Scarica la versione stampabile
Transcript
Scarica la versione stampabile
Notiziario settimanale n. 582 del 15/04/2016 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace "Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri" don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù" 15/04/2016: Anniversario uccisione Vittorio Arrigoni Non si nasce fratelli ma si diventa esercitandosi ad ascoltare l'altro accogliendo la diversità dell'altro rinnovando la fiducia nell'altro. Enzo Bianchi Indice generale Editoriale......................................................... 1 Ribadire l'antifascismo: una precisazione per il consigliere Benedetti (di ANPI Massa)............................................................................................. 1 Guerre, terrorismi e propaganda mediatica (di Nanni Salio)...................... 2 Striscia la notizia ride dei profughi (di Marco Rovelli) .............................. 2 Evidenza...........................................................3 Non è alle viste (di Alessandro Gilioli)...................................................... 3 Sul Referendum NOTRIV del 17 aprile 2016. La dichiarazione del Movimeto Nonviolento (di Movimento Nonviolento)................................ 3 Gli argomenti della settimana........................4 Il sonno della ragione genera mostri. Meglio svegliarsi (di Pasquale Pugliese).................................................................................................... 4 Breve discorso delle cinque guerre e delle cinque dittature (di Peppe Sini) ................................................................................................................... 5 Contro la preparazione della guerra in Libia (di Pax Christi) .....................7 Una riflessione sulla maternità surrogata (di Caracal Anton) .....................7 Approfondimenti.............................................8 Referendum e trivelle (di Arturo Lorenzoni).............................................. 8 Trivelle in mare e incidenti (di Redazione Pressenza Italia) .......................9 Sequestrato il Muos, carabinieri nella base Usa. Procuratore: «Ho fatto solo il mio dovere».................................................................................... 9 Spese militari mondiali in crescita. Rete Disarmo: occorre cambiare direzione (di Rete Italiana per il disarmo)................................................ 10 Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili (di Fabio Pizzi) ................................................................................................................. 11 Occhio non vede… (di Simona Sforza).................................................... 11 Notizie dal mondo......................................... 12 Egitto - Arabia Saudita: Re Salman al Cairo per salvare al-Sisi (di Michele Giorgio)................................................................................................... 12 Perché l'autonomia di Rojava non è la separazione della Siria (di Chiara Cruciati)................................................................................................... 13 Notiziario TV.................................................14 Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" - Videolettura di Gianni Caputo (di Antonio Gramsci, Gianni Caputo).......................................... 14 Associazioni................................................... 14 “La Costituzione bene comune”. In un volume di novanta pagine tutte le ragioni del No alla “deforma” costituzionale Renzi-Boschi (di Coordinamento democrazia costituzionale)............................................. 14 1 Editoriale Ribadire l'antifascismo: una precisazione per il consigliere Benedetti (di ANPI Massa) Pubblichiamo un comunicato sulle posizioni del Consigliere Benedetti rispetto all'ODG presentato in Consiglio dal Cons. di RC Cavazzuti, ed inviato agli organi di informazione, sui quali purtroppo ancora non è apparso. Si chiede quindi l'aiuto a divulgarlo a tutti gli antifascisti. Seguirà poi altro comunicato relativo alle posizioni "storiche" di Frediani che sono simili a tante posizioni in cui emerge un oggettivo preconcetto verso la Resistenza, cosa contro la quale combattiamo putroppo da ormai decenni e che si sono consolidate in un revisionismo ideologico di parte. E' per questi motivi che la sensibilità antifascista, che la Costituzione sostiene, va coltivata da tutti! Una precisazione per il consigliere Benedetti. Torniamo a ripetere che bisogna intendersi bene sul termine antifascismo, se lo facessimo si eviterebbero tante incomprensioni, anche con esponenti della destra alla Benedetti, che come di solito un po’ strumentalizza le questioni. Infatti, nell’ultima querelle relativa alla richiesta di Rifondazione Comunista di una dichiarazione di intenti antifascisti da parte di chi utilizza degli spazi pubblici comunali, ha avanzato la proposta di chiedere anche una dichiarazione di anticomunismo. Capiamo la sua verve polemica, ma proviamo di nuovo a spiegare dove sbaglia. Per noi anche Benedetti, inteso nel suo ruolo istituzionale di Consigliere Comunale, è un antifascista, forse a sua insaputa, come lo sono e lo devono essere in base alla Costituzione tutti i rappresentanti dello Stato, fin nelle loro declinazioni territoriali più vicine ai cittadini. L’antifascismo non è una parte opposta ad una altra parte che si chiama fascismo. Mentre quest’ultimo è espressione di interessi di una parte ideologica, purtroppo negativa nella storia del paese, l’antifascismo è un superamento di tali interessi nell’interesse comune di tutti. È quindi un innalzare il livello del discorso politico, e per questo il suo valore è sancito dalla Costituzione. L’antifascismo come discorso di metodo ha ancor oggi una valenza importante per la nostra democrazia, lo ha ricordato in maniera chiaraCeccotti, Presidente del Consiglio Comunale, il giorno della Liberazione. Dichiarare l’antifascismo dovrebbe essere superfluo perché esso è valore insito nel nostro sistema, ma la contingenza politica nazionale e internazionale nella quale riemergono, senza alcuna contestazione di legalità, gesti, bandiere, parole d’ordine, simboli, slogan e azioni dichiaratamente di carattere fascista e nazista, rendono opportuno farlo. Rispetto alla provocazione sull’anticomunismo rispondiamo che l’ANPI non si configura mai in senso ideologico, non dovendo e non volendolo fare, dato che rappresenta tutto l’arco delle forze politiche antifasciste che contribuirono poi alla Costituzione. In tal senso l’ANPI non ha certo l’ambizione di distribuire patenti di antifascismo, più umilmente si pone a salvaguardia di tale valore, nulla di più. Un po’ divertitisuggeriamo a Benedetti di inoltrare la sua richiesta in Russia, dove tra l’altro ci hanno pensato da soli,nel 1991,quando misero al bando il PCUS, esprimendo una condanna sul come era stato gestito dal partito lo sviluppo del comunismo, ma non certo rigettando in sé l’ideale di una società più egualitaria e giusta. Gruppo di redazione: Antonella Cappè, Chiara Bontempi, Maria Stella Buratti, Marina Amadei, Daniele Terzoni, Federico Bonni, Giancarlo Albori, Gino Buratti, Massimo Pretazzini, Michele Borgia, Oriele Bassani, Paolo Puntoni, Roberto Faina e Severino Filippi. Rispetto al nostro paese c’è da chiedere quale comunismo si dovrebbe rinnegare. I comunisti, infatti, sono stati antifascisti per tutti i 20 anni del regime e ciò non fu certo un male, hanno fatto poi la Resistenza, la lotta di Liberazione, collaborato a scrivere la Costituzione e soprattutto assieme a tutte le altre forze antifasciste dell’arco costituzionale, nel dopoguerra hanno contribuito a costruire il paese ed il nostro sistema democratico. Nella nostra Associazione ci stanno con pari dignità popolari, socialisti, comunisti, repubblicani, azionisti, per parlare delle forze politiche storiche, e comunque tutti coloro che credono in una politica di alto valore etico che trova appunto il suo fondamento nell’antifascismo. ANPI Sezione Massa Guerre, terrorismi e propaganda mediatica (di Nanni Salio) Pubblichiamo questo articolo, scritto a gennaio da Nanni Salio, scomparso recentemente, che ci è stato segnalato dall'amico Enrico Peyretti e che è stato pubblicato sul numero del 15 febbraio 2016 di uova Società. Ricorrono in questi giorni 25 anni dalla prima guerra dei Bush contro l’Iraq, nel 1991. Un quarto di secolo è un periodo sufficiente per valutare successi ed errori e per cercare di dissipare la “nebbia della guerra” che sempre avvolge queste storie. The fog of war è l’opera di Errol Morris, regista di un bellissimo documentario su Robert McNamara, nel corso del quale questo illustre personaggio racconta 11 lezioni che avremmo dovuto apprendere dalla guerra (ma non abbiamo appreso!), di cui lui, come segretario della difesa ai tempi di Kennedy e del Vietnam, se ne intendeva. (The fog of War, di Errol Morris, disponibile in DVD, con sottotitoli in italiano; vincitore dell’Oscar 2004 per i documentari, ottimo strumento anche dal punto di vista educativo.) Subito dopo la fine della guerra fredda e gli eventi del 1989 nei paesi dell’Est europeo e del 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si diffuse la sensazione che si sarebbe entrati in una fase della storia che avrebbe segnato la fine delle guerre. Fu una speranza ingenua e al tempo stesso pericolosa perché portò a una generale disattenzione rispetto ai piani che il complesso militare-industriale-scientifico-mediaticocorporativo stava elaborando negli USA. Questi piani si riassumono nel progetto di costruzione del “secolo americano”, con il predominio assoluto e indiscusso della superpotenza statunitense: da un mondo bipolare a uno unipolare, per assicurarsi il controllo delle risorse, a cominciare dal petrolio. Per realizzarli si aumentano enormemente le spese militari e si utilizzano i servizi segreti per far circolare informazioni del tutto infondate. Contestualmente alla guerra in Iraq, nota come prima guerra del Golfo, anche se in realtà fu preceduta da quella tra Iran e Iraq negli anni 19801988, si scatenarono le guerre di secessione nei Balcani che portarono al disfacimento della Yugoslavia (1991-1995). Un altro evento che è necessario ricordare per comprendere cosa sta accadendo oggi è la guerra per procura dei mujaheddin in Afghanistan (1979-1989), finanziati e armati dagli USA, che contribuì, tra le altre cause, al decadimento dell’Unione Sovietica. Siamo abituati a vedere le ultime guerre in corso non come processi storici, ma come singoli eventi. Nel diffondere questo atteggiamento sono complici i media, che raramente svolgono un compito critico e fanno prevalere soprattutto la propaganda a favore di una o dell’altra fazione in guerra. Giornalismo di guerra, secondo il modello delle competizioni sportive, invece che giornalismo di pace. Per comprendere cosa è accaduto a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno colpito gli USA è necessario introdurre il concetto di “contraccolpo” (blowback), termine usato dalla CIA per descrivere le reazioni di altri paesi alle politiche di dominio progettate e sostenute dagli sttrateghi del Pentagono. Nella sua trilogia, Chalmers Johnson ne parla diffusamente e con grande competenza. Sono tre libri che occorre conoscere per comprendere radici e dinamiche delle crisi attuali (Gli ultimi giorni dell’impero americano. I contraccolpi della politica estera ed economica dell’ultima grande potenza, Garzanti, Milano 2003; Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, 2 Garzanti, Milano 2005; Nemesi. La fine dell’America, Garzanti, Milano 2008). Come sostiene Johan Galtung, il blowback è la terza legge della dinamica applicata alla politica internazionale: “a ogni azione corrisponde una reazione, una controforza”. Il terrorismo degli stati, esercitato dall’alto, con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal basso, di coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente civili, come peraltro fa il terrorismo di stato, che si limita a chiamare questi “deplorevoli” eventi “effetti collaterali”. Che cosa possiamo fare per cercare di dissipare la “nebbia della guerra”? Ecco alcuni passi da compiere: 1 – Contestualizzare gli eventi: ricostruire la storia dei paesi in guerra, attingendo alle molte fonti disponibili, soprattutto nei siti internet più affidabili, pur sapendo che tutti possono sbagliare e che la verità è una merce rara che viene nascosta dalla “nebbia della guerra”. Si possono consultare i seguenti siti internazionali: www.antiwar.com; www.znetitaly.altervista.org; www.transcend.org e tra quelli italiani segnaliamo: www.serenoregis.org, che contiene la traduzione degli editoriali settimanali di Johan Galtung. 