Versione pdf dei testi estratti dalla monografia

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Versione pdf dei testi estratti dalla monografia
La Quadreria - Giovanni Francesco Guerrieri
Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone
Andrea Emiliani
Le notizie della prima giovinezza di Giovanni Francesco Guerrieri, nato a Fossombrone nel
1589, sono proprio tutte nelle mani e nelle parole del canonico Vernarecci che fu il primo e,
peraltro, il solo a potersi avvalere di un "diario" del pittore, oggi perduto, sembra,
irreparabilmente. Più tardi, tra il 1615 ed il 1618, ci assisteranno alcuni documenti
abbastanza trasparenti, i soli dai quali può emergere qualche informazione: quali colori
prediligesse il pittore, se usava modelli, che tempi di lavoro teneva. Ma i primi anni, quelli di
un adolescente che arriva a Roma nel 1606, di quale guida si servono, quale vita
consentono: come entra un ragazzo nel vasto giro delle botteghe? Possiamo essere sicuri
soltanto del fatto che il Guerrieri, nelle sue prime opere, appare subito legato ad un
naturalismo riformato di innegabile marcatura caravaggesca, con un’immediata tendenza
alla narrazione, alla scena della riforma. Consistenti, ma non facili a riconoscere, sono i punti
di appoggio del Guerrieri a Roma. Certo, in lui tornano a far gioco - e non si sono mai
spenti, in fondo - quei modelli senza tempo che da Pulzone a Valeriano, e perfino dal
vecchio Muziano, o dal Cavalier d'Arpino, hanno portato fino alla luce dell'attualità un seme
mesto ma dignitoso, dell'antica protesta di Controriforma. E non tanto di quella ufficiale,
decollata nel 1563 e accompagnata dal grosso lavoro programmatico e trattatistico che
sappiamo, ma piuttosto dell'altra, più antica, nata in seno ad una ecclesia semper
reformanda che si muoveva fin dagli anni della Rinascenza.
A un giovane che giungesse dalla provincia del Metauro, figlio di una famiglia di buon ceto
amministrativo, il viaggio a Roma era come quello di chi si trascinasse sulle spalle un'enorme
memoria storica e anche affettiva, fatta di chiese inerpicate sui monti e di conventi fitti di
celle abitate da dedizioni esasperate, di corridoi popolati da santi e da martiri di mite
devozione ma anche di efferata crudeltà visiva. Un gigantesco archivio della passione e della
pietà, nel quale la Chiesa vinceva non solo con il sacrificio, ma anche per la minuziosa
descrizione tassonomica, enciclopedica dei mali, delle trasgressioni colpevoli e delle
punizioni inevitabili. Nessuno scrittore tentò mai di opporre la semplice vita, la pura legge
naturale, a questa imponente massa di prevenzioni e di ammonizioni, di limitazioni
paralizzanti, di castrazioni didascaliche. Nato dall'immagine questo tratteggio doveva essere
sconfitto dalla pittura.
Il naturalismo caravaggesco è il solo antidoto, esploso addosso e contro questo imponente
spessore moraleggiante.
Ogni evocazione dei suoi atteggiamenti salvifici, ammesso che si possano così identificare,
va prima di tutto a sgomberare il campo visivo da quelle forme inerti e fantomatiche,
malinconiche e concettuali, nelle quali la metafora spirituale, l'allegoria beatificante, la
trasposizione del mondo dell'occhio in un ossessivo ripiegamento di verità, avevano preso
posto, dilagando e coprendo ogni spazio visivo. Visto dalle campagne, e specialmente da
quell'obiettivo interessato alla costruzione di una comunità sociale qual era la parrocchia
rurale, come del resto la parrocchia urbana, la necessità urgente era quella di rimuovere i
detriti dell'intellettualismo manieristico, anche con le sue bellezze mentali, i gioielli della
sapienza e le tastiere dell'organizzazione dell'arte retorica, e quei volti muffi, spenti, pallidi,
con i quali la nuova comunità parrocchiale continuava a misurarsi, ma disarmata, priva di
quel parallelo, ovvero paragone che era così necessario alla biblia pauperum; la ricerca della
quel parallelo, ovvero paragone che era così necessario alla biblia pauperum; la ricerca della
certezza del mondo.
Così, il naturalismo d'avvio e di adolescenza del Guerrieri è subito di quel carattere che deve
trovare mediatori forti, dotati, in grado di dare soluzioni a molti problemi in Roma e già
intorno al 1607-8. A quel punto, il Guerrieri aveva sedici, diciassette anni soltanto,
e'l'impatto con una città che il giubileo del 1600 aveva nominata capitale d'ogni fortuna,
commessa, bottega o gruppo di lavoro, dovrebbe essere stato guidato da qualche
individualità o atelier di cui in realtà nulla sappiamo. A quelle date, fatta ovvia eccezione per
il temibile Caravaggio, del resto già bandito dalla città dopo l'uccisione del Tomasoni, le
emozioni cui riservarsi oscillano tra quelle giuste, di prima fila, come quelle indirizzate alle
opere del Gentileschi, del Borgianni, o del Saraceni e per certi versi di Mao Salini; oppure si
svagano tra le combinazioni non sempre corrette, ma certo seducenti, del Manfredi, del
Baglione. Per certi altri aspetti, era anche attiva quella specie di archeologia cattolica che, a
partire dalla scoperta del corpo di Santa Cecilia e dalla statua famosa di Maderno nella chiesa
della Santa, in Trastevere, aveva creato attorno alle proposte di Cesare Baronio un vero e
proprio parco di attitudini naturalistiche, ma belle ed emendate, preludio a quell'idealismo
moderno che Guido, da un lato, e il Domenichino, dall'altro, porteranno a compimento
nell'età aldobrandiniana. Anche questa era una verità attenta, solo che non sfociava in quella
nuova, ribaltante anche se talora rozza, capacità di umanesimo. Il piacere per il nostro
giovane pittore sarà insomma quello di guardare alla natura, e di saper dipingere bene le
cose dal naturale, ma raccontandolo.
A dire la verità, il Guerrieri era giunto a Roma con una piccola carriera alle spalle. I dati
acquisiti dal Vernarecci e verificati dalla Cellini, lasciano conoscere per certa una sua attività
appena adolescente. Essa è testimoniata da un'opera, a tutt'oggi conservata, la Vergine col
Bambino di Montebaroccio, che è ancora là, in quella Residenza comunale che, nei primi
anni del Seicento (1602), ebbe a podestà proprio Ludovico, il padre di Giovan Francesco. Non
si tratta, certo, di un gran quadro. È piuttosto un segnale, organizzato su modelli grosso
modo alla Samacchini, che si direbbe eseguito con un artigianato inesperto ma virtuoso,
derivato forse da un'incisione di Agostino. Ma certe attenzioni particolari, soprattutto certe
notazioni di paesaggio e poi quell'aria trasparente che avvolge le figure, rassicurano almeno
su di una schietta volontà di coltivare ancora, caparbiamente, quella vocazione acerba. Il
paesaggio affonda la sua forma in un tramando che dovremmo chiamare "adriatico" e che
lontano enuclea anche Lorenzo Lotto e la sua mite avversione al classicismo.
Il ritratto, così, si apre in modo curiosamente moderno. Sulla pista tracciata dal diario
autografo, possediamo l'immatura opera prima di un artista ancora fanciullo. Si tratta di un
evento piuttosto raro, salvato a noi da una condizione speciale e che ci esibisce un'opera
germinale non assoggettata in alcun modo ai filtri della scuola o del magistero. C'è di più,
Guerrieri non ha maestri, e qui si vede. Non ne cita alcuno nel suo diario ed è il canonico
Vernarecci, giustamente in caccia di alberi genealogici in mezzo a tanta oscurità di origini,
che se ne duole. Dopo questo esercizio minuto ed anche un po' pasticciato nel tocco,
dobbiamo dunque immaginare che il maestro, o i maestri, il giovanissimo fossombronese se
li vada a cercare a Roma, addirittura nel 1606, a diciassette anni.
Poiché ci mancano i pezzi della scacchiera, almeno fino al 1611, molte cose devono di
necessità essere ricomposte sull'induzione, e per giunta camminando all'indietro. Ed è ciò
che faremo, quando dovremo finalmente affrontare le prime tele, eseguite - come la
Maddalena penitente - nel 1611, e poi le altre successive del 1612 e del 1614, opere
cresciute e che vengono sempre più scoprendosi ricche di afflussi culturali. La ricerca di un
punto solido sul terreno di partenza è ancora oggi insoddisfatta, anche perché questi sono
anni che a Roma contano molto, frequentati dalla prima generazione dei caravaggeschi di
avanguardia, i cui eventuali contatti avrebbero dovuto lasciare il segno. Di uno tra essi, e
cioè di Orazio Gentileschi, l'intera vita poetica del Guerrieri sarebbe rimasta segnata, anche
se la perfezione di quella pittura di profilo altissimo e degno assai più di una corte che d'una
strada romana, fu poi per lui un'aspirazione, una tensione, ma non quella mondana, perfino
terrestre rivelazione della natura narrata, della natura dipinta per gli altari delle chiese
terrestre rivelazione della natura narrata, della natura dipinta per gli altari delle chiese
parrocchiali e destinata alla comprensione della gente. Infatti, allorché nel 1615 e per tre
anni, il Guerrieri affrontò la commessa forse più promettente della sua vita, quella delle
decorazioni in Palazzo Borghese a Campo Marzio, fu proprio il Gentileschi a ritornare alla
sua mente visiva per soddisfare quel bisogno immediato di una specie di parco archeologico
delle antiche metafore poetiche e delle allegorie più vetuste, ma anche "belle".
Poi, l'improvviso ritorno a casa, sul Metauro, è uno stacco senza rirorno verso la vita e il
lavoro. Verso un genere ed un metodo di lavoro che hanno in quegli anni un solo obiettivo, e
cioè quello di assicurare - all'interno di quel modello sociale addensato attorno al rapporto
città-campagna - una verità particolare, una verosomiglianza che altrove, e cioè a Roma e a
Bologna, avevano investito tutto l'orizzonte figurativo. Ciò secondo metodi e modelli diversi,
intensamente differenziati, per molti aspetti autonomi. La verità dei naturalisti romani, pur
scavando anche nel profondo della tradizione, era quella scoperta da un lampo, da un
bagliore che non concedeva troppo tempo alle meditazioni: era la cronaca, spesso la cronaca
nera, di una città di grandi contrasti, abitata da artisti di mezzo mondo, centro di
avanguardia di un'arte nella cui immagine perfino il potere più spregiudicato, come quello
dei grandi pontefici o dei cardinali nipoti, si lasciava coinvolgere. Qui, e non altrove, è nata
la società arristica moderna. Da queste strade e da questi atelier, fitti di artisti senza troppi
mezzi e anche senza troppi scrupoli, s'è mossa una specie di libertà che puntava
direttamente sulla drammatica scelta della ricerca della certezza, piuttosto che su quella di
una verità teologica. E cerrezza, in pittura, vuoi dire sperimentazione, tanto più resa
possibile se - connessa ad alcuni grandi ordini religiosi - il dibattito degli artisti affrontava la
verità del mondo come la sola dove lo sguardo riusciva a cogliere fisionomie umane e
dolcezze amorose, una drammatica sequenza di vita e la bellezza della santità lontana, le
piaghe e l'esaltazione.
Quella dei bolognesi, la verità cioè lombarda, nutriva una finalità analoga ma raggiunta nello
specchio di una natura circostante con la quale l'artista si confrontava, quasi che il mondo
fosse appena tornato a nascere: e che tutto, dunque, di quel rapporto tra uomo e natura,
dovesse essere ripercorso, narrato, misurato. Nell'arte carraccesca, la natura si esalta e si
nutre di quella narrazione luminosa che la esplora e che, nel contempo, la fa rifluire in seno
alla storia, sì che essa sembri tornare tra noi dopo una riforma, il ri-formarsi stesso
dell'equilibrio che si ritenne aver abitato il grande Rinascimento.
Il Guerrieri, a Roma, non incontrò quasi di certo la verità lombarda, anche per essere il
vecchio e malato Annibale affaccendato ancora per poco attorno alle questioni del
classicismo e del paesaggio ideale. Lo vedremo piuttosto impegnato a guardare più tardi
all'opera del Domenichino, proprio perché in essa la fissazione della verità è quasi
archeologica, statuina, impassibile, e dunque tale da agevolare il compito di un pittore
giovane che deve ostinatamente "fare la realtà", incontrarla per poterla narrare sullo stesso
piano di quella degli uomini. Per questo, la natura del pittore di Fossombrone non sarà mai
né commossa, né coinvolgente. Si dovrebbe dire che non avrà neppure le stigmate della
quotidianità, quella che a Bologna era la scoperta nuova, il banco di prova della luce e
dell'ombra, cioè degli eventi che fanno sicura la presenza degli uomini e che dà loro la
certezza di esistere. Così, anche per tutti gli altri eventi che la natura ci propone appunto nel
teatro della quotidianità: anzitutto, l'acqua nelle sue manifestazioni, l'acqua nella terra,
l'acqua che bagna e che imperla le foglie. Nasce dal fluire di questi eventi la dimensione del
tempo, il suo scorrere ed il succedersi delle ore nella giornata che - grazie al sole - sta
camminando nel cielo, e allunga le nostre ombre, o macchia di verde e di bruciato ogni
paesaggio.
In quale misura la Riforma cattolica accompagna e accresce il cammino di un'identità che,
per le vie dell'antropologia culturale e anche del progresso scientifico, vediamo così
d'improvviso, proprio intorno al 1580, per mano di Federico Barocci da un lato, e per mano
dei Carracci dall'altro, precisarsi tanto riconoscibile e umana: nel momento in cui i fantasmi
intellettualistici cadono di colpo tra i ferrivecchi del manierismo, della metafora simbolistica,
delle distillazioni mentali? Sono gli anni in cui la parola poetica stessa, pur con diversa fatica,
delle distillazioni mentali? Sono gli anni in cui la parola poetica stessa, pur con diversa fatica,
recupera la sua più diretta realtà come nella poesia di Tasso; nei quali anche il cammino
della medicina che riassume in se stessa il progresso della scienza, esige di conoscere la
realtà guardando le cose, specchiandosi nell'organizzazione della natura.
Il momento della grande scelta della Chiesa è quello che elegge il Vangelo alla massima
capacità figurativa e narrativa, nei confronti del Vecchio Testamento. La Rivelazione è
letteralmente una didattica del modo e del luogo, dell'uomo e della natura. Si diffida della
Bibbia, ma poi alla fine si riconosce che in quest'ultima c'è spazio per un'enorme fantasia
storica, ricca anche di contraddizioni e di trasgressioni. Il Vangelo è invece sceneggiatura
totale, assoluta, imprescindibile. Nelle sue parole sono le ore, i luoghi, le circostanze. Nella
fedeltà alle sue parole c'è ogni possibilità e anzi necessità di natura. L'artista discende dallo
scanno teologico ed estetologico, e affronta il modello dell'uomo e il luogo della stanza,
della strada e del paese.
Qual è stato il grande momento, alle soglie della società moderna, nel quale la Chiesa ha
nuovamente deciso di servirsi dell'immagine per condurre una strategia culturale e di fede?
Le migliaia, le centinaia di migliaia di dipinti - per tenerci solo all'icona semplice - che
irrompono in poco più di due secoli nell'immenso teatro delle chiese italiane, da quelle
metropolitane a quelle della periferia parrocchiale più umile, che significato hanno e a quale
necessità, bisogno, imperio obbediscono?
Qui potevano incontrarsi le diverse concezioni di un solo recupero di storia, e cioè di natura,
le due scuole e le due città impegnate alla riforma naturalistica. Certo, quella che il Guerrieri
incontrava per le strade di una città fatta di orti, di vigne, di ville e di enormi chiese, aveva in
se stessa il seme di una violenza che era pari al rumore destato dal gesto di chi per primo
l'aveva svegliata, e cioè Caravaggio. Qui il Guerrieri ha cercato il suo maestro, ha cercato di
individuare i suoi modelli, di organizzare le sue riflessioni. Su questo teatro dove vanno e
restano artisti d'ogni razza e cultura, i flussi delle diverse tendenze sono continui, le
sovrapposizioni inevitabili. Sulla verità di una scoperta perfino semplice nella brutalità
esistenziale, qual è quella di Caravaggio, si affannano anche le mediocrità, le contaminazioni
e le bigiotterie della realtà, del suo dramma d'ogni ora. Noi non sapremo mai, credo, chi sia
stato il maestro di Giovan Francesco Guerrieri, e neppure se esso sia stato uno solo, al di là
del nobile obiettivo del Gentileschi. Oggi siamo in grado di conoscere molte opere sue, quasi
il suo intero catalogo di attività. E tuttavia perdura nella sua struttura di formazione non già
il senso di un'imperfezione artigiana, ché anzi, al contrario, egli si porta velocemente verso le
quote della condotta alta. Ciò che è difficile da comprendere è invece la sua capacità di
lavorare a più livelli, secondo profili di produzione quasi alternativi: prova di un carattere e
di una cultura che conosce bene il fine dell'arte, la strumentalità anche del prodotto,
l'efficacia della sua presenza.
