Perché siamo amici?
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Perché siamo amici?
Unità 6 I TEMI: IL VALORE DELL’AMICIZIA Elaine Lobl Konigsburg Perché siamo amici? Non so spiegare perché io e Branwell siamo diventati amici. L’amicizia secondo me non ha un perché, e se cerco di pensare alle ragioni per cui io e lui dovremmo essere amici, me ne vengono in mente altrettante per cui in teoria non dovremmo esserlo. Posso però dire con esattezza dove siamo diventati amici e da quando. Dove: all’asilo nido. Da quando: da sempre. Vi ho già detto che abbiamo praticamente la stessa età (lui è più vecchio di tre settimane), e fin dal giorno in cui sono nato le nostre strade si sono incrociate. In continuazione. I nostri padri lavorano tutt’e due all’università. Tutt’e due viviamo in Tower Hill Road, vicino al campus, e tutt’e due abbiamo passato gli anni dell’asilo nido e della scuola materna nel campus. L’amicizia si basa su incastri perfetti di tempo, luogo e stati d’animo. Ed ecco alcune delle cose in cui io e Branwell siamo diversi. Lui è stato allevato da un genitore single, mentre io ho sempre avuto una mamma. Branwell è figlio della prima moglie di suo padre, io della seconda moglie del mio. Lui ha una sorellastra più piccola, io una più grande. Nella mia famiglia c’è stato un divorzio. Nella sua un lutto. La madre di Branwell morì in un incidente d’auto quando lui aveva nove mesi. Le differenze tra le nostre famiglie non spiegano perché io e Branwell non dovremmo essere amici, almeno non più di quanto le somiglianze che ci accomunano spieghino perché dovremmo esserlo. Mettiamola così: la grossa differenza tra Branwell Zamborska e me è proprio Branwell. Lui è diverso da chiunque altro. Innanzitutto, in mezzo alla gente lo noti sempre. Primo perché è alto, secondo perché ha i capelli rossi. Ma nemmeno questo basta a spiegare perché è così diverso. A Branwell cadono i libri, di solito tutti insieme, almeno cinque volte al giorno. Se lui sta parlando ed è a metà di una frase, e per caso gli cadono i libri, lui li raccoglie e finisce la frase senza mai interrompersi. Branwell non è capace di colpire una palla con una mazza, né di centrare un canestro, e quando si scelgono i giocatori per una partita di calcio o di softball non è mai tra i primi a essere scelto. E quando non lo scelgono, sembra felice di stare a guardare quanto lo sarebbe di giocare. Branwell ha due gambe lunghissime, e sa correre. Anzi, è un ottimo corridore. Ma corre come un cammello, tutto ballonzolante, con le gambe che vanno per i fatti loro e il collo talmente proteso in avanti che il naso taglia il traguardo cinque minuti prima delle spalle. E così di solito la gente commenta la sua andatura, invece che la sua velocità, anche se spesso vince, si piazza tra i primi o si fa comunque notare. Perché siamo amici? È un ottimo musicista. Suona il piano e canta divinamente. Ma anche i suoi gusti musicali sono strani. Ascolta Mozart, Beethoven e i Beatles – i classici, insomma – ma non sa nemmeno se i Red Hot Chili Peppers, i Pearl Jam e gli Smashing Pumpkins sono gruppi musicali o roba che si mangia. E la cosa più strana di tutte è che non gli importa affatto di non saperlo. Quando Branwell va in bicicletta, gli si impigliano i pantaloni nella catena. Quando si siede accanto a te sulle gradinate, si siede troppo vicino. Quando ride per una battuta, ride troppo forte. Quando mangia pane burro e marmellata, gli resta un quintale di burro nell’apparecchio per i denti. Quando mi si siede troppo vicino, io gli dico di farsi più in là. Quando gli resta del burro nell’apparecchio, io gli dico di pulirsi. Quando gli si impigliano i pantaloni nella catena della bicicletta, io mi fermo e lo aspetto. Branwell deve aver ereditato la goffaggine dal padre, mentre io credo di aver preso la capacità di accettarla da mia madre. E c’è un’ultima cosa che va detta sul fatto di essere amici di Branwell. Sarà anche diverso, ma a lui nessuno rompe le scatole, perché tutti sanno che Branwell è molto più di un ragazzino che ti si siede troppo vicino e che ride troppo forte. Solo, non scelgono di diventare suoi amici. Io sì. E.L. Konigsburg, L’alfabeto del silenzio, trad. di M.M. Colombo, Mondadori