“Poltergeist” (1955) - Viaggiare in Puglia

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“Poltergeist” (1955) - Viaggiare in Puglia
“Poltergeist-Demoniache presenze” (1982)
Regia: Tobe Hooper
Regia: Tobe Hooper
Genere: Horror
Sceneggiatura: Steven Spielberg, Michael Grais, Mark Victor
Interpreti: Craig Nelson, JoBeth Williams, Oliver Robins, Heather O'Rourke
Fotografia: Matthew F. Leonetti
Musiche: Jerry Goldsmith
Scenografia: James H. Spencer
Montaggio: Michael Kahn e Steven Spielberg
Durata: 113 min.
Una tranquilla famigliola americana, Steve e Diane Freeling con i loro tre figli (due
femmine e un maschio) si trasferisce nel quartiere residenziale di Cuesta Verde.
Si dovranno destreggiare tra oggetti volanti, sedie vaganti (che inizialmente divertono
Diane) alberi assassini.
La piccola di casa, infatti, la biondissima Carol Anne, inizierà a chiacchierare con il
televisore, spesso anche dopo che la programmazione è terminata... i familiari attoniti
non sanno darsi una spiegazione…la piccola comunica attraverso la TV con le anime
irrequiete dei defunti, bramosi di tornare a vita terrena. Improvvisamente Carol Anne
sparirà inghiottita dal televisore. Per farla tornare da quella dimensione intermedia,
limbo tra la vita e la morte ci vorranno tutto l’amore e la fatica dei suoi genitori accompagnati da una medium e da tre esperti in parapsicologia.
Ma ciò non basta: ancora più incattiviti i Poltergeist (parola di origine tedesca che letteralmente si traduce con “spirito chiassoso”) si mostrano anche fisicamente: ed ecco
allora che i corpi senza vita sepolti in un cimitero sottostante la casa emergono im-
provvisamente dal suolo. Si scoprirà, infatti, che sotto le case di Cuesta Verde c’era
una vera e propria necropoli indiana lasciata lì da un costruttore senza scrupoli.
Tobe Hooper con la regia di “Poltergeist” risale un po’ la china della sua carriera, in
ripida discesa dopo una serie di passi falsi successivi alla sua prima insuperabile opera “Non aprite quella porta”, la mano di Steven Spielberg, ufficialmente in veste di
produttore, ma è noto che c’è del suo anche nella gestione tecnica, fa il resto.
Il film, infatti, riesce a districarsi tra critica sociale, effetti speciali d’avanguardia, una
buona dose di tensione e tanto gore (va citata la scena in cui Diane praticamente nuota in un lago di cadaveri, sequenza che ritroviamo nel 1985 in “Phenomena”).
La pellicola, infatti, presenta situazioni che riflettono condizioni reali ed è piena di
spunti e tematiche che usa coerentemente. Primo esempio fra tutti la scelta del televisore come luogo da cui comunicano gli spiriti. Protagonista indiscussa del secolo
scorso, spesso migliore compagna di giochi dei più piccoli, alle vecchie cantine buie
i bimbi non ci credono più, alle chiese sconsacrate e ai cimiteri tanto meno… di un
televisore, invece, qualunque bambino si fiderebbe ciecamente. Altro argomento
esplicitamente e aspramente criticato, le speculazioni edilizie. Le manifestazioni spiritiche sono, in fondo, le fatali conseguenze dell’avidità e dell’egoismo del costruttore.
Una grande conferma di come con un budget ridotto si può girare un bel film che oltre vent’anni dopo non perde carattere.
“Poltergeist” è stato un successo di botteghino mondiale, diventando l’ottava distribuzione di sempre e il film horror dal più elevato guadagno del 1982 e la MetroGoldwyn-Mayer ha annunciato un rifacimento nel 2008.
Infine, due parole sulla celebre leggenda che vuole “Poltergeist” film maledetto. Purtroppo la lista è lunga: la prima a incontrare sorte sfortunata fu Dominique Dunne (interpretava la figlia più grande Dana) che morì strangolata dall’ex-ragazzo, dopo di lei
toccò a Heather O’Rourke: se ne andò nel 1988 per un’infezione intestinale, inoltre,
durante le riprese del secondo e terzo sequel si verificarono altri due decessi. Per non
parlare delle storie (la cui veridicità non è mai stata accertata) che circolano intorno a
ciò che avvenne durante la lavorazione del film: feriti, esorcismi, incendi.
“Amityville Horror” (1979)
Regia: Stuart Rosenberg
Regia: Stuart Rosemberg
Genere: Horror
Sceneggiatura: Sandor Stern
Interpreti: Rod Steiger, James Brolin, Margot Kidder, John Larch
Fotografia: Fred J. Koenekamp
Musiche: Lalo Schifrin
Scenografia: Kim Swados
Montaggio: Robert Brown Jr.