Solo a guardarsi attorno, magari accasato in qualche convento di minori tra i tanti della
patria marchigiana, il ragazzo poteva scorgere al lavoro, tra vicoli e osterie, i protagonisti
della svolta caravaggesca. Tumultuosa, scomposta genìa d'artisti qual era quella di Salini e
dello Spadarino, di Orazio Gentileschi e del Borgianni, fino al Baglione e al Pensionante del
Saraceni: gente che entrava sulla scena dei processi del Merisi con l'aria brusca e spiccia di
chi ha da poco litigato e però deve campare l'arte e anche la vita. Che cerca di aggiustarsi un
poco le maniche prima di parlare di offese e di prevaricazioni, di madonne lauretane in
stagno anziché in argento, di carciofi tirati in faccia all'oste del Moro, e insomma, tutta la
scompigliata arsura, la dannata voglia di vivere e la feroce povertà di questi pittori e artisti
che vanno e vengono per Roma, e non gli si può dar regola.
Accanto a costoro, con meno ardire o grazia di costoro, Guerrieri seguitò a studiare, forse
presso qualche artigiano: e a metter giù quel suo tratto pittorico un po' grosso e un po'
andante, dialettale talora, e se non vile di profilo, certo lontano dall'abilità versatile della
bella pittura italiana. Di tanta pittura che, sull'onda della vita delle forme, colma ogni vano
della chiesa, si dilata dal quadro all'ancona, dal ricciolo scolpito ai candelabri, fino
all'applauso. Il corso del pennello del Guerrieri è un misto tra la trascuratezza ridondante di
uno stile povero e la deterrninazione di dire le cose in modo diretto. Le prime cose dell'arte.
uno stile povero e la deterrninazione di dire le cose in modo diretto. Le prime cose dell'arte.
L'artista marchigiano sa bene, peraltro, che i suoi immediati committenti sono e saranno
soprattutto preti e frati, monaci degli ordini riformati, cappuccini e francescani, quelli stessi
che aveva lasciato a questuare per le strade di Fossombrone e a pregare nelle chiese della
città alta e in quelle nuove della bassa, fino all'Annunziata, costruita nell'ombra sotto il
Petrano, di là dal Metauro. Lungo il fiume che risale a Fermignano, oppure giù dal Furlo,
dalla Strega, scendono notizie nuove, una successione appena scandita di brevi, confortanti
eventi economici, di rafforzamento - nonostante tutto - di quella società che scongela il
clima neofeudale così duro degli ultimi anni di Guidubaldo della Rovere, il granduca del
martirio di Urbino, con prudenza condotto poi dall'ultimo dei rovereschi, l'infelice Francesco
Maria II.
Le strade sconnesse che dagli Appennini portano le novità romane, a dire il vero, escludono
sempre più l'alto Montefeltro, bloccato nel confronto, a questo punto immobile, con la
Toscana. Anche sotto il profilo culturale, l'omogeneità del sistema feltresco più antico,
compreso tra il Foglia e il Metauro, con Urbino in alto, capitale ormai decentrata e lontana,
sembra attanagliato nell'ultima società cortigiana, quella solitaria e squisita colmata di ogni
sapienza spirituale e artistica dalle mani malate di Federico Barocci. La notte dell'ultimo
pittore urbinate è un lucido, nero velluto che si distende da San Giovanni, copre come una
coltre trasparente Valbona e s'alza contro la mole immensa e vuota, invasa dal vento, del
Palazzo Ducale. È una tenebra insonne sospesa sull'altissimo cielo del Montefeltro, prima che
Venere accenda, proprio sopra le torri del Laurana, l'attesa dell'alba, la pallida luce che bagna
il Catria una volta ancora; come quella notte, che parve l'ultima del mondo cortese, spentasi
tra le mani di Baldasar Castiglione, e che chiudeva per sempre le veglie del Cortegiano.
Giù, nelle vallate traversate da traffici, dove l'economia dell'agricoltura è meno povera di
quella tutta greppi e scoscendimenti che s'aggrappa in alto, giungono viandanti, si muovono
novità e voci si incrociano. La strada di Fabriano discende dall'Umbria e raggiunge il mare a
Senigallia. Le fiere e i mercati, le franchigie papali, i pescatori con le loro barche, dopo
Lepanto e la fine del pericolo turco, il porto di Ancona con i suoi mercati di Schiavonìa,
hanno mutato il volto rudemente montano della Signoria. Gli scambi transitano per la carraia
di costa che sorpassa le Siligate, in alto, si stringe più sotto per schiacciarsi contro il San
Bartolo, in procinto di scavalcare il corno del Conero che frana sul mare. Tutto entra in un
paesaggio che abbandona le città di altura, ricche di vescovi e di finestre che sbalzano lo
sguardo e brillano di vetri fino all'acqua azzurra che sfonda il mattino, laggiù, attraversato
dalla Santa Casa di Loreto in un fiato solo, proprio per quell'aerea qualità che è di tutte le
Marche. I principati dell'interno innestano fronde vuote sugli alberi di una genealogia di
doppia e tripla nominanza e nelle vaste sale permane l'eco di un lusso ecclesiastico e un po'
pavonazzo, eco di Roma che già un grande marchigiano, Sisto V, aveva condotto a pienezza
intellettuale e di potente riassetto architettonico e urbanistico.
Sulla direttrice tracciata da questa economia più fervida, e forse soltanto meno indolente,
come su un paesaggio meno complesso di quello imposto dalle strade di cresta, nel maggio
del 1598 sfila il corteo di un papa, Clemente VIII Aldobrandini. Deciso a ripetere, a fine
secolo, quel viaggio nel nord padano già intrapreso da Leone X, che aveva inteso dare
definitiva conferma alla conquista di Bologna dopo la cacciata dei Bentivoglio e, insieme,
incontrare Francesco I di Francia. Raffaello stesso potrebbe aver accompagnato il corteggio,
tuttavia preceduto di qualche mese da quell'Estasi di Santa Cecilia che, dall'altare della bella
cappella dell'Arrigucci, in San Giovanni in Monte, faceva ora risuonare il metro severo del
classicismo armato, del potere di un edonismo cattolico e neoplatonico avviato a invadere la
pianura padana. Questo era il nemico, il vero nemico da opporre all'esoterismo dei pittori
bolognesi, al loro sostanziale rifiuto al classicismo: altro che il braccio alzato nella minaccia,
piuttosto che nella benedizione, che, secondo Vasari, Giulio II aveva raccomandato a
Michelangiolo, e che il popolo nel 1611 aveva sbalzato giù dal portale petroniano con
distruttivo furore.
Il lungo viaggio di Clemente VIII, che si connota dell'antica, e romana, forma del "possesso",
della presa di potere pacificata e definitiva, muove da Roma e infila archi trionfali e serti di
gloria, accogliendo benevolmente prosternazioni di gentiluomini. Si coprono di fiori le strade
di Narni e di Spoleto, di Foligno e di Ancona. Folle festanti e fanfare di trombetti, magistrati
avvolti in zimarre un po' tarlate, accademici senati di pronta devozione, seguono centinaia e
centinaia di ecclesiastici e monaci, di suore e di preti usciti come formiche dai seminari e
dalle sacrestie delle infinite chiese e pievi e parrocchie e oratori delle Marche.
Francesco Maria II della Rovere annota nel suo diario che era di maggio e, anzi, il primo del
mese. E il giorno avanti era passata la mula bianca che portava il Santissimo, seguita dal
temibile cardinal nipote Pietro, proprio colui che doveva preparare l'ingresso dell'armata in
una Ferrara ormai sconfitta da Lucrezia d'Este, ex moglie del duca d'Urbino. Dalla cattedrale
di Senigallia, appunta meticolosamente Francesco Maria, il papa si avvia verso Fano e non
vuole essere scortato che per mezzo miglio. Da Pesaro, il corteo ripartirà verso il nord
soltanto il giorno 4 e il granduca potrà finalmente tornare a Casteldurante, dove i daini
incominciavano a figliare, le cicale a cantare e qualcuno doveva fargli vedere la "lepre
biancaccia" presa nel Montefeltro. Il diario dell'ultimo signore di Urbino riflette mirabilmente
la vita del luogo in una sequenza appena sensibile: le saette dell'estate, la prima neve sul
Montelirone, la nascita dei puledri. In questa recuperata quiete s'inscrive in termini quasi
inavvertiti, ma di netti contorni, un paesaggio intero.
Che è il paesaggio di Giovan Francesco Guerrieri, il pittore di Fossombrone. Il ricordo del
"possesso" di Clemente VIII che sale verso Ferrara non è altro che l'ultimo avviso di una
devoluzione annunciata e, insieme, di tempi in trasformazione, di traumi che incidono
sull'immaginario sociale d'una comunità chiusa qual è quella urbinate; che, verosimilmente,
si fanno evento e notizia assai meno risentiti non appena superate le mura del vecchio
Comandino e discesa l'erta fino allo stagno della Borzaga.
È assai difficile, si è detto, reperire nei luoghi della nascita e della prima educazione del
Guerrieri le novità di cultura e la garanzia di qualche insegnamento almeno artigianale, come
certifica d'altronde la lacunosità della quale, da Antaldo Antaldi al canonico Vernarecci, tutta
la piccola storiografia feltresca si viene lamentando. La scelta del giovanetto pittore, di
andare direttamente a Roma, appare la sola opportuna e commendabile. Troppo lontane di
qui, e forse anche troppo sapienti, le vistose equazioni di arte, di natura e di storia che
reggevano la pur notissima riforma dei Carracci. Da queste parti non rimaneva che
alimentarsi con i succhi quasi stremati nell'impeto soave di una diversa uguaglianza, di
natura e di anima, quale si distillava nelle stanze del Barocci, in via San Giovanni a Urbino.
Troppo cortese, troppo eletta era quella lingua che pure investiva il paesaggio della prima
autobiografia, nel segno della passione di Cristo. Il temperamento di un giovane, nato
appena nell'89, sollecitava anche la ricerca di un confronto con la realtà esterna, con la
durezza della vita.
La testimonianza dello stesso Guerrieri data il viaggio a Roma già nel 1606. Alle spalle, il
figlio del podestà Ludovico abbandonava quella Madonna col Bambino di Montebaroccio che
- dipinta a soli 13 anni - si legge insieme come un exploit e un compito di scuola, entrambi
basati su un manierismo di lunga lena. Nessun elemento preciso ci illumina sulla decisione,
così precoce e risoluta, di andare a Roma, di affrontare il viaggio della vita. A volte, più che
una necessità, un'avventura di questo genere può lasciar più facilmente trasparire il rifiuto di
seguitare l'esperienza locale per chi, avendo ricevuto un'educazione borghese e intellettuale,
non poteva passare l'adolescenza intera in un mestiere ancora una volta vile e "meccanico". È
probabile infine che un'adesione forte qual era certo quella del grande viaggio potesse
essere consentita, se non addirittura sollecitata, dai componenti di qualche comunità di
religiosi. Ricorre per tutta la vita, nelle tele del Guerrieri, l'ordine cappuccino, la severità
concisa della regola, il volto impenetrabile di questi santi uomini che mendicano la vita.
Il fatto che la grande copia dalla Deposizione di Cristo, di Caravaggio, che stava in Santa
Maria in Vallicella, sia arrivata fino alla milanese chiesa di San Marco a Milano direttamente
da San Francesco di Sassoferrato, può essere soltanto una illazione. La sua qualità è buona,
da San Francesco di Sassoferrato, può essere soltanto una illazione. La sua qualità è buona,
ordinata. Il quadro è scelto con ogni intenzione tra quelli che possono, in tanta mestizia,
narrare diverse storie. Perché non pensare che il giovane Guerrieri, giunto ai vent'anni nel
1609, non abbia dato di se stesso un tirocinio di questa natura ai concittadini? In ogni modo,
qualcosa di questo genere potrebbe essere certo accaduto, aver procacciato un modo di
accostamento al modello esecutivo, alla sua pratica e mai metaforica qualità di superficie. Il
pennello ha curato in maniera adeguata, come è ovvio, la tessitura cromatica. Non succederà
più, se non in casi eccezionali: l'epitelio pittorico del fossombronese è molto spesso ingrato,
poche altre invece cauto e attentissimo. Avversata poi dal tempo, dalla trascuratezza di
sacrestani incapaci, sotto volte scrostate oppure in umide sale capitolari, la sua tavolozza
tanto disadorna e impolverata, nonostante i restauri, si presenta oggi, ancora e nonostante
tutto, come dotata di una volontà immediata, di una restituzione o resa molto realistica. E
anche in questa presa diretta della materia, sta uno dei momenti forti della scabra volontà
espressiva del Guerrieri.
Ma poi, a parte l'eventualità puramente sperimentale di attribuirgli la copia sentinate da
Caravaggio, furono necessari altri mezzi, quasi strumenti per una simulazione culturale, per
avviare la conoscenza del giovane lungo l'itinerario di un catalogo che non si sapeva come
far cominciare. Così, il recupero di questi mesi nebulosi mostrò di avvantaggiarsi non poco
della vecchia attribuzione-guida addossata alla Madonna col Bambino di Palazzo Pitti, e
avanzata da Federico Zeri già nel 1954: un'ipotesi costruttiva che rinviava, inoltre, seguendo
una ricostruzione ad sensum, agli anni 1608-10 grazie anche alla precedente apparizione
dell'altra Madonna col Bambino, quella nella Galleria Spada. Ambedue le assegnazioni sono
state cancellate, oggi, nel corso del dibattito restitutivo apertosi attorno alla giovinezza del
Guerrieri, e anche a riguardo della figlia di Orazio, Artemisia Gentileschi. Ritornato nell'area
romana dopo il Pulzone il dipinto della Spada, troppo raffinato comunque per servire alla
faticata educazione del Guerrieri; ancora una volta riportata ad Artemisia, cui già
apparteneva, la Madonna allogata a Firenze. Nulla resta nella nuda stanza di convento che
possiamo immaginare essere stata la dimora romana del Guerrieri, forse divisa con qualche
compagno di avventura, comunque da tempo vicina alla bottega di Orazio Gentileschi.
Il punto d'arrivo di questa affermazione di contiguità e forse anche di alunnato è pur sempre
quella Maddalena penitente che, dalla vecchia proprietà fossombronese nella quale la
trovammo nei primi anni Cinquanta, s'è ora spostata sul mercato romano. Si tratta di quella
Maddalena, per intenderci, che porta la firma insieme all'orgogliosa datazione di un pittore
appena ventiduenne: e che, nel 1611, è davvero utile a stabilire un ante quem per il
capolavoro del Gentileschi che sta nella chiesetta di Fabriano dedicata alla Santa. Potremmo
spingerci ancor più avanti di quanto non ci permettemmo nella prima monografia dedicata al
Guerrieri, del tutto sperimentale e pubblicata nel 1957. E immaginare che il giovane avesse
potuto conoscere almeno la bellissima Circoncisione del Lomi nella chiesa del Gesù di
Ancona, databile al 1605; come pure quell'accigliato San Michele Arcangelo di San Salvatore
a Farnese, di poco successivo. E, ancora, che ne avesse amato subito quella specie di
contaminazione, che in Orazio, però, connetteva senza conflitto alcuno, diafana e nitida,
tradizione manierista e verbo caravaggesco. Come se a un prodotto di Controriforma venisse
sottratta ogni valenza simbolica, restando la forma in una impasse tutta trasparenza e
nobiltà; e il nuovo naturalismo vi entrasse, al contrario, con la precisione derivata da un
modello nordico, lenticolare, presago in questo del destino ormai prossimo dell'artista, esule
prima nelle Marche, poi a Torino e, infine, in Francia e in Inghilterra.
È una Crocifissione il quadro che, a immediata e conseguente distanza, ci troviamo di fronte,
purtroppo frammentaria ma ancora molto potente anche in queste condizioni. Stava nella
chiesa di San Rocco in Cittadella, a Fossombrone alta, e purtroppo già alla fine del secolo
scorso era praticamente illeggibile. Ne resta un brandello, nella Pinacoteca Civica, ma in esso
aleggiano, così come si esprime nel volto del Santo, un carattere di diretta umanità ed un
decoro del naturale tanto fieramente enunciati da saper evocare fin da ora tutti gli indirizzi
che, volta a volta, assumerà quel naturalismo morale e quello strenuo dramma etico, che
hanno guidato la prima vocazione al naturalismo terrestre, al temperamento "sivigliano" -
hanno guidato la prima vocazione al naturalismo terrestre, al temperamento "sivigliano" direbbe oggi ancora Francesco Arcangeli - di questa grande provincia che si distende tra il
Metauro e il Savio. Quanto dire alle porte di quell'Italia che, collocata sulle soglie dell'antico e
mitico Rubicone, si divideva dalla pianura "lombarda" e rifluiva su Roma, attraverso le grandi
strade consolari romane e seguendo i flussi culturali più tipici del nuovo e vecchio stato,
quello delle Legazioni.
Qui si incontrarono le due diverse figure del naturalismo secentesco, quella che sprofonda
nel lume di cantina e che ha un'origine romana e caravaggesca, e l'altra che discende da
Bologna lungo la via Emilia, e che è anche vocazione accademica, oltre che di misurata,
riformata verità naturale. Rimini stessa è città di frontiera, toccata assai presto nel secolo
XVII da opere impegnative come quelle del Mastelletta, del Massari, del Guercino, ma anche
del Pomarancio; oppure, nella vicinissima Cesena, del Saraceni. Rimini è, in questo senso, la
prima tra le città costiere (seguono Pesaro, Fano e anche Senigallia) che propone una specie
di zona franca tra le due culture, capace di ospitare incontri e suggestioni incrociate a più
livelli, le quali, per quel che qui ci riguarda, stanno comprese tra l'arrivo del Gentileschi, con
la sua prima opera, nelle Marche nel 1605; lo stanziamento del Bonone a Fano, intorno al
1612 almeno; e infine l'educazione, la giovinezza, la partenza per Bologna di quel Simone
Cantarini che per molti versi rappresenta il condensato di questa cultura di frontiera. Proprio
Simone, poco oltre il 1630, muoverà all'attacco dell'atelier di Guido Reni, servendosi in
fondo del nuovo grimaldello che sta tra imitatio ed aemulatio. Ma è proprio il vecchio
platonismo di Guido che rifiuta ogni confronto, avviato com'è verso la sua dissoluzione
terrestre. Simone da Pesaro, artista di poche opere, è tuttavia un cardine sul quale gira
l'intera cultura bolognese del mezzo secolo, e si rinvigorisce quella sublime natura che il
gran teatro della disillusione aveva ridotto ad una sindone appena spirituale, ad una fissità
iconica assoluta. Nella figura di Simone, è proprio l'intera vicenda che chiamiamo largamente
montefeltresca a rivendicare il ruolo di una nobile periferia culturale sulle capitali dell'arte.
