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Notiziario settimanale n. 582 del 15/04/2016
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
15/04/2016: Anniversario uccisione Vittorio Arrigoni
Non si nasce fratelli ma si diventa esercitandosi ad ascoltare l'altro
accogliendo la diversità dell'altro rinnovando la fiducia nell'altro.
Enzo Bianchi
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
Ribadire l'antifascismo: una precisazione per il consigliere Benedetti (di
ANPI Massa)............................................................................................. 1
Guerre, terrorismi e propaganda mediatica (di Nanni Salio)...................... 2
Striscia la notizia ride dei profughi (di Marco Rovelli) .............................. 2
Evidenza...........................................................3
Non è alle viste (di Alessandro Gilioli)...................................................... 3
Sul Referendum NOTRIV del 17 aprile 2016. La dichiarazione del
Movimeto Nonviolento (di Movimento Nonviolento)................................ 3
Gli argomenti della settimana........................4
Il sonno della ragione genera mostri. Meglio svegliarsi (di Pasquale
Pugliese).................................................................................................... 4
Breve discorso delle cinque guerre e delle cinque dittature (di Peppe Sini)
................................................................................................................... 5
Contro la preparazione della guerra in Libia (di Pax Christi) .....................7
Una riflessione sulla maternità surrogata (di Caracal Anton) .....................7
Approfondimenti.............................................8
Referendum e trivelle (di Arturo Lorenzoni).............................................. 8
Trivelle in mare e incidenti (di Redazione Pressenza Italia) .......................9
Sequestrato il Muos, carabinieri nella base Usa. Procuratore: «Ho fatto
solo il mio dovere».................................................................................... 9
Spese militari mondiali in crescita. Rete Disarmo: occorre cambiare
direzione (di Rete Italiana per il disarmo)................................................ 10
Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili (di Fabio Pizzi)
................................................................................................................. 11
Occhio non vede… (di Simona Sforza).................................................... 11
Notizie dal mondo......................................... 12
Egitto - Arabia Saudita: Re Salman al Cairo per salvare al-Sisi (di Michele
Giorgio)................................................................................................... 12
Perché l'autonomia di Rojava non è la separazione della Siria (di Chiara
Cruciati)................................................................................................... 13
Notiziario TV.................................................14
Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" - Videolettura di Gianni
Caputo (di Antonio Gramsci, Gianni Caputo).......................................... 14
Associazioni................................................... 14
“La Costituzione bene comune”. In un volume di novanta pagine tutte le
ragioni del No alla “deforma” costituzionale Renzi-Boschi (di
Coordinamento democrazia costituzionale)............................................. 14
1
Editoriale
Ribadire l'antifascismo: una precisazione per il
consigliere Benedetti (di ANPI Massa)
Pubblichiamo un comunicato sulle posizioni del Consigliere Benedetti
rispetto all'ODG presentato in Consiglio dal Cons. di RC Cavazzuti, ed
inviato agli organi di informazione, sui quali purtroppo ancora non è
apparso. Si chiede quindi l'aiuto a divulgarlo a tutti gli antifascisti. Seguirà
poi altro comunicato relativo alle posizioni "storiche" di Frediani che sono
simili a tante posizioni in cui emerge un oggettivo preconcetto verso la
Resistenza, cosa contro la quale combattiamo putroppo da ormai decenni e
che si sono consolidate in un revisionismo ideologico di parte. E' per
questi motivi che la sensibilità antifascista, che la Costituzione sostiene,
va coltivata da tutti!
Una precisazione per il consigliere Benedetti.
Torniamo a ripetere che bisogna intendersi bene sul termine antifascismo,
se lo facessimo si eviterebbero tante incomprensioni, anche con esponenti
della destra alla Benedetti, che come di solito un po’ strumentalizza le
questioni. Infatti, nell’ultima querelle relativa alla richiesta di
Rifondazione Comunista di una dichiarazione di intenti antifascisti da
parte di chi utilizza degli spazi pubblici comunali, ha avanzato la proposta
di chiedere anche una dichiarazione di anticomunismo. Capiamo la sua
verve polemica, ma proviamo di nuovo a spiegare dove sbaglia.
Per noi anche Benedetti, inteso nel suo ruolo istituzionale di Consigliere
Comunale, è un antifascista, forse a sua insaputa, come lo sono e lo
devono essere in base alla Costituzione tutti i rappresentanti dello Stato,
fin nelle loro declinazioni territoriali più vicine ai cittadini.
L’antifascismo non è una parte opposta ad una altra parte che si chiama
fascismo. Mentre quest’ultimo è espressione di interessi di una parte
ideologica, purtroppo negativa nella storia del paese, l’antifascismo è un
superamento di tali interessi nell’interesse comune di tutti. È quindi un
innalzare il livello del discorso politico, e per questo il suo valore è sancito
dalla Costituzione. L’antifascismo come discorso di metodo ha ancor oggi
una valenza importante per la nostra democrazia, lo ha ricordato in
maniera chiaraCeccotti, Presidente del Consiglio Comunale, il giorno
della Liberazione.
Dichiarare l’antifascismo dovrebbe essere superfluo perché esso è valore
insito nel nostro sistema, ma la contingenza politica nazionale e
internazionale nella quale riemergono, senza alcuna contestazione di
legalità, gesti, bandiere, parole d’ordine, simboli, slogan e azioni
dichiaratamente di carattere fascista e nazista, rendono opportuno farlo.
Rispetto alla provocazione sull’anticomunismo rispondiamo che l’ANPI
non si configura mai in senso ideologico, non dovendo e non volendolo
fare, dato che rappresenta tutto l’arco delle forze politiche antifasciste che
contribuirono poi alla Costituzione. In tal senso l’ANPI non ha certo
l’ambizione di distribuire patenti di antifascismo, più umilmente si pone a
salvaguardia di tale valore, nulla di più.
Un po’ divertitisuggeriamo a Benedetti di inoltrare la sua richiesta in
Russia, dove tra l’altro ci hanno pensato da soli,nel 1991,quando misero al
bando il PCUS, esprimendo una condanna sul come era stato gestito dal
partito lo sviluppo del comunismo, ma non certo rigettando in sé l’ideale
di una società più egualitaria e giusta.
Gruppo di redazione: Antonella Cappè, Chiara Bontempi, Maria Stella
Buratti, Marina Amadei, Daniele Terzoni, Federico Bonni, Giancarlo Albori,
Gino Buratti, Massimo Pretazzini, Michele Borgia, Oriele Bassani, Paolo
Puntoni, Roberto Faina e Severino Filippi.
Rispetto al nostro paese c’è da chiedere quale comunismo si dovrebbe
rinnegare. I comunisti, infatti, sono stati antifascisti per tutti i 20 anni del
regime e ciò non fu certo un male, hanno fatto poi la Resistenza, la lotta di
Liberazione, collaborato a scrivere la Costituzione e soprattutto assieme a
tutte le altre forze antifasciste dell’arco costituzionale, nel dopoguerra
hanno contribuito a costruire il paese ed il nostro sistema democratico.
Nella nostra Associazione ci stanno con pari dignità popolari, socialisti,
comunisti, repubblicani, azionisti, per parlare delle forze politiche
storiche, e comunque tutti coloro che credono in una politica di alto valore
etico che trova appunto il suo fondamento nell’antifascismo.
ANPI Sezione Massa
Guerre, terrorismi e propaganda mediatica (di
Nanni Salio)
Pubblichiamo questo articolo, scritto a gennaio da Nanni Salio, scomparso
recentemente, che ci è stato segnalato dall'amico Enrico Peyretti e che è
stato pubblicato sul numero del 15 febbraio 2016 di uova Società.
Ricorrono in questi giorni 25 anni dalla prima guerra dei Bush contro
l’Iraq, nel 1991. Un quarto di secolo è un periodo sufficiente per valutare
successi ed errori e per cercare di dissipare la “nebbia della guerra” che
sempre avvolge queste storie. The fog of war è l’opera di Errol Morris,
regista di un bellissimo documentario su Robert McNamara, nel corso del
quale questo illustre personaggio racconta 11 lezioni che avremmo dovuto
apprendere dalla guerra (ma non abbiamo appreso!), di cui lui, come
segretario della difesa ai tempi di Kennedy e del Vietnam, se ne intendeva.
(The fog of War, di Errol Morris, disponibile in DVD, con sottotitoli in
italiano; vincitore dell’Oscar 2004 per i documentari, ottimo strumento
anche dal punto di vista educativo.)
Subito dopo la fine della guerra fredda e gli eventi del 1989 nei paesi
dell’Est europeo e del 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si
diffuse la sensazione che si sarebbe entrati in una fase della storia che
avrebbe segnato la fine delle guerre. Fu una speranza ingenua e al tempo
stesso pericolosa perché portò a una generale disattenzione rispetto ai
piani che il complesso militare-industriale-scientifico-mediaticocorporativo stava elaborando negli USA. Questi piani si riassumono nel
progetto di costruzione del “secolo americano”, con il predominio assoluto
e indiscusso della superpotenza statunitense: da un mondo bipolare a uno
unipolare, per assicurarsi il controllo delle risorse, a cominciare dal
petrolio. Per realizzarli si aumentano enormemente le spese militari e si
utilizzano i servizi segreti per far circolare informazioni del tutto
infondate.
Contestualmente alla guerra in Iraq, nota come prima guerra del Golfo,
anche se in realtà fu preceduta da quella tra Iran e Iraq negli anni 19801988, si scatenarono le guerre di secessione nei Balcani che portarono al
disfacimento della Yugoslavia (1991-1995).
Un altro evento che è necessario ricordare per comprendere cosa sta
accadendo oggi è la guerra per procura dei mujaheddin in Afghanistan
(1979-1989), finanziati e armati dagli USA, che contribuì, tra le altre
cause, al decadimento dell’Unione Sovietica.
Siamo abituati a vedere le ultime guerre in corso non come processi
storici, ma come singoli eventi. Nel diffondere questo atteggiamento sono
complici i media, che raramente svolgono un compito critico e fanno
prevalere soprattutto la propaganda a favore di una o dell’altra fazione in
guerra. Giornalismo di guerra, secondo il modello delle competizioni
sportive, invece che giornalismo di pace.
Per comprendere cosa è accaduto a partire dagli attentati dell’11 settembre
2001 che hanno colpito gli USA è necessario introdurre il concetto di
“contraccolpo” (blowback), termine usato dalla CIA per descrivere le
reazioni di altri paesi alle politiche di dominio progettate e sostenute dagli
sttrateghi del Pentagono.
Nella sua trilogia, Chalmers Johnson ne parla diffusamente e con grande
competenza. Sono tre libri che occorre conoscere per comprendere radici e
dinamiche delle crisi attuali (Gli ultimi giorni dell’impero americano. I
contraccolpi della politica estera ed economica dell’ultima grande
potenza, Garzanti, Milano 2003; Le lacrime dell’impero. L’apparato
militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano,
2
Garzanti, Milano 2005; Nemesi. La fine dell’America, Garzanti, Milano
2008). Come sostiene Johan Galtung, il blowback è la terza legge della
dinamica applicata alla politica internazionale: “a ogni azione corrisponde
una reazione, una controforza”. Il terrorismo degli stati, esercitato
dall’alto, con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal
basso, di coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente
civili, come peraltro fa il terrorismo di stato, che si limita a chiamare
questi “deplorevoli” eventi “effetti collaterali”.
Che cosa possiamo fare per cercare di dissipare la “nebbia della guerra”?
Ecco alcuni passi da compiere:
1 – Contestualizzare gli eventi: ricostruire la storia dei paesi in guerra,
attingendo alle molte fonti disponibili, soprattutto nei siti internet più
affidabili, pur sapendo che tutti possono sbagliare e che la verità è una
merce rara che viene nascosta dalla “nebbia della guerra”. Si possono
consultare
i
seguenti
siti
internazionali:
www.antiwar.com;
www.znetitaly.altervista.org; www.transcend.org e tra quelli italiani
segnaliamo: www.serenoregis.org, che contiene la traduzione degli
editoriali settimanali di Johan Galtung.
2 – Non cedere al ricatto della paura: chiediamoci quali sono le minacce a
cui dovremmo prestare maggiore attenzione. Nei paesi occidentali, la
probabilità di morire per un attentato terroristico è da 100 a 1000 volte
inferiore di quella di un incidente stradale o di una malattia terminale o
indotta dagli squilibri e inquinamenti ambientali. Bisogna inoltre sapere
che il terrorismo dei gruppi estremisti islamici provoca un numero di
vittime da 10 a 100 volte superiori tra i mussulmani rispetto agli
occidentali. E infine occorre prestare attenzione alle grandi minacce
globali: caos climatico, crisi energetica, crisi finanziaria, povertà e miseria
estreme, che vengono ignorate o lasciate in secondo piano.
3 – Giornalismo di pace invece che giornalismo di guerra: il giornalismo
di pace distingue tra conflitto e guerra. La guerra non è sinonimo di
conflitto ma l’esito di un conflitto non risolto. Il giornalismo di pace si
basa su tre passi fondamentali: mappare tutti gli attori del conflitto;
individuare i loro obiettivi legittimi (quelli che non violano i bisogni e i
diritti umani fondamentali); elaborare soluzioni concrete, costruttive e
creative per soddisfare gli obiettivi legittimi di tutte le parti in conflitto.