Durata: 116 min.
Dal libro di Jay Anson: il 18 dicembre 1975 1974: in una casa in riva al fiume, in una
piccola città americana, un ragazzo uccide i propri genitori ed i suoi fratelli, spinto a
suo dire, da voci misteriose.
L’anno successivo, i coniugi George e Kathy Lutz acquistano la casa in riva al fiume
incoraggiati dal prezzo particolarmente basso, e ci vanno a vivere con i tre figli di lei,
avuti da un precedente matrimonio. Un amico di Kathy, il reverendo Delaney, però è
convinto che la casa sia sotto l’influsso del Diavolo, perchè è stata costruita in un luogo dove tempo addietro si svolgevano riti satanici; ma dopo aver cercato inutilmente
di mettere in guardia i Lutz, padre Delaney muore di una malattia misteriosa, mentre
la vita della famiglia Lutz è turbata da strani fenomeni, il carattere di George cambia
spaventosamente e la piccola Missy dice di parlare spesso con un’amica invisibile.
Stuart Rosenberg, regista discontinuo e incline a una certa virulenza, in questo film
ha lavorato con efficacia.
“Gli invasati-The Haunting” (1963)
Regia: Robert Wise
Regia: Robert Wise
Genere: Horror
Sceneggiatura:
Interpreti: Claire Bloom, Lois Maxwell, Richard Johnson, Julie Harris
Fotografia: Davis Boulton
Musiche: Humphrey Searle
Scenografia: Elliot Scott e John Jarvis
Montaggio: Ernest Walter
Durata: 112 min.
Nei suoi 90 anni di esistenza, Hill House, la dimora dei Crain, si è costruita una sinistra fama. Qui hanno trovato morte violenta le due mogli del proprietario. Vi è invecchiata, senza mai lasciare la camera dei bambini, la figlia Abigail; ed è stata trovata
impiccata, suicida, la sua dama di compagnia, che aveva ereditato la magione. Si racconta che strani fenomeni accadano tra le pareti senza angoli retti e gli accessi sbilenchi dell'enorme casa.
Studioso di parapsicologia, il dottor Johnson riunisce nella dimora di Hill House
(New England), per un esperimento di percezione extrasensoriale, tre persone: l’erede
della proprietà e due donne. Viene raggiunto dalla moglie. Epilogo tragico.
Nel 1959 la scrittrice Shirley Jackson scrive “The Haunting of Hill House”. Quattro
anni dopo, Robert Wise dirige “Gli invasati” che diventerà un capostipite della cine-
matografia horror dove l’elemento psicologico la fa da padrone e dove il fuori campo
e l’elemento sonoro (quest’ultimo nella fattispecie) contribuiscono a creare la paura.
Molto di quello che viene suggerito allo spettatore viene palesemente nascosto visivamente e lasciato all’immaginazione dello spettatore stesso che viene catapultato in un
contesto psicologico impegnativo dove la predisposizione mentale di chi assiste alla
visione può fare la vera differenza emozionale agli eventi che si succedono.In una
ideale classifica dei film di fantasmi o, più in generale, del cinema di paura, “Gli invasati” figurerebbe ai primi posti. Il capolavoro di Robert Wise, secondo la maggior
parte dei critici; un horror potente ed ambiguo, giocato su minimi elementi visivi e
sonori, in grado di costituire un modello inarrivabile di tensione e costruzione narrativa.
Pur senza trascurare la dimensione visiva (corridoi, porte, scale), Robert Wise punta
sulla colonna sonora, su voci e rumori attraverso i quali la casa maledetta s’impossessa dei suoi visitatori e spaventa gli spettatori. Giocato sull’omissione, il dubbio, l’incertezza, il film rimane ambivalente, sul doppio binario dell’obiettività e della soggettività, senza decidere mai se gli avvenimenti straordinari, o paranormali, vissuti dai
personaggi sono il risultato di un’azione dell’ambientare o il frutto della sensibilità
ipereccitata di qualcuno di loro. La casa era davvero stregata o i protagonisti, in preda
ad un delirio allucinatorio erano loro stessi gli artefici dei fenomeni percepiti?
Uno dei più bei film sulle case stregate di tutti i tempi, dove l’orecchio prevale sull’occhio come veicolo di angoscia. Avveniristica cura degli effetti sonori e delle musiche di Humphrey Searle che usò effetti elettronici e a scale musicali incise a rovescio divenne il punto di riferimento per gli anni a venire. Non da meno la scelta di
Wise di girare in bianco e nero quando già nel ‘60 il colore era diventato oramai uno
standard di fatto, decisione che inutile negarlo volse senza ombra di dubbio a vantaggio dell’atmosfera del film. Bravi gli attori.