2 – Non cedere al ricatto della paura: chiediamoci quali sono le minacce a cui dovremmo prestare maggiore attenzione. Nei paesi occidentali, la probabilità di morire per un attentato terroristico è da 100 a 1000 volte inferiore di quella di un incidente stradale o di una malattia terminale o indotta dagli squilibri e inquinamenti ambientali. Bisogna inoltre sapere che il terrorismo dei gruppi estremisti islamici provoca un numero di vittime da 10 a 100 volte superiori tra i mussulmani rispetto agli occidentali. E infine occorre prestare attenzione alle grandi minacce globali: caos climatico, crisi energetica, crisi finanziaria, povertà e miseria estreme, che vengono ignorate o lasciate in secondo piano. 3 – Giornalismo di pace invece che giornalismo di guerra: il giornalismo di pace distingue tra conflitto e guerra. La guerra non è sinonimo di conflitto ma l’esito di un conflitto non risolto. Il giornalismo di pace si basa su tre passi fondamentali: mappare tutti gli attori del conflitto; individuare i loro obiettivi legittimi (quelli che non violano i bisogni e i diritti umani fondamentali); elaborare soluzioni concrete, costruttive e creative per soddisfare gli obiettivi legittimi di tutte le parti in conflitto. Esempi di questo tipo di giornalismo si trovano negli editoriali di Galtung. Una approssimazione, tuttavia utile, a questo tipo di giornalismo è il giornalismo di inchiesta di autori come Robert Fisk, John Pilger, Pepe Escobar, Marinella Correggia, i cui articoli sono spesso disponibili in rete anche in italiano. (segnalato da: Enrico Peyretti) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2494 Striscia la notizia ride dei profughi (di Marco Rovelli) I Cara sono quei centri dove sono “ospitati” i richiedenti asilo in attesa della risposta da parte della commissione che concederà o meno lo status di rifugiato. Tra questi “ospiti”, dunque, ci sono molte persone che hanno dovuto abbandonare la loro terra in stato di guerra, hanno dovuto abbandonare i loro cari, hanno compiuto viaggi terribili e visto la morte in faccia. Poi arrivano qui, e si trovano a dover risiedere obbligatoriamente in un centro, il Cara, che è una gabbia a cielo aperto: ci stanno in media sei mesi, alcuni per un anno. Tanto ci vuole per avere una risposta. Nel frattempo, la vita di quella persone in fuga, già spossessate di tutto ciò che hanno, naviga in un vuoto assoluto. In una gabbia, senza più passato, né futuro, in un eterno presente senza tempo, senza prospettive. Pubblicità Poi, arrivano le telecamere di Striscia la notizia, e allora l’ennesima stazione della loro via crucis diventa quella televisiva. Il programma di Ricci si prende gioco di loro mentre saltano le recinzioni per uscire dalla gabbia in cui sono rinchiusi senza colpa alcuna, e ne fa zimbello. Li espone al pubblico ludibrio, oscenamente, sacrificalmente. Chi sono, questi? Quali le loro storie, probabilmente tragiche? Perché stanno provando a uscire? Nulla di tutto questo: se ne ride, facendone esponenti ridicoli di varie nazionalità in un “campionato salto inferriata”, a avvalorare la tesi che “questi” (un questo indistinto, come si conviene alla paranoia dell’invasione) arrivano e ci sfuggono. Non solo un magistrale esempio di disinformazione (un fatto totalmente decontestualizzato, che viene usato entro i soliti frame percettivi: clandestino-criminale-invasore), chè a quelli siamo abituati, ma anche un clamoroso esempio di razzismo: la persona reale scompare, ciò che resta è l’immagine grottesca che noi facciamo di lei, e quell’immagine è del “marocchino” che non riesce a saltare perché “ha mangiato troppo cous cous” (giusto a un passo dalla scimmia con la banana, o dal selvaggio con le labbra grosse e l’anello al naso). Ma poi, più di tutto, un vergognoso oltraggio al concetto stesso di umano: quando manca a tali livelli il rispetto per chi soffre non c’è più possibilità di salvezza, per nessuno. (fonte: Il Fatto quotidiano) link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/06/striscia-la-notizia-ride-deiprofughi/2613127/ Evidenza Documenti Non è alle viste (di Alessandro Gilioli) Ormai c'è un tabù, su questi terroristi islamici che uccidono in Europa. Un tabù che abbiamo tutti paura di infrangere, specie qui a sinistra. Perché se ne parli - per quanto munito di dati, ricerche socioeconomiche e auctoritates per competenza - rischi di venire accusato di acquiescenza, se non di complicità, con questi assassini. Comunque di giustificazionismo. Come se fosse possibile giustificare chi uccide persone per fanatismo. Ammazzando a caso, oltre tutto. Eppure il tabù c'è e riguarda i percorsi esistenziali e mentali di questi assassini. Le loro storie personali. I loro corridoi mentali: per come si sono formati e poi deformati nei loro anni giovanili. Quando hanno iniziato a simpatizzare per il jihad, a reperirvi l'identità che non trovavano nella società europea. In cui pure molti di loro erano nati e tutti cresciuti. Un'identità perversa che somiglia un po' a quella che molti ragazzi di Napoli o Palermo trovano nella camorra o nella mafia: e anche lì, non è che la condanna morale o giudiziaria debba impedire un ragionamento sui motivi della radicazione di queste perversioni - e quindi sulle più efficaci modalità per la loro estirpazione, oltre a quella repressiva. Stavo "passando" poco fa qui in redazione uno splendido pezzo di Davide Lerner da Molenbeek, il "quartiere dei terroristi" di Bruxelles, quello da cui proveniva anche Salah e in cui Salah ha trovato rifugio e amici durante la latitanza. Lo troverete venerdì sul giornale per cui lavoro, se interessa. A me ha colpito molto. Si parla di ragazzi a cui dell'Islam non importava nulla, finiti in Siria o Iraq a combattere con Daesh. Si ricostruisce momento per momento, con le testimonianze di chi li conosceva molto bene, il percorso che li ha trasformati. E ogni riga di racconto conferma la tesi quasi solitaria dello studioso francese Olivier Roy: più che una radicalizzazione dell'islam, quello che è successo in diverse città d'Europa è un'islamizzazione del radicalismo. Cioè la scelta del fanatismo religioso come unica forma di espressione di una contrapposizione sociale e culturale che non trova più altri canali, estinto il sogno della rivoluzione comunista. In fondo, non è un fenomeno così dissimile da quello che vediamo nelle nostre periferie, tra ragazzi che invece sono italianissimi: e trovano nell'odio per gli zingari e gli immigrati la valvola di sfogo della loro rabbia, della loro impotenza a immaginare qualcosa di diverso dalla propria emarginazione. È giustificazionismo anche questo? Qualcuno può pensare che qui si abbia simpatia verso le teste rasate che picchiano barboni, vivono di mitologie fasciste, si accoltellano allo stadio e in questi giorni qui a Roma si entusiasmano per Salvini e Meloni? Spero di no, se si ragiona in onestà intellettuale. Capirne i motivi - cioè identificare i meccanismi e magari 3 provare a modificarli - non ha nulla a che vedere con capirne le ragioni. Sono cose diverse, diversissime: anche se nella semplificazione estrema del talk-show politico questa differenza viene soppressa, chissà se in buona o cattiva fede. Ecco, appunto. È giusto in un talk-show che ieri sera il ministro Paolo Gentiloni, intervistato da Floris, ha sostenuto che «a fermare il terrorismo non sarà un esercito di sociologi». È vero, certo: nessuno propone di paracadutare sociologi a Raqqa o a piazzarli coi mitra negli aeroporti. Ma questo anti-intellettualismo ostentato e straccione - un altro veleno ereditato dalla subcultura berlusconiana e ormai tracimato negli altri schieramenti - è la firma di un suicidio. È la resa culturale a Salvini e alla sua colpevole idiozia, è la rinuncia declamata a qualsiasi possibile trasformazione delle cose così come stanno e come esplodono anche nelle "nostre" città. Che disastro, che pochezza. A Gentiloni verrebbe da ricordare proprio un sociologo, Nando dalla Chiesa, che all'omicidio di suo padre rispose andando per anni, scuola per scuola, a battere tutta la Sicilia, per far crescere una generazione che almeno in parte capisse cos'è la mafia: e imparasse a non amarla. E quella fetta di generazione, quando è cresciuta, è scesa in piazza per Falcone e Borsellino, una cosa impensabile a Palermo fino a pochi anni prima. Chissà se Gentiloni lo sa. E chissà se anche il suo premier ha coscienza di quanti danni produca nelle coscienze delle persone - prendere per i fondelli "i professoroni", come li chiama lui, cioè gli intellettuali, i docenti e i giuristi colpevoli di non fargli ogni giorno la ola: chissà se ha contezza di quali effetti determini questo sbeffeggio, ottenuto l'applauso ebete in tivù o su Twitter. C'è proprio bisogno di un esercito di sociologi, invece. Così come di urbanisti, di antropologi, di etnografi, di statistici, di psicologi, di studiosi delle emarginazioni e delle diseguaglianze, delle periferie, delle religioni, del razzismo. C'è bisogno come il pane di chi ricerca le dinamiche che creano guerre e morte. Ma soprattutto c'è bisogno di una politica che anziché deriderli, li ascolti. E questa non è alle viste, in Italia. (fonte: L'Espresso - segnalato da: Marina Amadei) link: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/23/non-e-alle-viste/ Sul Referendum NOTRIV del 17 aprile 2016. La dichiarazione del Movimeto Nonviolento (di Movimento Nonviolento) Insieme alla legge di iniziativa popolare, il referendum abrogativo è lo strumento che la Costituzione (articoli 71 e 75) ha messo a disposizione dei cittadini affinché possano esercitare direttamente il ruolo del legislatore: proporre o cancellare una Legge. Nei mesi scorsi come amici della nonviolenza ci siamo fatti promotori di un testo legislativo per istituire nel nostro paese la “Difesa civile non armata e nonviolenta”. Ora, con il referendum del 17 aprile abbiamo la possibilità di “difendere” il Mare Adriatico dai rischi causati dalla presenza delle trivelle estrattive. Al di là dei motivi tecnici, specifici e particolari, contenuti nel quesito referendario, pensiamo che questa volta debba prevalere l’aspetto politico della vicenda, cioè la tutela ambientale dei nostri mari e la scelta energetica per le fonti rinnovabili con il progressivo abbandono dell’energia derivante dai combustibili fossili. Esercitare il diritto/dovere di voto è una scelta di cittadinanza attiva alla quale non vogliamo rinunciare. Votare SI’ è l’opzione giusta per costringere il Parlamento e il governo ad una nuova politica ambientale ed energetica rispettosa degli impegni presi alla conferenza Cop21 di Parigi sul clima. Da qualche parte si deve pur iniziare per invertire la rotta di uno sviluppo dissennato che porterebbe al tracollo ecologico: cominciamo il 17 aprile a costruire un futuro amico. Movimento Nonviolento link: http://nonviolenti.org/cms/sul-referendum-notriv-del-17-aprile-2016-ladichiarazione-del-movimeto-nonviolento/ Gli argomenti della settimana... Oltre la logica della guerra e dei terrorismi... Il sonno della ragione genera mostri. Meglio svegliarsi (di Pasquale Pugliese) E chi parla del nemico è lui stesso il nemico. Bertold Brecht Tra guerre, terrorismi e spese militari, molti mostri sono generati dal sonno della ragione. Proviamo a scacciarne qualcuno Non attacco islamico all’Europa, ma mancata convivenza nelle nostre città Nelle scorse settimane l’Espresso ha intervistato alcune mamme dei terroristi di Molenbeek Saint Jean, il Comune multietnico nella cintura di Bruxelles, dove è stato arrestato l’attentatore di Parigi e da dove provengono quelli di Bruxelles. Mamme che vivono il dramma di vedere i figli nati e cresciuti in Belgio che, da un giorno all’altro, spariscono e diventano terroristi: “le istituzioni sembrano non capire che la repressione è soltanto la cura estrema di un malanno che andrebbe invece prevenuto”. L’approdo al terrorismo è il punto di arrivo di un percorso di mancata convivenza e di marginalità culturale. Annalisa Gadaleta, assessore all’Istruzione del Comune di Molenbeek, italiana, in un’ intervista a Famiglia Cristiana, lo conferma: “Mentre i genitori pensavano solo a lavorare con l’idea di ritornare nel loro Paese, questi giovani avrebbero voluto integrarsi, ma noi non siamo riusciti a trasmettere i nostri valori. Gli insegnanti non erano preparati a educarli alla democrazia. Così sono cresciuti confusi, finché in questa ricerca di un’identità non hanno trovato su Internet qualcuno che gli ha indicato una strada: il fondamentalismo.” Che cosa significhi questo lo spiegava Oliver Roy, sociologo francese tra i maggiori esperti di “seconde generazioni” su Internazionale, dopo gli attentati di Parigi dello scorso novembre: “I francesi di seconda generazione non aderiscono all’islam dei loro genitori. Sono occidentalizzati e parlano francese perfettamente. Hanno condiviso la cultura giovanile della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato hashish, rimorchiato ragazze. Molti di loro sono stati almeno una volta in prigione, e poi un bel mattino si sono (ri)convertiti scegliendo l’islam salafita, ovvero un islam che rifiuta il concetto di cultura, un islam della regola che gli permette di ricostruirsi da sé. Non vogliono la cultura dei genitori e nemmeno una cultura “occidentale”, che ormai è il simbolo del loro odio verso se stessi.” Quindi, conclude lucidamente Roy, “i terroristi 4 non sono l’espressione di una radicalizzazione della popolazione musulmana, ma il prodotto di una rivolta generazionale che coinvolge una categoria precisa di giovani.” Eppure, il presidente francese Hollande, dopo il 13 novembre francesce, non ha trovato niente di meglio che bombardare Raqqa, città siriana. Sonno della ragione. Non “scontro di civiltà”, ma terrorismo globale come contraccolpo Se mettiamo nel focus dell’obiettivo solo le due settimane intorno al 22 marzo scorso, data dell’attentato a Bruxelles, ci sono state almeno cinque stragi – tra Africa, Asia ed Europa – direttamente riconducibili al terrorismo di matrice islamista. La maggior parte delle vittime sono, come sempre, di religione islamica. Eccone la sequenza: 13 marzo: Costa d’Avorio, 18 morti; 13 marzo: Turchia, 37 morti; 22 marzo: Belgio, 23 morti; 25 marzo: Iraq, 30 morti; 27 marzo: Pakistan, 72 morti Ma la comunicazione veicolata da tutti i media italiani – dedicando un tempo/spazio enorme agli attentati europei ed uno pressoché nullo agli altri attentati – distorcono colpevolmente la percezione della realtà, senza aiutare nella comprensione della complessità. Non ricostruendo i nessi casuali e fattuali che generano il meccanismo perverso del rapporto tra guerra e terrorismo, in tutti i quadranti del pianeta, si lascia immaginare un inesistente scontro di civiltà. Mentre lo scontro globale in atto è più efficacemente spiegabile con la dinamica del “contraccolpo”. Lo ha ribadito Nanni Salio – il presidente del Centro studi Sereno Regis di Torino recentemente scomparso – nel suo ultimo articolo per i 25 anni dalla guerra del Golfo: “il blowback (contraccolpo) è la terza legge della dinamica applicata alla politica internazionale: a ogni azione corrisponde una reazione, una controforza. Il terrorismo degli stati, esercitato dall’alto, con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal basso, di coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente civili, come peraltro fa il terrorismo di stato, che si limita a chiamare questi deplorevoli eventi, effetti collaterali”. Persistere nelle risposte belliche che ripropongono il circuito perverso guerra-terrorismo-guerra è sonno della ragione. Non lotta al terrorismo, ma guerra come unico vero business del nostro tempo Eppure – come se un quarto di secolo di colpi e contraccolpi non bastassero e non ne stessimo già pagando pesantemente le conseguenze, come se tutti gli interventi militari non avessero già prodotto più terrorismo, più insicurezza, più guerre e più profughi – dopo l’intervento in Libia del 2011 che ha consegnato il Paese alle bande islamiste e criminali, i governi occidentali, capitanati dagli USA, sono pronti ad una nuova guerra libica per…sconfiggere il terrorismo. Qui il sonno della ragione si trasforma in pura follia. Non altrimenti spiegabile se non con le parole di un ex generale italiano, il sempre lucido Fabio Mini: “la guerra al terrorismo continuerà indefinitamente, perché non ne affronta la cause e perché, in un mondo a economia stagnante, fatto di disparità e paura è capace di mobilitare e bruciare risorse”. Si tratta – aggiungeva il generale, in un interessante libro del 2013 La guerra spiegata a… – del “vero e unico business del nostro tempo: la guerra in sé, che ormai comprende tutto ciò che precede i conflitti armati e tutto ciò che li segue, per un tempo illimitato, in relazione a quanto si riesce a far credere e sopportare all’opinione pubblica.” Non è casuale quindi che l’ultimo rapporto del SIPRI – l’Istituto indipendente di Stoccolma che monitora le spese militari globali – reso noto il 5 aprile, abbia confermato che nel 2015 le spese militari globali hanno ripreso ancora a crescere, dopo qualche anno di stello seguito all’amento del 50% nel primo decennio degli anni 2000. Pur riguardando solo le spese pubbliche e documentate dei governi, non i traffici illeciti, e pur nella difficoltà di analisi dei bilanci pubblici, che spesso camuffano le spese per gli armamenti in altre voci di spesa (in Italia per esempio nelle voci del ministero per lo Sviluppo economico…) il dato è che – ogni anno – circa 1.700 miliardi di dollari sono sottratti alle spese civili e sociali di pace e consegnati alle spese militari di guerra. Basterebbero piccole percentuali di questa spesa abnorme per raggiungere gli obietti ONU del millennio per dsconfiggere fame, ignoranza e malattie e, contemporaneamente, debellare guerre e terrorismo. Ma il sonno della ragione genera mostri. Meglio svegliarsi prima che sia troppo tardi. (fonte: Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento) link: http://www.azionenonviolenta.it/il-sonno-della-ragione-genera-mostri-megliosvegliarsi/ Breve discorso delle cinque guerre e delle cinque dittature (di Peppe Sini) Ricostruita a memoria (e naturalmente ripetendovi cose già dette e scritte più e più volte in passato) questa è una rastremata sintesi delle argomentazioni svolte e delle parole pronunciate parlando a braccio in occasione della giornata contro la guerra a Viterbo il 12 marzo 2016 dal responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani". Tutto si tiene Chi lotta contro una forma di oppressione lotta già contro tutte le oppressioni, e quindi per la vita delle persone, per la dignità di tutti gli esseri umani e per la comune liberazione dell'umanità. Ma chi lotta contro una sola forma di oppressione, frattanto le altre ignorando o addirittura al mantenimento di esse attivamente concorrendo, non lotta affatto per la liberazione dell'umanità. Non vi è una sola contraddizione principale cui tutte le altre siano riconducibili e da cui siano riassorbite, ma poiché ogni oppressione si lega a tutte le altre, anche ogni prassi di liberazione a tutte le altre si collega e suscita. Chi sceglie di resistere al male e lottare per la vita, la dignità e la liberazione di tutti gli esseri umani sa già che la sua lotta è senza fine. Ma essa rende la sua medesima unica vita meno infelice. Il primo dovere è salvare le vite, soccorrere le vittime, opporsi all'oppressione, contrastare la violenza. Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione. Solo la nonviolenza può salvare l'umanità dalla catastrofe. Tutto si tiene. La prima guerra La prima guerra contro cui dobbiamo lottare è il femminicidio; la prima dittatura contro cui dobbiamo lottare è il maschilismo. L'oppressione maschile che spezza in due l'umanità ed impone la dominazione di una parte sull'altra è la prima radice ed il primo modello la prima realizzazione storica e la prima gabbia ideologica - di ogni violenza, di ogni oppressione. Essa pretende ridurre tutte le donne a vittime dei maschi, ma anche ogni maschio rende vittima di se stesso riducendolo al ruolo di carnefice e complice di carnefici. Essa denega la comune umanità, denega l'eguaglianza di diritti di ogni persona, denega la dignità, il valore e l'autonomia di ciascuna persona e di tutte le persone. E così come viola i diritti umani, l'oppressione maschile viola altresì la natura cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare. Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Olympe de Gouge e di Mary Wollstonecraft, di Virginia Woolf e di Simone de Beauvoir, sappiamo quello che è necessario e urgente fare. Se non si contrasta e sconfigge il maschilismo giammai sarà possibile la liberazione dell'umanità, giammai sarà possibile contrastare e sconfiggere il razzismo e il militarismo, giammai sarà possibile contrastare e sconfiggere lo schiavismo e lo specismo, giammai sarà possibile una società in cui le persone possano vivere libere, eguali in diritti, accudenti e responsabili del bene comune, solidali e quindi pienamente umane. La seconda guerraLa seconda guerra contro cui dobbiamo lottare è la persecuzione dei migranti; la seconda dittatura contro cui dobbiamo 5 lottare è il razzismo. Il razzismo ed ogni ideologia e prassi di supremazia di una parte dell'umanità sugli altri esseri umani promuove e provoca l'oppressione di ogni persona percepita come diversa e stigmatizzata come estranea e quindi esclusa, e si fa regime come colonialismo, schiavismo, fascismo, realizza il suo dominio come totalitarismo, annientamento dell'altro, genocidio. E così come viola i diritti umani, il razzismo viola altresì la natura cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare. Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Edith Stein e di Etty Hillesum, di Hannah Arendt e di Franca Ongaro Basaglia, sappiamo quello che è necessario e urgente fare. Ripetiamolo una volta ancora: innanzitutto occorre soccorrere, accogliere, assistere tutti gli esseri umani in fuga dalla fame e dalle guerre; occorre riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere in modo legale e sicuro nel nostro paese; occorre andare a soccorrere e prelevare con mezzi di trasporto pubblici e gratuiti tutti i migranti lungo gli itinerari della fuga, sottraendoli agli artigli dei trafficanti; occorre un immediato ponte aereo di soccorso internazionale che prelevi i profughi direttamente nei loro paesi d'origine e nei campi collocati nei paesi limitrofi e li porti in salvo qui in Europa; occorre cessare di fare, fomentare, favoreggiare, finanziare le guerre che sempre e solo consistono nell'uccisione di esseri umani; occorre contrastare il razzismo ed ogni forma di persecuzione nel nostro paese. Vi è una sola umanità; ogni vittima ha il volto di Abele. La terza guerra La terza guerra contro cui dobbiamo lottare è l'insieme delle uccisioni - i conflitti bellici, il terrorismo, le mafie -; la terza dittatura contro cui dobbiamo lottare è il militarismo. Sempre e solo la guerra consiste nell'uccisione degli esseri umani; e tutte le strutture, le logiche e le strumentazioni preposte all'esecuzione di guerre, massacri, uccisioni sono nemiche dell'umanità. Che degli esseri umani non trovino di meglio che sopprimere altri esseri umani è il più tragico e insensato dei crimini, laddove - come dimostrò con parole definitive Giacomo Leopardi - proprio perché ogni essere umano è esposto al dolore, al male e alla morte, compito primo e fondamentale di tutti gli esseri umani è recarsi l'un l'altro soccorso; salvare le vite è il primo dovere; la civiltà in questo e non in altro consiste: nel riconoscere che vi è una sola umanità e che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità e alla solidarietà, e che ad ogni persona e ad ogni civile istituto questo primo compito attiene: soccorrere, accogliere, assistere tutte le persone bisognose di aiuto; condividere il mondo prendendosi cura l'uno dell'altro ed insieme dell'intera natura vivente. E così come viola i diritti umani, il militarismo viola altresì la natura cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare. Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Bertha von Suttner e di Rosa Luxemburg, di Simone Weil e di Luce Fabbri, sappiamo quello che è necessario e urgente fare: sappiamo che occorre abolire tutti gli eserciti e tutte le armi, sappiamo che occorre agire per salvare tutte le vite, sappiamo che occorre organizzare subito la difesa popolare nonviolenta e i corpi civili di pace. La quarta guerra La quarta guerra contro cui dobbiamo lottare è lo sfruttamento; la quarta dittatura contro cui dobbiamo lottare è lo schiavismo. Il modo di produzione fondato sulla massimizzazione del profitto, sulla generale rapina e l'universale saccheggio, sull'appropriazione privata dei beni comuni, sull'alienazione delle persone nel ciclo produttivo e distributivo, sul consumismo onnidistruttivo, è un modo di produzione insostenibile e disumano, che provoca fame e guerre, miseria e narcosi, la più stupida irresponsabilità e la disponibilità ai crimini più mostruosi. E così come viola i diritti umani, lo schiavismo viola altresì la natura cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare. Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Flora Tristan e di Clara Zetkin, di Emma Goldman e di Mother Jones, sappiamo quello che è necessario e urgente fare: che occorre opporsi ad ogni dominazione di classe, ad ogni regime gerarchico e ad ogni forma di imperialismo, alla illogica e immorale ideologia e prassi del primato del capitale sulla persona, alla riduzione degli esseri umani a macchine al servizio di macchine, a merce da cui estrarre plusvalore, ad apparato digerente e passo dell'oca. La quinta guerra La quinta guerra contro cui dobbiamo lottare è l'ecocidio; la quinta dittatura contro cui dobbiamo lottare è lo specismo che nel mondo naturale vede solo un magazzino da saccheggiare, negli altri esseri viventi meri automi da azionare e composti chimici da assorbire. Questa guerra, e questa dittatura, si manifesta nei confronti degli ecosistemi e della biosfera con l'inquinamento della natura, l'esaurimento delle risorse, la devastazione e desertificazione della casa comune; nei confronti degli altri animali negando la loro concreta reale esistenza in quanto esseri senzienti e - nelle forme più complesse - evidentemente pensanti; nei confronti di tutti gli esseri viventi con il disprezzo totale della loro presenza al mondo; nei confronti della natura tutta con la presunzione che l'umanità abbia solo diritti e non anche doveri verso il mondo vivente che abita e di cui è parte, doveri verso gli altri esseri viventi, doveri verso le stesse generazioni future di esseri umani, e doveri verso le generazioni umane già decedute che ancora vivono nella memoria dell'umanità ed il cui lascito e la cui esistenza sarebbero annientati criminalmente e definitivamente con la distruzione della biosfera e conseguentemente dell'umanità con essa. E così come viola la natura lo specismo viola quindi altresì i diritti umani cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare. Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Laura Conti e di Carla Ravaioli, di Wangari Maathai e di Berta Caceres, sappiamo quello che è necessario e urgente fare: difendere sempre l'unico mondo vivente di cui siamo parte, prendersi cura di questo meraviglioso giardino in cui dobbiamo trascorrere l'intera nostra vita. Sui compiti del movimento per la pace In questa giornata di lotta contro la guerra il movimento per la pace ripropone all'intero popolo italiano ed alle sue democratiche istituzioni alcuni impegni necessari e urgenti. Ripetiamoli ancora una volta. L'Italia soccorra, accolga e assista tutte le persone in fuga dalla fame e dall'orrore, dalle dittature e dalla guerra. L'Italia cessi di partecipare alle guerre ed alle guerre si opponga. L'Italia esca da alleanze militari terroriste e stragiste come la Nato. L'Italia cessi di produrre armi e di rifornirne regimi e poteri dittatoriali e belligeranti. L'Italia abroghi tutte le infami misure razziste ancora vigenti nel nostro paese, e legiferi i provvedimenti adeguati a realizzare gli impegni indicati nella Carta di Lampedusa. L'Italia promuova con un'azione diplomatica, politica ed economica, e con aiuti umanitari adeguati, la costruzione di ordinamenti giuridici legittimi, costituzionali e democratici dalla Libia alla Siria. L'Italia destini a interventi di pace con mezzi di pace, ad azioni umanitarie nonviolente, i 72 milioni di euro del bilancio dello stato che attualmente ogni giorno sciaguratamente, scelleratamente destina all'apparato militare, alle armi, alla guerra. L'Italia promuova una politica della sicurezza comune e del bene comune centrata sulla difesa popolare nonviolenta, sui corpi civili di pace, sulla legalità che salva le vite. L'Italia applichi pienamente la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. L'Italia adotti una politica ambientale rigorosa, promuova le fonti energetiche pulite e rinnovabili, dismetta opere e pratiche distruttive della biosfera. E con riferimento a due prossimi ineludibili impegni: al referendum del 17 aprile con il voto "sì" si ponga termine alla follia delle trivellazioni petrolifere in mare; al referendum in ottobre con il voto "no" si difenda la Costituzione della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza antifascista. La scelta della nonviolenza, la forza della verità Ma per impegnarsi adeguatamente ed efficacemente contro tutte le guerre e tutte le dittature occorre fare la scelta della verità, ovvero la scelta della 6 nonviolenza. Ripetiamo ancora una volta cose che abbiamo già ripetuto ancora ieri. Dovere della verità significa ad esempio riconoscere che la guerra, che sempre e solo consiste nell'uccisione di esseri umani, si fa con le armi e con gli eserciti. E che quindi per abolire la guerra occorre abolire gli eserciti e le armi. Scelta della nonviolenza significa adoperarsi per salvare tutte le vite, contrastare tutte le oppressioni; e opporsi quindi alla guerra e a tutte le uccisioni, al razzismo e a tutte le persecuzioni, al maschilismo e a tutte le oppressioni; difendendo insieme i diritti di tutti gli esseri umani e la biosfera, coscienti che vi è una sola umanità composta di persone ciascuna diversa da tutte le altre e insieme portatrice di eguali diritti, una sola umanità in un unico mondo vivente casa comune dell'umanità intera. Il dovere della verità e la scelta della nonviolenza sono in realtà una cosa sola: "nonviolenza" è infatti la parola italiana coniata da Aldo Capitini con cui sono tradotte unificandole le due espressioni gandhiane che la teoria e la prassi della nonviolenza ambedue parimenti definiscono, ovvero "satyagraha" ed "ahimsa", che designano appunto l'una l'adesione al vero, e quindi al giusto e al bene, e l'altra l'opposizione ad ogni violenza. La nonviolenza è quindi opposizione ad ogni menzogna e ad ogni oppressione; è la lotta concreta del movimento di liberazione delle oppresse e degli oppressi pervenuto all'autocoscienza ed alla scelta quindi nella sua riflessione ed azione della coerenza tra mezzi e fini, tra diritti e doveri, tra giustizia e libertà, tra riconoscimento e condivisione. Un movimento per la pace che non faccia la scelta intellettuale, morale e politica della nonviolenza, non è un movimento per la pace adeguato alla distretta presente. Una proposta politica che non sia nonviolenta non è più neppure una politica, ma solo barbarie che genera ulteriore barbarie e coopera alla catastrofe dell'umanità. E ripetiamo ancora una volte cose che tante volte abbiamo già ripetuto. Per accostarsi degnamente alla nonviolenza occorre prendere sul serio i propri pensieri: pensarli profondamente e valutarne le conseguenze anche implicite; occorre porsi all'ascolto delle altre persone e non mentire mai ad esse: rispettarle nella loro integrale dignità di persone, e quindi di esseri pensanti, capaci di comprendere e di comunicare, esposti alla sofferenza e bisognosi di verità e di solidarietà; occorre usare correttamente il linguaggio: essere consapevoli di ciò che si dice; occorre decidere di impegnarsi per salvare le vite, per recare soccorso a chi soffre, per rispettare la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani. La nonviolenza è l'opposizione alla violenza, ovvero forza della verità, amore attivo, rispetto per la vita, armonia, ricomposizione, scelta di contrastare il male facendo il bene. La nonviolenza è complessa, pluridimensionale e contestuale; è un "insieme di insiemi": un insieme di criteri assiologici (ad esempio rilevando che tra i mezzi e i fini vi è lo stesso rapporto che tra il seme e la pianta: fini buoni non possono essere ottenuti usando mezzi malvagi); un insieme di strumenti ermeneutici (ad esempio evidenziando che ogni potere si regge sempre su due pilastri: la forza e il consenso; cosicché si può contrastare ogni potere ingiusto iniziando col negargli il consenso); un insieme di tecniche deliberative (come il "metodo del consenso", che prevede il diritto di veto da parte di ogni singola persona partecipante al processo decisionale, cosicché si prendono solo le decisioni su cui vi è l'accordo persuaso di tutte le persone; tutte garantendo del rispetto della loro dignità, e tutte impegnando a costruire insieme la volontà comune); un insieme di tecniche operative (come lo sciopero, il digiuno ed innumerevoli altre forme ancora); una metodologia di trasformazione positiva delle relazioni - interpersonali, sociali, politiche -; un progettoprocesso di cambiamento sociale e culturale orientato all'affermazione dell'eguaglianza di diritti e di doveri di tutti gli esseri umani, al reciproco aiuto, alla condivisione dei beni, alla responsabilità comune per gli altri esseri umani e per l'intero mondo vivente. La nonviolenza è pace, disarmo, smilitarizzazione; è accoglienza, assistenza, aiuto a tutti coloro che ne hanno bisogno; ti chiede di essere tu il cambiamento che vorresti vedere nel mondo. Tutto si tiene Chi lotta contro una forma di oppressione lotta già contro tutte le oppressioni, e quindi per la vita delle persone, per la dignità di tutti gli esseri umani e per la comune liberazione dell'umanità. Ma chi lotta contro una sola forma di oppressione, frattanto le altre ignorando o addirittura al mantenimento di esse attivamente concorrendo, non lotta affatto per la liberazione dell'umanità. Non vi è una sola contraddizione principale cui tutte le altre siano riconducibili e da cui siano riassorbite, ma poiché ogni oppressione si lega a tutte le altre, anche ogni prassi di liberazione a tutte le altre si collega e suscita. Chi sceglie di resistere al male e lottare per la vita, la dignità e la liberazione di tutti gli esseri umani sa già che la sua lotta è senza fine. Ma essa rende la sua medesima unica vita meno infelice. Il primo dovere è salvare le vite, soccorrere le vittime, opporsi all'oppressione, contrastare la violenza. Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione. Solo la nonviolenza può salvare l'umanità dalla catastrofe. Tutto si tiene. Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo Fonte: La domenica della nonviolenza" n. 362 del 13 marzo 2016 (fonte: Fonte: La domenica della nonviolenza" n. 362 del 13 marzo 2016) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2485 Contro la preparazione della guerra in Libia (di Pax Christi) Il Consiglio nazionale di Pax Christi, riunito a Firenze il 12-13 marzo scorso, ha condiviso la testimonianza del vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, mons. Shlemon Warduni che in diversi incontri ad Ambivere (Bg), Brescia, Trento, Bolzano e Novara ha raccontato la sofferenza della sua gente e denunciato la follia della guerra e i grandi interessi nella vendita di armi, anche da parte dell’Occidente e dell’Italia a Paesi, come l’Arabia Saudita, che sappiamo essere tra i primi sostenitori dell’Isis. La guerra è un affare di armi, dietro i terroristi e le numerose bande armate c'è una rete di giganteschi interessi e di enormi complicità. La Libia è in guerra da anni: una guerra geopolitica ed economica promossa da Francia, Gran Bretagna e Italia, con la supervisione strategica degli Stati Uniti e la presenza della Nato, per il controllo delle risorse e del “bottino libico” depositato nelle banche europee. Le recenti dichiarazioni governative contrarie a un intervento militare diretto possono aprire spiragli di luce, ma le condizioni di una guerra in Libia, disastrosa per tutti, sono di fatto tutte operanti: schieramento di forze, basi militari, droni a Sigonella, vendita di armi, decreto governativo sui corpi speciali, campagna mediatica negli Stati Uniti e in Europa, aspirazioni egemoniche di molti Paesi in contatto con bande armate locali... Ribadiamo ancora una volta la nostra opposizione a un intervento bellico in nome di: - una politica lungimirante attenta ai popoli dell'Africa e del Medio Oriente; - una “sicurezza comune” europea che non usi i migranti, vittime delle guerre da noi sostenute, per scatenare nuove guerre; - un'Europa unita e libera da logiche neocoloniali e da ossessioni nazionaliste escludenti; - una sovranità del diritto (ribadita anche da papa Francesco alle Nazioni Unite); - un ruolo centrale autonomo dell'ONU che non deve lasciare spazio ad altri organismi, ad alleanze equivoche o alla Nato. In sintonia con le diverse manifestazioni italiane contro la guerra in Libia (cui abbiamo aderito), chiediamo alla politica di operare nel rispetto della Costituzione, ritenendo che l’impegno per la pace non sia, come ha detto l’ex Presidente Giorgio Napolitano in Senato, un “ingannare l'opinione pubblica e sollecitare un pacifismo di vecchissimo stampo che non ha ragione di essere nel mondo di oggi”. Riteniamo importante nello stesso tempo risvegliare la presenza attiva della Chiesa italiana per il disarmo, la prevenzione delle guerre, la 7 formazione alla pace e alla nonviolenza, la promozione di gesti significativi a favore di una comunità cristiana disarmata e disarmante. Firenze, 15 marzo 2016 Pax Christi Italia (fonte: Pax Christi Italia) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2486 Maternità surrogata ... unioni civili e altro ... Una riflessione sulla maternità surrogata (di Caracal Anton) Quindi da oggi scopriamo che i corpi delle donne sono mercificati. I miserrimi non-occidentali e i poveri occidentali (donne e uomini) sono merce da quando esiste il capitalismo (scegliete voi dove farlo cominciare, se due o quattro secoli, quattromila