Esempi di questo tipo di giornalismo si trovano negli editoriali di Galtung.
Una approssimazione, tuttavia utile, a questo tipo di giornalismo è il
giornalismo di inchiesta di autori come Robert Fisk, John Pilger, Pepe
Escobar, Marinella Correggia, i cui articoli sono spesso disponibili in rete
anche in italiano.
(segnalato da: Enrico Peyretti)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2494
Striscia la notizia ride dei profughi (di Marco
Rovelli)
I Cara sono quei centri dove sono “ospitati” i richiedenti asilo in attesa
della risposta da parte della commissione che concederà o meno lo status
di rifugiato. Tra questi “ospiti”, dunque, ci sono molte persone che hanno
dovuto abbandonare la loro terra in stato di guerra, hanno dovuto
abbandonare i loro cari, hanno compiuto viaggi terribili e visto la morte in
faccia.
Poi arrivano qui, e si trovano a dover risiedere obbligatoriamente in un
centro, il Cara, che è una gabbia a cielo aperto: ci stanno in media sei
mesi, alcuni per un anno. Tanto ci vuole per avere una risposta. Nel
frattempo, la vita di quella persone in fuga, già spossessate di tutto ciò che
hanno, naviga in un vuoto assoluto. In una gabbia, senza più passato, né
futuro, in un eterno presente senza tempo, senza prospettive.
Pubblicità
Poi, arrivano le telecamere di Striscia la notizia, e allora l’ennesima
stazione della loro via crucis diventa quella televisiva. Il programma di
Ricci si prende gioco di loro mentre saltano le recinzioni per uscire dalla
gabbia in cui sono rinchiusi senza colpa alcuna, e ne fa zimbello. Li
espone al pubblico ludibrio, oscenamente, sacrificalmente. Chi sono,
questi? Quali le loro storie, probabilmente tragiche? Perché stanno
provando a uscire? Nulla di tutto questo: se ne ride, facendone esponenti
ridicoli di varie nazionalità in un “campionato salto inferriata”, a
avvalorare la tesi che “questi” (un questo indistinto, come si conviene alla
paranoia dell’invasione) arrivano e ci sfuggono.
Non solo un magistrale esempio di disinformazione (un fatto totalmente
decontestualizzato, che viene usato entro i soliti frame percettivi:
clandestino-criminale-invasore), chè a quelli siamo abituati, ma anche un
clamoroso esempio di razzismo: la persona reale scompare, ciò che resta è
l’immagine grottesca che noi facciamo di lei, e quell’immagine è del
“marocchino” che non riesce a saltare perché “ha mangiato troppo cous
cous” (giusto a un passo dalla scimmia con la banana, o dal selvaggio con
le labbra grosse e l’anello al naso). Ma poi, più di tutto, un vergognoso
oltraggio al concetto stesso di umano: quando manca a tali livelli il
rispetto per chi soffre non c’è più possibilità di salvezza, per nessuno.
(fonte: Il Fatto quotidiano)
link:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/06/striscia-la-notizia-ride-deiprofughi/2613127/
Evidenza
Documenti
Non è alle viste (di Alessandro Gilioli)
Ormai c'è un tabù, su questi terroristi islamici che uccidono in Europa.
Un tabù che abbiamo tutti paura di infrangere, specie qui a sinistra. Perché
se ne parli - per quanto munito di dati, ricerche socioeconomiche e
auctoritates per competenza - rischi di venire accusato di acquiescenza, se
non di complicità, con questi assassini. Comunque di giustificazionismo.
Come se fosse possibile giustificare chi uccide persone per fanatismo.
Ammazzando a caso, oltre tutto.
Eppure il tabù c'è e riguarda i percorsi esistenziali e mentali di questi
assassini. Le loro storie personali. I loro corridoi mentali: per come si sono
formati e poi deformati nei loro anni giovanili. Quando hanno iniziato a
simpatizzare per il jihad, a reperirvi l'identità che non trovavano nella
società europea. In cui pure molti di loro erano nati e tutti cresciuti.
Un'identità perversa che somiglia un po' a quella che molti ragazzi di
Napoli o Palermo trovano nella camorra o nella mafia: e anche lì, non è
che la condanna morale o giudiziaria debba impedire un ragionamento sui
motivi della radicazione di queste perversioni - e quindi sulle più efficaci
modalità per la loro estirpazione, oltre a quella repressiva.
Stavo "passando" poco fa qui in redazione uno splendido pezzo di Davide
Lerner da Molenbeek, il "quartiere dei terroristi" di Bruxelles, quello da
cui proveniva anche Salah e in cui Salah ha trovato rifugio e amici durante
la latitanza. Lo troverete venerdì sul giornale per cui lavoro, se interessa.
A me ha colpito molto. Si parla di ragazzi a cui dell'Islam non importava
nulla, finiti in Siria o Iraq a combattere con Daesh. Si ricostruisce
momento per momento, con le testimonianze di chi li conosceva molto
bene, il percorso che li ha trasformati. E ogni riga di racconto conferma la
tesi quasi solitaria dello studioso francese Olivier Roy: più che una
radicalizzazione dell'islam, quello che è successo in diverse città d'Europa
è un'islamizzazione del radicalismo. Cioè la scelta del fanatismo religioso
come unica forma di espressione di una contrapposizione sociale e
culturale che non trova più altri canali, estinto il sogno della rivoluzione
comunista.
In fondo, non è un fenomeno così dissimile da quello che vediamo nelle
nostre periferie, tra ragazzi che invece sono italianissimi: e trovano
nell'odio per gli zingari e gli immigrati la valvola di sfogo della loro
rabbia, della loro impotenza a immaginare qualcosa di diverso dalla
propria emarginazione.
È giustificazionismo anche questo? Qualcuno può pensare che qui si abbia
simpatia verso le teste rasate che picchiano barboni, vivono di mitologie
fasciste, si accoltellano allo stadio e in questi giorni qui a Roma si
entusiasmano per Salvini e Meloni? Spero di no, se si ragiona in onestà
intellettuale. Capirne i motivi - cioè identificare i meccanismi e magari
3
provare a modificarli - non ha nulla a che vedere con capirne le ragioni.
Sono cose diverse, diversissime: anche se nella semplificazione estrema
del talk-show politico questa differenza viene soppressa, chissà se in
buona o cattiva fede.
Ecco, appunto. È giusto in un talk-show che ieri sera il ministro Paolo
Gentiloni, intervistato da Floris, ha sostenuto che «a fermare il terrorismo
non sarà un esercito di sociologi». È vero, certo: nessuno propone di
paracadutare sociologi a Raqqa o a piazzarli coi mitra negli aeroporti. Ma
questo anti-intellettualismo ostentato e straccione - un altro veleno
ereditato dalla subcultura berlusconiana e ormai tracimato negli altri
schieramenti - è la firma di un suicidio. È la resa culturale a Salvini e alla
sua colpevole idiozia, è la rinuncia declamata a qualsiasi possibile
trasformazione delle cose così come stanno e come esplodono anche nelle
"nostre" città.
Che disastro, che pochezza. A Gentiloni verrebbe da ricordare proprio un
sociologo, Nando dalla Chiesa, che all'omicidio di suo padre rispose
andando per anni, scuola per scuola, a battere tutta la Sicilia, per far
crescere una generazione che almeno in parte capisse cos'è la mafia: e
imparasse a non amarla. E quella fetta di generazione, quando è cresciuta,
è scesa in piazza per Falcone e Borsellino, una cosa impensabile a
Palermo fino a pochi anni prima.
Chissà se Gentiloni lo sa.
E chissà se anche il suo premier ha coscienza di quanti danni produca nelle coscienze delle persone - prendere per i fondelli "i professoroni",
come li chiama lui, cioè gli intellettuali, i docenti e i giuristi colpevoli di
non fargli ogni giorno la ola: chissà se ha contezza di quali effetti
determini questo sbeffeggio, ottenuto l'applauso ebete in tivù o su Twitter.
C'è proprio bisogno di un esercito di sociologi, invece. Così come di
urbanisti, di antropologi, di etnografi, di statistici, di psicologi, di studiosi
delle emarginazioni e delle diseguaglianze, delle periferie, delle religioni,
del razzismo. C'è bisogno come il pane di chi ricerca le dinamiche che
creano guerre e morte.
Ma soprattutto c'è bisogno di una politica che anziché deriderli, li ascolti.
E questa non è alle viste, in Italia.
(fonte: L'Espresso - segnalato da: Marina Amadei)
link: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/23/non-e-alle-viste/
Sul Referendum NOTRIV del 17 aprile 2016. La
dichiarazione del Movimeto Nonviolento (di
Movimento Nonviolento)
Insieme alla legge di iniziativa popolare, il referendum abrogativo è lo
strumento che la Costituzione (articoli 71 e 75) ha messo a disposizione
dei cittadini affinché possano esercitare direttamente il ruolo del
legislatore: proporre o cancellare una Legge.
Nei mesi scorsi come amici della nonviolenza ci siamo fatti promotori di
un testo legislativo per istituire nel nostro paese la “Difesa civile non
armata e nonviolenta”. Ora, con il referendum del 17 aprile abbiamo la
possibilità di “difendere” il Mare Adriatico dai rischi causati dalla
presenza delle trivelle estrattive.
Al di là dei motivi tecnici, specifici e particolari, contenuti nel quesito
referendario, pensiamo che questa volta debba prevalere l’aspetto politico
della vicenda, cioè la tutela ambientale dei nostri mari e la scelta
energetica per le fonti rinnovabili con il progressivo abbandono
dell’energia derivante dai combustibili fossili.
Esercitare il diritto/dovere di voto è una scelta di cittadinanza attiva alla
quale non vogliamo rinunciare. Votare SI’ è l’opzione giusta per
costringere il Parlamento e il governo ad una nuova politica ambientale ed
energetica rispettosa degli impegni presi alla conferenza Cop21 di Parigi
sul clima. Da qualche parte si deve pur iniziare per invertire la rotta di uno
sviluppo dissennato che porterebbe al tracollo ecologico: cominciamo il
17 aprile a costruire un futuro amico.
Movimento Nonviolento
link:
http://nonviolenti.org/cms/sul-referendum-notriv-del-17-aprile-2016-ladichiarazione-del-movimeto-nonviolento/
Gli argomenti della settimana...
Oltre la logica della guerra e dei terrorismi...
Il sonno della ragione genera mostri. Meglio
svegliarsi (di Pasquale Pugliese)
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
Bertold Brecht
Tra guerre, terrorismi e spese militari, molti mostri sono generati dal
sonno della ragione. Proviamo a scacciarne qualcuno
Non attacco islamico all’Europa, ma mancata convivenza nelle nostre città
Nelle scorse settimane l’Espresso ha intervistato alcune mamme dei
terroristi di Molenbeek Saint Jean, il Comune multietnico nella cintura di
Bruxelles, dove è stato arrestato l’attentatore di Parigi e da dove
provengono quelli di Bruxelles. Mamme che vivono il dramma di vedere i
figli nati e cresciuti in Belgio che, da un giorno all’altro, spariscono e
diventano terroristi: “le istituzioni sembrano non capire che la repressione
è soltanto la cura estrema di un malanno che andrebbe invece prevenuto”.
L’approdo al terrorismo è il punto di arrivo di un percorso di mancata
convivenza e di marginalità culturale. Annalisa Gadaleta, assessore
all’Istruzione del Comune di Molenbeek, italiana, in un’ intervista a
Famiglia Cristiana, lo conferma: “Mentre i genitori pensavano solo a
lavorare con l’idea di ritornare nel loro Paese, questi giovani avrebbero
voluto integrarsi, ma noi non siamo riusciti a trasmettere i nostri valori.
Gli insegnanti non erano preparati a educarli alla democrazia. Così sono
cresciuti confusi, finché in questa ricerca di un’identità non hanno trovato
su Internet qualcuno che gli ha indicato una strada: il fondamentalismo.”
Che cosa significhi questo lo spiegava Oliver Roy, sociologo francese tra i
maggiori esperti di “seconde generazioni” su Internazionale, dopo gli
attentati di Parigi dello scorso novembre: “I francesi di seconda
generazione non aderiscono all’islam dei loro genitori. Sono
occidentalizzati e parlano francese perfettamente. Hanno condiviso la
cultura giovanile della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato
hashish, rimorchiato ragazze. Molti di loro sono stati almeno una volta in
prigione, e poi un bel mattino si sono (ri)convertiti scegliendo l’islam
salafita, ovvero un islam che rifiuta il concetto di cultura, un islam della
regola che gli permette di ricostruirsi da sé. Non vogliono la cultura dei
genitori e nemmeno una cultura “occidentale”, che ormai è il simbolo del
loro odio verso se stessi.” Quindi, conclude lucidamente Roy, “i terroristi
4
non sono l’espressione di una radicalizzazione della popolazione
musulmana, ma il prodotto di una rivolta generazionale che coinvolge una
categoria precisa di giovani.”
Eppure, il presidente francese Hollande, dopo il 13 novembre francesce,
non ha trovato niente di meglio che bombardare Raqqa, città siriana.
Sonno della ragione.