I documenti accertano, per il semidistrutto quadro di San Rocco, un arco cronologico che si
estende tra il settembre del 1611 e il novembre del 1613: e forniscono, nel maggio 1612, la
possibilità di immaginare che fosse in lavorazione proprio in Roma (qual fa M. Francesco
Guerrieri in Roma).
A questo naturalismo, che si può chiamare di riforma, una miscela di accettazione del
caravaggismo diretto e romano e di evidenti volontà esistenziali, il Guerrieri giovanissimo
riuscì a dar corpo, forse, perché dotato di una cultura borghese e dunque, ipoteticamente,
vicino al mondo ecclesiastico e ai suoi temi più gravi: sospinti dagli esiti operativi della
nuova società tridentina, come pure dalla qualità umana, più immediata e pastorale,
evangelica più che ritualistica, di collettività aggregate attorno al nucleo di una comunità
devota, di una prossimità parrocchiale, di un'attitudine, infine, a una pubblica pietas quale
doveva essersi costituita nel borgo natale.
Fossombrone era cittadina fervida e, già nel quadro del vecchio establishment feltresco,
destinata a occupare una posizione economica, oltre che di potere, di buona fortuna e legata
ai traffici che scendono la valle del Metauro e agli altri che, per le antiche vie di terra,
scorrono da Cagli: commerci dell'alta Marca fabrianese e, più ancora, dell'Umbria di Nocera e
di Gubbio.
Sarà sempre difficile cogliere nel particolare consorzio dei pittori quale sia l'indirizzo di
questo loro parlar opportuno, tempestivo, basandosi ora, all'aprirsi del Seicento, su un
linguaggio che deve esibire, spiegare e sostenere la verità del recente e realistico testo
evangelico e delle rivelazioni: e dunque secondo modi di precisa riconoscibilità. La
multiforme varietà delle aree culturali marchigiane è scarsamente codificabile proprio in
forza di flussi molto mobili quanto a economia della cultura e quanto a committenza,
materialità artigiana e perfino censo dell'artista. Siamo all'interno, cioè, di un paesaggio
orografico, politico, religioso, sul cui profilo la materia della tradizione figurativa, in assenza
di centri dominanti coevi alla maniera, ha elaborato per decenni una visione del manierismo
essenzialmente policentrica. Il suo difficile diagramma è da cogliere in primo luogo nel
essenzialmente policentrica. Il suo difficile diagramma è da cogliere in primo luogo nel
profondo della committenza religiosa e nel segreto, immediato profilo delle sue liturgiche
esigenze.
Nel disegno seppure incerto della diffusione del naturalismo tra Marche e Romagna si
ritaglia evidente che il primo avviso di schietta partecipazione è proprio questo del Guerrieri;
protratta, per giunta, per molti anni, anche se diversa sarà la motivazione che il pittore,
dopo la metà del secondo decennio, darà alla sua poetica. Ne abbiamo conosciuto la qualità
manifesta in quella sorta di tavola degli arrivi e delle partenze che, agli storici dell'arte, può
apparire la campagna marchigiana con i suoi insediamenti, tra il peso solenne e accademico
delle chiese cittadine e dei grandi ordini mendicanti e quell'ultima cellula territoriale e
periferica che è la parrocchia. Fuoco organizzativo e pastorale di un'arte che non ha
paragone, anche per prossimità di affetti, di passioni, di drammatiche verità quotidiane, con
nessun'altra età della cultura italiana.
Non ci fu luogo più vicino alle vicende storiche e sociali della comunità italiana, vista nella
trama dei suoi comportamenti di povertà e di sapere, della parrocchia, quale uscì dalla
riorganizzazione tridentina e si impostò a fianco delle forme di associazione agricola,
ovvero, all'approssimarsi dei castelli, al primo infittirsi delle povere case, dei borghi artigiani.
Il Guerrieri pittore, tuttavia, al di là dell'iniziale e convinto consenso alla immediata poetica
del naturalismo, che definiremo una volta per tutte "parrocchiale" (utilizzando poi questa
accezione del termine fino al Centino, al Manzoni e al primo Cagnacci), vive un'epoca che, sia
per condizioni politiche sia per dinamica di flussi economici e sociali e, infine, per geografia
diversa degli ambiti culturali, deve essere immaginata come transizionale. La parola, che si
presta a divenire argomento di comodo, esattamente come accade per quello strumento
difficile che è l'eclettismo, si spinge fino a contenere anche i problemi dentro i quali la
personalità del Guerrieri si è certamente aggirata.
Nato nel secolo precedente, educato nell'ossequio di un banale manierismo ortodosso,
gettato d'istinto dentro la ventata del naturalismo degli emuli di Caravaggio, che percorreva
le valli lontane, quasi celandosi di fronte alla trasformazione dei centri del potere culturale,
Guerrieri deve verosimilmente sopportare un mutamento di orizzonte e di destino che altri,
più grandi di lui ma a lui parallelamente, hanno egualmente interpretato. Si pensi, in
analogia, a Simon Vouet, più ancora che a Giovanni Lanfranco.
Di qui a qualche anno, monumento non trascurabile proprio a questa transizionalità tardiva,
sarà il più inventivo e talentoso tra i pittori dell'immaginario padano, il Guercino, a
dimissionare con gli ultimi profumi del Rinascimento estense anche il grado, il livello, la
moralità appunto di quell'antica poetica che egli veniva riformando: come avevano fatto i
Carracci a Bologna, intorno al 1580-85. Il recupero dell'antico non era di valore antiquariale
o accademico, ma di ri-forma della storia e stabiliva un ordinato metodo volto a ritrovare, di
quel passato, la grande lezione che stava nel dualismo di natura e storia.
Per Guercino, come, del resto, per Vouet, l'improvviso giro di orizzonte avvenne dopo il
1623, più esattamente con la morte di papa Gregorio XV Ludovisi. E ciò valse anche per i
pittori bolognesi, i quali comunque lasciavano alla segreteria della curia del nuovo pontefice
- Urbano VIII Barberini - l'eredità di un altro emiliano, stavolta teorico e trattatista, legato, in
più, alla crescente fortuna delle poetiche del neoclassicismo. Era lo stesso monsignor
Giovanni Battista Agucchi che, dopo aver poggiato su Annibale Carracci le sue prime
esplicite attenzioni, dopo la morte di questi aveva identificato nel Domenichino l'ideale
vettore di quella pittura normativa e didascalica.
Il giovane Guerrieri non si trova in questa condizione, né glielo avrebbero permesso età e
stato di cultura; e tuttavia, per essere la sua collocazione quella di un mediatore tra modelli
artistici e forse anche liturgici, come pure un interprete di confini diversi, dalle vecchie
Marche alla Roma delle avanguardie del gusto, non si può che osservare pure in lui avanzarsi
un'alternanza, sempre più ritmica col passare degli anni, di modi e di correnti, una sequenza
di esempi di stile diversi, quasi instabili nel tracciato che se ne ricava e però egualmente
di esempi di stile diversi, quasi instabili nel tracciato che se ne ricava e però egualmente
condivisi e sinceri. Il fenomeno avrà ricca documentazione negli anni tra il 1620 e il 1630, e
oltre, ma esordisce assai prima, già presentandosi nella avvincente decorazione della
cappella di San Nicola da Tolentino nella chiesa di Santa Maria del Piano di Sassoferrato.
È stata avanzata da Claudio Pizzorusso una intelligente ipotesi a sostegno della memoria di
certi affreschi narrativi di quel singolare outsider che fu Simone de Magistris da Caldarola.
Sono cronache efficaci di storie monastiche e di caccia, di povertà e di beatitudine, intessute
su fondi boscosi e declivi improvvisi, come e quanto le scene che, analogamente, la
rinnovata
società
feuda
le
commissionava
agli
artisti;
che
dovevano commentare
puntigliosamente i torbidi possessi dei Colonna e dei Farnese nelle forre dell'alto Lazio. Si
aprivano subitanei scivoli di aerea prospettiva, squarci di cielo annuvolato, campagne
percorse da un Tevere che scendeva lento in acquitrini pescosi. E anche qui, tra il
fiamminghismo naturalistico di Paolo Bril e la sublime aurora di Adam Elsheimer, c'era in
fondo un legame che raccoglieva in un comune denominatore di verità le richieste della
committenza.
Non era, questa, la "quotidianità" dei bolognesi. Ad essa si addiceva proprio quel sentimento
del tempo, della giornata e dell'ora che suggeriva l'emergere della luce o il lento declinare
delle ombre. Che stillava, con le gocce del battesimo di Cristo, sull'arena umida del
Giordano, così da lasciar scorgere l'impronta dei nudi piedi del Battista, lo sforzo delle dita
sulla sabbia come in un calco. La quotidianità dei bolognesi, di Annibale e, soprattutto, di
Ludovico, apparteneva agli strumenti di vero, sostanziale pensiero che quegli artisti,
riformatori del naturale, legavano programmaticamente alla pittura di Lombardia. Era,
insomma, il rapporto dolcemente partecipe che tornava ogni giorno a costruire senza
accademismo la tensione vitale tra uomo e natura.
La pittura del naturalismo caravaggesco scandiva un suono e segnava un traguardo molto
più alti, perché più drammaticamente rappresentativa della vita. L'esistenza, anziché
affacciarsi e rendersi sensibile nella mimesi e nel rispecchiamento naturalistico, aveva
imposto il suo teatro: non metaforico, non meramente simbolico. È il gesto dell'uomo che
traccia, sul vasto scenario, una funzione che non disperde allusioni e non cede ad alleanze
con le ragioni del cuore, con la specola dei sentimenti. Un gesto supremo, assoluto, frontale.
E un atto elementare, nel quale tuttavia la vita si esprime con una pienezza tale da
raffrontarsi, per l'ordine esistenziale che vi regna, con la misura del classicismo
rinascimentale. In questo senso, non è troppo raro leggere nell'opera di Caravaggio il seme
neppure tanto sepolto dell'equilibrio classico maturato nel secolo aureo.
L'accademia, ossia l'organizzazione della pittura secondo dettami o conoscenze derivate da
una speculazione intellettuale, è, insieme, il vanto e il limite di molti artisti bolognesi: e
l'eclettismo, troppo spesso usato come accusa di comodo, è uno strumento vero di questa
virtù sapiente. È allora evidente che l'arrivo di influenze carraccesche, o scaturite dal
complesso procedere dei cosiddetti Incamminati, non può mancare di avvincere la
personalità di un giovane la cui attenzione è acuita dalla marcia veloce dei mesi, degli anni e
dalla condizione di "eclettico" che egli stesso è forzato ad assumere e che, d'altronde,
attorno a lui e anche a Roma aveva altre e fortunate attenzioni. Basti pensare a Mao Salini
oppure al Baglione, per non dire di quel Manfredi nella cui metodica il sapere accademico
lucidava i prodotti della realtà e dell'esistenza, probabilmente, senza mai andare in
profondità, e però senza mai venire meno a una smagliante volontà di espressione.
Negli anni che vedono ancora il Guerrieri a Roma, ostinato cultore di verità pittoriche che si
confrontano, oltre che col Gentileschi, specialmente col Borgianni e, in qualche occasione,
col Saraceni, la sua scena compositiva - come del resto, in analogia, sarà quella di
Antiveduto Gramatica - si appropria anche, quasi un dovere di novità, di quella seria verifica
di un naturale, selezionato fin che si vuole ma alla fine veritiero e persuasivo, che era stato
del Domenichino negli affreschi dell'abbazia di Grottaferrata.
Su quelle mura, tra il 1608 e il 1610, il bolognese giunto da Bologna - come Guido Reni e lo
stesso Albani - per partecipare al "programma" pittorico ordinato da Clemente VIII, e forse
stesso Albani - per partecipare al "programma" pittorico ordinato da Clemente VIII, e forse
più specialmente dal cardinal nipote Pietro Aldobrandini, aveva dato spettacolo di una sua
concezione della realtà: emendata e quasi afona, tanto eletto fu il tono di quella narrazione
delle Storie di San Nilo. Ma pertinacemente verisimile, come solo sanno essere i progetti del
classicismo di tutte le età. Il messaggio del Domenichino, in questa direzione, non è poi
lontano da quanto lo stesso Guido aveva elaborato, tra il 1600 e il 1609, creando per
l'archeologia dei protomartiri una galleria di infelici e tuttavia imperterrite eroine della virtù,
da Cecilia a Caterina, sui cui rosei pomelli anche il più accanito cultore di verità avrebbe
trovato pacificazione. Il vero, in quei cercini e, particolarmente, nell'ampio giro della pupilla
entro occhi espressivi, che pure erano occhi quietisti, occhi attoniti, era perfettamente
rispettato. Era di per sé un grande raggiungimento, anche se albergava nello spirito più che
nel mondo.
Non c'è dubbio che un quadro perfetto e lucente come il piccolo David che uccide Golia di
Guido, oggi a Marsiglia, intorno al 1607 fosse in grado di entrare in sintonia con Orazio
Gentileschi. E che la paletta con la Decapitazione di Santa Cecilia, collocata da Ottavio Costa
nel 1605 presso la parrocchiale di Conscente di Imperia, suonasse affine alle visioni del
Saraceni e ai suoi gusti di delicata ventilazione cromatica. I nemici della verità, per dirla in
termini di fantasia espressiva , erano altrove, erano i classicisti del "romance" e del
paesaggio, in primo luogo Annibale e la sua cerchia, raccoltasi poco dopo l'apertura del
secolo intorno all'idea del paesaggio e al paesaggio dell'idea. Naturalmente, potevano
facilmente combinarsi paesi d'arcadia nuova e personaggi di antica poesia, per lo più
cavalleresca. Il problema rimaneva per coloro che dovevano ormai vivere la verità della
rivelazione evangelica in modi elementari per drammatica umanità. Di uomini, insomma,
come il Guerrieri di Fossombrone, nati in questa arroventata e fosca transizione di secoli,
giunti a Roma a ridosso del rogo di Giordano Bruno e forse più ancora immersi in una realtà
confessionale di Controriforma fitta di rivendicazioni, durissima nelle sue comunicazioni,
oppressa - non si può dimenticarlo - da una situazione contingente colma di pene e di
difficoltà.
In questo teatro, sul quale il Guerrieri, come tanti provinciali, si era affacciato in età precoce,
si inscrivevano assai più espliciti e forti di quanto ora si possa immaginare i dettami del
clero. La chiesa tridentina aveva fatto, senza neanche eccessivo sforzo, le sue scelte
iconografiche potenziando in modo straordinario il volume espressivo della figuratività
tradizionale. Con storica decisione aveva scelto, per così dire, di adottare l'immagine come
tramite e come consolidamento del potere. Questa era stata la decisione politica e culturale
del cattolicesimo già all'alba del Cinquecento, sostanziata tra la radiosità di Melozzo e
l'eterna felicità morale di Raffaello. E questa sarà la determinazione dell'ultimo fra gli
edonisti del cattolicesimo, Guido Reni, la sua scelta solare prima della secolarizzazione: far
coincidere i miti dei gentili con i miti dei cristiani fu il suo capolavoro, ancorché insidiato alle
radici dalla crisi della vecchiaia. La morte di Guido avvenne nel 1642, nello stesso anno di
quella di Galileo. Tutto ciò finisce per apparire miracolosamente significativo, più che
soltanto simbolico. L'antico tetto, la cupola dell'armonia che reggeva il pensiero, l'immensa
metafora del mondo e della sua felicità, stava cedendo di fronte alla richiesta di una
rinnovata, conoscibile, semplice organizzazione logica del linguaggio. Già dopo la metà del
secolo, spentasi appena la guerra dei Trent'anni, l'Illuminismo porterà tra i suoi emblemi
luminosi e razionali anche questo e cioè la riduzione dell'umano.
Ritornare a Giovanni Francesco Guerrieri, forestiero e provinciale, a Roma, vuol dire inoltre
affrontarne spregiudicatamente le varianti o le contraddizioni addirittura difformi, come si
presentano
a
noi,
esigenti
lettori
di
poetiche.
Il
suo
naturalismo,
che abbiamo
intenzionalmente chiamato "parrocchiale", è dunque, insieme all'innegabile volontà di
immediato e talora rude approccio non solo al mondo creato bensì all'umanità intera che lo
popola, anche un'adesione alla politica di immagine della Chiesa di Controriforma. Accanto
alla figura per così dire "militante" - come sarà d'uso sotto altre estetiche - è doveroso
costruire un efficace ritratto di regione, quella in cui si consolidano e si esprimono queste
interdette verità, questi progressi reazionari o, almeno, reattivi. Questa natura riformata.
interdette verità, questi progressi reazionari o, almeno, reattivi. Questa natura riformata.