o diecimila anni fa), forza lavoro schiava, proletaria, sottoproletaria, a cui le forme della produzione hanno sempre imposto le forme della riproduzione (non erano calcolati - e non lo sono, ancora, fuori dall'occidente, e pure al suo interno - costi e benefici di un figlio da gestare, sfamare, e poi mandare in miniera, in fabbrica, qualche volta a scuola?), ma la mercificazione dei bambini comincerebbe da oggi. Gli scarti semi-improduttivi di quella merce globale annegano ogni giorno nel Mediterraneo, i telegiornali ci raccontano ogni ora quanti bambini e quante donne, e quante madri coi figli fra le braccia crepano nelle acque gelide dei mari europei, costretti a viaggi infiniti e orrendi perché non è loro concesso (dall'Europa) un visto per salire s'un aereo e un corridoio umanitario se lo sognano; se in Europa ci arrivano vagano per mesi fra le frontiere di filo spinato, subiscono la selezione (a che fa pensare, la selezione?) fra profughi e "semplici" migranti, e fra profughi Isis e profughi delle guerre che non c'interessano, diventano risorsa politica per il razzismo europeo come per i democratici sedicenti anti-razzisti: e lo sfruttamento di bambini, donne, (c'è posto per gli uomini?) comincerebbe con la Gestazione Per Altri. Colpa dei maschi omosessuali, maschi come tutti, anzi peggio perché non accetterebbero la differenza sessuale e il limiti della natura (alla faccia della messa in crisi dei binarismi). Nessuno che vada a chiedere alle madri surrogate se si sentono sfruttate o ricattate. Perché non lo si va loro a chiedere? Perché forse risponderebbero che preferiscono gestare per altri che lavorare in miniera, in una fabbrica tessile clandestina 20 ore al giorno senza mai vedere la luce del sole, finire nel traffico di esseri umani dove la prostituzione non è scelta, ma imposta fino a quando dal corpo c'è da spremere qualcosa (e poi quel corpo lo si butta nella spazzatura), violenta, senza protezioni giuridiche o sociali. Che preferiscono pagarsi le rette universitarie piuttosto di rinunciare all'università, o di pagarle ai figli invece che mandarli a lavorare ad una pompa di benzina della provincia americana; che preferiscono avere una polizza sanitaria piuttosto che morire. E con questo bisognerebbe fare i conti, mettendo in discussione le certezze attorno alla libera servitù imposta dal capitale. Perché forse questo è un modo "femminile" di resistere al capitale, di soggettivare un contro-potere. A chi giova, in effetti, la proibizione assoluta e per principio, se non ai maschi eterosessuali (omofobi) che non sopportano che il corpo femminile possa essere usato come forza politica, quegli stessi maschi per i quali lo stupro (il corpo maschile usato come arma) è violenza solo se commesso da stranieri (e il circolo si chiude)? Se non a tutti quelli (uomini e donne, religiosi e non religiosi) che si spacciano per paladini delle donne per difendere solo i bambini contro le donne, che nel nome della "sacralità della vita" non dovrebbero nemmeno poter abortire, perché un bambino, anche quando "in potenza", è sacro, il corpo di una donna sacrificabile ai principi? Se non alle femministe della differenza che con tutti questi personaggi si alleano, perché vedono come il diavolo la possibilità che un bambino non abbia bisogno di un "ordine simbolico materno", e che la cura d'altri non abbia limite di genere (il che metterebbe in crisi decenni di teorie fondate sul binarismo di genere: perciò forse è meglio allearsi con le peggiori forze patriarcali, misogine, antiabortiste...). Se non a tutti gli omofobi che blaterano di egoismo, perché il fare figli degli eterosessuali sarebbe altruista e oblativo (chi sarebbe il "chi" a cui si dona qualcosa, il "chi" di questo desiderio di ricevere un dono, se ancora non esiste, e comincia a chiedere quando lo di è messo al mondo... per desiderio di "chi"?), proprio mentre sono riusciti a impedire un istituto minimale come la stepchild adoption, cioè il diritto del bambino ad una famiglia stabile (mica parliamo di adozioni di orfani, ci mancherebbe: quella è per gli etero, così altruisti...)? Ma la vera tragedia è che se le donne (e non solo) devono inventarsi una resistenza ai differenziali economici, sociali, politici, simbolici, imposti dal capitalismo, è perché l'interezza della loro esistenza è, in misura variabile similmente a quella dei maschi, determinata e schiacciata da questi differenziali di potere, mica solo nove mesi di gravidanza. L'interezza della loro esistenza è non potenzialmente ricattabile, ma in stato di ricatto costante. Lo vedete o no che pater familias e patrimonium appartengono alla stessa area etimologica e semantica, perché sono storicamente, materialmente sovrapposti, o vedete sempre e solo il pater? Se in questo mondo esiste l'oppressione, questa non comincia e non finisce con la maternità surrogata, con nove mesi di gravidanza. La lotta proibizionista-abolizionista contro la GPA è diventata la cortina fumogena dell'Occidente ricco per difendere (intenzionalmente e consapevolmente o meno, all'origine o per effetto) i propri privilegi complessivi, l'interezza dei rapporti di dominio, dietro la maschera umanista-umanitaria della difesa dell'utero delle donne povere. Marco Reggio Annarella Koson Ornella Jurinovich Francesca Rizzi (fonte: Pagina facebook di Caracal Anton) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2478 Approfondimenti Ambiente ed energia Referendum e trivelle (di Arturo Lorenzoni) Con un referendum ad hoc, il 17 aprile, siamo invitati a esprimere il nostro parere sull’apertura dello spazio marittimo alla ricerca ed estrazione di idrocarburi. La stampa ne parla molto poco e ciò non sorprende; altre sembrano essere le questioni che appassionano l’opinione pubblica. Ma a ben guardare l’appuntamento può essere un momento significativo per manifestare le nostre preferenze sulla direzione verso cui spingere il Paese, schiacciato dall’incapacità di rinnovarsi e di generare opportunità per i propri giovani. Non voglio entrare nel merito di questioni ambientali, su cui non ho particolari competenze, quanto piuttosto sul lato economico della scelta che siamo chiamati a compiere. L’estrazione di combustibili fossili dai nostri mari è realmente un’opportunità? Può incidere in modo significativo sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici dell’Italia? Un appello accorato in favore dell’industria del petrolio è stato pubblicato di recente dal professor Alberto Clò, che enfatizza molto il ruolo positivo sull’economia italiana degli investimenti potenzialmente avviati con l’attività estrattiva. Al contrario, sono convinto che indirizzare i nostri investimenti in questa direzione sia un errore strategico, mirato ad allungare la vita di settori industriali lentamente avviati al margine dell’economia. Non voglio dire che petrolio e gas non manterranno per 8 vari decenni un ruolo centrale nell’economia mondiale, ma piuttosto che l’attuale capacità produttiva è in grado di coprire ampiamente la domanda futura, senza avviare nuovi campi di potenzialità limitata e costi superiori alla media mondiale. Agli attuali prezzi del greggio, tra l’altro, non sono convinto che le imprese metterebbero in atto i programmi di investimento che il «sì» referendario auspica. Teniamo conto che un progetto di questo tipo si articola su un orizzonte temporale di almeno venticinque anni. Ma nel 2040, se crediamo alla strategia energetica europea al 2050 che prevede una decarbonizzazione dell’economia praticamente integrale, quale sarà la domanda di idrocarburi? Prossima allo zero, rispetto ad oggi. Tra l’altro, le quantità di idrocarburi di cui si parla non sono tali da cambiare in modo sostanziale la dipendenza nazionale dalle fonti fossili di importazione, né tantomeno tali da pagarci il debito pubblico, come avviene per Paesi esportatori come la Norvegia. Anche l’aspetto occupazionale appare poco convincente: portare l’energia nelle nostre case e aziende comporta lavoro, con qualsiasi fonte. Possiamo discutere molto su quale sia il modello energetico più intensivo sul piano del lavoro, ma è difficile non vedere che le fonti distribuite creano lavoro localmente, dove la nostra economia è più debole. E le imprese italiane del settore petrolifero, che sono veramente all’avanguardia mondiale, presenti ovunque nel globo e le cui complessità tecniche sono elevate, hanno proprio bisogno di questi investimenti? Io non credo; il loro mercato è il mondo e con ruoli primari nei grandi investimenti mondiali stanno sostenendo la nostra economia. Allora dobbiamo cercare di essere coerenti: applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante. Ma indicare il settore degli idrocarburi come una priorità nazionale, come si fa assegnando a questa attività nuove concessioni, significa di fatto togliere risorse (economiche, normative, finanziarie ecc.) alle nuove fonti energetiche, nel momento in cui a livello mondiale si sta vivendo una trasformazione profonda e irreversibile verso un nuovo modello energetico – in Germania prende il nome di «Energiewende» – che è di fatto comune alle scelte di gran parte dei Paesi con domanda significativa di energia. Perché non si sceglie di dare alla politica energetica nazionale coerenza e forza nel processo di rinnovamento, con il coraggio di gestire la transizione gradualmente, guardando agli aspetti di innovazione e leadership tecnologica nel campo della nuova energia, e si tiene invece attivo il supporto ai settori tradizionali, nel timore di dispiacere a soggetti pesanti sul piano politico? In condizioni di risorse scarse il tentativo di non scontentare nessuno alla fine scontenterà tutti, lasciandoci privi di imprese nuove e con investimenti non remunerativi, da accollare magari sulle spalle della comunità. Non sono sufficienti i casi delle centrali elettriche inutilizzate o dei rigassificatori a tasso di utilizzo nullo per farci capire che il mondo guarda altrove? Non sono dunque tanto gli aspetti ambientali che pure preoccupano, quanto quelli economici che mi spingono a dire che esprimersi al referendum è importante, per aiutare il nostro Paese a guardare al futuro, senza timore di accompagnare l’economia verso nuovi equilibri. Arturo Lorenzoni da Rivistailmulino.it (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Guide/Ambiente/Cambiamentoclimatico/Referendum-e-trivelle-156485 Trivelle in mare e incidenti (di Redazione Pressenza Italia) C’è voluta più di una settimana perché finalmente venisse fuori la notizia che circolava in rete: una marea nera si sta estendendo a due passi da Lampedusa. Nasce al largo della Tunisia, per l’avaria di un pozzo di estrazione di petrolio, il Cercina 7. È bastato un centimetro, la rottura di un tratto di un solo centimetro della tubazione, per generare una marea nera che si sta allargando nei nostri mari. Appare singolare, quindi, che mentre qui stiamo discutendo di una proposta di referendum che ha come tema proprio trivellazioni di gas e petrolio nei nostri mari, nessuno dei nostri organi di informazione ufficiali ci sia arrivato prima. Moltissimi blog e quotidiani online ne parlavano ma, inspiegabilmente, le grandi testate giornalistiche ci sono arrivate solo più di una settimana dopo. Sarà che sono le stesse che ospitano le interviste di tutti quelli che continuano a dire che non ci sono pericoli negli impianti di trivellazione, che non corriamo alcun rischio, che è tutto sicuro. E allora noi, a partire dal disastro della Tunisia, vogliamo condividere un po’ di dati, date e numeri, così da capire di cosa stiamo parlando. La Tunisia è solo il caso più recente e vicino, ma registriamo moltissimi incidenti negli ultimi trent’anni. Azerbaigian, dicembre 2015: l’incendio di una piattaforma petrolifera del Mar Caspio uccide 32 persone: http://goo.gl/RO2oc2 . California, maggio 2015: 80mila litri di petrolio si sversano nel Pacifico per la rottura delle condutture di un oleodotto al largo di Santa Barbara. Il disastro è tale che viene dichiarato lo stato d’emergenza: http://goo.gl/1i1FxG . Congo, luglio 2013: il fondo marino su cui poggia la piattaforma Perro Negro 6 (di una società collegata all’Eni), cede, e la piattaforma affonda nell’Atlantico: http://goo.gl/LEKGbd . Scozia, agosto 2011: sversamento di circa 200mila litri di petrolio al largo della città di Aberdeen: http://goo.gl/nRm0dR . Montana, luglio 2011: sversamento di più di 160000 litri di petrolio nel fiume di Yellostone: http://goo.gl/j4a7qt . Golfo del Messico, aprile 2010: l’incidente della piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum causa lo sversamento di 500mila tonnellate di petrolio e 11 morti. Lo sversamento è stato inarrestabile per 106 giorni: http://goo.gl/TiKmuC. Cina, luglio 2010: due incendi colpiscono per 15 ore due oleodotti nel porto di Dalian: http://goo.gl/uP50R6 