Non “scontro di civiltà”, ma terrorismo globale come contraccolpo
Se mettiamo nel focus dell’obiettivo solo le due settimane intorno al 22
marzo scorso, data dell’attentato a Bruxelles, ci sono state almeno cinque
stragi – tra Africa, Asia ed Europa – direttamente riconducibili al
terrorismo di matrice islamista. La maggior parte delle vittime sono, come
sempre, di religione islamica.
Eccone la sequenza:
13 marzo: Costa d’Avorio, 18 morti;
13 marzo: Turchia, 37 morti;
22 marzo: Belgio, 23 morti;
25 marzo: Iraq, 30 morti;
27 marzo: Pakistan, 72 morti
Ma la comunicazione veicolata da tutti i media italiani – dedicando un
tempo/spazio enorme agli attentati europei ed uno pressoché nullo agli
altri attentati – distorcono colpevolmente la percezione della realtà, senza
aiutare nella comprensione della complessità. Non ricostruendo i nessi
casuali e fattuali che generano il meccanismo perverso del rapporto tra
guerra e terrorismo, in tutti i quadranti del pianeta, si lascia immaginare un
inesistente scontro di civiltà. Mentre lo scontro globale in atto è più
efficacemente spiegabile con la dinamica del “contraccolpo”. Lo ha
ribadito Nanni Salio – il presidente del Centro studi Sereno Regis di
Torino recentemente scomparso – nel suo ultimo articolo per i 25 anni
dalla guerra del Golfo: “il blowback (contraccolpo) è la terza legge della
dinamica applicata alla politica internazionale: a ogni azione corrisponde
una reazione, una controforza. Il terrorismo degli stati, esercitato dall’alto,
con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal basso, di
coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente civili,
come peraltro fa il terrorismo di stato, che si limita a chiamare questi
deplorevoli eventi, effetti collaterali”. Persistere nelle risposte belliche che
ripropongono il circuito perverso guerra-terrorismo-guerra è sonno della
ragione.
Non lotta al terrorismo, ma guerra come unico vero business del nostro
tempo
Eppure – come se un quarto di secolo di colpi e contraccolpi non
bastassero e non ne stessimo già pagando pesantemente le conseguenze,
come se tutti gli interventi militari non avessero già prodotto più
terrorismo, più insicurezza, più guerre e più profughi – dopo l’intervento
in Libia del 2011 che ha consegnato il Paese alle bande islamiste e
criminali, i governi occidentali, capitanati dagli USA, sono pronti ad una
nuova guerra libica per…sconfiggere il terrorismo. Qui il sonno della
ragione si trasforma in pura follia. Non altrimenti spiegabile se non con le
parole di un ex generale italiano, il sempre lucido Fabio Mini: “la guerra
al terrorismo continuerà indefinitamente, perché non ne affronta la cause e
perché, in un mondo a economia stagnante, fatto di disparità e paura è
capace di mobilitare e bruciare risorse”. Si tratta – aggiungeva il generale,
in un interessante libro del 2013 La guerra spiegata a… – del “vero e
unico business del nostro tempo: la guerra in sé, che ormai comprende
tutto ciò che precede i conflitti armati e tutto ciò che li segue, per un
tempo illimitato, in relazione a quanto si riesce a far credere e sopportare
all’opinione pubblica.”
Non è casuale quindi che l’ultimo rapporto del SIPRI – l’Istituto
indipendente di Stoccolma che monitora le spese militari globali – reso
noto il 5 aprile, abbia confermato che nel 2015 le spese militari globali
hanno ripreso ancora a crescere, dopo qualche anno di stello seguito
all’amento del 50% nel primo decennio degli anni 2000. Pur riguardando
solo le spese pubbliche e documentate dei governi, non i traffici illeciti, e
pur nella difficoltà di analisi dei bilanci pubblici, che spesso camuffano le
spese per gli armamenti in altre voci di spesa (in Italia per esempio nelle
voci del ministero per lo Sviluppo economico…) il dato è che – ogni anno
– circa 1.700 miliardi di dollari sono sottratti alle spese civili e sociali di
pace e consegnati alle spese militari di guerra. Basterebbero piccole
percentuali di questa spesa abnorme per raggiungere gli obietti ONU del
millennio per dsconfiggere fame, ignoranza e malattie e,
contemporaneamente, debellare guerre e terrorismo.
Ma il sonno della ragione genera mostri. Meglio svegliarsi prima che sia
troppo tardi.
(fonte: Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento)
link: http://www.azionenonviolenta.it/il-sonno-della-ragione-genera-mostri-megliosvegliarsi/
Breve discorso delle cinque guerre e delle cinque
dittature (di Peppe Sini)
Ricostruita a memoria (e naturalmente ripetendovi cose già dette e scritte
più e più volte in passato) questa è una rastremata sintesi delle
argomentazioni svolte e delle parole pronunciate parlando a braccio in
occasione della giornata contro la guerra a Viterbo il 12 marzo 2016 dal
responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani".
Tutto si tiene
Chi lotta contro una forma di oppressione lotta già contro tutte le
oppressioni, e quindi per la vita delle persone, per la dignità di tutti gli
esseri umani e per la comune liberazione dell'umanità.
Ma chi lotta contro una sola forma di oppressione, frattanto le altre
ignorando o addirittura al mantenimento di esse attivamente concorrendo,
non lotta affatto per la liberazione dell'umanità.
Non vi è una sola contraddizione principale cui tutte le altre siano
riconducibili e da cui siano riassorbite, ma poiché ogni oppressione si lega
a tutte le altre, anche ogni prassi di liberazione a tutte le altre si collega e
suscita.
Chi sceglie di resistere al male e lottare per la vita, la dignità e la
liberazione di tutti gli esseri umani sa già che la sua lotta è senza fine. Ma
essa rende la sua medesima unica vita meno infelice.
Il primo dovere è salvare le vite, soccorrere le vittime, opporsi
all'oppressione, contrastare la violenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune
liberazione.
Solo la nonviolenza può salvare l'umanità dalla catastrofe.
Tutto si tiene.
La prima guerra
La prima guerra contro cui dobbiamo lottare è il femminicidio; la prima
dittatura contro cui dobbiamo lottare è il maschilismo.
L'oppressione maschile che spezza in due l'umanità ed impone la
dominazione di una parte sull'altra è la prima radice ed il primo modello la prima realizzazione storica e la prima gabbia ideologica - di ogni
violenza, di ogni oppressione.
Essa pretende ridurre tutte le donne a vittime dei maschi, ma anche ogni
maschio rende vittima di se stesso riducendolo al ruolo di carnefice e
complice di carnefici. Essa denega la comune umanità, denega
l'eguaglianza di diritti di ogni persona, denega la dignità, il valore e
l'autonomia di ciascuna persona e di tutte le persone.
E così come viola i diritti umani, l'oppressione maschile viola altresì la
natura cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento,
asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere
e da divorare.
Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Olympe de
Gouge e di Mary Wollstonecraft, di Virginia Woolf e di Simone de
Beauvoir, sappiamo quello che è necessario e urgente fare. Se non si
contrasta e sconfigge il maschilismo giammai sarà possibile la liberazione
dell'umanità, giammai sarà possibile contrastare e sconfiggere il razzismo
e il militarismo, giammai sarà possibile contrastare e sconfiggere lo
schiavismo e lo specismo, giammai sarà possibile una società in cui le
persone possano vivere libere, eguali in diritti, accudenti e responsabili del
bene comune, solidali e quindi pienamente umane.
La seconda guerraLa seconda guerra contro cui dobbiamo lottare è la
persecuzione dei migranti; la seconda dittatura contro cui dobbiamo
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lottare è il razzismo.
Il razzismo ed ogni ideologia e prassi di supremazia di una parte
dell'umanità sugli altri esseri umani promuove e provoca l'oppressione di
ogni persona percepita come diversa e stigmatizzata come estranea e
quindi esclusa, e si fa regime come colonialismo, schiavismo, fascismo,
realizza il suo dominio come totalitarismo, annientamento dell'altro,
genocidio.
E così come viola i diritti umani, il razzismo viola altresì la natura cui
applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento,
alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare.
Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Edith Stein e
di Etty Hillesum, di Hannah Arendt e di Franca Ongaro Basaglia,
sappiamo quello che è necessario e urgente fare. Ripetiamolo una volta
ancora: innanzitutto occorre soccorrere, accogliere, assistere tutti gli esseri
umani in fuga dalla fame e dalle guerre; occorre riconoscere a tutti gli
esseri umani il diritto di giungere in modo legale e sicuro nel nostro paese;
occorre andare a soccorrere e prelevare con mezzi di trasporto pubblici e
gratuiti tutti i migranti lungo gli itinerari della fuga, sottraendoli agli
artigli dei trafficanti; occorre un immediato ponte aereo di soccorso
internazionale che prelevi i profughi direttamente nei loro paesi d'origine e
nei campi collocati nei paesi limitrofi e li porti in salvo qui in Europa;
occorre cessare di fare, fomentare, favoreggiare, finanziare le guerre che
sempre e solo consistono nell'uccisione di esseri umani; occorre
contrastare il razzismo ed ogni forma di persecuzione nel nostro paese. Vi
è una sola umanità; ogni vittima ha il volto di Abele.
La terza guerra
La terza guerra contro cui dobbiamo lottare è l'insieme delle uccisioni - i
conflitti bellici, il terrorismo, le mafie -; la terza dittatura contro cui
dobbiamo lottare è il militarismo.
Sempre e solo la guerra consiste nell'uccisione degli esseri umani; e tutte
le strutture, le logiche e le strumentazioni preposte all'esecuzione di
guerre, massacri, uccisioni sono nemiche dell'umanità.
Che degli esseri umani non trovino di meglio che sopprimere altri esseri
umani è il più tragico e insensato dei crimini, laddove - come dimostrò
con parole definitive Giacomo Leopardi - proprio perché ogni essere
umano è esposto al dolore, al male e alla morte, compito primo e
fondamentale di tutti gli esseri umani è recarsi l'un l'altro soccorso; salvare
le vite è il primo dovere; la civiltà in questo e non in altro consiste: nel
riconoscere che vi è una sola umanità e che ogni essere umano ha diritto
alla vita, alla dignità e alla solidarietà, e che ad ogni persona e ad ogni
civile istituto questo primo compito attiene: soccorrere, accogliere,
assistere tutte le persone bisognose di aiuto; condividere il mondo
prendendosi cura l'uno dell'altro ed insieme dell'intera natura vivente.
E così come viola i diritti umani, il militarismo viola altresì la natura cui
applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento,
alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare.
Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Bertha von
Suttner e di Rosa Luxemburg, di Simone Weil e di Luce Fabbri, sappiamo
quello che è necessario e urgente fare: sappiamo che occorre abolire tutti
gli eserciti e tutte le armi, sappiamo che occorre agire per salvare tutte le
vite, sappiamo che occorre organizzare subito la difesa popolare
nonviolenta e i corpi civili di pace.
La quarta guerra
La quarta guerra contro cui dobbiamo lottare è lo sfruttamento; la quarta
dittatura contro cui dobbiamo lottare è lo schiavismo.
Il modo di produzione fondato sulla massimizzazione del profitto, sulla
generale rapina e l'universale saccheggio, sull'appropriazione privata dei
beni comuni, sull'alienazione delle persone nel ciclo produttivo e
distributivo, sul consumismo onnidistruttivo, è un modo di produzione
insostenibile e disumano, che provoca fame e guerre, miseria e narcosi, la
più stupida irresponsabilità e la disponibilità ai crimini più mostruosi.
E così come viola i diritti umani, lo schiavismo viola altresì la natura cui
applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento, asservimento,
alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere e da divorare.
Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Flora Tristan
e di Clara Zetkin, di Emma Goldman e di Mother Jones, sappiamo quello
che è necessario e urgente fare: che occorre opporsi ad ogni dominazione
di classe, ad ogni regime gerarchico e ad ogni forma di imperialismo, alla
illogica e immorale ideologia e prassi del primato del capitale sulla
persona, alla riduzione degli esseri umani a macchine al servizio di
macchine, a merce da cui estrarre plusvalore, ad apparato digerente e
passo dell'oca.
La quinta guerra
La quinta guerra contro cui dobbiamo lottare è l'ecocidio; la quinta
dittatura contro cui dobbiamo lottare è lo specismo che nel mondo
naturale vede solo un magazzino da saccheggiare, negli altri esseri viventi
meri automi da azionare e composti chimici da assorbire.
Questa guerra, e questa dittatura, si manifesta nei confronti degli
ecosistemi e della biosfera con l'inquinamento della natura, l'esaurimento
delle risorse, la devastazione e desertificazione della casa comune; nei
confronti degli altri animali negando la loro concreta reale esistenza in
quanto esseri senzienti e - nelle forme più complesse - evidentemente
pensanti; nei confronti di tutti gli esseri viventi con il disprezzo totale
della loro presenza al mondo; nei confronti della natura tutta con la
presunzione che l'umanità abbia solo diritti e non anche doveri verso il
mondo vivente che abita e di cui è parte, doveri verso gli altri esseri
viventi, doveri verso le stesse generazioni future di esseri umani, e doveri
verso le generazioni umane già decedute che ancora vivono nella memoria
dell'umanità ed il cui lascito e la cui esistenza sarebbero annientati
criminalmente e definitivamente con la distruzione della biosfera e
conseguentemente dell'umanità con essa.