Il canonico Vernarecci ha tramandato integra, dal perduto diario del Guerrieri, l'annotazione
attinente la cappella di San Nicola da Tolentino di Sassoferrato, nella "Chiesa di Santa Maria
fuori dalla porta di Sassoferrato per Monsig. Vittorio Merollo Medico di Papa Pavolo Quinto
di felice memoria, e mi fu pagata scudi quattrocento di pavoli e tutte le spese sì di colori
come del vitto per me et un servitore". Dal documento si ricavano alcune piccole verità
materiali sull'ordinamento del lavoro. Soprattutto, vi si assoda la sostanza del rapporto che
conduce l'artista paesano fino al trono del pontefice Paolo V Borghese. Sul conto di Vittorio
Merolli la letteratura patria ha cercato qualche illuminazione, che peraltro non è andata oltre
l'accertamento dell'amore per il luogo natale. Ma senza dubbio il tramite dovette essere tanto
impegnativo da aprire la via sia verso le altre commesse nel grosso borgo marchigiano sia
verso la decorazione di tre sale in Palazzo Borghese in Campo Marzio, che seguirà dal
novembre 1615 al settembre 1618.
La data della cappella di Santa Maria è il 1614. L'induzione cronologica lascia credere che il
Guerrieri avesse fatto ritorno a Fossombrone sul finire dell'anno precedente. Non è infatti
impresa di poco conto firmare, e per intero, la decorazione così vasta, e oggi assai
degradata, di una cappella, lungo l'arco di un solo anno. Il fregio si avvale di un robusto
impianto iconografico, documentato dal Vernarecci, del quale è ormai ineludibile individuare
l'inventore e il progettista dell'impalcatura strutturale. Il fatto che la cappella sia stata
edificata dal Merolli soltanto nel 1613 concede margini di tempo molto ridotti e sospinge
l'ipotesi - qui come in altri casi - di un ulteriore impegno del Guerrieri, affidando
l'esecuzione delle parti plastiche a una bottega di stuccatori di Urbania.
La sollecitudine, poi, che orienta il Guerrieri verso le mediazioni naturalistico-classiche
proposte da Domenichino già a Grottaferrata, conferma l'indiscutibile velocità del transito di
cultura, in un pittore che solo ora compie ventisei anni di età, verso un approdo più sicuro. E,
probabilmente,
caro
anche
alla
committenza.
Rispetto
alla
nitida
e
silenziosa
rappresentazione di San Nilo che cura l'indemoniato figlio di Polieuto, inclusa come un
cammeo entro le posizioni segnate dai marmi pavimentali, il Guerrieri decide subito per la
linea della narrazione, quale si evince con quella sorta di rigore e di norma, severa e insieme
leggiadra, piena di una dignità umanistica più elevata, in fondo, di ogni trattato estetologico.
Il pittore di Fossombrone sceglie il suo ordinamento mentale, quello del racconto.
Non siamo più in una cappella di stucchi aggraziati, ma in una sorta di cortile che i muratori
al lavoro (la basilica tolentiniana, giù in fondo, è arrivata quasi alle volte) hanno disseminato
dei loro attrezzi. Il Santo, posata a terra la canna che serviva alle misure, ne fa sgorgare
acqua come da una cannella (secondo il termine marchigiano) e bagna il pavimento in cotto
con uno spruzzo che diviene rivolo torpido e impigrisce lungo le commessure e lascia
stupiti. Alla struttura scenica di Grottaferrata rinvia anche, sulle mura di Santa Maria del
Ponte, l'opposito miracolo del Santo di Tolentino, un teatrino conventuale dove il profumo
delle rose in grembo al Santo risponde alla bella natura morta (pane, acqua, una cipolla, una
melagrana). Vi si avvertono un respiro e anche un'affettuosità più ampi e coinvolgenti. Tutti
quei volti che si atteggiano e partecipano, che si uniscono come comparse di un
melodramma già verdiano, rimandano forse a una fonte che da pochi mesi si è aperta, con
buon successo, nell'arte marchigiana: i dipinti della cappella di San Paterniano, nella chiesa
del Santo a Fano. Due soli appaiono superstiti, e splendidi nella loro efficacia di forte
accento romantico. Non c'è dubbio che il do di petto di San Nicola tragga da quel nero,
sapiente costume di scena di San Paterniano la sua prima origine, mentre gli astanti si
appoggiano l'un l'altro, si sporgono all'attenzione sbalordita dei fedeli, predisponendosi
all'attacco del coro. Perfino la colonna alla sinistra di San Nicola, con quella base forte, fa da
quinta, come Bonone aveva voluto per far emergere il suo fantastico Santo dormiente. E
poiché per la cappella fanese non è difficile sostenere ancora oggi - come già facemmo nel
1959 - una data poco dopo il 1611 o il 1612, bisogna immaginare anche il brusìo che tra i
giovani corse all'arrivo di queste tele romanzesche, che portavano il seme di un naturalismo
fondato sull'esempio di Ludovico Carracci; tele di un ferrarese che qui appare avventuroso
come e più del Guercino giovane e ritemprato - questo è il vantaggio - in una giovinezza
come e più del Guercino giovane e ritemprato - questo è il vantaggio - in una giovinezza
appena trascorsa anch'essa a Roma.
Nel 1612 sarà nella cattedrale di Fano anche la paletta di Ludovico Carracci, con i Santi Orso
e Eusebio; ma si trattava ormai, a quelle date, di un Ludovico dolcemente impastato e un po'
sognante. Semmai, per restare fra santi cavallereschi e poeti, con le loro vesti brune gettate
a mantello e il trionfo della sonante virtù espresso a pieno carattere nei volti (sono quasi
tutti ritratti, quelli del Guerrieri, mezzo convento si è messo in posa), il terzetto dei
protagonisti si deve completare con gli straordinari cavalieri di cappa e spada che Andrea
Lilli ha collocato al centro del suo Paradiso, sull'altar maggiore della cappella Nolfi, ancora a
Fano, messo là nel 1606 come uno dei dipinti più gentili e affascinanti del secolo intero.
Un giro d'orizzonte s'impone, del resto, anche per far strada alla nuova opera che il Guerrieri
veniva eseguendo per Santa Maria del Ponte del Piano di Sassoferrato l'anno dopo, il 1615.
Quella pala raffigura la Vergine della cintura (un'altra istituzione devozionale cara agli
Agostiniani) con i Santi Agostino e Monica, cui fanno compagnia, a terra, il committente
pensoso, Nicolò Volponi, e con lui, presumibilmente, altri membri della famiglia, compresa
la figlia che, alle spalle di Santa Monica, è pur sempre uno dei ritratti forti nel naturalismo
romantico cui Guerrieri sta definitivamente dando corpo. Non è facile evitare una menzione
bolognese e più specificamente ludovichiana, oltre che nell'impostazione generale di scena,
in ispecie per quel Santo che volge lo sguardo al cielo, e quel piviale lavorato in una
condotta pittorica che s'è aperta alla pennellata più larga, piuttosto che serrarsi nella cifra
chiusa e un po' grafica che il naturalismo uniformato aveva trasmessa ai suoi adepti.
È un tratto, questo della pala Volponi, ormai destinato a riemergere in quella che riteniamo,
per molti indizi però mai rinsaldati in certezza acquisita, la giovinezza, prima, di Guido
Cagnacci (si pensi al bel San Sisto ritrovato da Pasini e da lui giustamente datato alle origini
della carriera del riminese, intorno al 1627); e, in seguito, del pesarese Simone Cantarini.
Confesso ora volentieri che tutta la prima indagine condotta sul Guerrieri nei primi anni
Cinquanta, in un field-work abbastanza caparbio e reso più difficile dalle condizioni di
lavoro di allora, fu proprio motivato dalla necessità, per me assoluta, di giungere ad
accertare, alle spalle dell'apparizione del Pesarese nell'atelier del Reni a Bologna, intorno al
1630 o giù di lì, i modi e i tempi di un retroterra marchigiano. Almeno la sinopia, insomma,
di quel naturalismo amalgamato con la qualità psicologica del Barocci e con il temperamento
densamente esistenziale del Guerrieri e, naturalmente, della poesia del Gentileschi.
Un punto cieco di questa successione, sinora abbastanza fedele, di opere e di vicende , è
purtroppo costituito dalla oggi scomparsa tela raffigurante San Romualdo, già nell'abbazia
fabrianese di Valdicastro con la data importante del 1614. Ricorrendo alla memoria e a
qualche vecchio (1957) e personalissimo appunto, dirò che il dipinto poteva forse fare coppia
con un'altra scena agostiniana: un Miracolo delle pernici - medesimi teatro e attori che in
Santa Maria del Ponte - dove uccelli, piatto di portata, bicchieri posati su un tavolinetto,
giacevano offerti alla bella luce del giorno: la quale, dalla finestra spalancata, spioveva su di
essi, fino a scoprire le pianelle del Santo accostate al letto con lo scrupolo di una
restituzione fiamminga. Un purismo già degno del Sassoferrato, una pulizia agreste e
neoarcaica capace di suscitare luminosi pensieri di serena pietà. A pochi anni di distanza,
l'educazione del Salvi dovrà molto più di quanto non si dica alla natura rispettosa del
Guerrieri.
In questa oscillazione di gusto e di dottrina, posta sul discrimine tra la pianura padana e
l'entusiasmo risorgente, rinnovato dalle esperienze che portavano a Roma, Guerrieri
continuava a dare opera anche a beneficio di committenze diverse, di erudizioni discordanti.
Si prenda ad esempio il San Carlo orante con l'angelo della peste, che vola in alto e rinfodera
la spada punitrice, la grande pala trasparente che sta ancora oggi nella cattedrale di
Fabriano. Essa è tanto gentileschiana da esser stata a lungo, e per tradizione, riferita
all'autografia del maestro, fino a quando, nel 1957, ne proposi la variazione di indirizzo
attributivo riportandola alla mano del Guerrieri. Al quale, tuttavia e insieme, occorreva del
pari riconoscere un'adesione molto partecipe alle opere che Orazio Gentileschi veniva
pari riconoscere un'adesione molto partecipe alle opere che Orazio Gentileschi veniva
collocando nelle Marche, a cominciare dalla bellissima Circoncisione del Gesù di Ancona,
datata assai presto, intorno al 1605, per giungere proprio al gruppo fabrianese. Nel quale,
per di più, come accade nella Vergine con Santa Francesca Romana di casa Rosei, par quasi
che un purismo inestinguibile, una dolcezza riformata e monacale vengano raccogliendo
quelle tenerezze appartate e umanissime di cui Lorenzo Lotto, un secolo o quasi prima,
aveva intessuto le sue tele marchigiane. Si tratta di una lunga durata che, d'altra parte, non
comprende soltanto l'aspetto formale e cioè il dato pittoresco di atti che tornano, di gesti, di
affinità, di vicinanze che segnano il campo dell'affettività; o di quelle rose cui si affida il
compito delicato di scandire il tempo della giora mesta, oppure del dolore confortato dal
fiore che simboleggia proprio la Vergine e i suoi dolori; e anzi, una concreta sovrapposizione
morale e di cultura, come di chi - a distanza di tanti anni - osteggi volutamente le
esteriorità della vita, e dunque della pittura, per trattenerne il corso espressivo entro il
confine di una moderazione quasi allusiva a una protesta nei confronti della società. Se fu
vero per il Lotto, sul filo di una visione riformata della religione, si può meglio comprendere
per Gentileschi, artista di una poetica eletta e per certi versi quietista.
Il giovane Guerrieri intrecciò, per taluni, importanti orientamenti, la sua originaria esperienza
con il carattere risoluto e indipendente di Gentileschi. È invalsa nel frattempo l'opinione, più
volte ripetuta, che questo rispecchiamento non abbia sostanza; ma mi sembra ancor oggi
che la discendenza, forse addirittura arrischiatasi in emulazione, regga persino bene.
Certamente, il Guerrieri tiene alle tinte spesse, corpose. Quella sublime diafanità, quella
limpidezza degna di un maestro fiammingo, non giungono alla portata della sua mano,
prima ancora che a quella dell'occhio. La densità della materia è tutt'uno con la necessità
espressiva, con l'espressione stessa, quasi che il vettore cromatico sopporti, per intero,
quella floridezza peccaminosa che nell'originale cala, per giunta, entro una forra rocciosa,
uno speco inaccessibile anche per il più fiero insorgere dei sensi.
Il grande San Carlo di Fabriano riprende però, quasi improvvisamente, quel magistero.
L'angelo, anch'esso memore di Lotto, di sicuro fratello di quelli di Gentileschi, scivola
silenzioso, le ali illuminate, frusciando appena dalla porta spalancata sulla Cesana e sui
nimbi candidi che crescono fitti all'orizzonte.
Rammento bene il consiglio di Roberto Longhi, di continuare a serbare fedeltà, almeno
all'invenzione del Gentileschi per questa bellissima pala e alla possibile esecuzione diretta
dell'angelo. I recenti restauri e l'aumento qualitativo del catalogo del Guerrieri possono
incoraggiare a spendere oggi il suo nome con maggior forza.
Una datazione accettabile può, d'altra parte, aggiustarsi soltanto a ridosso di quel vero e
assoluto apax del naturalismo internazionale che, in Fabriano, appaiono gli affreschi di
Gentileschi nella cappella di San Venanzio. La qualità altissima, il sensazionale nitore
cromatico, il riserbo mentale che sfocia in un neoarcaismo tale da escludere ogni
compromesso classicista, ne fanno un capolavoro tuttora nascosto. Alcuni, pochi, documenti,
permisero a chi scrive di inserirli cronologicamente fra il 1615 e il 1617 circa: sono questi gli
anni, sembra ancora adesso, che meglio possono accogliere e spiegare anche l'amicizia e
forse la collaborazione fornitagli da un giovane e promettente pittore di Fossombrone, cui
affidare proprio il San Carlo nella cappella dell'Arte dei Calzettai. Gli anni difficili della
seconda permanenza romana del Guerrieri, compresi, si è detto, fra il novembre del 1615 e
il settembre del 1618.
Attorno alla cappella del Crocifisso del Gentileschi è inevitabile che si venga creando
un'attenzione nuova. Una Croce con i Dolenti e la Maddalena, questa gettata a terra ad
abbracciare il legno nudo, sembra affiancarli assai presto. Ed il Guerrieri è qui, ora e
improvvisamente, quasi solennemente pittore. L'agghindatura sublime del Gentileschi si
aggiusta, si fa borghese sotto il suo pennello. La fissità appassionata di San Giovanni,
l'amore vivissimo e strenuo della Madre nell'adorazione della luce eterna, la cerchia che
s'apre a corolla angelica dietro la croce, s'impongono scanditi come atti che avvengono su un
palcoscenico di inaudita pietà, di densa passione sentimentale e infine di straordinaria,
palcoscenico di inaudita pietà, di densa passione sentimentale e infine di straordinaria,
perfino inattesa monumentalità, derivata fin qui dai tempi immobili del Pulzone o del Cesio
La veste di Maddalena, nel suo ritratto di ragazza con la chioma bionda sciolta sulle spalle, e
poggiata in tenerissima posa a qualche finestra di Trastevere, con Castel Sant'Angelo a
sinistra, è quella che, con qualche vecchio raso di sacrestia e molta carta piegata e
atteggiata, i pittori insegnavano ad imbastire attorno al modello in posa. Tuttavia, da questa
dignità teatrale, emergono le parti animate, i volti e le spalle, e le mani incrocicchiate,
oppure distese, avvinghiate alla croce, o infine alzate al petto; e queste sono le fisionomie
lungamente attese di una desiderata umanità, da tempo invocata e sperata.
Il panneggio è solido e fermo, come del resto avviene nell'alta figura dei dolenti nella
Crocifissione del Gentileschi a Fabriano. Il suo "tempo di posa" sembra addirittura
raccordarsi alle creazioni senza età di padre Valeriano. Ma è poi la materia, quella pennellata
grossa, capace di stendere un colore spesso, replicato, filamentoso, che riporta tutta
l'assorta composizione nell'immanente, la rende partecipe ad una serie di novità che - poco
oltre la metà del secondo decennio del secolo - Roma dibatte nelle sue chiese. Anche se è
operazione difficile invocare testimoni adeguati ad una cultura presumibilmente molto ricca
e molto mobile, dopo aver citato almeno l'opera di Pietro Vermiglio del 1612, e cioè
l'Incredulità di Tommaso, oppure le antecedenze di Tanzio da Varallo nella riserva lombarda
in Abruzzo, a Pescocostanzo, prima del 1616; si mettono come è inevitabile in movimento i
grandi temperamenti pittorici del nord, come il giovanissimo Baburen, l'altro giovane
fiammingo di nome Hontorst e ancora Finson. Siamo ormai entrati nell'impresa romana
principale del Guerrieri, la decorazione di Palazzo Borghese, ed il suo incontro con molti
artisti del nord è testimoniato - non foss'altro - dal numero di attribuzioni riservate a
Régnier, a Baburen, a Valentin stesso che proprio su dipinti del Guerrieri si sono esercitate,
prima che la forza dei documenti vincesse sulla complessa verità figurativa.
Prima del 1956, anno in cui avevo pressoché completato il testo del voIumetto dedicato al
Guerrieri, nulla si conosceva di questo produttivo e problematico ritorno romano; in
particolare, dell'opera compiuta e della cultura sviluppata nell'ambito di una grande
commessa, la più grande nel curriculum del fossombronese. Quella decorazione affidatagli
dal principe Marcantonio Borghese, e probabilmente per il tramite ormai consueto di Vittorio
Merolli, riguarda il singolarissimo progetto ornamentale di ben tre sale, superstiti, del
Palazzo Borghese in Campo Marzio. Fu Paola Della Pergola, che allora dirigeva la Galleria
Borghese, a passarmene notizia prima di pubblicare e illustrare il complesso, dotato di una
ricca messe di informazioni documentarie e di additivi interpretativi e stilistici, sul "Bollettino
d'Arte" dell'estate 1956.
