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OSSERVAZIONI SULLA RESPONSABILITA’ NELLA MEDIAZIONE CIVILE
di Marco Pennisi
Nell’esame dei profili di responsabilità sottesi alla disciplina sulla mediazione, di cui al d.lgs n.
28/2010 ed al D.M. n. 180/2010, occorre affrontare principalmente tre questioni interpretative,
attinenti all’individuazione degli obblighi del mediatore, la cui violazione è fonte di responsabilità a
suo carico; alla qualificazione della natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità
civile, in stretta connessione con i diversi rapporti che si instaurano tra il mediatore, le parti e
l’organismo di conciliazione; nonché all’analisi della natura e del fondamento della responsabilità
dell’organismo di conciliazione per i danni recati dalla propria condotta illecita e da quella del
mediatore.
Sotto il primo aspetto, è possibile notare come gli obblighi normativamente imposti al mediatore
designato dall’organismo di conciliazione, in ottemperanza alle indicazioni desumibili dalla legge
delega e dalla direttiva siano, di volta in volta, riconducibili ai principi di riservatezza, imparzialità,
celerità o diligenza nello svolgimento di un’attività funzionale a favorire, anche attraverso la
formulazione di una proposta, il raggiungimento di un accordo di conciliazione.
In particolare, con riferimento al principio di riservatezza, il d.lgs n. 28/2010 stabilisce (art. 3 comma
2) che il modello di procedimento descritto dal regolamento dell’organismo deve tutelare la privacy,
imponendo al mediatore (art. 9) di svolgere l’attività di mediazione nel rispetto della riservatezza
delle parti, in particolar modo in relazione alle informazioni e dichiarazioni acquisite nelle sessioni
separate, specificando (art. 10) che, sul contenuto delle dichiarazioni ed informazioni rese nel corso
del procedimento, il mediatore non possa essere tenuto a deporre, trovando applicazione, nei suoi
confronti, le garanzie previste dall’art. 200 (segreto professionale) e 103 (libertà del difensore) c.p.p.
Inoltre, l’art. 7 DM n. 180/2010 rinvia al Codice della Privacy per la disciplina del trattamento dei dati
personali, della quale, per quanto concerne i profili di responsabilità, è interessante richiamare l’art.
15, che, sotto la rubrica “danni cagionati per effetto del trattamento”, stabilisce (comma 1) che
“chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al
risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile”, con conseguente individuazione di una
forma di responsabilità civile aggravata che comporta l’obbligo di risarcire i danni, anche non
patrimoniali (comma 2), derivanti dall’attività di trattamento dei dati personali, normativamente
considerata di per sé pericolosa, che sia stata esercitata in modo illegittimo.
L’imparzialità, espressamente richiamata nella stessa definizione normativa di mediazione di cui agli
artt. 1 lett. a) del d.lgs n. 28/2010 ed 1 lett. c) del D.M. n. 180/2010, si estrinseca, da un lato,
nell’obbligo del mediatore di sottoscrivere, prima dell’inizio del procedimento, una formale
dichiarazione di imparzialità, segnalando tempestivamente alle parti e all’organismo le eventuali
cause ostative di uno svolgimento imparziale dell’incarico; dall’altro, nel divieto di percepire dalle
parti compensi e nel divieto di assumere diritti o obblighi connessi con gli affari trattati (art. 14
comma 1 d.lgs 28/2010), al fine di evitare che il mediatore possa essere indotto a svolgere l’incarico
in modo non equilibrato, sostenendo maggiormente le ragioni di una determinata parte a scapito
dell’altra.
Con riferimento al principio di celerità nello svolgimento dell’incarico, il d.lgs n. 28/2010 prevede due
termini acceleratori, all’art. 8 comma 1, secondo cui il primo incontro deve essere fissato nei quindici
giorni successivi al deposito della domanda ed all’art. 6 comma 1, che stabilisce che il mediatore ha
l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine di quattro mesi.