E così come viola la natura lo specismo viola quindi altresì i diritti umani
cui applica lo stesso paradigma di dominazione, sfruttamento,
asservimento, alienazione, mercificazione, riduzione a oggetto da rompere
e da divorare.
Noi persone che ci siamo poste alla scuola ed alla sequela di Laura Conti e
di Carla Ravaioli, di Wangari Maathai e di Berta Caceres, sappiamo quello
che è necessario e urgente fare: difendere sempre l'unico mondo vivente di
cui siamo parte, prendersi cura di questo meraviglioso giardino in cui
dobbiamo trascorrere l'intera nostra vita.
Sui compiti del movimento per la pace
In questa giornata di lotta contro la guerra il movimento per la pace
ripropone all'intero popolo italiano ed alle sue democratiche istituzioni
alcuni impegni necessari e urgenti.
Ripetiamoli ancora una volta.
L'Italia soccorra, accolga e assista tutte le persone in fuga dalla fame e
dall'orrore, dalle dittature e dalla guerra.
L'Italia cessi di partecipare alle guerre ed alle guerre si opponga.
L'Italia esca da alleanze militari terroriste e stragiste come la Nato.
L'Italia cessi di produrre armi e di rifornirne regimi e poteri dittatoriali e
belligeranti.
L'Italia abroghi tutte le infami misure razziste ancora vigenti nel nostro
paese, e legiferi i provvedimenti adeguati a realizzare gli impegni indicati
nella Carta di Lampedusa.
L'Italia promuova con un'azione diplomatica, politica ed economica, e con
aiuti umanitari adeguati, la costruzione di ordinamenti giuridici legittimi,
costituzionali e democratici dalla Libia alla Siria.
L'Italia destini a interventi di pace con mezzi di pace, ad azioni umanitarie
nonviolente, i 72 milioni di euro del bilancio dello stato che attualmente
ogni giorno sciaguratamente, scelleratamente destina all'apparato militare,
alle armi, alla guerra.
L'Italia promuova una politica della sicurezza comune e del bene comune
centrata sulla difesa popolare nonviolenta, sui corpi civili di pace, sulla
legalità che salva le vite.
L'Italia applichi pienamente la Convenzione di Istanbul contro la violenza
sulle donne.
L'Italia adotti una politica ambientale rigorosa, promuova le fonti
energetiche pulite e rinnovabili, dismetta opere e pratiche distruttive della
biosfera.
E con riferimento a due prossimi ineludibili impegni: al referendum del 17
aprile con il voto "sì" si ponga termine alla follia delle trivellazioni
petrolifere in mare; al referendum in ottobre con il voto "no" si difenda la
Costituzione della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza antifascista.
La scelta della nonviolenza, la forza della verità
Ma per impegnarsi adeguatamente ed efficacemente contro tutte le guerre
e tutte le dittature occorre fare la scelta della verità, ovvero la scelta della
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nonviolenza.
Ripetiamo ancora una volta cose che abbiamo già ripetuto ancora ieri.
Dovere della verità significa ad esempio riconoscere che la guerra, che
sempre e solo consiste nell'uccisione di esseri umani, si fa con le armi e
con gli eserciti. E che quindi per abolire la guerra occorre abolire gli
eserciti e le armi.
Scelta della nonviolenza significa adoperarsi per salvare tutte le vite,
contrastare tutte le oppressioni; e opporsi quindi alla guerra e a tutte le
uccisioni, al razzismo e a tutte le persecuzioni, al maschilismo e a tutte le
oppressioni; difendendo insieme i diritti di tutti gli esseri umani e la
biosfera, coscienti che vi è una sola umanità composta di persone ciascuna
diversa da tutte le altre e insieme portatrice di eguali diritti, una sola
umanità in un unico mondo vivente casa comune dell'umanità intera.
Il dovere della verità e la scelta della nonviolenza sono in realtà una cosa
sola: "nonviolenza" è infatti la parola italiana coniata da Aldo Capitini con
cui sono tradotte unificandole le due espressioni gandhiane che la teoria e
la prassi della nonviolenza ambedue parimenti definiscono, ovvero
"satyagraha" ed "ahimsa", che designano appunto l'una l'adesione al vero,
e quindi al giusto e al bene, e l'altra l'opposizione ad ogni violenza.
La nonviolenza è quindi opposizione ad ogni menzogna e ad ogni
oppressione; è la lotta concreta del movimento di liberazione delle
oppresse e degli oppressi pervenuto all'autocoscienza ed alla scelta quindi
nella sua riflessione ed azione della coerenza tra mezzi e fini, tra diritti e
doveri, tra giustizia e libertà, tra riconoscimento e condivisione.
Un movimento per la pace che non faccia la scelta intellettuale, morale e
politica della nonviolenza, non è un movimento per la pace adeguato alla
distretta presente.
Una proposta politica che non sia nonviolenta non è più neppure una
politica, ma solo barbarie che genera ulteriore barbarie e coopera alla
catastrofe dell'umanità.
E ripetiamo ancora una volte cose che tante volte abbiamo già ripetuto.
Per accostarsi degnamente alla nonviolenza occorre prendere sul serio i
propri pensieri: pensarli profondamente e valutarne le conseguenze anche
implicite; occorre porsi all'ascolto delle altre persone e non mentire mai ad
esse: rispettarle nella loro integrale dignità di persone, e quindi di esseri
pensanti, capaci di comprendere e di comunicare, esposti alla sofferenza e
bisognosi di verità e di solidarietà; occorre usare correttamente il
linguaggio: essere consapevoli di ciò che si dice; occorre decidere di
impegnarsi per salvare le vite, per recare soccorso a chi soffre, per
rispettare la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani.
La nonviolenza è l'opposizione alla violenza, ovvero forza della verità,
amore attivo, rispetto per la vita, armonia, ricomposizione, scelta di
contrastare il male facendo il bene.
La nonviolenza è complessa, pluridimensionale e contestuale; è un
"insieme di insiemi": un insieme di criteri assiologici (ad esempio
rilevando che tra i mezzi e i fini vi è lo stesso rapporto che tra il seme e la
pianta: fini buoni non possono essere ottenuti usando mezzi malvagi); un
insieme di strumenti ermeneutici (ad esempio evidenziando che ogni
potere si regge sempre su due pilastri: la forza e il consenso; cosicché si
può contrastare ogni potere ingiusto iniziando col negargli il consenso); un
insieme di tecniche deliberative (come il "metodo del consenso", che
prevede il diritto di veto da parte di ogni singola persona partecipante al
processo decisionale, cosicché si prendono solo le decisioni su cui vi è
l'accordo persuaso di tutte le persone; tutte garantendo del rispetto della
loro dignità, e tutte impegnando a costruire insieme la volontà comune);
un insieme di tecniche operative (come lo sciopero, il digiuno ed
innumerevoli altre forme ancora); una metodologia di trasformazione
positiva delle relazioni - interpersonali, sociali, politiche -; un progettoprocesso di cambiamento sociale e culturale orientato all'affermazione
dell'eguaglianza di diritti e di doveri di tutti gli esseri umani, al reciproco
aiuto, alla condivisione dei beni, alla responsabilità comune per gli altri
esseri umani e per l'intero mondo vivente. La nonviolenza è pace, disarmo,
smilitarizzazione; è accoglienza, assistenza, aiuto a tutti coloro che ne
hanno bisogno; ti chiede di essere tu il cambiamento che vorresti vedere
nel mondo.
Tutto si tiene
Chi lotta contro una forma di oppressione lotta già contro tutte le
oppressioni, e quindi per la vita delle persone, per la dignità di tutti gli
esseri umani e per la comune liberazione dell'umanità.
Ma chi lotta contro una sola forma di oppressione, frattanto le altre
ignorando o addirittura al mantenimento di esse attivamente concorrendo,
non lotta affatto per la liberazione dell'umanità.
Non vi è una sola contraddizione principale cui tutte le altre siano
riconducibili e da cui siano riassorbite, ma poiché ogni oppressione si lega
a tutte le altre, anche ogni prassi di liberazione a tutte le altre si collega e
suscita.
Chi sceglie di resistere al male e lottare per la vita, la dignità e la
liberazione di tutti gli esseri umani sa già che la sua lotta è senza fine. Ma
essa rende la sua medesima unica vita meno infelice.
Il primo dovere è salvare le vite, soccorrere le vittime, opporsi
all'oppressione, contrastare la violenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune
liberazione.
Solo la nonviolenza può salvare l'umanità dalla catastrofe.
Tutto si tiene.
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti
umani" di Viterbo
Fonte: La domenica della nonviolenza" n. 362 del 13 marzo 2016
(fonte: Fonte: La domenica della nonviolenza" n. 362 del 13 marzo 2016)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2485
Contro la preparazione della guerra in Libia (di Pax
Christi)
Il Consiglio nazionale di Pax Christi, riunito a Firenze il 12-13 marzo
scorso, ha condiviso la testimonianza del vescovo ausiliare caldeo di
Baghdad, mons. Shlemon Warduni che in diversi incontri ad Ambivere
(Bg), Brescia, Trento, Bolzano e Novara ha raccontato la sofferenza della
sua gente e denunciato la follia della guerra e i grandi interessi nella
vendita di armi, anche da parte dell’Occidente e dell’Italia a Paesi, come
l’Arabia Saudita, che sappiamo essere tra i primi sostenitori dell’Isis.
La guerra è un affare di armi, dietro i terroristi e le numerose bande armate
c'è una rete di giganteschi interessi e di enormi complicità.
La Libia è in guerra da anni: una guerra geopolitica ed economica
promossa da Francia, Gran Bretagna e Italia, con la supervisione strategica
degli Stati Uniti e la presenza della Nato, per il controllo delle risorse e del
“bottino libico” depositato nelle banche europee.
Le recenti dichiarazioni governative contrarie a un intervento militare
diretto possono aprire spiragli di luce, ma le condizioni di una guerra in
Libia, disastrosa per tutti, sono di fatto tutte operanti: schieramento di
forze, basi militari, droni a Sigonella, vendita di armi, decreto governativo
sui corpi speciali, campagna mediatica negli Stati Uniti e in Europa,
aspirazioni egemoniche di molti Paesi in contatto con bande armate
locali...
Ribadiamo ancora una volta la nostra opposizione a un intervento bellico
in nome di:
- una politica lungimirante attenta ai popoli dell'Africa e del Medio
Oriente;
- una “sicurezza comune” europea che non usi i migranti, vittime delle
guerre da noi sostenute, per scatenare nuove guerre;
- un'Europa unita e libera da logiche neocoloniali e da ossessioni
nazionaliste escludenti;
- una sovranità del diritto (ribadita anche da papa Francesco alle Nazioni
Unite);
- un ruolo centrale autonomo dell'ONU che non deve lasciare spazio ad
altri organismi, ad alleanze equivoche o alla Nato.
In sintonia con le diverse manifestazioni italiane contro la guerra in Libia
(cui abbiamo aderito), chiediamo alla politica di operare nel rispetto della
Costituzione, ritenendo che l’impegno per la pace non sia, come ha detto
l’ex Presidente Giorgio Napolitano in Senato, un “ingannare l'opinione
pubblica e sollecitare un pacifismo di vecchissimo stampo che non ha
ragione di essere nel mondo di oggi”.
Riteniamo importante nello stesso tempo risvegliare la presenza attiva
della Chiesa italiana per il disarmo, la prevenzione delle guerre, la
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formazione alla pace e alla nonviolenza, la promozione di gesti
significativi a favore di una comunità cristiana disarmata e disarmante.
Firenze, 15 marzo 2016
Pax Christi Italia
(fonte: Pax Christi Italia)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2486
Maternità surrogata ... unioni civili e altro ...
Una riflessione sulla maternità surrogata (di
Caracal Anton)
Quindi da oggi scopriamo che i corpi delle donne sono mercificati. I
miserrimi non-occidentali e i poveri occidentali (donne e uomini) sono
merce da quando esiste il capitalismo (scegliete voi dove farlo cominciare,
se due o quattro secoli, quattromila o diecimila anni fa), forza lavoro
schiava, proletaria, sottoproletaria, a cui le forme della produzione hanno
sempre imposto le forme della riproduzione (non erano calcolati - e non lo
sono, ancora, fuori dall'occidente, e pure al suo interno - costi e benefici di
un figlio da gestare, sfamare, e poi mandare in miniera, in fabbrica,
qualche volta a scuola?), ma la mercificazione dei bambini comincerebbe
da oggi.
Gli scarti semi-improduttivi di quella merce globale annegano ogni giorno
nel Mediterraneo, i telegiornali ci raccontano ogni ora quanti bambini e
quante donne, e quante madri coi figli fra le braccia crepano nelle acque
gelide dei mari europei, costretti a viaggi infiniti e orrendi perché non è
loro concesso (dall'Europa) un visto per salire s'un aereo e un corridoio
umanitario se lo sognano; se in Europa ci arrivano vagano per mesi fra le
frontiere di filo spinato, subiscono la selezione (a che fa pensare, la
selezione?) fra profughi e "semplici" migranti, e fra profughi Isis e
profughi delle guerre che non c'interessano, diventano risorsa politica per
il razzismo europeo come per i democratici sedicenti anti-razzisti: e lo
sfruttamento di bambini, donne, (c'è posto per gli uomini?) comincerebbe
con la Gestazione Per Altri.