A dirla con i termini di allora, che rivelavano tutta la mia sorpresa (e un riconoscibile
impaccio), l'apparizione del complesso decorativo di via Fontanella Borghese, così improvvisa
nel percorso stilistico del Guerrieri, fino a quel momento abbastanza compatto, si
giustificava anche con il largo e probabile intervento di aiuti dei quali il pittore poté
avvalersi, nei modi minuziosamente annotati. Nella sua équipe furono attivi Abele
Rampunion, esecutore di paesaggi e, dunque, con un ruolo piuttosto ampio, con elevata
incidenza fiamminga e nordicizzante; un tale Avantino, che la Della Pergola proponeva di
identificare con Avanzino da Gubbio. E poi il fratello stesso di Giovan Francesco, lo
sconosciuto Federico, e Francesco Fransi e Ambrogio Lucenti: questi erano e rimangono
soltanto nomi, come si vede, più che individualità riconoscibili.
L'inconsueta immagine che sembrava allora derivare in termini quasi traumatici e abbattersi
sul pittore della Maddalena del 1611, o sul cantore delle poetiche gesta di San Nicola da
Tolentino a Sassoferrato (1614), traeva forzata origine dalla natura stessa dell'impresa
borghesiana, nata sotto l'impegno palese di quella raffigurazione emblematica e concettuale
che assecondava l'opera iconografica di Cesare Ripa. Il vigoroso, dichiarato e, in definitiva,
raro exploit iconologico, riemerso con tanta ornata narratività dopo la morte del manierismo
e in pieno secolo barocco, è ricco di suggestione e si dilata tuttavia in una sequenza che, per
quanto inventiva, non può mancare di stringere il Guerrieri a un progetto decorativo e
simbolico quasi da manuale. Sono, del resto, anni singolarmente precoci, nel panorama
simbolico quasi da manuale. Sono, del resto, anni singolarmente precoci, nel panorama
romano, quelli che accomunano queste storie ora romanzesche ora nazarene, tutte
comunque indagate e, ancor più, viste attraverso un vetro di insolita misura intellettuale.
L'ombrìa gentileschiana, quella nitidezza pedissequa e pure geniale, così inconsueta nella
pittura mediterranea, alimenta questi cortei di giovani donne che tornano a sedersi,
specchiarsi, affrontarsi come in un Cortegiano senza più corte, che non fosse quella
sopravvissuta di una nobiltà pontificia in cerca di qualificazioni.
Le donne del mito e della storia antica, ricche di simboli come di amuleti o ornamenti,
addobbate coi panni di un teatro talora grossolano, o ordinario, non riflettono la virtù senza
tempo né l'accadimento della suprema entità metafisica, cioè l'essere senza divenire,
giovinezza assoluta del mondo senza evento e senza decadenza. Il naturalismo narrativo del
Guerrieri trascrive i modelli del Ripa e, anzi, li adatta non per l'eternità, bensì per la giornata:
una giornata di sole, sotto il tempio della Sibilla, magari rallegrata dal gallo dell'Allegoria
dello Studio e del Pavone rauco della Superbia. In fondo, l'asino della Pigrizia, sdraiato a terra
accanto alla padrona adolescente, ci riporta a casa, dove i sentimenti sono veri e tutti hanno
di sicuro qualcosa da fare, anziché aggirarsi in questo eliso che non ha più la natura seconda
e suprema dell'antico olimpo e non possiede ancora la virtuosità sussidiaria e alternativa
dell'Arcadia.
È un po' come vivere dentro il continuo susseguirsi di una bigiotteria del naturalismo, di
creazione e di racconto quotidiano, ma vessata anche da una insistente commessa borghese,
come capita anche ai Caroselli e ai Paolini e talvolta anche al Gramatica; personalità con le
quali, come in altri casi, occorrerà dare inizio a un confronto adeguato; così come al
Guerrieri infine, bisognerà, prima o poi, assegnare un ruolo individuale più marcato proprio
sull'orizzonte di Roma e sulla metà del secondo decennio del XVII secolo.
Concorrono a questo giudizio le convinzioni più recenti, come pure il riesame delle
affermazioni di Paola Della Pergola. Riesce comunque difficile, pur abbandonando l'idea
ormai superata dell'artista provinciale, accumulare tante opere eseguite certo in questo giro
breve di anni, e soprattutto tante diverse esperienze. Certo, il Guerrieri ha quell'età, tra i
venticinque e i trent'anni, in cui si opera il massimo sforzo, e l'obiettivo che Marcantonio
Borghese gli ha messo davanti è dei più ambiziosi. Lo stesso piano iconografico, che
abbiamo visto così pretensioso, è un modello alto della cultura romana, forse davvero posto
sotto il patrocinio barberiniano. Più difficile sarà, anche per questo, superare lo scoglio
rappresentato proprio dall'idea centrale di questo programma, che era quello di dare veste
naturalistica ad un sistema sapienziale e neoplatonico, da Raffaello a quella parte, abituato a
ben altri tegumenti. Era pur vero che Guido Reni aveva abbandonato il campo, recuperando
la platea bolognese per un applauso più convinto: proprio lui che, con la volta del Casino
Rospigliosi, aveva toccato il vertice d'ogni possibile, altra e superiore bellezza. Ma tra
l'iperborea definizione di Guido e l'interpretazione di arcadia rurale, colta ma insieme
bucolica nel confronto impossibile, c'è di mezzo un mondo intero; un mondo che allarga
sempre di più la distanza tra metafora e natura, ricercando piuttosto la finzione teatrale
barocca.
Esiste poi un versante figurativo che il Guerrieri tenta di mettere in funzione in questi stessi
mesi, ed è il versante collezionistico e privato, fatto di quadri liberi e di soggetto
diversamente motivato. Si affacciano infatti temi di più disinvolta ispirazione e fattura, come
quelli tratti da qualcuna tra le molte immagini femminili del Gentileschi, dove la finalità
allegorica veniva superata da un uso sapiente della bellezza. Il Guerrieri esibisce anch'egli le
sue armi. Casta come più non si potrebbe, specie in rapporto con la bianca sensualità di
Gentileschi, un'Europa che il toro scarrozza sul mare finisce per essere un'allusione che
raggiunge, in ipotesi prossima, anche il Cagnacci, e che conduce perfino al Cantarini e si
trasmette fino al reggiano Besenzi. Qui passano, almeno in parte, i sintomi di quel
caravaggismo in chiaro che, nato a Roma, si era trasferito presto verso il nord europeo. Il
nostro ripeterà questo soggetto, probabilmente fortunato, e lo farà nel 1621 affrontando un
bulino di qualche insicurezza espressiva. Ma ora, sotto lo strapazzo del toro, il mare si
riempie di spruzzi e il pennello di schiuma bianca; il cielo vede nubi e cirri colmare uno
riempie di spruzzi e il pennello di schiuma bianca; il cielo vede nubi e cirri colmare uno
spazio che, nella realtà, è proprio così veloce a turbarsi, tra i monti e l'Adriatico. Somiglia a
quella grande finestra che si era aperta alle spalle del grande San Carlo della Cattedrale di
Fabriano, due o tre anni prima. È quasi il segno di un ritorno a casa.
Il gruppo di opere che rappresenta l'apice dello sforzo cosmopolita del Guerrieri e di cui
anche l'Europa fa parte, del resto, è composto essenzialmente dai dipinti che, raggruppati
attorno ai lavori di Palazzo Borghese, hanno ora il conforto di attestazioni documentarie. A
giudicare dalla cartella clinica delle diverse, conseguenti opinioni attributive del passato, è
lecito pensare che ben difficilmente esse avrebbero potuto giungere alla piena identità senza
una guida positiva qual è quella che sortisce dai conti borghesiani. Sia per il Lot con le figlie
della Borghese, e per la replica della Doria Pamphilj, come per il San Rocco, le suggestioni di
cultura rivestono deliberatamente un valore più ostentato, mentre - del pari - vien meno
quella certa resistenza spontanea che il Guerrieri aveva sempre opposto al deperimento del
suo ritratto di "provinciale". Quello insomma che ci ha sempre restituito un segno profondo,
intensamente accalorato, della periferia della Controriforma italiana. Qui si accettano, invece,
scommesse di maggior rilievo, ma il progetto stesso dell'opera diviene preoccupazione
costante, il teatro d'azione si tende verso quello spazio che i nordici portano fino a Roma.
Nulla di meglio, a dire il vero, che narrare storie dentro questo metro che sembra già
ottocentesco, investito com'è dal verisimile. Questa è, in buona sostanza, la stagione più
densa del Guerrieri, più mondana o vistosa rispetto al poeta delle campagne e delle
parrocchie, ma di certo sorprendente. Giuseppe Ebreo, nella prigione del Faraone, spiega i
sogni al coppiere e al panettiere: e stende la mano robusta assecondando, di un passato
remoto, la bellezza retorica, grave come quella di un oratore romano; oppure l'altra, a
venire, di certi frequentatori di via del Babuino nel 1784, l'anno delle premonizioni
rivoluzionarie. Non bisogna immaginare che tutto, del Guerrieri, sia però mutato su questo
cavalletto. La pasta pittorica serba ancora e sempre quel tono polveroso, di terra e di biacche
intrise. Le mezze tinte non tengono alla distanza del tempo ed il pennello è sempre un po'
intrigato in se stesso, rigirando più volte il filo emergente del tocco a illuminarsi proprio
sotto la luce che bagna la prigione, che è una stanza sull'orto di casa e non ha il dramma
della cantina caravaggesca. Il brano immediatamente più elevato appare essere quello della
grande natura morta a destra, vero pezzo spagnolesco di diretta fattura.
Il copione d'ogni buon sceneggiato vuole che il ritorno al paese del giovane artista, deluso
dall'ultima e mancata occasione di lavoro, avvenga nel pieno di una pesante mortificazione e
dunque di una crisi consistente. Non abbiamo in realtà mezzo alcuno per conoscere la
condizione del Guerrieri allorché la vallata di casa gli si spalancò davanti agli occhi,
affacciandosi al Furlo. Un'occasione di lavoro che non lascia seguito o conseguenza, che si
chiude in se stessa dopo tanto impegno, non è mai esperienza gradevole. Ma se vogliamo
stare ai fatti, è difficile decidere se la folta attività che segue, passo dietro passo, il ritorno a
casa sia un effetto di necessità stringente, oppure il senso d'una matura coscienza d'artista.
Se, come sempre in questi casi, l'interrogativo può essere affidato e risolto soltanto
all'esame diretto delle opere, dei dipinti eseguiti con quel ritmo incalzante, con
quell'assunzione di novità di stile e di varianti suggestive, la risposta non può essere risolta
che positivamente: e cioè che il distacco da Roma, pur dopo un lavoro tanto assiduo, è
avvenuto in modo critico, di fronte alla variazione ormai consistente dell'orizzonte artistico
prevalente, e probabilmente dopo aver dovuto constatare di persona come il suo personale
tentativo di adattare la forma del naturalismo riformato alla misura spaziale della
decorazione barocca (questo fu, davvero, l'insuccesso di Palazzo Borghese) cozzasse
definitivamente contro i tempi.
Di questa disattitudine del modello naturale a delineare scene più fantastiche, narrazioni
tinte di fiammingo e di gotico, sono in fondo testimonianza anche quel paio o poco più di
quadri, come la Circoncisione di Sassoferrato oppure la Visitazione di Serrungarina, che
stanno quasi a conclusione del decennio, ed entrano forse già nel 1620. Poi, quasi
all'improvviso, basta un segnale che provenga dai ricchi cantieri della costa, e soprattutto da
San Pietro in Valle di Fano, per avviare un processo come di maturazione formale, un
San Pietro in Valle di Fano, per avviare un processo come di maturazione formale, un
assestamento del modellato e anche un rinvigorimento cromatico, tali da far sentire ormai
sempre più vicino il caldo conforto di un'accademia sospesa tra naturale e fantastico, tra
espressione viva e riflessione intellettuale: che è il prestigio dei bolognesi, quella loro
capacità di mediazione colta e tuttavia ricca anche di diretta verità di natura. Il San Barnaba
del Museo di Fossombrone, e più ancora il contiguo San Michele Arcangelo, che è del 1624,
possono vantare questi sintomi di crescita e insieme di deviazione rispetto al cammino del
primo temperamento narrativo.
Una pala, come quella di Arcevia, importante ritrovamento recente, è impressionante sotto il
profilo della verità organizzata e robustamente epica nel fervore dei Santi, nella venustà
della Vergine, nella vastità del paesaggio. Vi si legge, come nella bella pala di San Marco di
Pergola, un accostamento diretto, scoperto con le posizioni avanzate che si registrano a
Roma intorno o dopo il 1625, a cominciare da quelle del Lanfranco. Ciò che più sorprende è
poi come esse si mescolino con disinvoltura a imprestiti di teatralità sacra tratti da Guido
Reni, come il San Filippo di Fabriano (1629) per poi ritornare in modo tanto complesso
quanto immediato, convinto, nel caravaggismo storico della cappella di San Carlo a Fano. È
curioso, proprio dentro quella chiesa di San Pietro in Valle dalla quale s'erano mossi alcuni
tra i principali modelli culturali di discendenza padana e bolognese, come quelli appunto di
Guido, il Guerrieri decide di alzare improvvisamente la guardia e di recuperare addirittura
quello sguardo diretto sulle cose e quella fattura serena che ne rivela, in trasparenza, non
dico la cordialità, ma certo l'oggettività positiva, la collocazione in un diorama naturalistico
dove tutto, dell'uomo, si colloca in un ordine comprensibile, dignitoso. La mediazione
centrale è quella del Saraceni, suo il tramite coloristico cordiale. Ma la bellezza traslucida,
quella ritorna al Gentileschi una volta ancora, e non appare per nulla intorbidita dal
chiaroscuro padano. Semmai la sua apparizione qualitativa sale una volta di più a quel livello
sorprendente cui il Guerrieri sa ormai di poter farci giungere, quando vuole. Una scena come
quella della Preghiera di San Carlo, vissuta sulla sinopia iconologica del Getshemani, oltre la
finestra di casa, è invenzione di superiore intelligenza inventiva. Ritorna dunque anche il
pittore che ha lavorato sapientemente sulla versione narrativa del dramma caravaggesco, ne
ha tradotto brani in lingua locale, adottando alla lettera la poetica evangelica della verità
palese, e la determinazione di leggerla adeguatamente, insieme, in quel luogo comunitario
che è la parrocchia, nel riparato silenzio di conventi sperduti nelle campagne, a guardia di
santuari popolati di poveri contadini, visitati da pellegrinaggi devoti.
Il naturalismo diafano, il racconto eletto a edificazione, a saggezza quotidiana, a
persuasione non devota soltanto, ma umana, piuttosto, sono i gradi di una religione
semplice che la maturità del Guerrieri nutre anche nei suoi anni avanzati, con quella
continuità ammirevole, che poi si scoprirà non tener conto della vecchiaia e delle malattie
che pure le cronache hanno voluto tramandarci affliggenti. C'è un dipinto nella chiesa di
Salcara, che raffigura il colloquio tra il Bambino Gesù, sorretto dalla madre, con Sant'Antonio
da Padova; e che fu forse un dipinto caro ai devoti (Roberto Contini ce ne ha segnalato una
replica nel Casentino). Per qualche ragione che ora scopriamo essere intima alla qualità
stessa dell'autore, questo quadro ha nella sua apparizione così ferma e minuta una
trascinante capacità di racconto. Si può pensare, allora, o si pensa davvero, che nel convento
vuoto e popolato solo dai rumori della primavera, che vengono dal cielo dei passeri e dalle
strade vicine, un frate abbia avuto la visita dolcissima della Vergine e del Bambino. La stanza
è disadorna, la fuga delle cellette è muta come quella di un'infermeria di collegio, dopo una
malattia. Il frate è un giovane pallido, precocemente ingrassato e con un chiaro accenno di
incipiente calvizie. Il suo aspetto non è attonito, l'apparizione è dolcissima, è quella appunto
di una religione del naturale, vicina e modesta, insostituibile e cara come la vita degli affetti.
Vorrei continuare: quel quadro m'ha sempre ricordato la favola che Roberto Rossellini sapeva
raccontarci così bene, in Paisà, il film che vide suo assistente anche Fellini; e che narrava
come, in un convento di frati tra Marche e Romagna, dove la lingua italica cede alle nasali
della timidezza padana, fosse giunta la guerra e, con essa, arruolati nell'Ottava Armata, i
ministri di religioni diverse, in visita al convento. Negli anni Cinquanta, le campagne
marchigiane non erano davvero mutate gran che dalle immagini di quel racconto semplice
marchigiane non erano davvero mutate gran che dalle immagini di quel racconto semplice
che un'intelligenza d'arte e di studio ci metteva davanti in quel film ammirevole. Eguale
l'impaccio di una timidezza forte, dell'orgoglio della fede sotteso alla delicatezza dei
rapporti umani pur in una condizione di orrenda lacerazione e di morte. Simile il dettaglio
figurativo, minuzioso e umile insieme, come quello appunto di un quadro, di una pala
d'altare conservata nelle chiese della nostra giovinezza. A distanza di tanti anni, quel riserbo
gentile calato dentro il mondo di sovrano equilibrio della povertà, torna alla mente proprio
come un quadro di Guerrieri. Troppo facile dire che era il saluto dell'adolescenza che se ne
andava, meno difficile leggervi dentro l'atroce abbandono del mondo storico, della antica
società italiana. Nonostante il richiamo all'oggettività e l'invito a non concedere nulla
all'onda della memoria, temo che molto della figura poetica di Giovan Francesco Guerrieri
sia, dentro di me, legato in modo irreparabile a quel mondo smarrito.