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Questi termini, tuttavia, in difetto di una esplicita previsione normativa, non hanno carattere
perentorio e la loro inosservanza non determina conseguenze negative in termini di validità del
procedimento o di responsabilità a carico dell’organismo o del mediatore.
Si è osservato come il decorso del termine di quattro mesi senza che il procedimento sia concluso,
anche nelle ipotesi di tentativo di conciliazione il cui espletamento è richiesto a pena di
improcedibilità, non determini alcuna decadenza, ma legittimi le parti ad intraprendere l’azione
giurisdizionale, senza dover attendere che si definisca tardivamente, in senso positivo o negativo, il
procedimento di mediazione.
Questo termine, il cui decorso può altresì giustificare il rifiuto di accettare l’eventuale proposta
tardivamente formulata, è funzionale alla fissazione della data della nuova udienza da parte del
giudice, nel caso di mediazione demandata ovvero di mediazione obbligatoria, quando il convenuto
eccepisca in giudizio il mancato espletamento del tentativo o il mancato esaurimento della procedura
senza l’avvenuto decorso del termine di quattro mesi dal suo inizio.
Sotto il profilo dello svolgimento diligente dell’attività, occorre innanzitutto osservare come tale
principio riguardi l’intera attività del mediatore, comprensiva, oltre che dei suesposti profili di
imparzialità, riservatezza e celerità, anche di specifici adempimenti richiesti dalla normativa sulla
mediazione, la cui inosservanza determina altrettante ipotesi di responsabilità del mediatore.
Tra questi obblighi specifici è possibile richiamare, ad esempio, la necessità che la proposta
eventualmente formulata non violi le norme imperative e l’ordine pubblico (art. 14 comma 2 lett. c,
d.lgs n. 28/2010); gli specifici obblighi di segnalazione, penalmente sanzionati, previsti dalla
normativa antiriciclaggio; la formazione del processo verbale di conciliazione o di mancata
conciliazione (con indicazione della proposta) e la relativa funzione certificativa dell’autenticità delle
firme delle parti, salvo che l’accordo conciliativo abbia contenuto illecito, atteso che in questo caso si
ritiene che l’autenticazione delle firme, strumentale alla successiva omologazione giudiziale del
verbale di accordo che non sia contrario alle norme imperative e all’ordine pubblico (art. 12 d.lgs n.
28/2010), non possa essere posta in essere dal mediatore.
Le previsioni normative sullo svolgimento dell’attività di mediazione, peraltro, non precisano, in
termini generali, lo standard di diligenza richiesto al mediatore che si adopera affinché le parti
raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia insorta (art. 8 comma 3).
Malgrado l’assenza di espresse indicazioni normative, la misura della diligenza richiesta è superiore a
quella ordinaria di cui al comma 1 dell’art. 1176 c.c., commisurandosi alla diligenza professionale
(comma 2) che ha, come modello di riferimento, il mediatore-conciliatore medio.
In particolare, questo più elevato livello professionale di diligenza può ricostruirsi sulla base della
normativa in esame, la quale richiede che il mediatore sia un professionista specializzato e
competente, in quanto in possesso, oltre che di determinati requisiti di onorabilità, anche di una
preparazione professionale che riguardi non soltanto la specifica materia su cui verte la controversia,
ma soprattutto la normativa di riferimento e le tecniche di mediazione, cioè le leges artis che
presiedono ad una corretta, imparziale ed efficace attività di mediazione, in modo funzionale alla
migliore assistenza delle parti al fine di favorire il raggiungimento dell’accordo di conciliazione.