Colpa dei maschi omosessuali, maschi come tutti, anzi peggio perché non
accetterebbero la differenza sessuale e il limiti della natura (alla faccia
della messa in crisi dei binarismi).
Nessuno che vada a chiedere alle madri surrogate se si sentono sfruttate o
ricattate. Perché non lo si va loro a chiedere?
Perché forse risponderebbero che preferiscono gestare per altri che
lavorare in miniera, in una fabbrica tessile clandestina 20 ore al giorno
senza mai vedere la luce del sole, finire nel traffico di esseri umani dove la
prostituzione non è scelta, ma imposta fino a quando dal corpo c'è da
spremere qualcosa (e poi quel corpo lo si butta nella spazzatura), violenta,
senza protezioni giuridiche o sociali.
Che preferiscono pagarsi le rette universitarie piuttosto di rinunciare
all'università, o di pagarle ai figli invece che mandarli a lavorare ad una
pompa di benzina della provincia americana; che preferiscono avere una
polizza sanitaria piuttosto che morire. E con questo bisognerebbe fare i
conti, mettendo in discussione le certezze attorno alla libera servitù
imposta dal capitale.
Perché forse questo è un modo "femminile" di resistere al capitale, di
soggettivare un contro-potere. A chi giova, in effetti, la proibizione
assoluta e per principio, se non ai maschi eterosessuali (omofobi) che non
sopportano che il corpo femminile possa essere usato come forza politica,
quegli stessi maschi per i quali lo stupro (il corpo maschile usato come
arma) è violenza solo se commesso da stranieri (e il circolo si chiude)?
Se non a tutti quelli (uomini e donne, religiosi e non religiosi) che si
spacciano per paladini delle donne per difendere solo i bambini contro le
donne, che nel nome della "sacralità della vita" non dovrebbero nemmeno
poter abortire, perché un bambino, anche quando "in potenza", è sacro, il
corpo di una donna sacrificabile ai principi? Se non alle femministe della
differenza che con tutti questi personaggi si alleano, perché vedono come
il diavolo la possibilità che un bambino non abbia bisogno di un "ordine
simbolico materno", e che la cura d'altri non abbia limite di genere (il che
metterebbe in crisi decenni di teorie fondate sul binarismo di genere:
perciò forse è meglio allearsi con le peggiori forze patriarcali, misogine,
antiabortiste...).
Se non a tutti gli omofobi che blaterano di egoismo, perché il fare figli
degli eterosessuali sarebbe altruista e oblativo (chi sarebbe il "chi" a cui si
dona qualcosa, il "chi" di questo desiderio di ricevere un dono, se ancora
non esiste, e comincia a chiedere quando lo di è messo al mondo... per
desiderio di "chi"?), proprio mentre sono riusciti a impedire un istituto
minimale come la stepchild adoption, cioè il diritto del bambino ad una
famiglia stabile (mica parliamo di adozioni di orfani, ci mancherebbe:
quella è per gli etero, così altruisti...)?
Ma la vera tragedia è che se le donne (e non solo) devono inventarsi una
resistenza ai differenziali economici, sociali, politici, simbolici, imposti
dal capitalismo, è perché l'interezza della loro esistenza è, in misura
variabile similmente a quella dei maschi, determinata e schiacciata da
questi differenziali di potere, mica solo nove mesi di gravidanza.
L'interezza della loro esistenza è non potenzialmente ricattabile, ma in
stato di ricatto costante. Lo vedete o no che pater familias e patrimonium
appartengono alla stessa area etimologica e semantica, perché sono
storicamente, materialmente sovrapposti, o vedete sempre e solo il pater?
Se in questo mondo esiste l'oppressione, questa non comincia e non finisce
con la maternità surrogata, con nove mesi di gravidanza. La lotta
proibizionista-abolizionista contro la GPA è diventata la cortina fumogena
dell'Occidente ricco per difendere (intenzionalmente e consapevolmente o
meno, all'origine o per effetto) i propri privilegi complessivi, l'interezza
dei rapporti di dominio, dietro la maschera umanista-umanitaria della
difesa dell'utero delle donne povere.
Marco Reggio Annarella Koson Ornella Jurinovich Francesca Rizzi
(fonte: Pagina facebook di Caracal Anton)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2478
Approfondimenti
Ambiente ed energia
Referendum e trivelle (di Arturo Lorenzoni)
Con un referendum ad hoc, il 17 aprile, siamo invitati a esprimere il nostro
parere sull’apertura dello spazio marittimo alla ricerca ed estrazione di
idrocarburi.
La stampa ne parla molto poco e ciò non sorprende; altre sembrano essere
le questioni che appassionano l’opinione pubblica. Ma a ben guardare
l’appuntamento può essere un momento significativo per manifestare le
nostre preferenze sulla direzione verso cui spingere il Paese, schiacciato
dall’incapacità di rinnovarsi e di generare opportunità per i propri giovani.
Non voglio entrare nel merito di questioni ambientali, su cui non ho
particolari competenze, quanto piuttosto sul lato economico della scelta
che siamo chiamati a compiere. L’estrazione di combustibili fossili dai
nostri mari è realmente un’opportunità? Può incidere in modo
significativo sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici
dell’Italia?
Un appello accorato in favore dell’industria del petrolio è stato pubblicato
di recente dal professor Alberto Clò, che enfatizza molto il ruolo positivo
sull’economia italiana degli investimenti potenzialmente avviati con
l’attività estrattiva. Al contrario, sono convinto che indirizzare i nostri
investimenti in questa direzione sia un errore strategico, mirato ad
allungare la vita di settori industriali lentamente avviati al margine
dell’economia. Non voglio dire che petrolio e gas non manterranno per
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vari decenni un ruolo centrale nell’economia mondiale, ma piuttosto che
l’attuale capacità produttiva è in grado di coprire ampiamente la domanda
futura, senza avviare nuovi campi di potenzialità limitata e costi superiori
alla media mondiale. Agli attuali prezzi del greggio, tra l’altro, non sono
convinto che le imprese metterebbero in atto i programmi di investimento
che il «sì» referendario auspica.
Teniamo conto che un progetto di questo tipo si articola su un orizzonte
temporale di almeno venticinque anni. Ma nel 2040, se crediamo alla
strategia energetica europea al 2050 che prevede una decarbonizzazione
dell’economia praticamente integrale, quale sarà la domanda di
idrocarburi? Prossima allo zero, rispetto ad oggi. Tra l’altro, le quantità di
idrocarburi di cui si parla non sono tali da cambiare in modo sostanziale la
dipendenza nazionale dalle fonti fossili di importazione, né tantomeno tali
da pagarci il debito pubblico, come avviene per Paesi esportatori come la
Norvegia.
Anche l’aspetto occupazionale appare poco convincente: portare l’energia
nelle nostre case e aziende comporta lavoro, con qualsiasi fonte. Possiamo
discutere molto su quale sia il modello energetico più intensivo sul piano
del lavoro, ma è difficile non vedere che le fonti distribuite creano lavoro
localmente, dove la nostra economia è più debole. E le imprese italiane del
settore petrolifero, che sono veramente all’avanguardia mondiale, presenti
ovunque nel globo e le cui complessità tecniche sono elevate, hanno
proprio bisogno di questi investimenti? Io non credo; il loro mercato è il
mondo e con ruoli primari nei grandi investimenti mondiali stanno
sostenendo la nostra economia. Allora dobbiamo cercare di essere
coerenti: applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21,
auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure
ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia
attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose
non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua
posizione altalenante.
Ma indicare il settore degli idrocarburi come una priorità nazionale, come
si fa assegnando a questa attività nuove concessioni, significa di fatto
togliere risorse (economiche, normative, finanziarie ecc.) alle nuove fonti
energetiche, nel momento in cui a livello mondiale si sta vivendo una
trasformazione profonda e irreversibile verso un nuovo modello
energetico – in Germania prende il nome di «Energiewende» – che è di
fatto comune alle scelte di gran parte dei Paesi con domanda significativa
di energia.
Perché non si sceglie di dare alla politica energetica nazionale coerenza e
forza nel processo di rinnovamento, con il coraggio di gestire la
transizione gradualmente, guardando agli aspetti di innovazione e
leadership tecnologica nel campo della nuova energia, e si tiene invece
attivo il supporto ai settori tradizionali, nel timore di dispiacere a soggetti
pesanti sul piano politico? In condizioni di risorse scarse il tentativo di
non scontentare nessuno alla fine scontenterà tutti, lasciandoci privi di
imprese nuove e con investimenti non remunerativi, da accollare magari
sulle spalle della comunità. Non sono sufficienti i casi delle centrali
elettriche inutilizzate o dei rigassificatori a tasso di utilizzo nullo per farci
capire che il mondo guarda altrove?
Non sono dunque tanto gli aspetti ambientali che pure preoccupano,
quanto quelli economici che mi spingono a dire che esprimersi al
referendum è importante, per aiutare il nostro Paese a guardare al futuro,
senza timore di accompagnare l’economia verso nuovi equilibri.
Arturo Lorenzoni da Rivistailmulino.it
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Guide/Ambiente/Cambiamentoclimatico/Referendum-e-trivelle-156485
Trivelle in mare e incidenti (di Redazione Pressenza
Italia)
C’è voluta più di una settimana perché finalmente venisse fuori la notizia
che circolava in rete: una marea nera si sta estendendo a due passi da
Lampedusa.
Nasce al largo della Tunisia, per l’avaria di un pozzo di estrazione di
petrolio, il Cercina 7.
È bastato un centimetro, la rottura di un tratto di un solo centimetro della
tubazione, per generare una marea nera che si sta allargando nei nostri
mari.
Appare singolare, quindi, che mentre qui stiamo discutendo di una
proposta di referendum che ha come tema proprio trivellazioni di gas e
petrolio nei nostri mari, nessuno dei nostri organi di informazione ufficiali
ci sia arrivato prima. Moltissimi blog e quotidiani online ne parlavano ma,
inspiegabilmente, le grandi testate giornalistiche ci sono arrivate solo più
di una settimana dopo.
Sarà che sono le stesse che ospitano le interviste di tutti quelli che
continuano a dire che non ci sono pericoli negli impianti di trivellazione,
che non corriamo alcun rischio, che è tutto sicuro.
E allora noi, a partire dal disastro della Tunisia, vogliamo condividere un
po’ di dati, date e numeri, così da capire di cosa stiamo parlando.
La Tunisia è solo il caso più recente e vicino, ma registriamo moltissimi
incidenti negli ultimi trent’anni.
Azerbaigian, dicembre 2015: l’incendio di una piattaforma petrolifera del
Mar Caspio uccide 32 persone: http://goo.gl/RO2oc2 .
California, maggio 2015: 80mila litri di petrolio si sversano nel Pacifico
per la rottura delle condutture di un oleodotto al largo di Santa Barbara. Il
disastro è tale che viene dichiarato lo stato d’emergenza:
http://goo.gl/1i1FxG .
Congo, luglio 2013: il fondo marino su cui poggia la piattaforma Perro
Negro 6 (di una società collegata all’Eni), cede, e la piattaforma affonda
nell’Atlantico: http://goo.gl/LEKGbd .
Scozia, agosto 2011: sversamento di circa 200mila litri di petrolio al largo
della città di Aberdeen: http://goo.gl/nRm0dR .
Montana, luglio 2011: sversamento di più di 160000 litri di petrolio nel
fiume di Yellostone: http://goo.gl/j4a7qt .
Golfo del Messico, aprile 2010: l’incidente della piattaforma Deepwater
Horizon della British Petroleum causa lo sversamento di 500mila
tonnellate di petrolio e 11 morti. Lo sversamento è stato inarrestabile per
106 giorni: http://goo.gl/TiKmuC.
Cina, luglio 2010: due incendi colpiscono per 15 ore due oleodotti nel
porto di Dalian: http://goo.gl/uP50R6
Norvegia, dicembre 2007: una perdita di circa 3,84 milioni di litri di
petrolio nella piattaforma Statfjord, nel Mar del Nord:
http://goo.gl/ZQ1YQq .
Alaska, marzo 2006: fuoriuscita di un milione di litri di petrolio per la
rottura di una pipeline: http://goo.gl/z7kXJ8 .
Brasile, gennaio 2000: sversamento di 1300000 litri di petrolio dalla
raffineria di Duque de Caxias (Reduc) della Petrobras :
http://goo.gl/z7kXJ8 .
Bretagna, dicembre 1999: naufragio della piattaforma Erika utilizzata
dalla Total genera una marea nera che arriva alle coste francesi, centomila
9
uccelli vengono uccisi dal petrolio: http://goo.gl/CGwpCN
Nigeria, gennaio 1988: perdita di 40mila barili di petrolio, disperso o
evaporato, e addirittura 500 barili toccarono le rive: http://goo.gl/z7kXJ8
Questo è un elenco parziale, solo per rendere l’idea di quanto “sicuri”
siano gli impianti che estraggono petrolio. In Italia il petrolio estratto è lo
0,3% del nostro fabbisogno nazionale, e si tratta di un prodotto di
scarsissima qualità. Parte degli impianti coinvolti nel quesito referendario
estraggono petrolio lungo le nostre coste, entro le dodici miglia. Dodici
miglia sono circa venti chilometri.