Qui, negli anni Trenta, o poco oltre, si sarebbe tentati di concludere la narrazione critica
delle vicende di Giovan Francesco Guerrieri pittore, per cominciare la lunga, e anche se mai
mortificante serie delle commesse minori, delle opere di sopravvivenza e insomma nel
dilungarsi di una cultura di periferia. A tentazioni di questo genere, lo storico è talora
indotto quando il processo creativo sembra togliersi dalla vitalità coinvolta e responsabile
del dibattito, nei luoghi della vita culturale, per prendere un suo corso più silenzioso e così
rendersi normale alla vita d'una provincia italiana. Se non a questo livello, certo ad una
mesta clausola artistica, sopraffatta dall'esistenza e dai suoi mali imperanti, anche noi
cedemmo nel 1958, allorché cercammo di narrare, con i mezzi di allora, la lunga storia di
un pittore metaurense fuggito di casa e da Fossombrone diciassettenne, nel 1606, e
costretto poi a tornarvi alla fine del 1618. È la conclusione della giovinezza, la stessa grande
avventura caravaggesca si rifugia nelle periferie italiane e semmai vince il suo confronto
nell'Europa del nord.
Il procedimento mentale e di metodo era distorto per inflessioni e vaghezze letterarie, e
tuttavia aveva dalla sua anche la scarsità di mezzi, la povertà degli strumenti di indagine
allora a disposizione. Il lavoro di sonda che oggi, con mano molto responsabile, è stato
condotto in tutto il territorio agricolo, tra Marecchia e Metauro, ha fatto letteralmente
scaturire nuove, spesso molto elevate quantità di opere del Guerrieri: tele alle quali sarebbe
difficile davvero negare il proseguimento di una vitalità creativa, di un fervore intellettuale e
anche liturgico. Così, la prospettiva critica muta il suo indirizzo sotto il peso oggettivo del
lavoro di scavo, di paragone e di classificazione storica. Turba semmai pensare che si debba
parlare di scavo, quasi di una condizione archeologica, a riguardo di un paesaggio storico in
piena emersione, qual è quello che si precisa nella trama puntuale, perfetta, indimenticabile
della chiesa parrocchiale italiana. E qui, la gratitudine va ad alcuni colleghi che, guidati da
Bruno Toscano, ci hanno insegnato con il loro lavoro di Ricerche in Umbria (proprio così,
questo è il titolo del lavoro e di una splendida mostra del 1989) che la storia dell'arte italiana
è ancora possibile, anzi più proficua che mai nei suoi risultati di prospezione critica e anche
di immediata resa storica: a patto però che il territorio italiano, questo fantasma culturale,
venga nuovamente affrontato con serietà di indagine, e anche con un vero governo tecnicoscientifico.
Una traccia per la conoscenza critica di Giovanni Francesco Guerrieri
Andrea Emiliani
Il caso di Giovanni Francesco Guerrieri, della sua vita sconosciuta agli studi fino a qualche
decennio fa (1958), e della sua attività che gradualmente s'è rivelata, per approdare oggi ad
una monografia piuttosto soddisfacente quanto a ricognizione sul catalogo delle opere, è
uno dei numerosi casi che oggi ancora, e nonostante i consistenti avanzamenti della ricerca,
popolano la nostra storia: quella insomma di un paese, l'Italia, che ha riconosciuto all'arte in
anni e secoli passati (non certo ai nostri giorni) un'importanza decisiva per il formarsi di una
coscienza di cultura comune. Il nostro paese, in ogni sua forma, è stato letteralmente
plasmato in un progetto di forme d'architettura, di figuratività che lo hanno reso unico e
insostituibile nel mondo moderno. In ogni luogo, anche nel più periferico all'attuale potere
insostituibile nel mondo moderno. In ogni luogo, anche nel più periferico all'attuale potere
delle capitali, si palesa la volontà di costruire con l'arte un mondo di complessa unità, nel
quale ogni aspetto - dalla cultura alla religione - prende forma espressiva. Ai nostri occhi,
l'Italia periferica, e dunque quella che inizia appena fuori dalle periferie non propriamente
civili delle poche, stentoree "metropoli", ha la forza, ancor oggi, di esprimere tutto il
potenziale artistico e storico di cui è immensamente dotata e capace. L'abbandono del
patrimonio, in questi anni risolutivi, porterebbe sulla nostra generazione l'accusa della
distruzione, per giunta, di una economia della cultura di future, grandi proporzioni. Il lavoro
che oggi presentiamo non è quindi dedicato solo al Guerrieri, ma a tutti gli artisti italiani
che, vissuti fuori dai centri del potere costituito - e spesso anche se immersi in essi - non
sono ancora riemersi alla luce della conoscenza. La monografia dedicata al Guerrieri è un
invito a sollecitare realisticamente l'opera di catalogazione del patrimonio italiano. Non si
tratta solo di un adempimento amministrativo, ma soprattutto di un generale, necessario
rinnovamento della storia dell'arte italiana.
È almeno singolare che un progetto di lavoro per Giovan Francesco Guerrieri da
Fossombrone sia nato in noi prevalentemente da ricordi. Questa è una riflessione personale,
che non nasconde assolutamente le altre spinte ad un perfezionamento della figura
dell'artista (assai più complessa di quanto fosse possibile immaginare nei lontani anni
Cinquanta). La personalità di Guerrieri non ha mancato infatti di suscitare adeguate
attenzioni in chi, come Paolo Dal Poggetto, porta la responsabilità di restauri di
conservazione che per l'artista - in ragione del suo storico abbandono - sono ora
fondamentali. Quasi quarant'anni fa, era impossibile, o quasi, "vedere" i dipinti del
fossombronese, e specialmente quelli delle chiese di campagna. Oggi, questi restauri
suonano esattamente come veri recuperi di identità, e di ciò non si può che essere grati a chi
- iniziando da Giuseppe Marchini e da Italo Faldi, da Filippa Aliberti a Dante Bernini e con la
collaborazione di Luciano Arcangeli come di altri numerosi giovani studiosi - ha voluto
portare la propria, decisa attenzione sul Guerrieri.
La forma storica del paesaggio
I ricordi vivono però una loro vita, e tra loro si muovono anche alcune giovanili disillusioni. Si
viveva, in quegli anni del dopoguerra, nel "meraviglioso" paese della povertà esemplare. Era,
quella davanti ai nostri occhi che si aprivano alla poesia e all'arte nell'alta figura
architettonica di Urbino, una campagna di così perfette forme, di così storico equilibrio, da
farci naturalmente sognare che, sì, a tutto questo, come a quelle montagne montefeltresche
e marchigiane, e alle città un po' contrite per il lungo abbandono e meravigliose nella loro
solitudine estetica, avremmo finalmente potuto portare il beneficio di un'economia moderna.
Avremmo lentamente riportato una parte, sognata appunto, di quell'antica vitalità che il
paese delle città e delle campagne, dei municipi e delle chiese, aveva esemplarmente
alimentato.
Questo era il paese, al quale la memoria - lo capite - è la sola a potersi rivolgere come ad un
sogno di armoniosa compostezza, forse anche di contenuta modestia. E in questo paese
crebbero, tuttavia, la religione delle nostre madri e quella loro presenza civile, compunta e
generosa come la nostra eterna provincia: la provincia italiana, e cioè - di certo per noi che
d'arte ci occupiamo - la più straordinaria riserva di conoscenza storica e artistica che si
possa immaginare, il luogo dell'incontro fra le scuole delle grandi città, centri di potere e di
irradiamento, e questa minuta, vitale, sensibile quota o livello, o medium, di culture di
slittamento o di resistenza, di autonomia o di dipendenza: sempre pronta nel rilevare in ogni
borgo, o quasi, nato un artista; da ogni artigiano, esprimersi capacità espressive felicissime;
da ogni bottega, fiorire progettualità capaci di coinvolgere il volume ospitale, famigliare ed
ampio di chiese adatte a riunire e a rivelare la complessa vita delle forme che in quel luogo
è stata, nei secoli, creata; e che ancora in quel luogo si esprime. Il solo luogo che, nel
mondo intero, possa davvero farlo, e cioè proprio questo nostro paese contraddittorio.
Grandissima provincia italiana, sommersa oggi ancor più di un tempo. E non dall'abbandono
economico, ma semmai dal travaglio della ricchezza che ne deforma l'aspetto con i suoi
economico, ma semmai dal travaglio della ricchezza che ne deforma l'aspetto con i suoi
distruttivi ritardi culturali e, sotto certi aspetti, con la ferocia del suicidio culturale. Nulla in
questo paese è più fisicamente concreto -sia nella sua qualità artistica, quanto nel suo
stesso degrado - di ciò che usiamo chiamare retoricamente "storia dell'arte". Ma questo
significa che, ad ogni distruzione o prevaricazione, risponde l'atroce soppressione di un bene
artistico. È un intero progetto di vita e di qualità che lentamente, irreparabilmente, si
allontana. Studiare un artista vuoI dire creare una importante resistenza della cultura.
Una prima proposta di metodo
Ecco, il Guerrieri che allora, con il solo conforto di una efficace scheda di Federico Zeri
(1954), provammo a identificare nel Montefeltro e ai bordi dell'attigua Romagna, finì per
diventare un po' l'eroe di questa muta bellissima geografia del paesaggio periferico, reso
solitario da emigrazioni e da sradicamenti imponenti. Avremmo voluto già allora salutare in
lui l'eroe di una fuga da Roma, forse parallela a quella dell'altro grande umiliato dal destino
e dalla violenza, Orazio Gentileschi; di una fuga che, al pari di quella di oscuri catecumeni,
pensavamo allora cercasse rifugio - dopo la scomparsa di Caravaggio - nelle vallate rese
sicure da una fede che si opponeva al ritorno di Roma triumphans , dopo la lunga
controriforma cattolica che, soprattutto nelle campagne, oltre che a ripristinare nuove
autorità, aveva anche accompagnato il fondarsi problematico di tante istituzioni della
moderna società italiana. A noi interessava allora, come adesso, l'affiorare di quel bisogno di
verità che, dalla poetica degli affetti, passava alla costruzione di una più vicina antropologia,
contrastando intensamente, così, gli scritti di interdizione e di intimidazione della
pubblicistica ufficiale, dal Gilio al Paleotti. Eravamo convinti che, mai come nella povera
pittura fra Cinquecento e Seicento, la trasgressione si applicasse a chiarire in senso
affettuoso e appunto naturalistico, verisimile e vero, le ragioni dalla comunità e
dell'individuo, quelle della povertà e dell'indigenza oppure dell'onesto benessere; l'immagine
del lavoro e, in riflesso, della devozione; la virtuosità infine della modestia temperante,
costruttiva e fiduciosa. Volti di uomini e di donne, attitudini e comportamenti che sono
giunti - forse malinconici e oppressi, certo sinceri e diretti - fino all'ultima guerra mondiale.
L'estate del 1944 segnò per le Marche l'uscita dal vano silenzioso, povero e senza tempo,
della storia.
Questo libro nasce da alcune sovrapposizioni, l'ultima delle quali fu un progetto di lavoro che
mi consentì di riprendere se non un tradizionale saggio critico, almeno una traccia
abbozzata per far convergere nuove opinioni verso il problema dell'attività del Guerrieri. Esso
fu infatti suggerito dal Centro Studi Salimbeni di San Severino Marche come un'ipotesi
attorno alla quale così gli studiosi che il pubblico potessero trovare una non generica
informazione.
Dentro il nostro tema, almeno come tensione culturale e di sentimento, vorremmo però che
il lettore intravvedesse comunque l'immagine reale e insieme evocativa dalla quale siamo
partiti. Che è quella del "territorio", un fantasma lessicale in gran voga fino a qualche anno
fa, e che ha trascinato con sé nel limbo dei linguaggi morti - quello politico, quello della
programmazione, quello della progettazione ambientale - le spoglie del bene maggiore che
il nostro paese possedeva. L'essere, cioè, un paese interamente, minuziosamente costruito
dall'uomo e dalle sue necessità; modellato centimetro per centimetro dal lavoro, come
diceva, nel solo realistico progetto per un'Italia moderna, Carlo Cattaneo. Artisti come
Giovan Francesco Guerrieri, che la condizione ha portato ad un'economia di impresa spesso
artigiana e tuttavia non priva (e per lunghi anni) di un'efficace figura culturale, coprono uno
spazio più vasto - senza paradossi di altri maggiori colleghi legati a committenze illustri e da
più riservate strategie collezionistiche o museografiche. I protagonisti di questa provincia,
specie di quel Montefeltro urbinate che si avvicina, a quei tempi, all'inesorabile devoluzione
e alla morte della signoria roveresca (1631), recitano ormai ruoli difformi e occupano luoghi
diversi, fra i quali s'impone la chiesa parrocchiale, questa cellula culturale, questo fuoco di
comunità che è stato il fulcro dell'organizzazione territoriale e cioè del paesaggio storico - e
di molte forze che ne hanno dettato le forme bellissime.
di molte forze che ne hanno dettato le forme bellissime.
Le ricerche sulla vita artistica e storica in aree decentrate sono sempre difficili per la naturale
e frequente mancanza di strumentazione così documentaria che bibliografica. Se questo vale
per oggi, è facile immaginare come si presentasse, nei primi anni Cinquanta, l'ambiente
storico marchigiano, nelle province dove il Montefeltro si alimenta nel suo storico rapporto
con l'Umbria e, a occidente, con la Toscana; per poi, a settentrione, complicarsi in una serie
di enclaves a ridosso del Marecchia, fino quasi il sfociare a Sant'Arcangelo di Romagna. Ma
non bisogna dimenticare che il buon positivismo ottocentesco aveva già procacciato alla
società, per fortuna, certe ricerche documentarie, risultato di stagioni archivistiche mai
abbastanza lodate, sulle quali la nostra pretenziosa prospettiva storica ha d'altronde
prosperato, e continua anche oggi a vivacchiare.
Tra Marche e Romagna
Il caso di Giovan Francesco Guerrieri è, in questo senso, esemplare. La ricognizione che ce
ne diede il canonico Augusto Vernarecci, sapiente ricercatore della nostra Fossombrone,
condensata in un saggio storico dedicato alla triade secentesca metaurense, composta
appunto dal Guerrieri, dalla figlia Camilla e infine da Giuseppe Diamantini, nel 1891 (ma
diffuso nel 1892), appartiene a quelle opportunità che per metodo, cautela, caparbietà
ognuno di noi vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita. La piccola "Nuova Rivista
Misena", diretta da A. Anselmi, fu, a sua volta, un modello prezioso di comunicazione
positiva, spesso la sola relazione aperta tra galantuomini desiderosi di vivificare gli studi
patrii, tra sacerdoti riscaldati da un amore verso il corpo fisico e storico della Chiesa che non
ne tradiva per questo il corpo mistico, ma piuttosto lo alimentava nella più alta tradizione
muratoriana. Anche attraverso queste lunghe ore di gelidi archivi invernali, di caldissime
sacrestie estive, fra la polvere e le scartoffie, i geloni alle dita o il fazzolettone al collo per
tergere il sudore, transita la storia: certo quella, tra altri carneadi, di Giovan Francesco
Guerrieri da Fossombrone.
La mia prima esperienza rivolta al tema delle ricognizioni d'area, ovvero delle intersezioni fra
la dimensione dello spazio e quella del tempo, e cioè il luogo e il modo dell'evento artistico,
fu quanto mai fortunata. Fui cioè guidato all'incontro da quel vero, serio "museo
immaginario" che una mostra esemplare può esprimere dal suo seno. L'esposizione era La
pittura del Seicento a Rimini , una rassegna estiva sorretta da un catalogo a cura di Cesare
Gnudi, di Francesco Arcangeli e, infine, di Carla Ravaioli. Correva l'estate del 1952,
protagonisti ne erano il Cagnacci e il Centino; ma, tutto attorno al loro naturalismo,
s'illuminavano i problemi con gli arrivi bolognesi, dal Massari al Mastelletta; con gli influssi
marchigiani, dal Pomarancio al Cantarini. E sembrava dunque di vivere - che so - la lettera
famosa dell'Algarotti al Mariette del 1761, con la narrazione dei pregi della Romagna;
oppure le belle pagine del Marcheselli, un altro corrispondente di Luigi Lanzi. Il quale era
infine il vendicatore calmo e salomonico degli spiriti di provincia, turbati due secoli prima
dalla prepotenza vasariana; ed insieme il più splendido, accorto e pragmatico storico del
"territorio" che si possa immaginare. Forse un po' purista di fronte al nostro barocco
"parrocchiale".