Norvegia, dicembre 2007: una perdita di circa 3,84 milioni di litri di petrolio nella piattaforma Statfjord, nel Mar del Nord: http://goo.gl/ZQ1YQq . Alaska, marzo 2006: fuoriuscita di un milione di litri di petrolio per la rottura di una pipeline: http://goo.gl/z7kXJ8 . Brasile, gennaio 2000: sversamento di 1300000 litri di petrolio dalla raffineria di Duque de Caxias (Reduc) della Petrobras : http://goo.gl/z7kXJ8 . Bretagna, dicembre 1999: naufragio della piattaforma Erika utilizzata dalla Total genera una marea nera che arriva alle coste francesi, centomila 9 uccelli vengono uccisi dal petrolio: http://goo.gl/CGwpCN Nigeria, gennaio 1988: perdita di 40mila barili di petrolio, disperso o evaporato, e addirittura 500 barili toccarono le rive: http://goo.gl/z7kXJ8 Questo è un elenco parziale, solo per rendere l’idea di quanto “sicuri” siano gli impianti che estraggono petrolio. In Italia il petrolio estratto è lo 0,3% del nostro fabbisogno nazionale, e si tratta di un prodotto di scarsissima qualità. Parte degli impianti coinvolti nel quesito referendario estraggono petrolio lungo le nostre coste, entro le dodici miglia. Dodici miglia sono circa venti chilometri. Siete certi ne valga la pena? link: http://www.pressenza.com/it/2016/03/trivelle-in-mare-e-incidenti/ Sequestrato il Muos, carabinieri nella base Usa. Procuratore: «Ho fatto solo il mio dovere» La Procura di Caltagirone ha chiesto e ottenuto di porre i sigilli all'impianto militare di telecomunicazione degli Usa. Sembrava un pesce d'aprile, ma la conferma arriva dal procuratore capo Giuseppe Verzera: «La decisione del Tar di Palermo cambia radicalmente la situazione, ho ritenuto fondato chiedere il sequestro preventivo che il gip ha confermato» La procura di Caltagirone ha ordinato il sequestro dell'impianto satellitare Usa Muos nella riserva di Niscemi. Il provvedimento fa seguito alla decisione del Tar di Palermo che aveva accolto i ricorsi dei No-Muos contro la prosecuzione dei lavori di realizzazione dell'impianto di telecomunicazioni nella base americana. Proprio in questi minuti i carabinieri e la polizia municipale stanno apponendo i sigilli al cantiere. La decisione, inaspettata e dagli effetti rivoluzionari, è stata presa dal Gip su richiesta del procuratore capo di Caltagirone Giuseppe Verzera che spiega a MeridioNews: «La sentenza del Tar ha annullato i provvedimenti autorizzativi, cambiando radicalmente la situazione. Quindi ho ritenuto assolutamente fondato chiedere il sequestro preventivo che il gip ha confermato». Verzera ricorda che un sequestro già c'era stato in passato. «Il mio predecessore (Paolo Giordano ndr) aveva ottenuto il sequestro, poi annullato dal tribunale delle Libertà, decisione confermata infine dalla Cassazione. Ma adesso questa situazione cambia completamente con la sentenza del Tar». Il riferimento del procuratore capo è a quanto successo il 6 ottobre del 2012, in concomitanza con una grande manifestazione nazionale. L'entusiasmo degli attivisti quella volta, però, era stato spento qualche settimana dopo con il dissequestro. Stavolta le conseguenze potrebbero essere rivoluzionarie. A cominciare dai risvolti politici della decisione . Paura delle pressioni? «Non ci penso risponde il procuratore - ho fatto solo il mio dovere». Il provvedimento è stato già notificato al comandante del contingente militare statunitense presente nella base di Sigonella. Il provvedimento di oggi affonda le basi nella sentenza del tribunale amministrativo di Palermo che ha accolto i ricorsi del movimento No Muos, presentati dai legali Nello Papandrea, Paola Ottaviano e Nicola Giudice. In sedici pagine i giudici smontano tutti i presupposti su cui si è basata la realizzazione del Muos nella base statunitense di Niscemi. Secondo il Tari lavori per l'impianto satellitare di comunicazioni militari sono «abusivi», perché privi delle necessarie autorizzazioni paesaggistiche e «viziati da difetto di istruttoria». Anche sul piano dei rischi per la salute causati dalle onde elettromagnetiche, il Tar si esprime, seppur indirettamente, facendo propria la relazione del perito Marcello D'Amore, ingegnere e docente all'università La Sapienza di Roma, dallo stesso Tar nominato. «Lo studio dell'Istituto superiore di sanità si è basato su procedure di calcolo semplificate che non forniscono accettabili indicazioni nell’ottica del caso peggiore». Di conseguenza, il provvedimento della Regione Sicilia - la cosiddetta revoca delle revoche basata proprio sulla relazione dell'Iss - che ha sostanzialmente dato il via libera all'ultimazione del Muos, «è contrassegnata da contraddittorietà fra atti, erroneità dei presupposti e difetto di motivazione». A seguito della sentenza del Tar, l'associazione Rita Atria, tramite il suo legale Goffredo D'Antona, aveva chiesto il sequestro alla procura di Caltagirone. Già nel luglio del 2013, era stato presentato il primo esposto denunciando il «grave illecito edilizio e ambientale, nonché la consequenziale «omissione degli enti preposti ai controlli». Una nuova denuncia si è aggiunta nel marzo del 2014 ed evidenziava la mancanza della concessione edilizia, ritenuta dalla legge non necessaria solo se le opere destinate alla difesa nazionale siano realizzate dallo stesso ministero della Difesa. Invece in questo caso si tratta di uno Stato estero, gli Usa. Nelle ultime settimane, i due esposti erano stati ulteriormente integrati da documenti che dimostravano come, nonostante la decisione del Tar, i lavori nel cantiere del Muos continuassero. Si tratta dell 'articolo di MeridioNews con le dichiarazioni del'ambasciata statunitense a Roma, che spiegava come fossero in corso delle prove di trasmissione, e di un video degli attivisti No Muos in cui sono visibili, all'interno della base Usa di Niscemi, operai al lavoro e mezzi pesanti per il movimento terra. Infine l'associazione aveva anche denunciato la polizia di Caltanissetta per la scorta a operai e militari dentro la base Usa di Niscemi. «Siamo soddisfatti e contenti nel vedere che le tesi dell'associazione siano state ritenute valide dalla Procura», commenta l'avvocato D'Antona. «Prendiamo atto della decisione della Procura di Caltagirone di ordinare il sequestro dell'impianto satellitare Muos a seguito della decisione del Tar di Palermo», fa sapere l'ufficio stampa della stazione aeronavale della marina Usa di Sigonella. «Ogni nostra azione avviene nel pieno rispetto della normativa italiana, ci auguriamo una rapida risoluzione del contenzioso al fine di garantire un efficace sistema di comunicazione finalizzato alla difesa». E, conclude, «l'occasione ci è utile per sottolineare la nostra piena disponibilità alle autorità e al territorio per qualunque chiarimento e per ricordare che ripetuti studi effettuati dalle autorità sanitarie italiane competenti hanno dimostrato l'assenza di rischi ambientali e alla salute collegati a questa installazione». (fonte: Meridionenews.it) link: http://meridionews.it/articolo/32628/il-muos-finisce-sotto-sequestro/ Industria - commercio di armi, spese militari Spese militari mondiali in crescita. Rete Disarmo: occorre cambiare direzione (di Rete Italiana per il disarmo) Pubblicati i dati SIPRI relativi al 2015: il totale dei fondi destinati ad armi ed eserciti cresciuto dell'1% in termini reali. Dopo tre anni di stasi riprende la crescita iniziata nel 2001. Una nuova ripresa della spesa militare a livello mondiale. E' questa la situazione suggerita dai dati pubblicati oggi dell'Istituto SIPRI di Stoccolma. Dopo tre anni di relativa stasi la crescita misurata nel 2015 si attesta circa sull'1% in termini reali. L'ammontare complessivo delle spese militari è stimato dai ricercatori svedesi in 1.676 miliardi di dollari, equivalenti al 2,3% del prodotto interno lordo mondiale. Nel complesso i primi 15 paesi di questa speciale classifica spendono per gli eserciti e le armi almeno 1.350 miliardi di dollari, equivalenti all'81% del totale. In testa alla classifica come sempre gli Stati Uniti d'America che da soli investono poco meno di 600 miliardi di dollari e contribuiscono al 36% della spesa militare complessiva (quota minore del recente passato grazie alla crescita robusta di altri Paesi). Dietro di loro la Cina, che ha visto una crescita annuale del 7,4% (complessivi 215 miliardi di dollari) e poi, superando anche la Russia, l'Arabia Saudita che ha fatto crescere la propria spesa militare del 5,7% (ad oltre 87 miliardi di dollari). Una crescita dovuta soprattutto agli investimenti diretti per la guerra in Yemen che coinvolgono anche acquisti di bombe italiane. Pur superata dal budget Saudita la Russia ha comunque incrementato la propria spesa militare del 10 7,5% (oltre 66 miliardi di dollari totali). “Come al solito dobbiamo considerare questi dati soprattutto dal punto di vista dei trend generali, perché non è mai semplice valutare fino in fondo le effettive spese militari pubbliche - commenta Francesco Vignarca coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo – le indicazioni sono però chiare sia per quanto riguarda il mondo nel suo complesso sia per quanto riguarda l'Europa occidentale: dopo qualche anno di rallentamento causato dalla crisi finanziaria è all'orizzonte una ripresa degli investimenti militari”. Una tendenza, quella del 2015, probabilmente stimolata e giustificata agli occhi dei decisori politici dagli eventi terroristici in Europa ed in Occidente e che continua quindi nel solco delle scelte sbagliate di questo millennio. Va ricordato infatti come la spesa militare mondiale sia stata in continua e robusta crescita dal 2000 in poi, con un aumento di oltre il 50% in termini reali proprio a seguito della “guerra al terrore” dichiarata dopo l'11 settembre 2001. Una “risposta armata” che però non ha contribuito a risolvere i problemi, come appare chiaro dalla cronaca di questi temi, ma è servita solamente a far crescere i fatturati delle aziende a produzione militare. Non va infine dimenticato che tali cifre sono relative ai bilanci statali, da cui sfuggono i valori relativi alle forniture di armi a titolo gratuito (si pensi ad esempio a tutte le milizie coinvolte nei conflitti aperti) e ai traffici clandestini di armi piccole e leggere, che alimentano conflitti in varie are geografiche. “Riteniamo poi significativa e preoccupante anche l’impossibilità esplicitata da parte dei ricercatori del SIPRI di valutare nel complesso la spesa militare del Medio Oriente data la situazione d’instabilità diffusa e la difficoltà nel reperire dati affidabili” commenta inoltre Maurizio Simoncelli vicepresidente di Archivio Disarmo. Per quanto riguarda il nostro Paese, il SIPRI stima una spesa militare di poco inferiore ai 24 miliardi di dollari, segnalando un brusco calo nell'ultimo decennio, ponendo l'Italia al dodicesimo posto a livello mondiale (per una quota pari al'1,4% del totale). Dati che però non devono trarre in inganno poiché, proprio a causa dei meccanismi opachi di finanziamento della spesa militare italiana che da tempo anche Rete Disarmo denuncia, probabilmente a Stoccolma non sono riusciti a valutare appieno la complessiva spesa militare italiana. Mettendo in fila i dati ufficiali dell'ultima legge di Stabilità si raggiunge infatti un totale di 23,12 miliardi di euro corrispondenti (con cambio medio 2015 di 1,1) ad oltre 25 miliardi di dollari e non a meno di 24 miliardi come valutato dal SIPRI. Il motivo della differenza sta forse nei fondi “extra bilancio” (in particolare dalle missioni militari e dal Ministero per lo Sviluppo Economico) su cui la Difesa può contare e i cui dati non sono facilmente rintracciabili, soprattutto per quanto riguarda osservatori stranieri. La Rete Italiana per il Disarmo è soprattutto preoccupata della possibile ripresa della spesa militare mondiale ed europea (vanno ricordate infatti le recenti ipotesi della Commissione Europea di non considerare nel deficit la spesa armata) che continuerebbe solo a drenare negativamente risorse altrimenti utili e necessarie a costruire una vera sicurezza basata su uguaglianza, diritti, lavoro, welfare. Per questo motivo la Rete Italiana per il Disarmo partecipa all'iniziativa della “Global Campaign on Military Spending” promossa dai propri partner europei e coordinata in particolare dell'International Peace Bureau (organizzazione premio Nobel per la Pace 1910). Anche quest'anno, come avviene dal 2011, si celebra infatti proprio il 5 aprile il “Global Day of Action against Military Spending” con iniziative che si protrarranno fino al 18 aprile. Per ulteriori informazioni > http://demilitarize.org/global-day-actionmilitary-spending/ (fonte: Rete Italiana per il disarmo) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2503 Politiche sociali Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili (di Fabio Pizzi) Servono, maltrattati in questo modo anche