Siete certi ne valga la pena?
link: http://www.pressenza.com/it/2016/03/trivelle-in-mare-e-incidenti/
Sequestrato il Muos, carabinieri nella base Usa.
Procuratore: «Ho fatto solo il mio dovere»
La Procura di Caltagirone ha chiesto e ottenuto di porre i sigilli
all'impianto militare di telecomunicazione degli Usa. Sembrava un pesce
d'aprile, ma la conferma arriva dal procuratore capo Giuseppe Verzera:
«La decisione del Tar di Palermo cambia radicalmente la situazione, ho
ritenuto fondato chiedere il sequestro preventivo che il gip ha confermato»
La procura di Caltagirone ha ordinato il sequestro dell'impianto satellitare
Usa Muos nella riserva di Niscemi. Il provvedimento fa seguito alla
decisione del Tar di Palermo che aveva accolto i ricorsi dei No-Muos
contro la prosecuzione dei lavori di realizzazione dell'impianto di
telecomunicazioni nella base americana. Proprio in questi minuti i
carabinieri e la polizia municipale stanno apponendo i sigilli al cantiere.
La decisione, inaspettata e dagli effetti rivoluzionari, è stata presa dal Gip
su richiesta del procuratore capo di Caltagirone Giuseppe Verzera che
spiega a MeridioNews: «La sentenza del Tar ha annullato i provvedimenti
autorizzativi, cambiando radicalmente la situazione. Quindi ho ritenuto
assolutamente fondato chiedere il sequestro preventivo che il gip ha
confermato».
Verzera ricorda che un sequestro già c'era stato in passato. «Il mio
predecessore (Paolo Giordano ndr) aveva ottenuto il sequestro, poi
annullato dal tribunale delle Libertà, decisione confermata infine dalla
Cassazione. Ma adesso questa situazione cambia completamente con la
sentenza del Tar».
Il riferimento del procuratore capo è a quanto successo il 6 ottobre del
2012, in concomitanza con una grande manifestazione nazionale.
L'entusiasmo degli attivisti quella volta, però, era stato spento qualche
settimana dopo con il dissequestro.
Stavolta le conseguenze potrebbero essere rivoluzionarie. A cominciare
dai risvolti politici della decisione . Paura delle pressioni? «Non ci penso risponde il procuratore - ho fatto solo il mio dovere». Il provvedimento è
stato già notificato al comandante del contingente militare statunitense
presente nella base di Sigonella.
Il provvedimento di oggi affonda le basi nella sentenza del tribunale
amministrativo di Palermo che ha accolto i ricorsi del movimento No
Muos, presentati dai legali Nello Papandrea, Paola Ottaviano e Nicola
Giudice. In sedici pagine i giudici smontano tutti i presupposti su cui si è
basata la realizzazione del Muos nella base statunitense di Niscemi.
Secondo il Tari lavori per l'impianto satellitare di comunicazioni militari
sono «abusivi», perché privi delle necessarie autorizzazioni paesaggistiche
e «viziati da difetto di istruttoria». Anche sul piano dei rischi per la salute
causati dalle onde elettromagnetiche, il Tar si esprime, seppur
indirettamente, facendo propria la relazione del perito Marcello D'Amore,
ingegnere e docente all'università La Sapienza di Roma, dallo stesso Tar
nominato. «Lo studio dell'Istituto superiore di sanità si è basato su
procedure di calcolo semplificate che non forniscono accettabili
indicazioni nell’ottica del caso peggiore». Di conseguenza, il
provvedimento della Regione Sicilia - la cosiddetta revoca delle revoche
basata proprio sulla relazione dell'Iss - che ha sostanzialmente dato il via
libera all'ultimazione del Muos, «è contrassegnata da contraddittorietà fra
atti, erroneità dei presupposti e difetto di motivazione».
A seguito della sentenza del Tar, l'associazione Rita Atria, tramite il suo
legale Goffredo D'Antona, aveva chiesto il sequestro alla procura di
Caltagirone. Già nel luglio del 2013, era stato presentato il primo esposto
denunciando il «grave illecito edilizio e ambientale, nonché la
consequenziale «omissione degli enti preposti ai controlli». Una nuova
denuncia si è aggiunta nel marzo del 2014 ed evidenziava la mancanza
della concessione edilizia, ritenuta dalla legge non necessaria solo se le
opere destinate alla difesa nazionale siano realizzate dallo stesso ministero
della Difesa. Invece in questo caso si tratta di uno Stato estero, gli Usa.
Nelle ultime settimane, i due esposti erano stati ulteriormente integrati da
documenti che dimostravano come, nonostante la decisione del Tar, i
lavori nel cantiere del Muos continuassero. Si tratta dell 'articolo di
MeridioNews con le dichiarazioni del'ambasciata statunitense a Roma, che
spiegava come fossero in corso delle prove di trasmissione, e di un video
degli attivisti No Muos in cui sono visibili, all'interno della base Usa di
Niscemi, operai al lavoro e mezzi pesanti per il movimento terra. Infine
l'associazione aveva anche denunciato la polizia di Caltanissetta per la
scorta a operai e militari dentro la base Usa di Niscemi. «Siamo soddisfatti
e contenti nel vedere che le tesi dell'associazione siano state ritenute
valide dalla Procura», commenta l'avvocato D'Antona.
«Prendiamo atto della decisione della Procura di Caltagirone di ordinare il
sequestro dell'impianto satellitare Muos a seguito della decisione del Tar
di Palermo», fa sapere l'ufficio stampa della stazione aeronavale della
marina Usa di Sigonella. «Ogni nostra azione avviene nel pieno rispetto
della normativa italiana, ci auguriamo una rapida risoluzione del
contenzioso al fine di garantire un efficace sistema di comunicazione
finalizzato alla difesa». E, conclude, «l'occasione ci è utile per sottolineare
la nostra piena disponibilità alle autorità e al territorio per qualunque
chiarimento e per ricordare che ripetuti studi effettuati dalle autorità
sanitarie italiane competenti hanno dimostrato l'assenza di rischi
ambientali e alla salute collegati a questa installazione».
(fonte: Meridionenews.it)
link: http://meridionews.it/articolo/32628/il-muos-finisce-sotto-sequestro/
Industria - commercio di armi, spese militari
Spese militari mondiali in crescita. Rete Disarmo:
occorre cambiare direzione (di Rete Italiana per il
disarmo)
Pubblicati i dati SIPRI relativi al 2015: il totale dei fondi destinati ad armi
ed eserciti cresciuto dell'1% in termini reali. Dopo tre anni di stasi
riprende la crescita iniziata nel 2001.
Una nuova ripresa della spesa militare a livello mondiale. E' questa la
situazione suggerita dai dati pubblicati oggi dell'Istituto SIPRI di
Stoccolma. Dopo tre anni di relativa stasi la crescita misurata nel 2015 si
attesta circa sull'1% in termini reali. L'ammontare complessivo delle spese
militari è stimato dai ricercatori svedesi in 1.676 miliardi di dollari,
equivalenti al 2,3% del prodotto interno lordo mondiale. Nel complesso i
primi 15 paesi di questa speciale classifica spendono per gli eserciti e le
armi almeno 1.350 miliardi di dollari, equivalenti all'81% del totale. In
testa alla classifica come sempre gli Stati Uniti d'America che da soli
investono poco meno di 600 miliardi di dollari e contribuiscono al 36%
della spesa militare complessiva (quota minore del recente passato grazie
alla crescita robusta di altri Paesi). Dietro di loro la Cina, che ha visto una
crescita annuale del 7,4% (complessivi 215 miliardi di dollari) e poi,
superando anche la Russia, l'Arabia Saudita che ha fatto crescere la
propria spesa militare del 5,7% (ad oltre 87 miliardi di dollari). Una
crescita dovuta soprattutto agli investimenti diretti per la guerra in Yemen
che coinvolgono anche acquisti di bombe italiane. Pur superata dal budget
Saudita la Russia ha comunque incrementato la propria spesa militare del
10
7,5% (oltre 66 miliardi di dollari totali).
“Come al solito dobbiamo considerare questi dati soprattutto dal punto di
vista dei trend generali, perché non è mai semplice valutare fino in fondo
le effettive spese militari pubbliche - commenta Francesco Vignarca
coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo – le indicazioni sono però
chiare sia per quanto riguarda il mondo nel suo complesso sia per quanto
riguarda l'Europa occidentale: dopo qualche anno di rallentamento causato
dalla crisi finanziaria è all'orizzonte una ripresa degli investimenti
militari”.
Una tendenza, quella del 2015, probabilmente stimolata e giustificata agli
occhi dei decisori politici dagli eventi terroristici in Europa ed in
Occidente e che continua quindi nel solco delle scelte sbagliate di questo
millennio. Va ricordato infatti come la spesa militare mondiale sia stata in
continua e robusta crescita dal 2000 in poi, con un aumento di oltre il 50%
in termini reali proprio a seguito della “guerra al terrore” dichiarata dopo
l'11 settembre 2001. Una “risposta armata” che però non ha contribuito a
risolvere i problemi, come appare chiaro dalla cronaca di questi temi, ma è
servita solamente a far crescere i fatturati delle aziende a produzione
militare.
Non va infine dimenticato che tali cifre sono relative ai bilanci statali, da
cui sfuggono i valori relativi alle forniture di armi a titolo gratuito (si
pensi ad esempio a tutte le milizie coinvolte nei conflitti aperti) e ai traffici
clandestini di armi piccole e leggere, che alimentano conflitti in varie are
geografiche. “Riteniamo poi significativa e preoccupante anche
l’impossibilità esplicitata da parte dei ricercatori del SIPRI di valutare nel
complesso la spesa militare del Medio Oriente data la situazione
d’instabilità diffusa e la difficoltà nel reperire dati affidabili” commenta
inoltre Maurizio Simoncelli vicepresidente di Archivio Disarmo.
Per quanto riguarda il nostro Paese, il SIPRI stima una spesa militare di
poco inferiore ai 24 miliardi di dollari, segnalando un brusco calo
nell'ultimo decennio, ponendo l'Italia al dodicesimo posto a livello
mondiale (per una quota pari al'1,4% del totale). Dati che però non devono
trarre in inganno poiché, proprio a causa dei meccanismi opachi di
finanziamento della spesa militare italiana che da tempo anche Rete
Disarmo denuncia, probabilmente a Stoccolma non sono riusciti a valutare
appieno la complessiva spesa militare italiana. Mettendo in fila i dati
ufficiali dell'ultima legge di Stabilità si raggiunge infatti un totale di 23,12
miliardi di euro corrispondenti (con cambio medio 2015 di 1,1) ad oltre 25
miliardi di dollari e non a meno di 24 miliardi come valutato dal SIPRI. Il
motivo della differenza sta forse nei fondi “extra bilancio” (in particolare
dalle missioni militari e dal Ministero per lo Sviluppo Economico) su cui
la Difesa può contare e i cui dati non sono facilmente rintracciabili,
soprattutto per quanto riguarda osservatori stranieri.
La Rete Italiana per il Disarmo è soprattutto preoccupata della possibile
ripresa della spesa militare mondiale ed europea (vanno ricordate infatti le
recenti ipotesi della Commissione Europea di non considerare nel deficit
la spesa armata) che continuerebbe solo a drenare negativamente risorse
altrimenti utili e necessarie a costruire una vera sicurezza basata su
uguaglianza, diritti, lavoro, welfare.
Per questo motivo la Rete Italiana per il Disarmo partecipa all'iniziativa
della “Global Campaign on Military Spending” promossa dai propri
partner europei e coordinata in particolare dell'International Peace Bureau
(organizzazione premio Nobel per la Pace 1910). Anche quest'anno, come
avviene dal 2011, si celebra infatti proprio il 5 aprile il “Global Day of
Action against Military Spending” con iniziative che si protrarranno fino
al 18 aprile.
Per ulteriori informazioni > http://demilitarize.org/global-day-actionmilitary-spending/
(fonte: Rete Italiana per il disarmo)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2503
Politiche sociali
Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono
irraggiungibili (di Fabio Pizzi)
Servono, maltrattati in questo modo anche dall’informazione che
dovrebbe accostarsi a loro diversamente, nei cambi stagione per riempire i
buchi di cronaca. Sono i tristi protagonisti di classifiche post invernali o
pre grandi eventi. Sto parlando di coloro i quali non hanno fissa dimora e
su cui gli epiteti si sprecano.
“Senzatetto”, “vagabondi”, “invisibili”; ma anche vezzosamente e in un
francese molto snob e falsamente romantico “clochard”, oppure “ultimi” e
comunemente “barboni”. Negli Stati Uniti sono detti “homeless” e ormai
sono considerati una sottocategoria umana dalla quale è bene discostarsi il
più possibile. In realtà stiamo parlando di persone in difficoltà, donne,
bambini, uomini che vivono a migliaia in Italia e a milioni su tutto il
pianeta per la strada, ai margini di tutto.