“Possession” (1981)
Regia: Andreij Zulawski
Regia: Andreij Zulawski
Genere: Horror
Sceneggiatura: Frederic Tuten, Andreij Zulawski
Interpreti: Isabelle Adjani, Sam Neill, Margit Carstensen, Johanna Hofer
Fotografia: Bruno Nuytten
Musiche: Andrzej Korzynski
Montaggio: Marie-Sophie Dubus, Suzanne Lang-Willar
Durata: 120 min.
Semplicemente uno dei film più allucinanti e disturbanti di ogni tempo.
Il cinema di Andrzej Zulawski è considerato una sorta di tumore informe all’interno
della cinematografia mondiale, e “Possession” ne è la pellicola più emblematica, in
cui Isabelle Adjani (premiata a Cannes) mette i brividi e firma la sua interpretazione
più convincente.
Si è scritto tanto su “Possession”, film maledetto (ancora oggi non è chiara la sua durata effettiva), venerato da David Lynch, il quale alla consegna del Leone d’oro alla
carriera a Venezia nel 2006 lo definì la pellicola più completa degli ultimi trent’anni:
horror metafisico, boutade onirico-visiva, opera provocante e malata.
In realtà il film più celebre e celebrato di Zulawski altro non è che una storia sul fallimento del rapporto di coppia. Certo, i motivi di ermetismo, se non di vero e proprio
depistaggio, sono molti e disseminati non sempre con coerenza (o forse proprio per
via dei numerosi tagli che la pellicola ha dovuto subire) durante tutta la durata della
pellicola. Solo altri film maledetti come “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e “Can-
nibal Holocaust” hanno subito sequestri ed incomprensioni da parte della critica al
pari di “Possession”.
Siamo nella Berlino della cortina di ferro; una Berlino immaginaria, le cui strade e
piazze sono vuote quasi come se ci si trovasse all’interno di un sogno, o di un’opera
di De Chirico, o ancor meglio, di Magritte. In un appartamento a ridosso del muro,
metaforicamente a simboleggiare il bene e il male, maschile e femminile, vivono
Marc ed Anna, interpretati da due bravissimi Sam Neal e Isabelle Adjani, coppia sposata con pargoletto di cinque anni. I due sono in crisi; Marc scopre che la moglie lo
tradisce con Heinrich, uno strano personaggio (interpretato da un altrettanto straordinario Heinz Bennet) dedito all’uso costante di droghe che lo aiutano ad intraprendere
dei favolosi viaggi onirici in cerca di Dio.
Per questo motivo Marc, che lavora nei servizi segreti tedeschi, decide di abbandonare il lavoro. I suoi datori di lavoro (loschi agenti segreti berlinesi) gli propongono un
periodo di riflessione e nel frattempo lo incaricano di un tanto bizzarro quanto misterioso incarico: ritrovare uno strano tizio ricercato il cui unico indizio sembra essere
quello di portare dei calzini rosa.
Esasperato dai comportamenti di Anna, Marc si affida quindi ad un investigatore privato. Questi, dopo averla pedinata lungo le strade di una Berlino inquietante ed irreale, la segue con una scusa fin dentro l’appartamento che la donna ha preso in affitto.
Da lì scopre l’orripilante verità. Anna ha un secondo amante, un rivoltante essere polipesco con il quale si accoppia regolarmente. Anna elimina quindi il poliziotto ed il
suo successivo aiutante che si era recato nell’appartamento a cercarlo.
A questo punto Marc si rivolge ad Heinrich e questi decide a sua volta di far visita ad
Anna. Dopo avere anch’egli scoperto l’allucinante verità, si salva dalle pugnalate di
un’inferocita Anna, ma viene ucciso da Marc nei bagni del bar situato proprio sotto la
casa di lei. Da qui il grande ed apocalittico finale: scopriamo che Anna ha generato
l’essere polipesco con un processo di partenogenesi nei corridoi della metropolitana
di Berlino, in quella che viene definita una delle scene più schoccanti della storia del
cinema. Anna ha partorito due esseri: bene e male, nero e bianco, est ed ovest, maschile e femminile. Il bene si è sviluppato in un’Anna ideale, buona compagna di
Marc e materna ed amorevole maestra d’asilo del piccolo figlio della coppia. Anna ha
custodito e allevato la parte maligna, il Male (il bene per Zulawski non è altro che un
riflesso del male) per farlo diventare un superuomo, il Marc ideale. In questa visione
nichilista si trova però uno spiraglio di luce: anche il male può diventare bene. Ma a
quale prezzo?
Si potrebbero scrivere fiumi di inchiostro sull’opera più controversa del grande regista polacco, che si addentra in territori così estremi da essere quasi impossibile analizzarli (in ultimo il suicidio finale del bambino, davvero terrificante: la coppia forse
nemmeno in questo momento può dirsi perfetta).