dall’informazione che dovrebbe accostarsi a loro diversamente, nei cambi stagione per riempire i buchi di cronaca. Sono i tristi protagonisti di classifiche post invernali o pre grandi eventi. Sto parlando di coloro i quali non hanno fissa dimora e su cui gli epiteti si sprecano. “Senzatetto”, “vagabondi”, “invisibili”; ma anche vezzosamente e in un francese molto snob e falsamente romantico “clochard”, oppure “ultimi” e comunemente “barboni”. Negli Stati Uniti sono detti “homeless” e ormai sono considerati una sottocategoria umana dalla quale è bene discostarsi il più possibile. In realtà stiamo parlando di persone in difficoltà, donne, bambini, uomini che vivono a migliaia in Italia e a milioni su tutto il pianeta per la strada, ai margini di tutto. Ma queste persone hanno una storia, un nome e un cognome, una vita, insomma, con dei diritti e dei sogni. Spesso sono alla ricerca della dignità perduta o cercano, a volte disperatamente, un qualsiasi modo per mantenerla la dignità. Ai membri della società dei “giusti”, “degli inseriti” danno fastidio - sia all’olfatto che alla vista e forse, ma forse, anche all’anima che, maledetta, insiste coi suoi sensi di colpa. E allora via, lontano. Occhio non vede, coscienza (sporca) non duole. L’ultimo fatto assurto agli onori della cronaca arriva dal Municipio Bassa Val Bisagno di Genova, dove si è deciso di installare sulle panchine di un parco pubblico barriere anti sdraiamento in modo da non permettere ai numerosi senzatetto gravitanti nella zona di dare fastidio con la loro presenza. Alle polemiche susseguite a tale decisione si è deciso di rispondere con un fine tecnicismo, di quelli che solo l’azzeccagarbuglica pseudopolitica italiana è capace di sfornare “la scelta è stata fatta per tutelare i senzatetto in quanto le panchine si trovano dislocate in un luogo a rischio esondazione e pertanto si è pensato bene di non rischiare la loro incolumità in caso di pericolo provocato dall’acqua”. Ma chi ci crede?! Siamo seri. Nel frattempo a Milano, pure qui tempi elefantiaci, prende piede quel progetto, facente capo a Grandi Stazioni e cinque anni fa salutato con un plauso dalla ex Sindaca Moratti, che prevede l’applicazione di inferriate all’ingresso della Stazione Centrale del capoluogo lombardo per allontanare i barboni. La cancellata però, per bocca del Sindaco Pisapia, è riuscita solo nello scopo di dividere in due la città tra favorevoli e contrari. Per Majorino, assessore comunale al Welfare ”non convince il metodo, ed è una scelta risalente ad anni fa che appare improvvisata. Sarebbe molto più utile se Grandi stazioni e Ferrovie dello Stato fossero altrettanto solerti nel mettere a disposizione alcuni locali dietro la Stazione per fare accoglienza e risolvere il problema con una positiva azione sociale". Contrario si è dichiarato anche il Presidente di Progetto Arca Alberto Sinigallia, associazione tra le più attive a sostenere il Comune nell’aiuto ai senzatetto “le cancellate sono il modo sbagliato di affrontare la questione: l’unico risultato sarà quello di veder migrare i bivacchi di disperati in altri luoghi.” Insomma, come dicevamo, lontano dagli occhi lontano dal cuore, certo, ma soprattutto lontanissimo dalla soluzione del problema. Ma quante persone senza una casa dove stare ci sono in Italia? Basandosi sul secondo censimento fatto nel 2014 riguardante coloro i quali nel periodo di riferimento (mesi di novembre e dicembre) hanno usufruito almeno una volta di un servizio di mensa o accoglienza notturna in uno dei 158 comuni italiani che da nord a sud hanno aderito all’indagine, si tratterebbe di circa 50.200 individui. Sempre da questa particolare, e quantitativamente complessa, indagine realizzata a partire dal 2012 grazie a un accordo tra Istat, Ministero del welfare, fio.PSD (Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora) e Caritas, è emerso che le cause principali per le quali i cittadini finiscono per strada sono la perdita 11 dell’impiego e il divorzio; la quota più alta di senzatetto risiede ancora nelle regioni del Nord-ovest (38%) ma, purtroppo, aumenta anche quella di chi vive al Sud (dall’8,7% all’11,1% del 2011). Per quanto riguarda la situazione nelle città, Milano e Roma sono quelle che ne contano di più: rispettivamente il 23,7% e il 15,2%, con Palermo (il 5,7%) sul terzo gradino di questo triste podio. Rispetto alla rilevazione 2012, nel 2014 risulta confermato il profilo tipo di questi senza casa: sono per la maggior parte uomini (85,7%), immigrati (58,2%), con un basso titolo di studio (solo 1/3 raggiunge almeno il diploma di scuola media superiore) e con meno di 54 anni (75,8%). Un fenomeno in continua crescita che le istituzioni e i cittadini faticano a comprendere e ancor di più ad accettare e gestire. E se da un lato, come magistralmente spiegato da Elisabetta Grande, Professoressa Ordinaria di diritto comparato all’Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, nella grandi città d’Italia sono in corso scimmiottature delle politiche aggressive contro i poveri e i senza tetto, adottate negli Stati Uniti nel corso degli anni ’80 e ‘90 per fare degli homeless dei veri e propri “nemici sociali” da emarginare il più possibile senza che gravino sulle casse pubbliche, dall’altro, da Trento a Palermo, esistono donne e uomini che in varie associazioni lavorano quotidianamente perché la dignità non sia un cavillo ma un diritto proprio di ogni abitante di questo piccolo e incasinato posto chiamato mondo. Fabio Pizzi (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Gli-ultimi-saranno-gli-ultimi-se-i-primisono-irraggiungibili-156480 Prospettiva di genere Occhio non vede… (di Simona Sforza) Ho come l’impressione che in questo strano Paese si preferisca non vedere, non capire, non sapere. Per non farsi troppo male oppure per non guastare il clima di sospensione e di ottimismo artefatto in cui siamo immersi. La mitologia ci piace più della realtà. Non ci piace avere qualcuno che ci dica che le cose non vanno proprio nel verso favoleggiante che da tempo ci viene somministrato. Me ne accorgo quando pubblico articoli come questo in cui parlo del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) a cura dell’Istat, a quanti interessa questo tipo di approfondimento? Quanti si pongono domande e desiderano capire come vanno le cose? Quanto le nostre politiche riescono ad adoperare adeguatamente le analisi che periodicamente vengono pubblicate? La mia impressione quando parlo di adoperare un’ottica di genere nell’azione politica, di programmazione, di progettazione, di visione sul futuro, di pianificazione degli interventi locali o nazionali, è di profondo smarrimento. “Ah, ma tu sei sempre quella in trincea per i diritti delle donne, ma non puoi occuparti d’altro?” Forse darò un dispiacere a qualcuno, ma continuerò ad occuparmene, perché penso che lavorando in questo senso ne possa beneficiare l’intero sistema socio-economico. Diamo fastidio se ci preoccupiamo di occupazione, flessibilità, condivisione, work-life balance cercando di applicare le differenze di genere e di evidenziare le problematiche peculiari di certi temi? Cosa c’è di normale per esempio nel fatto che nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, secondo i dati Istat, nel 2015, il tasso di occupazione è del 73,9% per le single, mentre per le donne in coppi con figli scivola al 44%, e crolla al 20,1% quando il numero dei figli è pari o superiore a tre? Dal 16 aprile Linda Laura Sabbadini non sarà più la direttrice del Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali di Istat, che cessa di esistere per grandi lavori di ristrutturazione dell’Istituto. Davvero pensiamo che cancellando un dipartimento, che interrompendo il prezioso lavoro nel campo delle statistiche sociali e di genere svolto da Sabbadini, si riuscirà a silenziare le voci di coloro che quotidianamente sottolineano che questo non è ancora un Paese per donne, per lavoratrici, paritario? Le discriminazioni ci sono ancora, gli sforzi fatti sinora evidentemente non hanno risolto un granché, perché la realtà è più complessa e delicata delle rappresentazioni iconografiche da twitter. La realtà è quella che emerge dalle statistiche e dai lavori che il dipartimento di Sabbadini ha sinora elaborato. E non ci stiamo alla vulgata secondo cui le donne italiane se la passerebbero meglio rispetto al passato. Non è evitando di leggere che le discriminazioni, i problemi del lavoro delle donne sono tuttora vivi e laceranti che potremo superarli. La fotografia periodicamente scattata dall’Istat non deve venire a mancare, le buone pratiche non devono andare perdute. Le indagini su salute, sicurezza, benessere, violenza, lavoro, abusi ambientali e povertà non devono smarrire la loro forza, la loro capacità di mettere in luce le distorsioni della realtà. C’è da lavorare per sanare la ferita dell’occupazione femminile, gravata dai compiti di cura che ancora pesano maggiormente sulle donne, dalla mancanza di sostegni reali per un benessere diffuso, a misura anche di donna. Non abbiamo bisogno di una mano di tinteggiatura rosa, ma di vedere i fenomeni delle differenze di genere, delle discriminazioni, delle spaccature della società per come sono realmente. Non possiamo di punto in bianco arrivare a sotterrare tutto perché non ci piace ciò che si rileva. Non sbuffate ogni volta che vedete un grafico che evidenzia come per noi donne è ancora una vita tutta in salita, in trincea. Non sbuffate dicendo che ormai donne e uomini hanno gli stessi problemi in campo lavorativo. Non sbuffate e reagite quando si vuole mandare in fumo anni di ricerche e di un approccio finalmente corretto e innovativo, di genere agli studi statistici. Dobbiamo preoccuparci se qualcuno vuole sottrarci gli strumenti per capire come stanno andando veramente le cose per noi donne e per l’intera società, per quelle fasce invisibili e poco considerate della popolazione. Abbiamo cancellato la figura della Ministra delle Pari Opportunità o di una qualche delegata, le politiche di genere sono alla mercé della buona volontà dei/delle singoli/e, si azzerano i fondi alle Consigliere di parità, i diritti delle donne sono sempre più incerti e sotto attacco, arriva la notizia della Sabbadini, mi sembra un quadro tutt’altro che rassicurante. Ci vogliono cancellare? Vogliono passare la gommapane sulle voci delle donne? Lasceremo che questo accada? Mi auguro proprio di no, e auspico che ci sia un moto di azione collettivo, siamo stanche di aspettare e di vederci messe nell’angolo, all’ultima pagina dell’agenda politica. In un Paese civile e che vuole progredire non si sottrae informazione indipendente e critica, ma la si incrementa. Quanto la situazione deve ancora peggiorare per mobilitarci seriamente tutte insieme? (segnalato da: Marina Amadei) link: https://simonasforza.wordpress.com/2016/04/02/occhio-non-vede/ Notizie dal mondo Egitto Egitto - Arabia Saudita: Re Salman al Cairo per salvare al-Sisi (di Michele Giorgio) Il sovrano saudita garantirà investimenti, prestiti e petrolio per oltre 20 miliardi di dollari. Si aspetta però che il presidente-dittatore egiziano assicuri fedeltà assoluta ai suoi disegni regionali e accetti, di fatto, la supremazia politica e diplomatica di Riyadh in Medio oriente. Al Sisi non 12 può dire di no con il suo Paese vicino al collasso economico. Sulle prime pagine dei giornali del Cairo ieri non dominava l’incontro a Roma tra i magistrati italiani e la delegazione egiziana sul brutale assassinio di Giulio Regeni. In queste ore per la stampa locale il tema centrale non è la ricerca della verità nel caso del giovane ricercatore italiano ma la visita ufficiale, cominciata ieri, di re Salman dell’Arabia saudita. Visita che i media egiziani definiscono “storica” considerando il suo corredo di accordi economici. Il titolo più concreto l’ha fatto al Gomhuria, uno dei giornali più ossequiosi verso il regime: «Al Sisi-Salman, vertice della ricostruzione dell’ordine arabo». Vero, però al Gomhoria non aggiunge un altro punto fondamentale. La visita di re Salman sancisce, di fatto, la fine della centralità dell’Egitto nell’ordine mediorientale e, di conseguenza, delle ambizioni diplomatiche del presidente Abdel Fattah al Sisi a tutto vantaggio di quelle del sovrano saudita. Re Salman, durante questo viaggio “storico”, grazie ai suoi miliardi di dollari, comprerà l’Egitto e la sua politica estera. E al Sisi reciterà nei prossimi mesi o anni, ammesso che resti così tanto al potere, la particina dell’attore decaduto che si accontenta di fare un cameo ogni tanto e di non essere più il protagonista. Re Salman non intende più regalare miliardi di dollari ad alleati che poi si sottraggono al dovere di fedeltà piena alla monarchia saudita. È stato così anche per al Sisi. Riyadh nel 2013 aveva accolto con gioia la notizia del colpo di