Ma queste persone hanno una storia, un nome e un cognome, una vita,
insomma, con dei diritti e dei sogni. Spesso sono alla ricerca della dignità
perduta o cercano, a volte disperatamente, un qualsiasi modo per
mantenerla la dignità. Ai membri della società dei “giusti”, “degli inseriti”
danno fastidio - sia all’olfatto che alla vista e forse, ma forse, anche
all’anima che, maledetta, insiste coi suoi sensi di colpa. E allora via,
lontano. Occhio non vede, coscienza (sporca) non duole.
L’ultimo fatto assurto agli onori della cronaca arriva dal Municipio Bassa
Val Bisagno di Genova, dove si è deciso di installare sulle panchine di un
parco pubblico barriere anti sdraiamento in modo da non permettere ai
numerosi senzatetto gravitanti nella zona di dare fastidio con la loro
presenza. Alle polemiche susseguite a tale decisione si è deciso di
rispondere con un fine tecnicismo, di quelli che solo l’azzeccagarbuglica
pseudopolitica italiana è capace di sfornare “la scelta è stata fatta per
tutelare i senzatetto in quanto le panchine si trovano dislocate in un luogo
a rischio esondazione e pertanto si è pensato bene di non rischiare la loro
incolumità in caso di pericolo provocato dall’acqua”. Ma chi ci crede?!
Siamo seri.
Nel frattempo a Milano, pure qui tempi elefantiaci, prende piede quel
progetto, facente capo a Grandi Stazioni e cinque anni fa salutato con un
plauso dalla ex Sindaca Moratti, che prevede l’applicazione di inferriate
all’ingresso della Stazione Centrale del capoluogo lombardo per
allontanare i barboni. La cancellata però, per bocca del Sindaco Pisapia, è
riuscita solo nello scopo di dividere in due la città tra favorevoli e contrari.
Per Majorino, assessore comunale al Welfare ”non convince il metodo, ed
è una scelta risalente ad anni fa che appare improvvisata. Sarebbe molto
più utile se Grandi stazioni e Ferrovie dello Stato fossero altrettanto solerti
nel mettere a disposizione alcuni locali dietro la Stazione per fare
accoglienza e risolvere il problema con una positiva azione sociale".
Contrario si è dichiarato anche il Presidente di Progetto Arca Alberto
Sinigallia, associazione tra le più attive a sostenere il Comune nell’aiuto ai
senzatetto “le cancellate sono il modo sbagliato di affrontare la questione:
l’unico risultato sarà quello di veder migrare i bivacchi di disperati in altri
luoghi.” Insomma, come dicevamo, lontano dagli occhi lontano dal cuore,
certo, ma soprattutto lontanissimo dalla soluzione del problema.
Ma quante persone senza una casa dove stare ci sono in Italia? Basandosi
sul secondo censimento fatto nel 2014 riguardante coloro i quali nel
periodo di riferimento (mesi di novembre e dicembre) hanno usufruito
almeno una volta di un servizio di mensa o accoglienza notturna in uno
dei 158 comuni italiani che da nord a sud hanno aderito all’indagine, si
tratterebbe di circa 50.200 individui. Sempre da questa particolare, e
quantitativamente complessa, indagine realizzata a partire dal 2012 grazie
a un accordo tra Istat, Ministero del welfare, fio.PSD (Federazione italiana
degli organismi per le persone senza dimora) e Caritas, è emerso che le
cause principali per le quali i cittadini finiscono per strada sono la perdita
11
dell’impiego e il divorzio; la quota più alta di senzatetto risiede ancora
nelle regioni del Nord-ovest (38%) ma, purtroppo, aumenta anche quella
di chi vive al Sud (dall’8,7% all’11,1% del 2011).
Per quanto riguarda la situazione nelle città, Milano e Roma sono quelle
che ne contano di più: rispettivamente il 23,7% e il 15,2%, con Palermo (il
5,7%) sul terzo gradino di questo triste podio. Rispetto alla rilevazione
2012, nel 2014 risulta confermato il profilo tipo di questi senza casa: sono
per la maggior parte uomini (85,7%), immigrati (58,2%), con un basso
titolo di studio (solo 1/3 raggiunge almeno il diploma di scuola media
superiore) e con meno di 54 anni (75,8%).
Un fenomeno in continua crescita che le istituzioni e i cittadini faticano a
comprendere e ancor di più ad accettare e gestire. E se da un lato, come
magistralmente spiegato da Elisabetta Grande, Professoressa Ordinaria di
diritto comparato all’Università del Piemonte Orientale Amedeo
Avogadro, nella grandi città d’Italia sono in corso scimmiottature delle
politiche aggressive contro i poveri e i senza tetto, adottate negli Stati
Uniti nel corso degli anni ’80 e ‘90 per fare degli homeless dei veri e
propri “nemici sociali” da emarginare il più possibile senza che gravino
sulle casse pubbliche, dall’altro, da Trento a Palermo, esistono donne e
uomini che in varie associazioni lavorano quotidianamente perché la
dignità non sia un cavillo ma un diritto proprio di ogni abitante di questo
piccolo e incasinato posto chiamato mondo.
Fabio Pizzi
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/Gli-ultimi-saranno-gli-ultimi-se-i-primisono-irraggiungibili-156480
Prospettiva di genere
Occhio non vede… (di Simona Sforza)
Ho come l’impressione che in questo strano Paese si preferisca non
vedere, non capire, non sapere. Per non farsi troppo male oppure per non
guastare il clima di sospensione e di ottimismo artefatto in cui siamo
immersi. La mitologia ci piace più della realtà.
Non ci piace avere qualcuno che ci dica che le cose non vanno proprio nel
verso favoleggiante che da tempo ci viene somministrato.
Me ne accorgo quando pubblico articoli come questo in cui parlo del
Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) a cura dell’Istat, a quanti
interessa questo tipo di approfondimento? Quanti si pongono domande e
desiderano capire come vanno le cose? Quanto le nostre politiche riescono
ad adoperare adeguatamente le analisi che periodicamente vengono
pubblicate?
La mia impressione quando parlo di adoperare un’ottica di genere
nell’azione politica, di programmazione, di progettazione, di visione sul
futuro, di pianificazione degli interventi locali o nazionali, è di profondo
smarrimento. “Ah, ma tu sei sempre quella in trincea per i diritti delle
donne, ma non puoi occuparti d’altro?”
Forse darò un dispiacere a qualcuno, ma continuerò ad occuparmene,
perché penso che lavorando in questo senso ne possa beneficiare l’intero
sistema socio-economico.
Diamo fastidio se ci preoccupiamo di occupazione, flessibilità,
condivisione, work-life balance cercando di applicare le differenze di
genere e di evidenziare le problematiche peculiari di certi temi?
Cosa c’è di normale per esempio nel fatto che nella fascia d’età tra i 25 e i
34 anni, secondo i dati Istat, nel 2015, il tasso di occupazione è del 73,9%
per le single, mentre per le donne in coppi con figli scivola al 44%, e
crolla al 20,1% quando il numero dei figli è pari o superiore a tre?
Dal 16 aprile Linda Laura Sabbadini non sarà più la direttrice del
Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali di Istat, che cessa di
esistere per grandi lavori di ristrutturazione dell’Istituto.
Davvero pensiamo che cancellando un dipartimento, che interrompendo il
prezioso lavoro nel campo delle statistiche sociali e di genere svolto da
Sabbadini, si riuscirà a silenziare le voci di coloro che quotidianamente
sottolineano che questo non è ancora un Paese per donne, per lavoratrici,
paritario? Le discriminazioni ci sono ancora, gli sforzi fatti sinora
evidentemente non hanno risolto un granché, perché la realtà è più
complessa e delicata delle rappresentazioni iconografiche da twitter. La
realtà è quella che emerge dalle statistiche e dai lavori che il dipartimento
di Sabbadini ha sinora elaborato. E non ci stiamo alla vulgata secondo cui
le donne italiane se la passerebbero meglio rispetto al passato.
Non è evitando di leggere che le discriminazioni, i problemi del lavoro
delle donne sono tuttora vivi e laceranti che potremo superarli. La
fotografia periodicamente scattata dall’Istat non deve venire a mancare, le
buone pratiche non devono andare perdute. Le indagini su salute,
sicurezza, benessere, violenza, lavoro, abusi ambientali e povertà non
devono smarrire la loro forza, la loro capacità di mettere in luce le
distorsioni della realtà. C’è da lavorare per sanare la ferita
dell’occupazione femminile, gravata dai compiti di cura che ancora
pesano maggiormente sulle donne, dalla mancanza di sostegni reali per un
benessere diffuso, a misura anche di donna. Non abbiamo bisogno di una
mano di tinteggiatura rosa, ma di vedere i fenomeni delle differenze di
genere, delle discriminazioni, delle spaccature della società per come sono
realmente.
Non possiamo di punto in bianco arrivare a sotterrare tutto perché non ci
piace ciò che si rileva. Non sbuffate ogni volta che vedete un grafico che
evidenzia come per noi donne è ancora una vita tutta in salita, in trincea.
Non sbuffate dicendo che ormai donne e uomini hanno gli stessi problemi
in campo lavorativo. Non sbuffate e reagite quando si vuole mandare in
fumo anni di ricerche e di un approccio finalmente corretto e innovativo,
di genere agli studi statistici. Dobbiamo preoccuparci se qualcuno vuole
sottrarci gli strumenti per capire come stanno andando veramente le cose
per noi donne e per l’intera società, per quelle fasce invisibili e poco
considerate della popolazione.
Abbiamo cancellato la figura della Ministra delle Pari Opportunità o di
una qualche delegata, le politiche di genere sono alla mercé della buona
volontà dei/delle singoli/e, si azzerano i fondi alle Consigliere di parità, i
diritti delle donne sono sempre più incerti e sotto attacco, arriva la notizia
della Sabbadini, mi sembra un quadro tutt’altro che rassicurante. Ci
vogliono cancellare? Vogliono passare la gommapane sulle voci delle
donne? Lasceremo che questo accada? Mi auguro proprio di no, e auspico
che ci sia un moto di azione collettivo, siamo stanche di aspettare e di
vederci messe nell’angolo, all’ultima pagina dell’agenda politica. In un
Paese civile e che vuole progredire non si sottrae informazione
indipendente e critica, ma la si incrementa.
Quanto la situazione deve ancora peggiorare per mobilitarci seriamente
tutte insieme?
(segnalato da: Marina Amadei)
link: https://simonasforza.wordpress.com/2016/04/02/occhio-non-vede/
Notizie dal mondo
Egitto
Egitto - Arabia Saudita: Re Salman al Cairo per
salvare al-Sisi (di Michele Giorgio)
Il sovrano saudita garantirà investimenti, prestiti e petrolio per oltre 20
miliardi di dollari. Si aspetta però che il presidente-dittatore egiziano
assicuri fedeltà assoluta ai suoi disegni regionali e accetti, di fatto, la
supremazia politica e diplomatica di Riyadh in Medio oriente. Al Sisi non
12
può dire di no con il suo Paese vicino al collasso economico.
Sulle prime pagine dei giornali del Cairo ieri non dominava l’incontro a
Roma tra i magistrati italiani e la delegazione egiziana sul brutale
assassinio di Giulio Regeni. In queste ore per la stampa locale il tema
centrale non è la ricerca della verità nel caso del giovane ricercatore
italiano ma la visita ufficiale, cominciata ieri, di re Salman dell’Arabia
saudita. Visita che i media egiziani definiscono “storica” considerando il
suo corredo di accordi economici.
Il titolo più concreto l’ha fatto al Gomhuria, uno dei giornali più
ossequiosi verso il regime: «Al Sisi-Salman, vertice della ricostruzione
dell’ordine arabo». Vero, però al Gomhoria non aggiunge un altro punto
fondamentale. La visita di re Salman sancisce, di fatto, la fine della
centralità dell’Egitto nell’ordine mediorientale e, di conseguenza, delle
ambizioni diplomatiche del presidente Abdel Fattah al Sisi a tutto
vantaggio di quelle del sovrano saudita. Re Salman, durante questo
viaggio “storico”, grazie ai suoi miliardi di dollari, comprerà l’Egitto e la
sua politica estera. E al Sisi reciterà nei prossimi mesi o anni, ammesso
che resti così tanto al potere, la particina dell’attore decaduto che si
accontenta di fare un cameo ogni tanto e di non essere più il protagonista.
Re Salman non intende più regalare miliardi di dollari ad alleati che poi si
sottraggono al dovere di fedeltà piena alla monarchia saudita. È stato così
anche per al Sisi. Riyadh nel 2013 aveva accolto con gioia la notizia del
colpo di stato compiuto dall’esercito egiziano a danno del presidente
islamista Mohammed Morsi e dei Fratelli musulmani, “nemici” che da
sempre mettono in dubbio la legittimità del titolo di custode di Mecca e
Medina, i due principali luoghi santi islamici, che si è attribuito la famiglia
al Saud. Una gioia alla quale sono seguiti investimenti, prestiti e depositi
nella banca centrale, anche da parte di altre petromonarchie, per quasi 35
miliardi di dollari. Soldi che hanno puntellato la traballante economia
egiziana uscita con le ossa rotte da due anni e mezzo di instabilità post
Mubarak. Al Sisi ha preso i dollari e ringraziato.