Citando Freud, Nietschze e Platone ed entrando nella metafisica junghiana Zulawski
mantiene una forte lucidità ideologica anche se non sempre unita ad una linearità narrativa (alla fine si scoprirà che l’uomo ricercato da Marc altri non è, forse, proprio colui che gli ha affidato l’incarico).
Il muro di Berlino è metaforico; tanto che in una scena, forse tagliata in fase di montaggio, il protagonista rinato avrebbe dovuto scappare attraverso i tetti della città proprio in quella Berlino Est temuta e sconosciuta, come sconosciuto è il nostro inconscio. Bene e Male devono unirsi: non dobbiamo avere paura della nostra Ombra se
vogliamo arrivare alla verità.
“Possession” fu presentato al Festival di Cannes nel 1981 e scandalizzò subito gli
spettatori benpensanti. Alcune scene furono immediatamente tagliate ma l’impatto
con la critica fu forte: Isabelle Adjani vinse la Palma d’Oro come miglior attrice protagonista e la pellicola incontrò i favori del pubblico non omologato.
A colpire gli spettatori furono soprattutto i dialoghi esasperati, le carrellate vorticose
e le scene di estrema violenza, o più che altro di una violenza fastidiosa, sconcertante,
sconveniente. La Adjani che si isola dal mondo (vero o inconscio?) eliminando tutti
coloro che cercano di entrarvi, mette davvero i brividi ed i messaggi che Zulawski
vuole lanciare vanno ben oltre l’horror metafisico.
Tuttavia, ritornando a quanto scritto in precedenza, l’opera di Zulawski può essere
considerata semplicemente come il tentativo di raccontare lo sfacelo di una coppia
borghese in crisi: in un’intervista lo stesso regista ha ammesso che in parte si è ispirato nello scrivere la sceneggiatura ad una sua vicenda personale.
Nemmeno altri film grandiosi quali “Eyes Wide Shut” o “Shining” sono forse riusciti
ad esprimere così bene la crisi di un uomo e una donna che forse si amano, ma non
riescono a comprendersi.
“Inferno” (1980)
Regia: Dario Argento
Regia: Dario Argento
Genere: Horror
Sceneggiatura: Dario Argento
Interpreti: Eleonora Giorgi, Alida Valli, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, S. Pitoeff
Fotografia: Romano Albani
Musiche: Keith Emerson
Montaggio: Franco Fraticelli
Scenografia: Giuseppe Bassan
Durata: 107 min.
Il film è incentrato su Rose Elliot, giovane poetessa newyorkese, che acquista un antico libro intitolato “Le Tre Madri”, scritto da Emilio Varelli, architetto alchimista di
cui si sono perse le tracce. Il libro racconta che Varelli ha conosciuto le tre madri degli Inferi: Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, Mater Lacrimarum, la Madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre e per loro ha costruito tre
case: una a Friburgo, una a Roma e una a New York.
Qui, ella scopre un appartamento sotterraneo completamente sommerso dall’acqua: in
un tripudio di rumori fuori sincrono, è aggredita da un cadavere decomposto e dal
quale con difficoltà riesce a liberarsi e tornare in superficie. Ha trovato l’antro di Mater Tenebrarum, una delle tre madri che governano il mondo e a cui l’architetto Varelli ha costruito tre dimore: questa di New York, un’altra a Friburgo abitata da Mater
Sospiriorum e l’ultima a Roma, dove impera Mater Lachrimorum la più bella e giovane delle tre. Ancora una volta elemento fondamentale è la musica, sia per quanto
riguarda la splendida colonna sonora composta da Keith Emerson, sia quando fa da
accompagnamento alle sequenze più terribili. Classico esempio è il massacro della
collega di studi di Mark e del suo vicino di casa, dove sulla base del “Và pensiero” di
Verdi e in un alternarsi di efficienza di energia elettrica si consumano i due omicidi,
con una sincronia di musica ed immagini veramente agghiacciante.
È qui l’essenza di “Inferno”, l’assurdità delle situazioni con la consapevolezza che ad
orchestrare tutto c’è il male assoluto, l’inferno tra noi.
Film quindi apparentemente poco comprensibile, affascinante, estremamente violento
e suggestivo, in cui la maestria nel girare di Argento si è fatta ancor più raffinata: carrellate esemplari come la sequenza dell’auditorium a Roma, dettagli di serrature che
si chiudono, la macchina da presa che segue le onde sonore attraverso dei tubi fino
alla orecchie di qualche oscuro ascoltatore nella dimora maledetta di New York.
Tutto questo il pubblico lo premiò con ottimi incassi, in molte parti del mondo