D’altra parte, occorre osservare come la disciplina normativa, tra i requisiti di qualificazione per
l’esercizio delle funzioni di mediatore, consideri sufficiente un titolo di studio almeno pari al diploma
di laurea universitaria triennale o, in alternativa, l’iscrizione ad un collegio o ordine professionale, in
tal modo evidenziando la volontà legislativa, da un lato, di rendere trasversale la possibilità di
accesso all’attività di mediazione-conciliazione e, dall’altro, di prescrivere un percorso formativo
specifico ed ulteriore rispetto a quello proprio delle singole esperienze professionali, e ciò anche
rispetto a quelle categorie (magistrati in quiescenza; professori universitari in discipline economiche
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o giuridiche; professionisti iscritti da almeno quindici anni ad albi professionali nelle medesime
materie) che, nella precedente conciliazione societaria, integravano le figure dei c.d. “conciliatori di
diritto” (DM 222/2004), in quanto dispensate dal frequentare appositi corsi di formazione.
Sotto il profilo della natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità civile derivante
dall’inosservanza del dovere di diligenza da parte del mediatore, occorre osservare come la
questione si colleghi strettamente, da un lato, alla natura del rapporto giuridico che si instaura tra il
mediatore e l’organismo di conciliazione e, dall’altro, alla configurabilità o meno di un rapporto
giuridico tra il mediatore e le parti.
Il problema si pone, in quanto il mediatore svolge l’attività di mediazione nei confronti di soggetti con
cui non intrattiene relazioni negoziali, dal momento che egli risulta essere legato contrattualmente
soltanto nei confronti dell’organismo di conciliazione, dal quale riceve il compenso e per conto del
quale esegue la prestazione di assistenza alle parti.
Le parti, a loro volta, sono contrattualmente legate solo nei confronti dell’organismo di conciliazione,
al quale hanno indirizzato la domanda di conciliazione.
In questo senso, già con riferimento alla mediazione societaria prevista dal d.lgs n. 5/2003, si è
ritenuto che, non essendo configurabile alcun rapporto negoziale con le parti, il mediatoreconciliatore potrebbe rispondere nei confronti di queste solo in via extracontrattuale, per mera
violazione del principio del neminem laedere.
Secondo un diverso e più recente orientamento, invece, ferma la responsabilità contrattuale
dell’organismo di conciliazione nei confronti delle parti, rispetto al mediatore può configurarsi una
responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato, in parallelo con le ricostruzioni
giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria e di
responsabilità degli insegnanti per le autolesioni degli alunni, ritenuta configurabile malgrado
l’insussistenza della stipulazione diretta di un contratto tra medico e paziente o tra insegnante ed
alunno.
Si è infatti osservato che, anche se tra il mediatore e le parti non è stato stipulato alcun contratto, la
previsione di una specifica disciplina normativa della mediazione-conciliazione, unitamente
all’affidamento delle parti in ordine alla professionalità ed alla competenza del mediatore, induce a
ritenere come ragionevolmente sussistente un rapporto che, sebbene non qualificabile come
contrattuale in senso stretto, non si riduce nemmeno al mero rispetto del principio del neminem
laedere, alla cui osservanza è sottoposto il quisque de populo, ma determina il sorgere di obbligazioni
corrispondenti a quelle prescritte dalle norme che regolano il rapporto e che trovano il loro
fondamento non già nella stipulazione di un contratto, bensì in quegli altri atti o fatti idonei a
produrle secondo l’ordinamento giuridico, che l’art. 1173 c.c. prevede quali fonti residuali delle
obbligazioni.
Pur ritenendo condivisibile la tesi che riconduce la responsabilità del mediatore a quella contrattuale
da contatto sociale qualificato, anche nell’ottica funzionale della più efficace tutela giuridica che la
disciplina della responsabilità contrattuale offre alle parti di un procedimento di mediazione (per il
cui svolgimento, peraltro, la normativa non richiede l’obbligatorietà dell’assistenza legale), occorre
tuttavia precisare che l’accostamento del rapporto mediatore-parti a quelli medico-paziente o
insegnante-alunno non implica una piena sovrapponibilità sotto il profilo della loro struttura.