Negli ultimi tre anni però si è mostrato in più di un’occasione non in linea
perfetta con la politica estera dell’Arabia saudita, specialmente da quando
Salman è diventato re, poco più di un anno fa. Certo il Cairo ha aderito
alla cosiddetta “Coalizione antiterrorismo” (nei fatti antisciita e anti Iran)
messa in piedi da Salman e ha appoggiato l’offensiva saudita in Yemen
inviando una squadra navale. Dopo però non ha dato alcun impulso reale
alla creazione, proposta un anno fa da Riyadh, di una forza militare
(sunnita) di pronto intervento contro le «ingerenze esterne» (l’Iran)
segnalando di non appoggiare completamente la diplomazia aggressiva di
re Salman. Più di tutto ha riallacciato, in una versione soft, relazioni con
Damasco, nemica giurata dei Saud, e ha continuato a punzecchiare la
Turchia di Erdogan (alleata dei Fratelli Musulmani) che pure ha stretto i
rapporti con Riyadh nel nome della lotta comune al presidente siriano
Bashar Assad e ai suoi alleati.
L’atteggiamento egiziano ha irritato non poco re Salman e i suoi alleati ma
il monarca saudita sa che la bancarotta dello Stato egiziano non
giocherebbe a favore dei suoi disegni regionali, mentre il nemico Assad è
sempre al potere e l’offensiva in Yemen contro i ribelli Houthi (appoggiati
da Tehran) ha avuto sino ad oggi un successo limitato (ma ha provocato
migliaia di vittime civili). Così, malgrado le sue finanze si siano
assottigliate per il drastico calo del prezzo del petrolio, Riyadh ha deciso
di correre in soccorso dell’Egitto e di dare l’aiuto economico necessario
per tenerlo in piedi.
«I sauditi non permetteranno il collasso dell’Egitto – spiega l’analista
Mustafa Alami – ma allo stesso tempo, non possono pagare per sempre.
Credo che re Salman cercherà di spiegarlo agli egiziani questo problema».
Significa che re Salman non vuole versare miliardi di dollari senza
assicurarsi della fedeltà assoluta dell’Egitto alla sua politica estera. Al Sisi
conosce il prezzo che dovrà pagare e non può fare a meno di accettarlo
viste le condizioni del Paese, alle prese con un Pil che cresce troppo poco
per creare sufficienti posti di lavoro, un debito estero elevato e un debito
pubblico galoppante. Senza dimenticare che il raddoppio del Canale di
Suez. completato quasi un anno fa, si è rivelato, almeno sino ad oggi,
molto deludente.
Un primo segnale, passato quasi inosservato, della disponibilità egiziana
ad accontentare re Salman, è stato l’ordine dato tre giorni fa dal regime al
server satellitare Nilesat di spegnere immediatamente la frequenza di al
Manar, il canale televisivo di Hezbollah, per affermare l’adesione del
Cairo alla lotta senza quartiere che l’Arabia saudita ha lanciato il mese
scorso contro il movimento sciita libanese Hezbollah, alleato di Assad e
dell’Iran.
Nelle ultime settimane i ministri egiziani hanno fatto la spola con Riyadh
per assicurarsi il nuovo pacchetto di aiuti. L’Arabia Saudita oltre a
garantire investimenti per quattro miliardi (dei quali 1,5 miliardi per
progetti di sviluppo nel Sinai) darà anche il via libera a un accordo da 20
miliardi di dollari a sostegno del fabbisogno egiziano di petrolio nei
prossimi cinque anni. Tuttavia i soldi potrebbero non bastare a cementare
un rapporto che di fatto che sancisce, a svantaggio del Cairo, la
supremazia nella regione di Riyadh che per decenni aveva avuto solo
quella economica. «Egitto e Arabia saudita sono come due coniugi che
litigano su tante cose ma che ha deciso di non divorziare per il bene dei
figli», commenta il noto giornalista saudita Jamal Khashoggi.
Nena News
Michele Giorgio è su Twitter: @michelegiorgio2
(fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/egitto-arabia-saudita-re-salman-al-cairo-per-salvare-al-sisi/
Siria
Perché l'autonomia di Rojava non è la separazione
della Siria (di Chiara Cruciati)
Ieri (17 marzo 2016) il Pyd kurdo ha annunciato la nascita di una regione
federale a nord, un modello per il paese: una democrazia di base su livello
comunitario e non la frammentazione su base etnica e religiosa voluta
dalla comunità internazionale.
Rojava balla da sola: ieri il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) ha
annunciato quanto promesso, la nascita di una regione federale nel nord
della Siria. I tre cantoni di Kobane, Afrin e Jazira con il loro modello di
confederalismo democratico si rendono autonomi da Damasco. Una
decisione unilaterale, non legittimata né a livello nazionale che
internazionale, ma che avrà conseguenze. Per due ragioni: l’ira del
presidente turco Erdogan e la realtà sul terreno.
Le ovvie reazioni alla dichiarazione di ieri sono state di rifiuto. Da parte di
tutti: Damasco, Stati Uniti e Turchia hanno criticato, ognuno a modo suo,
una mossa considerata affrettata e unilaterale. Ma vanno sempre tenuti in
considerazione gli equilibri politici sul campo: Rojava ha saputo dare vita
in pochi anni ad un modello funzionante di democrazia dal basso, di cui
fanno parte sì i kurdi siriani, ma anche arabi, turkmeni e cristiani. E la loro
capacità militare (ma anche ideologica) di resistenza alla macchina da
guerra dello Stato Islamico ne hanno fatto un imprescindibile alleato, sia
per l’Occidente che per il fronte Mosca-Damasco.
Tanto che ieri, dal meeting del Pyd nella città di Rmeilan, ad Hasakah, è
uscito un comunicato nel quale Rojava si dice pronta a proseguire la lotta
contro l’Isis al fianco di Usa e forze governative. Perché, ribadiscono, la
regione federale resterà parte integrante dello Stato siriano: è stata
ribattezzata, infatti, “Sistema democratico federale di Rojava-Siria del
nord”.
Nonostante l’attesa presa di posizione di Damasco («una mossa
incostituzionale e senza valore», commenta il Ministero degli Esteri
siriano), non è campata in aria l’idea che nel futuro della Siria i kurdi
ottengano quell’autonomia che rincorrono da decenni e che – dicono da
Rmeilan – vorrebbero diventasse un modello per l’intero paese: non una
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divisione federale su base etnica o religiosa, ma una struttura di governo
che si fondi sulla democrazia di base e di autogoverno delle comunità.
Un’idea ben diversa dalla divisione federale immaginata dalla comunità
internazionale e messa sul tavolo di Ginevra che andrebbe invece a
radicare i settarismi interni, invece di risolverli.
La dichiarazione va letta come mossa preventiva da parte di un soggetto
che, pur stretto alleato statunitense e russo, è escluso dai negoziati di
Ginevra. A tenerli fuori è stato il diktat del presidente-sultano turco che
probabilmente ora starà vedendo i sorci verdi. La reazione non dovrebbe
tardare ad arrivare, parte integrante della campagna che si abbatte su tutto
il Kurdistan storico, dall’Iraq al sud est turco.
Contro il Pyd Ankara si muove da tempo. Non solo abbandonando i civili
assediati dall’Isis, non solo facendo passare dalla propria porosa frontiera
aiuti agli islamisti. Lo farebbe anche attraverso una vera e propria milizia,
“Nipoti di Saladino”, unità di kurdi integrata dentro l’Esercito Libero
Siriano. Kurdi contro kurdi: i Nipoti di Saladino ricevono sostegno da
Ankara, raccontano loro stessi a Middle East Eye, in chiave anti-Rojava
perché contrari al modello politico dei tre cantoni e perché convinti
dell’alleanza tra Pyd e governo di Damasco.
L’obiettivo, racconta Mahmoud Abu Hamza, comandante della milizia
basata in Turchia, è impedire l’avanzata dell’Isis ma soprattutto evitare
ampliamenti territoriali del Pyd. Coperti dall’artiglieria turca, i 600
miliziani kurdi del gruppo (provenienti da villaggi della provincia di
Aleppo) avrebbero già assunto il controllo di alcuni villaggi tra Azaz e
Jarabulus, corridoio lungo il confine occidentale che la Turchia da tempo
considera linea rossa invalicabile dalle Ypg. Le comunità sono state
strappate allo Stato Islamico, ieri oggetto del voto della Camera Usa che
ha definito quello commesso contro yazidi, cristiani, sciiti iracheni e
siriani «genocidio».
Ci sono dei kurdi che al governo turco piacciono: i Nipoti di Saladino,
ideologicamente avversi al Pkk, e quelli iracheni con cui Ankara ha
intrecciato fruttose collaborazioni economiche. La Erbil del presidente
Barzani, dopotutto, non ha mai nascosto l’intenzione di trasformare
l’attuale autonomia in un’indipendenza, finalmente lo Stato del Kurdistan
ma nei soli confini iracheni, che tagli fuori Rojava e Bakur. Qui a
muoversi sono i movimenti di sinistra legati al Pkk: mentre nel sud est
della Turchia la brutale campagna militare in corso spinge sempre più
kurdi verso il sogno di un’entità autonoma, in Siria il sogno è una realtà,
seppur unilaterale.
La strategia anti-kurda di Ankara – militare, politica, mediatica – non ha
fiaccato la resistenza kurda. Eppure Erdogan ci prova, sfruttando
dichiarazioni politiche e attentati per portare acqua al mulino della
propaganda di Stato. Non funziona: per la seconda volta in poco più di un
mese il gruppo separatista kurdo Tak ha rivendicato l’attacco di Ankara di
domenica scorsa, come quello del mese precedente a Istanbul, smontando
il castello di carte governativo. Poche ore dopo l’esplosione in cui sono
morte 37 persone, Ankara si era affrettata ad attribuire la colpa al Pkk e a
lanciare una dura rappresaglia a sud est.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati
(fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/perche-lautonomia-di-rojava-non-e-la-separazione-dellasiria/
Notiziario TV
Video
Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" Videolettura di Gianni Caputo (di Antonio Gramsci,
Gianni Caputo)
Antonio Gramsci: "ODIO GLI INDIFFERENTI" - Videolettura di Gianni
Caputo - musica di Maurice Ravel
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi
vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è
abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli
indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera
potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è
ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che
rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza
l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene
perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le
leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che
poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e
l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la
tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e
allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia
non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto
del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi
sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni
piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno
o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi
cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro
piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha
svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò
che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere
inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con
loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare
l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la
catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è
dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è
in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si
sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non
parteggia, odio gli indifferenti”.
11 febbraio 1917
link: https://www.youtube.com/watch?v=OEuFMrvj9dE
Associazioni
Documenti
“La Costituzione bene comune”. In un volume di
novanta pagine tutte le ragioni del No alla
“deforma”
costituzionale
Renzi-Boschi
(di
Coordinamento democrazia costituzionale)
Interventi di Azzariti, Besostri, Carlassare, Ferrara, Gallo, Grandi, Pace,
Rodotà, Villone, Zagrebelsky.
Tutte le ragioni del No; un utile vademecum per informare e informarsi e
per avere sempre una risposta pronta da contrapporre alle argomentazioni
dei sostenitori del sì. Si intitola “La Costituzione bene comune” il volume,
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edito da Ediesse, che raccoglie gli interventi svolti durante l’assemblea
dell’11 gennaio scorso convocata dal Comitato per il No al referendum
costituzionale. Novanta pagine nelle quali sono spiegate, con competenza
e passione, le ragioni di un’opposizione che non è ideologica, ma fondata
su argomenti precisi, oggettivi, documentati. A spiegare perché bisogna
votare No al prossimo referendum di ottobre (che non è una gentile
concessione del governo, ma una chiara disposizione costituzionale) sono
giuristi e costituzionalisti del calibro Gaetano Azzariti, Felice Besostri,
Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Alfiero Grandi,
Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Gustavo Zagrebelsky.
La “deforma” Renzi-Boschi deve affrontare l’ultimo passaggio
parlamentare alla Camera (previsto nel corso del mese di aprile), ma la
campagna per il No è già partita: nel week end del 9-10 aprile inizia infatti
la raccolta delle firme per sostenere il referendum (ne occorrono 500mila).
Il volume si propone proprio di far conoscere le ragioni del No alla
riforma costituzionale così come imposta dal governo. Ragioni che
saranno la base per motivare la raccolta delle firme e, poi, convincere
elettori ed elettrici a votare no in ottobre, quando avrà luogo il
referendum.
Il volume sarà disponibile a partire da martedì 30 marzo e, per sostenerne
la diffusione a sostegno della campagna per la raccolta delle firme,
Ediesse rispetto al prezzo di copertina di 10 euro lo propone scontato per
acquisti:
da 5 a 10 copie
da 11 copie in poi
7 euro la copia
5 euro la copia
Le richieste vanno inviate a Maggioli (tel. 06 44870283 – 06 44870325) al
numero di fax 06 44870335 o ai seguenti indirizzi di posta elettronica:
[email protected] o [email protected] fornendo le informazioni indicate
nel modulo (scarica)
link: http://coordinamentodemocraziacostituzionale.net/2016/03/31/la-costituzionebene-comune-in-un-volume-di-novanta-pagine-tutte-le-ragioni-del-no-alladeforma-costituzionale-renzi-boschi/