Intervento delle relatrici - La Cultura della Pace
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Intervento delle relatrici - La Cultura della Pace
Club Unesco ‘Federico II’ di Lucera LA CULTURA DELLA PACE Lucera, corte del Palazzo Cavalli, 3 ottobre 2009 Intervento delle relatrici I libri di testo di storia insegnano che il passato è un insieme di guerre intervallate da trattati di pace. La parola pace, in questa accezione, ha come significato quello di essere un intervallo, quasi una pausa tra le guerre. Le clausole di pace, per altro, riportano generalmente una serie di limitazioni e di atteggiamenti aggressivi dei vincitori sui vinti, compreso il racconto che si fa dei fatti, tanto è vero che comunemente si dice che la storia è scritta dai vincitori. Ogni pace così fatta contiene, dunque, in sé i motivi per scatenare di lì a poco una nuova guerra (come è successo dopo la I guerra mondiale). Poiché le guerre nascono nell'animo degli uomini ed è l'animo degli uomini che deve essere educato alla difesa della pace. “Ad ogni pagina litigi di papi e imperatori, guerre e pestilenze. Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla e le donne praticamente non ci sono mai. Una noia terribile”. Questo il giudizio lapidario che Jane Austen fa dire alla protagonista di Northanger Abbey del 1818, Catherine. Quando nei libri di storia si parla di donne, lo si fa parlando della “condizione femminile”, come se le donne fossero una categoria, o si parla di donne “eccezionali”, vale a dire una eccezione rispetto alle altre che non hanno mai parola e visibilità. Perché questo silenzio? Ha a che fare con il tema della pace? Cercheremo di rispondere a queste domande. È indubbio che la storiografia metta in evidenza la guerra e il conflitto armato, come è nelle parole di Jane Austen, vissuta più di due secoli fa. Se chiedessimo a un qualsiasi studente o persona acculturata se è vero il seguente enunciato: “I Normanni combatterono contro i Saraceni”, risponderebbe che è assolutamente vero. Invece è falsamente universale, o meglio è vero solo se ci riferiamo agli uomini, “ai normanni”, perché è un enunciato che non parla delle donne. Che cosa facevano le normanne e le saracene, mentre i loro compagni combattevano? Perché non si parla di loro, vale a dire di chi creava e manteneva la vita? L’esempio della storia più antica e famosa in ambito letterario mette in evidenza questa differenza tra uomini e donne: Possono illustrare bene questi concetti un’opera di Angelica Kaufmann e le parole di Omero sul mito di Ettore e Andromaca. È necessario recuperare queste pratiche di relazioni femminili, quelle che alcune storiche hanno chiamato “pratiche di creazione e ricreazione della vita”, che è in sostanza l’opera materna di civiltà e che rende possibile la convivenza. Sono le donne che si occupavano e si occupano essenzialmente di rendere più umano il mondo con la socializzazione dei bambini, la cura dei malati, l’alimentazione del gruppo. Non vogliamo sostenere che “per natura” le donne sono pacifiche e gli uomini “per natura” belligeranti. Sono sempre più numerosi gli uomini che praticano la non violenza, ma anche nel passato da Gandhi a Martin Luther King e Mandela in Sud Africa che ha fatto uscire il suo paese dall’appartheid senza spargimento di sangue e vendette reciproche. (come si può vedere nella sequenza della “Marcia del sale” tratto dal film sulla vita di Ghandi). Nel film è ben rappresentato quali sono le armi della nonviolenza: il non comportarsi da vittime o da nemici e far leva sulla propria forza morale contro la forza fisica. Le schiere di uomini vestiti di bianco che avanzano guardando negli occhi i soldati inglesi, armati di bastone, subiscono i colpi manifestando la propria forza morale senza presentarsi come vittime o come rassegnati, tanto da rendere esitanti i picchiatori. Quello che apre alla speranza della vittoria è il fatto che ci sia qualcuno, il giornalista, che è testimone e racconterà. Infatti la narrazione è fondamentale in queste pratiche. Quella dei marciatori è una scommessa che si gioca con e sul proprio corpo e consiste nel mettere in crisi l’interlocutore, il picchiatore, chi dà gli ordini, lo spettatore del film, rivolgendosi alla sua dignità, in una situazione di pericolo e di violenza, che generalmente suscita sentimenti di vendetta e di rabbia. Gandhi dichiarò di essersi ispirato per la nonviolenza alle pratiche delle suffragiste inglesi che andavano incontro ai poliziotti che le