In altri termini, mentre l’insegnante e il medico dipendente sono legati, rispettivamente, all’istituto
scolastico e alla struttura ospedaliera da un rapporto caratterizzato da una subordinazione, il
mediatore è legato all’organismo di conciliazione da un contratto di prestazione d’opera intellettuale
(art. 2230 c.c.), senza che sia decisivo rilevare, in senso contrario, che l’art. 9 comma 2 DM n.
180/2010 stabilisca che il mediatore designato non possa rifiutarsi di svolgere la mediazione.
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Infatti, da un lato, la norma in questione, rispetto al divieto di rifiuto, pone sullo stesso piano anche
l’organismo di conciliazione iscritto (che, nell’ottica di un rapporto di lavoro subordinato, sarebbe la
parte datoriale); dall’altro, la ratio della norma non intende descrivere il rapporto in termini di
subordinazione, volendo piuttosto garantire che, a seguito dell’iscrizione, gli organismi e i mediatori
si facciano carico, prontamente e senza possibilità di ingiustificato rifiuto, di far fronte alla domanda
di mediazione, soprattutto in relazione alle ipotesi in cui il tentativo è previsto come condizione di
procedibilità, in cui si potrebbe determinare un ostacolo per l’accesso alla giurisdizione.
Con riferimento, infine, alla responsabilità dell’organismo di conciliazione per i danni subiti dalle parti
nello svolgimento dell’attività di mediazione, appare incontroversa la natura contrattuale della
stessa, in considerazione del rapporto negoziale che intercorre tra l’organismo e le parti.
Tale responsabilità nei confronti delle parti è diretta, quando si tratta di un inadempimento dovuto
ad un comportamento dello stesso organismo di conciliazione, come ad esempio nel caso della
violazione del divieto di assumere diritti ed obblighi connessi con gli affari trattati dai mediatori che
operano presso l’organismo (art. 15 del regolamento).
Rispetto ai danni cagionati dall’inadempimento del mediatore, il fondamento della responsabilità
contrattuale dell’organismo di conciliazione può essere ricostruito richiamando l’elaborazione
giurisprudenziale formatasi rispetto all’analoga ipotesi della responsabilità della struttura ospedaliera
per il comportamento lesivo del medico dipendente.
In relazione a quest’ultima, infatti, la Suprema Corte (Cass. sez. III 8.1.1999 n. 103) ha individuato il
fondamento della responsabilità struttura ospedaliera nel rapporto di ausiliarietà (art. 1228 c.c.) che
intercorre tra essa ed il medico dipendente e successivamente ha precisato che “la responsabilità
della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai
sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonchè,
ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta
direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro
subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua
organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti
essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto” (così Cass. Sez III
14/6/2007 n. 13953, che richiama Cass. sez. un., n. 9556/2002 e Cass. n. 13066/2004).
L’arresto giurisprudenziale da ultimo richiamato, nella misura in cui ritiene di poter estendere
l’applicabilità dell’art. 1228 c.c. anche a rapporti tra struttura sanitaria (debitrice) e medico
(ausiliario) che, pur non caratterizzati dalla subordinazione, presentino un collegamento tra la
prestazione eseguita e l’organizzazione aziendale, può indurre a ritenere estensibili le medesime
conclusioni anche alla mediazione civile, in considerazione dell’analogia strutturale dei rapporti.
Pertanto, anche rispetto alla mediazione civile, in cui non è riscontrabile il carattere della
subordinazione tra organismo di conciliazione e mediatore, ma un collegamento tra la prestazione e
l’organizzazione, è possibile affermare che la responsabilità contrattuale dell’organismo di
conciliazione per i danni arrecati dal mediatore nello svolgimento dell’attività di mediazioneconciliazione, anche nel caso in cui la designazione di un determinato mediatore sia indicata dalle
stesse parti (ex art. 7 comma 5 lett. c), trovi il proprio fondamento nell’art. 1228 c.c.
Marco Pennisi
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