Questa mostra riminese era anche e soprattutto un progetto, un programma per una serie di
restauri, di recuperi, di nuove indagini a guerra da poco terminata. Credo che se tutte le
infinite, proliferanti e talora banali occasioni di mostra fossero state accompagnate da uno
sforzo programmatico per una campagna di restauri, avremmo avuto certo meno mostre ma,
in compenso, avremmo attivato una capillarità di tutela oggi impensabile. In quella torrida
estate riminese vidi sorgere un modello di metodo (e di prassi) al quale non credo di aver
mai rinunciato. Il mio esordio nella disciplina e nelle sue pratiche era avvenuto, in qualità di
turista estivo e appena diplomato, con una visita ad un'altra caldissima ma sensazionale
mostra, quella della Pittura bolognese del Trecento , estate del 1950. Nell'inverno del 1952
avrei affrontato a Milano la grande mostra del Caravaggio, e nel 1953 la mostra di Lorenzo
Lotto, prima fatica di Pietro Zampetti a Venezia. Confesso che quando si dice che le mostre
sono inutili (e ciò non manca di alcune verità solenni) io sento rimordere dentro di me la
sono inutili (e ciò non manca di alcune verità solenni) io sento rimordere dentro di me la
coscienza di quell'attacco strepitoso ed esaltante. E non me ne priverei per tutto l'oro del
mondo.
La mostra del Seicento a Rimini - per tornare al nostro problema - fu anche la piattaforma
dell'insegnamento di Francesco Arcangeli, visitatore ciclista di questa città e di queste
campagne in stagione balneare. Le chiese erano allora tutte aperte al visitatore, anche quelle
campagnole, anche nel mezzogiorno più torrido e pieno di cicale. Ripenso a quel paesaggio
meraviglioso e mi domando chi davvero abbia avuto, più di noi, alle soglie del mondo delle
istituzioni culturali moderne, l'incredibile, felicissima possibilità di entrare in quelle ombrìe
sommerse, e lì abituare gli occhi all'oscurità, intravvedere e vedere quei dipinti che stavano lì
in attesa di visite, sommesse pagine di quella società dei poveri, dei derelitti, che la riforma
cattolica aveva diffuso nelle nostre campagne. I personaggi, prevalentemente la Vergine col
Bambino, e la famiglia delle Sant'Anne e dei Gioacchini, di Giuseppe affaccendato in tralice, e
poi dei patroni più domestici, i Santi Ubaldi contro i terremoti, i Biagi contro le tossi maligne,
i Crescentini contro le guerre, le Apollonie contro il mal di denti, sostavano in quella frescura
un po' complice, semplici nella loro presentazione, composti nelle elementari positure e nei
corretti panneggi, immersi in un cromatismo un po' risaputo e domestico. Ma ciò che
conteneva poi tutto questo, solenne e affettuoso come una benedizione rurale, era quello
straordinario ambiente stilistico e affettivo, una globale Stimmung insomma, che si dovrebbe
chiamare "naturalismo" del territorio artistico italiano nell'età di Controriforma. Intendo quel
modo accostabile e mite, e tuttavia veritiero, non trionfalistico, con il quale tanti artisti si
sono accomunati alle popolazioni, ne hanno vestito innumerevoli dolenti vicende oppure
hanno sorriso con loro per una modesta gioia. Questo fu il mondo nel quale mi apparve
proprio lui, quasi prima delle sue stesse opere, e cioè Giovan Francesco Guerrieri da
Fossombrone.
Per le origini di Simone Cantarini
Nella realtà quotidiana, e di biblioteca, il nome di Guerrieri, oltre che abitare le Regie
Deputazioni di Storia Patria, emergeva soltanto, o quasi, tra le pagine illustrate dell'
Inventario degli Oggetti d'Arte del Ministero, allora della Pubblica Istruzione - l'ottavo,
dedicato alle province di Ancona e di Ascoli, a cura di Luigi Serra, di Bruno Molajoli e di
Pasquale Rotondi (1936). Chi scrive, avendo nel frattempo maturato la scelta di lavorare su
Simone Cantarini per la propria tesi di laurea, fece di questo volume un vero calepino. Non si
può che nutrire gratitudine verso i tre compilatori, veri amministratori del patrimonio
marchigiano, anche per questo volume di "compilazione", come dicono i saccenti, prezioso in realtà - come pochi altri. A pagina 168 dell'Inventario, appare la foto del Miracolo della
canna di San Nicola da Tolentino, in Santa Maria del Ponte del Piano: opera diversamente
sconosciuta a chi non frequentasse di persona le chiese di Sassoferrato. Era, nel piccolo
formato, curiosa e seducente la composizione, un misto di narratività naturalistica e di
invenzione allusivamente classicheggiante. Si avvertiva insomma emergere, da sotto il
chiaroscuro un po' fumoso, il disegno del Domenichino a Grottaferrata. Era quanto
occorreva, però, per sollecitare l'interesse di chi andava in giro a scoprire, se mai riusciva,
quali fossero le origini della naturalezza, della sottigliezza anche psicologica del
giovanissimo Cantarini; prima che costui, dalla nativa Pesaro, approdasse nello studio di
Guido Reni a Bologna.
Ma per ricercare, precisare la delicatissima fisionomia di Simone, era necessario tornare ad
affondare le mani nel grande spazio che in patria lo precedeva; uno spazio che non contiene
soltanto l'immagine moderna, e insieme l'antico modello, di Federico Barocci; ma che si
articola in dimensioni storiche molto vaste e intersecate. Le quali certo, oggi, hanno goduto
di una buona, spesso ottima illuminazione critica; ma che allora si spalancavano come un
vano oscuro di fronte a chiunque cercasse almeno i lineamenti sommari delle intricate
vicende marchigiane a cavaliere dei due secoli.
Per chi scrive, messo alla frusta dalla necessità, si trattò di un notevole impegno, in seguito
approfondito solo in parte, e proprio a cominciare dalla personalità di Giovan Francesco
approfondito solo in parte, e proprio a cominciare dalla personalità di Giovan Francesco
Guerrieri, di Andrea Lilli, di Federico Barocci e, naturalmente, di Orazio Gentileschi. Quanto
al più largo disegno di età e di condizione, fra il 1954 ed il 1955, la nostra ricerca aveva
toccato anche generali scenari, alcuni dei quali si possono in fondo cogliere nelle pagine che
qui seguono: quasi un progetto, un brogliaccio di lavoro che diverse occorrenze di vita, e
altre vicende, non mi consentirono di affrontare mai più. Molto lavoro è stato tuttavia
condotto da altri giovani studiosi che operano a Urbino e nelle Marche, e che anche di
recente ha vissuto momenti di più largo interesse, come ad esempio nell'occasione felice
della mostra fiorentina dedicata ad Artemisia Gentileschi (1991).
Note per l'arte tra due secoli
Un suggestivo contrasto di lingue condiziona nelle Marche, agli albori dell'età moderna,
l'indagine stilistica oggi rivolta alle opere. Emerge, con la forma di una dinamica
transizionale, e nel modo che più avanti apparirà evidente, il vario riproporsi ed intersecarsi
dei due termini, or concordi, or discordi, nelle persone artistiche che operano nella regione,
grosso modo dal ritorno di Andrea Lilli, forte, cavalleresco artista anconetano, alla prima
educazione di Simone Cantarini, detto Simone da Pesaro, il raro talento che giunse a
spezzare in Bologna il rigido cerchio stretto tutto attorno dall'operare strenuamente perfetto
di Guido Reni. Naturalmente il fenomeno della transizionalità non è legato solo alla
dimensione stilistica, alle caratteristiche culturali. Esso si incrocia costantemente con quella
sorta di labilità, di stallo oppure di contraria velocità di trasmissione, che rende davvero
necessaria una indagine storica molto connessa alle tematiche urbanistico-territoriali, e alla
forma di una regione "introvabile", come Roberto Volpi l'ha definita qualche tempo fa: non
solo policentrica ma anche itineraria. In questo modo, il regime degli arrivi e delle partenze,
nel quadro mobilissimo degli eventi artistici, delle collocazioni e delle ubicazioni, delle
suggestioni e delle influenze, ha un valore dominante. Si tratta, per molti versi, di un aspetto
ulteriore di una geografia della storia.
Non mancherebbero, ad orientarci, le notazioni da condurre in margine all'opera
dell'autorevole,
ma
tardo
storiografo
marchigiano,
il
marchese
Amico
Ricci, e
particolarmente al riguardo dei capitoli XVIII, XXII e XXIV delle sue Memorie della Marca di
Ancona (1834), tutti riguardanti le relazioni fra pittura locale e ambiente artistico
cosmopolita, romano e bolognese; altrettanto rimarrebbe da fare nei confronti delle più
convincenti e persuasive citazioni, sparse qua e là nell'opera, di presenze delle reciproche
influenze e determinazioni stilistiche fra le varie persone artistiche che fanno storia in
questo momento. Ma tuttavia una gran parte del lavoro è da condursi direttamente "sul
campo". La ricerca degli anni Cinquanta ebbe proprio questo fine, e forse cerco soltanto oggi
di riepilogarne in sommario qualche tratto generale e ciò nonostante altri, da Zampetti a
Luciano Arcangeli, abbiano fatto molto progredire la conoscenza di questo affascinante
problema, da allora a oggi. Questa è ora soltanto una sinopia molto sommaria per creare
uno scenario sul quale proiettare la figura del Guerrieri.
Quanto al primo oggetto della nostra lettura, e cioè alle relazioni della pittura locale con gli
ambienti artistici di Roma, sarà sufficiente l'accenno all'attività romana di Andrea Lilli; e,
ancora, ai suoi rapporti con l'ultima Controriforma romana in genere, e con i barocceschi
senesi e urbinati in particolare; quanto poi all'accentuazione della frattura fra zuccareschi e
barocceschi, così viva nelle pagine del Ricci, essa è probabilmente da ricercare e da
giustificare nello spiccato tradizionalismo dello storico, confesso e dichiarato, meglio che in
una realtà storica, naturalmente più fluente, continua e mediata, pur nella contrapposizione
stilistica, dalla fretta dei tempi carichi di vicende. Ma vedremo meglio più avanti.
Quanto invece al secondo aspetto della nostra lettura, i problemi si frazionano, allorché si
passi a sottolineare le più vivaci presenze forestiere in seno alla provincia, in una confusa
difformità di intendimenti stilistici e poetici. Così, ad esempio, l'attività marchigiana di
Cristoforo Roncalli delle Pomarance; la tradizione veneta di Claudio Ridolfi che sembra
approdare qui dalle costole dell'ultima pala di Paolo Veronese a San Giuliano di Rimini; la
misteriosa "verità" di Ernesto de Schaychis; la naturalezza "civile" e moderna di Andrea
misteriosa "verità" di Ernesto de Schaychis; la naturalezza "civile" e moderna di Andrea
Boscoli. Né mancherebbero sollecitazioni da aggiungere, tratte dal testo del Ricci, solo a
volte ricco e sorprendente; ma l'importante sta forse nel trovare a questi fatti,
frammentariamente rinvenuti sulla carta, una nuova significazione, ulteriore e precisata
collocazione critica e storica, soprattutto attraverso una più accurata selezione delle
precedenze poetiche e qualitative cui talora il Ricci non accenna, che tuttavia il Ricci sempre
ritiene scarsamente importanti per lo sviluppo dei fatti a venire. E che invece sono la vera
storia del secolo, l'innesto più fruttifero, la traccia infine più eloquente ancor oggi, agli occhi
dello studioso che vada ricercando, chiesa per chiesa, i documenti impegnativi di quella
civiltà poco conosciuta. Manca infatti nella intera opera del Ricci, strumento tuttavia unico e
difficilmente sostituibile, qualsiasi citazione di portati naturalistici, di novità fragranti dal
mondo vivo della nuova società caravaggesca romana: fuori dai limiti geografici dell'opera,
che interessa la sola marca anconetana, l'attività fabrianese di Orazio Gentileschi, non
resterebbe che aggrapparsi, per ascoltare voci di riforma dalla penna di questo conte
Monaldo degli studi storico-artistici, troppo esiguo e ritardato, per costituire un cardine di
interessi, una fonte di ispirazioni operanti e sollecite. Ed è proprio a questo punto che fu
necessario - ed è pure una necessità di studio - scostato il tavolo, ed allontanati carta e
calamaio, sostituire alle pur utili notizie forniteci dal Ricci, alcune notazioni più vive, ed
integrare attraverso l'autorità di più valide ricerche, viaggi appassionati quando possibile, la
storia degli interventi decisivi nella regione marchigiana intorno agli ultimi anni del
Cinquecento nel corso dei primi decenni del Seicento.
A tal proposito, intanto, si deve ricordare che sulla fine del 1603 è accertata in Tolentino la
presenza di Michelangelo da Caravaggio: un soggiorno breve, e quasi immediatamente
interrotto, nel regesto cronologico della sua vita, dal famoso lancio di carciofi nell'osteria
romana del Moro; ma un soggiorno che avrà certo maturato i suoi frutti. Non mancano, nelle
Marche, copie e riprese dirette dall'opera caravaggesca, tali da suffragare la mancanza degli
originali, probabilmente pochi e perduti nel tempo. Valga come tipico esempio quel
Sant'Isidoro Agricola già nella chiesa di San Filippo ad Ascoli Piceno, citato dal Lazzari (1724)
e descritto come opera di pregio e considerevole; la povera copia conservata nel Palazzo
Comunale della cittadina, a parere di Roberto Longhi, sembra suggerire una datazione
intorno agli anni 1605-6. Legata agli anni tardi dell'attività di Caravaggio, la copia del Cristo
alla colonna del Museo di Macerata, se di provenienza locale, suggerisce di nuovi umori,
inevitabili reazioni pur nello stagno tranquillo che la provincia fa delle novità del secolo. Né
sarà possibile passare sotto silenzio la ormai famosa Natività che Rubens collocò in San Luigi
di Fermo intorno al 1606-8.
È proprio all'esame di questi primi temi che le Memorie del Ricci, sia per la natura circoscritta
dei limiti geografici imposti, sia per la già esemplificata indifferenza nei confronti di alcune
vicende particolari, da ritenere estremamente importanti, si rivelano del tutto inutilizzabili.
Lilli, Boscoli e il Gentileschi
S'è già fatto, più di una volta, il nome di Andrea Lilli; e anche quello di Andrea Boscoli non
torna nuovo. La presenza del primo a Roma era documentata negli ultimi due decenni del
Cinquecento soprattutto nell'impresa collegiale di Santa Maria Maggiore, uno dei cantieri più
interessanti della Controriforma. Il ritorno in patria, avvenuto a parere del Molajoli intorno al
1596, segnerà, nella cultura della regione, una data assai importante, tanto è fresca e viva la
lingua che, in quel torno di tempo, sapidamente lega entro un ornato neotibaldesco le belle
storiette di San Nicola da Tolentino del Museo Civico di Ancona. Cresce, allora, la storia di
questa provincia, apparentemente abbandonata alla sterilità dei minori barocceschi urbinati,
o al tardo venezianismo, portato senza troppo conseguenze, delle importazioni marchigiane
di Palma il Giovane. Un'indagine molto esauriente è stata quella condotta da Luciano
Arcangeli con la mostra anconetana del 1985. Nuovo incentivo è lo straordinario arrivo di
Andrea Boscoli in quel di Macerata: straordinario tanto da far prendere per buono l'aneddoto
passato dal Baldinucci al Ricci, che ci consegna Andrea come prigioniero militare, colto per
avventura a disegnare le fortificazioni di Macerata (con la segreta intenzione, forse, di farne
un libero paesaggio).
un libero paesaggio).
Impegnato, sulla consegna manieristica toscana, ed in particolare del maestro Santi di Tito, a
destinare nuove forze verso la riscoperta di una trepida naturalezza, Andrea Boscoli data del
1599 la bella Predica di San Giovanni Battista della chiesa del Santo a Rimini; e
probabilmente nello stesso anno porta a termine i due dipinti del monastero di San Luca a
Fabriano. Una singolare forza luministica lo spinge a campire, sul grigio semitono
d'ambiente, freschi strappi cromatici, dove la felpa del manto, o il cencio che fa da bizzarro
copricapo al pastore, suonano come improvvisi, schietti fenomeni che la luce provoca
bagnando fredda il colore. Quanto piacerà ad Andrea Lilli, ultimo e attento tramite di voce
cinquecentesca in questa terra precoce, lo dicono le sue opere che affiancano quelle del Lilli
e che convergono con esse. Ma altrettanto singolare, e direi addirittura sensazionale, è
scoprire il modo con cui piacerà, al Gentileschi di una decina d'anni dopo, quest'aria schietta,
questo fare sincero, in cui ritrovare la propria lontana, elementare vena toscana, quella che
precedeva le novità del primo Caravaggio. Un passo, dunque, insospettato, e un rinnovato
sentimento di aristocratica elezione manieristica, che era cresciuto insieme al nuovo
pensiero luministico e che, pur nel pieno di quella richiesta di natura e di verità (in lui anche
mentale), non abbandonerà mai nel corso della sua lunga e travagliata esistenza. Ma poi il
clima dei ricordi, stemperati in una sedimentazione di molti decenni, coinvolgeva anche
aspetti ormai antichi della Rinascenza. Sarà bello, per il Gentileschi, riandare per questo ai
pensieri della prima giovinezza, mentre intorno maturano altri fermenti, e ritorna la ormai
secolare naturalezza di Lorenzo Lotto. Un fenomeno, quest'ultimo, di lunga durata tanto
sentimentale che di stile, capace di congiungere l'ornatura scontrosa dell'esule bergamasco
con l'eredità lombarda così potente nel nuovo affioramento che prende corpo nella riforma
caravaggesca.