caricavano a cavallo, gettandosi tra le loro zampe e rimanendone travolte. Abbiamo numerosi esempi di mediazione femminile nella storia del passato e del presente. Maria di Castiglia si accampò in mezzo al campo di battaglia in segno di pace, come gli “scudi umani”, come ha fatto Rachel Carrie durante il conflitto tra Israele e Palestina, come la proposta di Simone Weil durante la guerra, che propose il “Progetto di formazione di infermiere di prima linea”. Si tratta di azioni simboliche che vanno oltre la loro efficacia concreta, che ci mostrano un modo diverso di agire nel mondo e un’altra misura, che non è quella della contrapposizione o della collaborazione. Le azioni di mediazioni femminili durante i conflitti sono spesso legate ai rapporti di parentela, di continuazione dell’opera materna, della cultura della nascita opposta a quella della morte. Acquista per questo particolare valore il gesto di madri storiche che diventano mediatrici di vita. Esempi: Eleonora d’Aquitania nel conflitto tra Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza terra, Jogelun, madre di Gengis Khan, che combatteva suo fratello. “Guarda bene – gli dice – da queste mammelle hai poppato / lupi siete che avete ormai morso / la placenta e tagliato il cordone ombelicale… E tu pensi: schiaccerò il nemico / e non vedi che è tuo fratello Jasar (da El libro secreto del Los mogoles, 1985). Altri esempi sono quelli delle Madres di Plaza de Majo e delle madri curde. Sino alla costruzione di un apparato diplomatico stabile, la politica estera si concentrava negli incontri personali. E spesso in questo tipo di relazioni erano impegnate le donne. Per esempio nel 1529 fu stipulata una pace tra Francia e Spagna, che va sotto il nome di “pace delle due dame”, raggiunta grazie alla mediazione di Luisa di Savoia, madre del re francese e Margherita d’Asburgo, zia di Carlo V e reggente dei Paesi Bassi. Tra i realisti, quelli cioè che sostengono che solo l’argomento della forza è significativo, e i pacifisti, che rispondono che la guerra è sempre sbagliata, restando però nell’immobilità, c’è un’altra strada, che non rimanda il far la pace ad un futuro, ma nelle pratiche di vita quotidiane e nelle forme concrete di una politica, che è orientata a far la pace qui ed ora o a cambiare “danza” o cornice, come direbbe Bateson. La prima cosa è combattere dentro di sé l’odio. Facciamo alcuni esempi: ricordiamo come Charlotte Salomon e Etty Hillesum, perseguitate dai nazisti, si sottraggono all’odio, continuando a vivere, amare, fare arte, lasciandoci preziose testimonianze che sono anche capolavori d’arte. Altro punto è accettare la propria vulnerabilità. 2 Dopo la strage dell’11 settembre con l'abbattimento delle torri, gli americani reagirono subito con una guerra, in cui sono state trascinate varie nazioni, compresa l’Italia, per l’incapacità di accettare la propria fragilità ed elaborarla. Oggi si vede che forse si potevano e si dovevano percorrere altre strade rispetto a una guerra all’Iraq prima e all’Afghanistan dopo, che non sta certo migliorando la condizione degli Afghani. Terzo punto è la necessità di agire sull’educazione e sul linguaggio e, all’occorrenza, modificare quest’ultimo, come anche l’assunzione di atteggiamenti nella vita quotidiana di relazione con gli altri. Sull’importanza dell’educazione e del linguaggio insiste Nurit Pelled, israeliana, la cui figlia Smadari, fu uccisa in un attentato suicida. Il linguaggio, dice, è un sistema classificatorio per cui ai bambini israeliani viene imposta la classificazione, imparando, così, a distinguere tra ebrei e non ebrei. Imparano che Gerusalemme è sempre stata la loro capitale, tranne che per 2000 anni. Con il “noi” apprendono l’odio per gli altri. “I nostri bambini – dichiara – muoiono perchè crescono secondo principi di discriminazioni tra sangue e sangue e sull’assunto che noi siamo più degli altri”. “Quando dico noi – aggiunge – non intendo noi israeliani, ma quelli che vedono la vita come la vedo io. Mi riferisco alle madri che si rifiutano di desiderare la vendetta per la morte dei loro figli, uccidendo i figli di un’altra donna. Noi siamo coloro che hanno pianto con la poeta russa Anna Achmatova, che conosceva lo stesso dolore, quando abbiamo guardato la nostra piccola bambina per l’ultima volta prima di girare le spalle e lasciarli nelle mani di estranei: “Perchè quella striscia di sangue ha lacerato il petalo della tua guancia?” Professoresse Anna Potito e Katia Ricci Relatrici 3