stato compiuto dall’esercito egiziano a danno del presidente islamista Mohammed Morsi e dei Fratelli musulmani, “nemici” che da sempre mettono in dubbio la legittimità del titolo di custode di Mecca e Medina, i due principali luoghi santi islamici, che si è attribuito la famiglia al Saud. Una gioia alla quale sono seguiti investimenti, prestiti e depositi nella banca centrale, anche da parte di altre petromonarchie, per quasi 35 miliardi di dollari. Soldi che hanno puntellato la traballante economia egiziana uscita con le ossa rotte da due anni e mezzo di instabilità post Mubarak. Al Sisi ha preso i dollari e ringraziato. Negli ultimi tre anni però si è mostrato in più di un’occasione non in linea perfetta con la politica estera dell’Arabia saudita, specialmente da quando Salman è diventato re, poco più di un anno fa. Certo il Cairo ha aderito alla cosiddetta “Coalizione antiterrorismo” (nei fatti antisciita e anti Iran) messa in piedi da Salman e ha appoggiato l’offensiva saudita in Yemen inviando una squadra navale. Dopo però non ha dato alcun impulso reale alla creazione, proposta un anno fa da Riyadh, di una forza militare (sunnita) di pronto intervento contro le «ingerenze esterne» (l’Iran) segnalando di non appoggiare completamente la diplomazia aggressiva di re Salman. Più di tutto ha riallacciato, in una versione soft, relazioni con Damasco, nemica giurata dei Saud, e ha continuato a punzecchiare la Turchia di Erdogan (alleata dei Fratelli Musulmani) che pure ha stretto i rapporti con Riyadh nel nome della lotta comune al presidente siriano Bashar Assad e ai suoi alleati. L’atteggiamento egiziano ha irritato non poco re Salman e i suoi alleati ma il monarca saudita sa che la bancarotta dello Stato egiziano non giocherebbe a favore dei suoi disegni regionali, mentre il nemico Assad è sempre al potere e l’offensiva in Yemen contro i ribelli Houthi (appoggiati da Tehran) ha avuto sino ad oggi un successo limitato (ma ha provocato migliaia di vittime civili). Così, malgrado le sue finanze si siano assottigliate per il drastico calo del prezzo del petrolio, Riyadh ha deciso di correre in soccorso dell’Egitto e di dare l’aiuto economico necessario per tenerlo in piedi. «I sauditi non permetteranno il collasso dell’Egitto – spiega l’analista Mustafa Alami – ma allo stesso tempo, non possono pagare per sempre. Credo che re Salman cercherà di spiegarlo agli egiziani questo problema». Significa che re Salman non vuole versare miliardi di dollari senza assicurarsi della fedeltà assoluta dell’Egitto alla sua politica estera. Al Sisi conosce il prezzo che dovrà pagare e non può fare a meno di accettarlo viste le condizioni del Paese, alle prese con un Pil che cresce troppo poco per creare sufficienti posti di lavoro, un debito estero elevato e un debito pubblico galoppante. Senza dimenticare che il raddoppio del Canale di Suez. completato quasi un anno fa, si è rivelato, almeno sino ad oggi, molto deludente. Un primo segnale, passato quasi inosservato, della disponibilità egiziana ad accontentare re Salman, è stato l’ordine dato tre giorni fa dal regime al server satellitare Nilesat di spegnere immediatamente la frequenza di al Manar, il canale televisivo di Hezbollah, per affermare l’adesione del Cairo alla lotta senza quartiere che l’Arabia saudita ha lanciato il mese scorso contro il movimento sciita libanese Hezbollah, alleato di Assad e dell’Iran. Nelle ultime settimane i ministri egiziani hanno fatto la spola con Riyadh per assicurarsi il nuovo pacchetto di aiuti. L’Arabia Saudita oltre a garantire investimenti per quattro miliardi (dei quali 1,5 miliardi per progetti di sviluppo nel Sinai) darà anche il via libera a un accordo da 20 miliardi di dollari a sostegno del fabbisogno egiziano di petrolio nei prossimi cinque anni. Tuttavia i soldi potrebbero non bastare a cementare un rapporto che di fatto che sancisce, a svantaggio del Cairo, la supremazia nella regione di Riyadh che per decenni aveva avuto solo quella economica. «Egitto e Arabia saudita sono come due coniugi che litigano su tante cose ma che ha deciso di non divorziare per il bene dei figli», commenta il noto giornalista saudita Jamal Khashoggi. Nena News Michele Giorgio è su Twitter: @michelegiorgio2 (fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/egitto-arabia-saudita-re-salman-al-cairo-per-salvare-al-sisi/ Siria Perché l'autonomia di Rojava non è la separazione della Siria (di Chiara Cruciati) Ieri (17 marzo 2016) il Pyd kurdo ha annunciato la nascita di una regione federale a nord, un modello per il paese: una democrazia di base su livello comunitario e non la frammentazione su base etnica e religiosa voluta dalla comunità internazionale. Rojava balla da sola: ieri il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) ha annunciato quanto promesso, la nascita di una regione federale nel nord della Siria. I tre cantoni di Kobane, Afrin e Jazira con il loro modello di confederalismo democratico si rendono autonomi da Damasco. Una decisione unilaterale, non legittimata né a livello nazionale che internazionale, ma che avrà conseguenze. Per due ragioni: l’ira del presidente turco Erdogan e la realtà sul terreno. Le ovvie reazioni alla dichiarazione di ieri sono state di rifiuto. Da parte di tutti: Damasco, Stati Uniti e Turchia hanno criticato, ognuno a modo suo, una mossa considerata affrettata e unilaterale. Ma vanno sempre tenuti in considerazione gli equilibri politici sul campo: Rojava ha saputo dare vita in pochi anni ad un modello funzionante di democrazia dal basso, di cui fanno parte sì i kurdi siriani, ma anche arabi, turkmeni e cristiani. E la loro capacità militare (ma anche ideologica) di resistenza alla macchina da guerra dello Stato Islamico ne hanno fatto un imprescindibile alleato, sia per l’Occidente che per il fronte Mosca-Damasco. Tanto che ieri, dal meeting del Pyd nella città di Rmeilan, ad Hasakah, è uscito un comunicato nel quale Rojava si dice pronta a proseguire la lotta contro l’Isis al fianco di Usa e forze governative. Perché, ribadiscono, la regione federale resterà parte integrante dello Stato siriano: è stata ribattezzata, infatti, “Sistema democratico federale di Rojava-Siria del nord”. Nonostante l’attesa presa di posizione di Damasco («una mossa incostituzionale e senza valore», commenta il Ministero degli Esteri siriano), non è campata in aria l’idea che nel futuro della Siria i kurdi ottengano quell’autonomia che rincorrono da decenni e che – dicono da Rmeilan – vorrebbero diventasse un modello per l’intero paese: non una 13 divisione federale su base etnica o religiosa, ma una struttura di governo che si fondi sulla democrazia di base e di autogoverno delle comunità. Un’idea ben diversa dalla divisione federale immaginata dalla comunità internazionale e messa sul tavolo di Ginevra che andrebbe invece a radicare i settarismi interni, invece di risolverli. La dichiarazione va letta come mossa preventiva da parte di un soggetto che, pur stretto alleato statunitense e russo, è escluso dai negoziati di Ginevra. A tenerli fuori è stato il diktat del presidente-sultano turco che probabilmente ora starà vedendo i sorci verdi. La reazione non dovrebbe tardare ad arrivare, parte integrante della campagna che si abbatte su tutto il Kurdistan storico, dall’Iraq al sud est turco. Contro il Pyd Ankara si muove da tempo. Non solo abbandonando i civili assediati dall’Isis, non solo facendo passare dalla propria porosa frontiera aiuti agli islamisti. Lo farebbe anche attraverso una vera e propria milizia, “Nipoti di Saladino”, unità di kurdi integrata dentro l’Esercito Libero Siriano. Kurdi contro kurdi: i Nipoti di Saladino ricevono sostegno da Ankara, raccontano loro stessi a Middle East Eye, in chiave anti-Rojava perché contrari al modello politico dei tre cantoni e perché convinti dell’alleanza tra Pyd e governo di Damasco. L’obiettivo, racconta Mahmoud Abu Hamza, comandante della milizia basata in Turchia, è impedire l’avanzata dell’Isis ma soprattutto evitare ampliamenti territoriali del Pyd. Coperti dall’artiglieria turca, i 600 miliziani kurdi del gruppo (provenienti da villaggi della provincia di Aleppo) avrebbero già assunto il controllo di alcuni villaggi tra Azaz e Jarabulus, corridoio lungo il confine occidentale che la Turchia da tempo considera linea rossa invalicabile dalle Ypg. Le comunità sono state strappate allo Stato Islamico, ieri oggetto del voto della Camera Usa che ha definito quello commesso contro yazidi, cristiani, sciiti iracheni e siriani «genocidio». Ci sono dei kurdi che al governo turco piacciono: i Nipoti di Saladino, ideologicamente avversi al Pkk, e quelli iracheni con cui Ankara ha intrecciato fruttose collaborazioni economiche. La Erbil del presidente Barzani, dopotutto, non ha mai nascosto l’intenzione di trasformare l’attuale autonomia in un’indipendenza, finalmente lo Stato del Kurdistan ma nei soli confini iracheni, che tagli fuori Rojava e Bakur. Qui a muoversi sono i movimenti di sinistra legati al Pkk: mentre nel sud est della Turchia la brutale campagna militare in corso spinge sempre più kurdi verso il sogno di un’entità autonoma, in Siria il sogno è una realtà, seppur unilaterale. La strategia anti-kurda di Ankara – militare, politica, mediatica – non ha fiaccato la resistenza kurda. Eppure Erdogan ci prova, sfruttando dichiarazioni politiche e attentati per portare acqua al mulino della propaganda di Stato. Non funziona: per la seconda volta in poco più di un mese il gruppo separatista kurdo Tak ha rivendicato l’attacco di Ankara di domenica scorsa, come quello del mese precedente a Istanbul, smontando il castello di carte governativo. Poche ore dopo l’esplosione in cui sono morte 37 persone, Ankara si era affrettata ad attribuire la colpa al Pkk e a lanciare una dura rappresaglia a sud est. Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati (fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/perche-lautonomia-di-rojava-non-e-la-separazione-dellasiria/ Notiziario TV Video Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" Videolettura di Gianni Caputo (di Antonio Gramsci, Gianni Caputo) Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" - Videolettura di Gianni Caputo - musica di Maurice Ravel “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. 11 febbraio 1917 link: https://www.youtube.com/watch?v=OEuFMrvj9dE Associazioni Documenti “La Costituzione bene comune”. In un volume di novanta pagine tutte le ragioni del No alla “deforma” costituzionale Renzi-Boschi (di Coordinamento democrazia costituzionale) Interventi di Azzariti, Besostri, Carlassare, Ferrara, Gallo, Grandi, Pace, Rodotà, Villone, Zagrebelsky. Tutte le ragioni del No; un utile vademecum per informare e informarsi e per avere sempre una risposta pronta da contrapporre alle argomentazioni dei sostenitori del sì. Si intitola “La Costituzione bene comune” il volume, 14 edito da Ediesse, che raccoglie gli interventi svolti durante l’assemblea dell’11 gennaio scorso convocata dal Comitato per il No al referendum costituzionale. Novanta pagine nelle quali sono spiegate, con competenza e passione, le ragioni di un’opposizione che non è ideologica, ma fondata su argomenti precisi, oggettivi, documentati. A spiegare perché bisogna votare No al prossimo referendum di ottobre (che non è una gentile concessione del governo, ma una chiara disposizione costituzionale) sono giuristi e costituzionalisti del calibro Gaetano Azzariti, Felice Besostri, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Gustavo Zagrebelsky. La “deforma” Renzi-Boschi deve affrontare l’ultimo passaggio parlamentare alla Camera (previsto nel corso del mese di aprile), ma la campagna per il No è già partita: nel week end del 9-10 aprile inizia infatti la raccolta delle firme per sostenere il referendum (ne occorrono 500mila). Il volume si propone proprio di far conoscere le ragioni del No alla riforma costituzionale così come imposta dal governo. Ragioni che saranno la base per motivare la raccolta delle firme e, poi, convincere elettori ed elettrici a votare no in ottobre, quando avrà luogo il referendum. Il volume sarà disponibile a partire da martedì 30 marzo e, per sostenerne la diffusione a sostegno della campagna per la raccolta delle firme, Ediesse rispetto al prezzo di copertina di 10 euro lo propone scontato per acquisti: da 5 a 10 copie da 11 copie in poi 7 euro la copia 5 euro la copia Le richieste vanno inviate a Maggioli (tel. 06 44870283 – 06 44870325) al numero di fax 06 44870335 o ai seguenti indirizzi di posta elettronica: [email protected] o [email protected] fornendo le informazioni indicate nel modulo (scarica) link: http://coordinamentodemocraziacostituzionale.net/2016/03/31/la-costituzionebene-comune-in-un-volume-di-novanta-pagine-tutte-le-ragioni-del-no-alladeforma-costituzionale-renzi-boschi/