sebbene poco esportati a causa della concentrazione degli interessi nazionali solo su gas e
petrolio, ma quelli venduti all’aeroporto sono scandenti e spesso mal conservati. L’estate poi non è
periodo di datteri.
“Grazie del consiglio” rispose con un sorriso la donna, porgendomi la mano.
Ci presentammo ed io gliela strinsi imbarazzato, spiegandole che in quel paese avevo perso
l’abitudine al gesto, che nel paese era tipicamente scambiato solo tra uomini.
Il lungo vestito estivo, chiaro, a motivi floreali, ne metteva in risalto la forma snella e slanciata. I
capelli neri corti, tagliati poco sotto le orecchie, rendevano il volto giovanile. Le strappai il secondo
sorriso quando le rivelai che portavo il suo stesso nome di battesimo, in versione maschile.
Con Federica continuammo a chiacchierare nella grande sala di imbarco dell’aeroporto, dove
l’attesa si protrasse per via del ritardo del nostro volo per Roma Fiumicino. Sorseggiando thè alla
menta, emerse che lei era responsabile di una nascente organizzazione senza scopo di lucro, dedita
alla protezione dell’infanzia in Nord Africa: programmi di supporto alla scolarizzazione, di
individuazione di bambini disabili, con disagi o ritardi nell’apprendimento, di identificazione di
opportunità adottive in Italia, nonché di formazione del personale locale da rendere autonomo.
Il progetto mi coinvolse immediatamente, perché mi dava finalmente l’occasione per fare qualcosa
per quei bambini che avevo visto soffrire senza muovere un dito. Oltre tutto avevo una certa
disponibilità di denaro di cui non sapevo cosa fare. Scoperto che la sede della ONLUS era nello
stesso quartiere di Roma Sud dove ancora conservavo l’appartamento di famiglia, non potei far a
meno di prometterle una visita nei giorni successivi.
Federica, non appena il mio congedo divenne effettivo, mi convinse a passare da socio finanziatore
a socio lavoratore, come Responsabile Relazioni con le autorità italiane e quelle dei paesi
interessati. Questa vicinanza professionale portò, nel giro di alcuni mesi, in maniera tanto spontanea
quanto imprevedibile, ad un nostro ulteriore avvicinamento. Anche Federica infatti aveva dedicato i
migliori anni della propria vita esclusivamente al lavoro, e cominciava a soffrirne. D’altronde
difficilmente qualcuno al di fuori della sua cerchia lavorativa avrebbe tollerato certi ritmi di vita.
La sera in cui, dopo l’ennesima cena di mezzanotte nel ristorante di quartiere, al momento di
salutarci ci baciammo sulle labbra, nessuno dei due ne rimase turbato, tutt’altro.
Adesso cerchiamo di gestire meglio i nostri orari, ma sappiamo che nel nostro lavoro possiamo
contare sul supporto e la piena comprensione dell’altro. Nessuno dei due ha ancora mai parlato di
matrimonio ma, dopo due anni di relazione stabile, abbiamo recentemente smesso di proteggere i
nostri rapporti e sento che presto una nuova vita si unirà alla nostra famiglia.
La cosa che mi lascia ancora con un sentimento di stupore e di piccolezza verso il destino, Mektoub
come dicono gli algerini, specialmente quando guardo le foto appese alle pareti di casa nostra, che
mi ritraggono in uno dei tanti viaggi, è che per incontrare l’amore e la felicità che mi attendevano a
pochi isolati da casa, abbia avuto necessità di percorrere tante migliaia di chilometri.
FINE.