Naturalmente, come abbiamo anticipato, questo è ormai soltanto un brogliaccio di lavoro, un
fondale appena dipinto che, negli anni Cinquanta, aveva il valore di una possibile
ricognizione su quella realtà che, dopo le brevi risultanze del Lanzi e poi del Ricci, era stata
riesaminata solo da Bruno Molajoli e per certi aspetti da Pasquale Rotondi, con il profitto del
buon lavoro di riassetto operato da Luigi Serra negli anni Venti. Le numerose, tempestive
mostre di documentazione di restauro e di recupero del patrimonio che la Soprintendenza
urbinate ha realizzato a partire appunto da quegli anni, hanno consentito un avanzamento e
una illuminazione che allora sembravano inarrivabili. Una volta ancora, in questo dopoguerra,
è stato insomma possibile constatare che il restauro ha consentito un grado di leggibilità e di
conoscenza altrimenti impossibile. Proprio su questa prima ed elementare chiarezza si sono
allacciate tutte le suggestioni e le molteplici, slittanti e veloci, necessità di contatto e di
ibridazione che corrono sul campo di una regione non centripeta, appunto, ma policentrica e
ancor più, dominata da un regime vallivo che, agli albori dell'età moderna, sposta ogni flusso
stradale dalla montagna e dall'intensità dei rapporti mediani e trasversali, verso la diversa
condizione dei flussi itinerari costieri. La bibliografia porta traccia concreta degli interventi,
prima di progetto culturale e poi di recupero, seguiti da consistenti studi che hanno visto
impegnati studiosi e amministratori. Da anni Paolo Dal Poggetto segue con la maggior cura
questo invaso problematico di valori artistici e di ragioni storiche, dove la figura così mobile
e talvolta intrigante del Guerrieri si versa e, insieme, attinge.
Quanto a noi, talvolta convinti a scrivere di Guerrieri assai più con le ragioni del tempo
passato che con quelle di un presente criticamente incisivo, non possiamo che riconoscere il
consistente, positivo avanzamento del problema. Qualche indulgenza ci consente di
riportare ancora l'occhio su alcune pagine, che anche allora si chiamavano di prosa d'arte, e
che oggi possono sembrare addirittura disadattate nel clima assai più freddo di molte
esperte filologie. Ma, come si sa, la prosa d'arte teneva anche il posto delle soluzioni di
continuità, delle cesure che ovviamente frantumavano un percorso già assai complicato; e
poi, era davvero difficile non cedere alla seduzione di un paesaggio artistico di enormi,
eloquenti stigmate storiche, posto tanto drammaticamente a confronto con l'attualità. Un
argomento centrale, come è naturale, era quello della fuga di Orazio Gentileschi da Roma, in
cerca di lavoro tra Ancona, Fabriano, e Pesaro. La miglior definizione della sua impresa apriva
cerca di lavoro tra Ancona, Fabriano, e Pesaro. La miglior definizione della sua impresa apriva
molti confronti con il giovane Guerrieri, così sul piano dello stile che su quello dell'induzione
cronologica.
"Ma, ad illustrare ancor più minuziosamente la precocità della Circoncisione di Ancona
stanno gli stretti rapporti interni che si mostrano palesi con la Maddalena di Casa Pace a
Fossombrone. Intanto, una sorta di colossale dilatazione inventiva sembra dominare quella
composizione: del gesto 'vero'; del fotogramma erompente; della profonda umanità di
Caravaggio, non resta quasi se non l'acredine, questo aguzzare d'occhi vetrini come a meglio
intendere la gioia del colore altero e minuzioso. Diaccia, diafana o tagliente, ogni tonalità è
distesa con quell'unico intento che s'avvia a divenire sempre più totale ed esclusivo in vista
della ormai prossima Madonna Rosei, o della bellissima Maddalena dei Cartai di Fabriano.
Riesce quasi impossibile poter parlare dei reali valori del dipinto, in assenza dell'originale; la
foto ne conserva appena - è indicativo - il traslucido lucore, freddo e implacabile, che i
mezzi di riproduzione consentono. Il colore si distende, luminoso e lavandato per ogni
recesso, e fuga con sgarbata lucidezza di 'a fuoco' ogni più piccola intenzione compendiaria
e abbreviativa. Non bruciano i 'piccoli bracieri' del tocco caravaggesco: Rembrandt è più
lontano che mai. Qui l'impressione è la stessa, scalena ed angoloide, che la composizione e
la forma ci consegnano in certi dipinti nordici, dove l'ossessione dell'obiettivo, del telemetro
spaziale rende pericolosamente squilibrate operazioni di massa che alla tecnica latina non
sarebbe stato difficile risolvere in maniera tradizionale. Occhi aguzzi, fin strabuzzati e
strabici; gran muovere di mani per tutto il dipinto; coppe lucide dagli orli taglienti:
un'umanità così poco nostrana, memore soprattutto di infinite sopraffazioni manieristiche,
acconciata in fogge talora non pertinenti. Un angelo, nella parte più alta della tela, volge il
volto ed aggredisce la forma con riccioli e lineamenti affilati come trucioli metallici,
frammenti di alluminio; quasi un esemplare fra quelli sanguinosi e bovini del Tanzio tornato
a Varallo e compiaciuto della 'vulgata' michelangiolesca del genio lombardo di Pellegrino
Tibaldi.
È meglio avvertire subito che tale complessità di argomenti luministici era destinata a durare
altrove, fuori d'Italia soprattutto. Il giovane Guerrieri mostra fin da questo primo esperimento
di non saperne intendere la poesia, avviata ormai al mondo enigmatico e borghese della
pittura del 'grande silenzioso' di Delft. Le diversioni sartorili, pretesti di lussuose campiture
luminose nel maggior maestro, passano in lui con l'aria fra divertita e ambigua di un
guardaroba confusamente indossato sotto certe luci crudeli di proscenio. Gli oggetti che là
tranquilli e muti vivono ciascuno un proprio interno tempo di 'Stilleben', son qui disseminati
a man salva, fra le ortiche, gli strumenti della mortificazione, lucertole e lumache ed ogni
sorta di altri pretesti per l'evidente intenzione di giovare al 'decoro' di un mondo che troppo
pare fuorviarsi dalle linee latine e tradizionali".
In quegli anni, il problema era forse quello - più tardi chiarito bene soprattutto da Pietro
Zampetti e da Luciano Arcangeli; a più riprese, ma specialmente nell'occasione della mostra
dedicata ad Andrea Lilli (1986) - di meglio comprendere le consistenti tensioni di incontro
che nuovi artisti, quasi tutti provenienti da luoghi alti della cultura artistica italiana, e cioè da
(Roma, da Firenze e da Bologna, potessero creare, assumendo la piccola ma accogliente
couche marchigiana come un luogo di soddisfacente committenza. In questi anni che chi
scrive ha per più versi drammatizzato con le prime indagini sul Gentileschi, sul Lilli e
soprattutto sul Guerrieri (1954-58), è giusto leggere anche il clima di attesa quasi
millenaristica che coglie il Montefeltro urbinate alle soglie della devoluzione allo Stato della
Chiesa: e che la mancanza di un erede maschio della famiglia di Della Rovere complica
ulteriormente, colorendo l'attesa con una componente anche altamente popolare. Ma ciò
riguarda soprattutto Urbino e il suo establishment, già punito in modo addirittura truce dagli
eventi del 1570 e dalla mano vendicativa di Guidubaldo della Rovere: e di questo lento
tramonto sono testimonianza principe le pagine di Bernardino Baldi, più che trasparenti in
proposito nell'esaltazione di una città e di una comunità - quelle di Federico, per intenderei
- erette come un modello ideale nel secolo precedente e già abbandonate, in pericolo di
vita,
nel
1590.
L'altro
segnale,
di
una
angosciosa
precisione,
giunge addirittura
vita,
nel
1590.
L'altro
segnale,
di
una
angosciosa
precisione,
giunge addirittura
dall'accezione cristologica che il Barocci assegna ad ogni ricorrente narrazione della
passione di Cristo: collocando alle spalle degli eventi dolorosi un paesaggio inevitabilmente,
puntualmente urbinate; e ancor più, un paesaggio urbinate visto e traguardato dalla finestra
del proprio studio.
Ma poi, scendendo da quelle balze ormai abbandonate, verso una nuova vita di commerci e
di traffici e lungo le più battute strade vallive e della pianura, si scopre che la condizione di
questi anni non è la peggiore. Ad essa e alla sua piana descrizione, Sergio Anselmi dedicò
alcune nitide pagine in quel catalogo che, nel 1988, il Centro di Sanseverino realizzò col
proposito di disegnare un piano-programma di studi rinnovati e più esaurienti a riguardo
proprio di Giovan Francesco Guerrieri (pp. 101-108). Lo scritto dell'Anselmi era già esso,
quasi spontaneamente, una proposta di lettura del territorio e delle sue caratteristiche per
meglio osservare il dispiegarsi dei flussi culturali possibili: "Ancona e Senigallia per le attività
mercantili export-import, Macerata quale capitale amministrativa, Loreto santuario di prima
grandezza, il secondo della cattolicità -, Pesaro e Urbino, luoghi di sofistica cultura
tardorinascimentale, Fermo potente e ricco caposaldo arcivescovile, fanno delle Marche
un'area di solida consistenza: Roma guarda ad essa con notevole cura. Lo attestano, tra
l'altro, l'enorme numero di sedi vescovili (ancorché poco presenziate dai vescovi nonostante i
decreti tridentini) per una popolazione che, al tempo del primo censimento pontificio (1656)
non tocca che le 500 mila teste, l'alto numero di prelati che hanno qualche 'titolo di
privilegio' nelle Marche, l'assetto agricolo che assicura, con la fornitura di grani a Roma e a
parecchie altre grandi città dello Stato (Perugia, Bologna, Ferrara, ecc.), grossi affari con le
'tratte' per l'estero. Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia, per le vie di mare; Jesi, Macerata, Ascoli
Piceno per le vie di terra, sono tra i maggiori centri di esportazione delle granaglie". In
questa condizione mediana, non essendo - Marche e Romagna - al centro del mondo, ma
neppure nella più infelice periferia di esso, si solidifica una condizione che è quella che
regge un sistema urbano-rurale destinato a durare, ormai, fino all'unità nazionale.
Per quel che ci interessa, non si può neppure tralasciar di ricordare che come Fano era già da
tempo immediate subjecta alla Chiesa di Roma, che in effetti vi fa convergere un visibile
numero di opere pubbliche e di imprese liturgico-devozionali e artistiche; e che numerosi
erano governatorati e protettorati i quali (come - per quel che ci interessa - Fabriano)
gestivano, con concreta capacità di iniziativa di vescovi e di castellani o di magistrati, la ricca
materia della commessa architettonica ed artistica. Solo in questo più largo scenario si
comprende la nozione di transizionalità così temporale che spaziale delle Marche; e si
afferrano anche le prime considerazioni, più tentative ed ipotetiche che altro, di quelle
nostre ricerche iniziali.
"Orazio, nel 1621, dopo aver lasciato Fabriano e le Marche, quasi ultimo omaggio alla ormai
lontana giovinezza, in modi tuttavia di splendida, aristocratica elezione naturalistica,
eseguirà la Annunciazione della Sabauda di Torino, dov'è proprio il Boscoli del dipinto
fabrianese del Monastero di San Luca a rinverdire la fronda della più antica naturalezza
fiorentina. Egli ha rinvenuto in questa solitaria provincia, nel suo sereno soggiorno - poiché
tale lo vogliamo immaginare le due componenti più care della sua carriera poetica precaravaggesca: Andrea Lilli, un ben alto ricordo delle amicizie contratte nel cantiere di Santa
Maria Maggiore; Andrea Boscoli, parallelamente, a suffragio dei moventi luministici di
studiata, pacata verità descrittiva destinati a durare nella storia della pittura europea.
Tutto ciò, com'è naturale, dovrà meglio intendersi sulla base dell'esame diretto delle opere,
cercando di risolvere nel contempo alcuni problemi specifici e collaterali che, nei casi
singoli, si sono presentati. Basterà accennare alla migliore sistemazione cronologica
dell'intera produzione marchigiana del Gentileschi, in relazione ad ulteriori ricerche da
condurre negli archivi delle città marchigiane. Infatti, una parte non banale dell'attività dei
pittori marchigiani dei quali cerchiamo di connettere una prima mappa di orientamento, sta
riposta nella loro sveglia capacità di intervento sui grandi problemi tra manierismo e
barocco. Si tratta di una tempestività che va a merito anche dell'opera del giovane Guerrieri,
in molti modi tuttavia legato al Gentileschi e ai suoi movimenti prima in Roma e poi nelle
in molti modi tuttavia legato al Gentileschi e ai suoi movimenti prima in Roma e poi nelle
Marche.
Così, non è più possibile passare sotto silenzio l'opera di un artista che tempo, sfortuna e
mala conservazione sembravano aver sepolto per sempre nella più completa dimenticanza.
Giovan Francesco Guerrieri ha carte in mano sufficienti almeno a riscattare l'oblio in cui era
caduto, e questo è un altro passo sulla via della debita restituzione di una buona vicenda
della nostra eterna provincia, che tanto ha tardato a entrare nella storia. Potremo seguirlo, il
Guerrieri, mentre guarda ai fatti più importanti della Roma caravaggesca fra primo e secondo
decennio; avverte le indicazioni più consone al suo temperamento del Gentileschi
marchigiano; e come, lui partito, riprende la via di quella specie di revisione romantica e
provinciale della riforma caravaggesca, tipica delle aree periferiche.
Una seconda ipotesi, che sembra ormai assumere pieno valore di constatazione, e che
giunge a interessarci anche al di là di interessi meramente locali, è quella che ci porta, con
una serie di utili raffronti stilistici e storici, dall'atmosfera dell'ambiente di cui or ora
abbiamo tentato le linee essenziali, alla prima, ignorata formazione di Simone da Pesaro.
Proprio da questo problema specifico siamo partiti nella nostra ricerca, con l'intento di
rinvenire fra le varie componenti della cultura di Simone, intorno ai primi anni '50, proprio
quella traccia costante di natura, quella più trepida naturalezza di accenti che lo fa
perennemente, costituzionalmente ostico alla 'metafisica' del grande maestro bolognese,
Guido Reni: una formula freddamente suggestiva, per Simone, un'aristocrazia insperata.
Sogno di un attimo, quasi subito abbandonato, sul '40 per tornare poi, vedi caso, a moduli di
più appassionata confidenza naturalistica: al gran Lodovico, al Cavedoni, in qualche modo al
Guerrino e al primo Cagnaccio Corrono gli anni della sua adolescenza intorno al 1628 e
oltre, sono già a Fano i capolavori di Guido Reni, e tuttavia, pur dopo aver assediato Guido
nel suo ultimo itinerario, fatto di larve metafisiche, riaffiorano, indomabili, le memorie del
Gentileschi, del Boscoli e anche del Guerrieri. Mentre il grande, mitico maestro dipinge,
Simone s'attarda ad osservare in che modo pene e disillusioni vadano incidendo il suo
stanco volto; e sulle labbra affilate coglie l'antico, per lui incomprensibile, detto: 'Ho
riguardato in quella forma che nell'Idea mi son stabilita'. È da questo momento, crediamo,
che Simone comprende l'amara realtà che lo costringerà, nel 1648, a morire giovane allievo
'sbagliato' di un grande maestro senza più storia terrena".
Il ritorno del Guerrieri
La frequentazione delle chiese, per chi voleva entrare, rivelava tesori. Magari già noti, o solo
non divulgati - come gli affreschi di Orazio Gentileschi nella Cattedrale di Fabriano oppure
la sua Maddalena penitente nella chiesetta delle Cartiere, un gioiello di acutezza e di
tensione ottica, la più alta celebrazione in assoluto del caravaggismo in chiaro. Il vecchio
archivio fotografico Croci, acquisito all'Istituto Supino, esibiva una lastra fra i vetri di
spropositato formato, attribuita al Cantarini: ed essa raffigurava una strana e insieme
appassionante Visitazione della Vergine, con tre Santi affacciati alla mensa dell'altare come
fossero
tre
reliquiari,
a
mezzo
busto.
In
alto,
una
rurale
canefora, rigenerata
indiscutibilmente dal Domenichino della cappella Nolfi di Fano, e tuttavia anch'essa tradotta
in lingua locale, si ergeva contro un largo avvincente paesaggio metaurense. Nessun
rapporto con Simone, con la sua già assecondata classicità del cuore, che è una tensione di
alta cultura, un empito che segue da vicino l'ellenismo di Guido, la sua ricerca di mediazione
fra un presente drammatico ed un passato travestito di atticismo, colmo di meditazioni e di
un "antico" immemorabile, e poeticamente raffaellesco.
Il legame quasi connaturato del Guerrieri con Gentileschi doveva avere la sua ragione già a
Roma, dove il marchigiano aveva potuto vivere - scriveva nel suo diario autobiografico dopo
il 1605 o il 1606, scappato dalle Marche e da quella Pesaro che pure gli aveva messo sotto il
naso alcune utili esperienze. Il Guerrieri non poté appartenere dunque, per ragione d'età,
della schiera dei subappaltanti di Santa Maria Maggiore, ma certo alla morte di Sisto V, e al
"tutti a casa" del Lilli, del Fenzoni e degli altri che smobilitarono di fronte al consistente
mutamento di gusto del nuovo papato Aldobrandini, egli finì per conoscerli invecchiati e un
mutamento di gusto del nuovo papato Aldobrandini, egli finì per conoscerli invecchiati e un
po' delusi, e tuttavia indomiti.
Sul finire del primo decennio del Seicento, egli poté quindi assistere ad avvenimenti che mentre tenevano ormai lontano Caravaggio e infermo Annibale Carracci - vedevano la
crescita soprattutto di Guido Reni e del Domenichino. Il primo non poteva certo amarlo,
astratto e lontano com'era nella ricerca della sua musicale perfezione di altri tempi. Il
secondo, invece, lo avrà certo interessato per via di quell'espressiva minuzia purista che lo
stesso classicismo ufficiale ravvisava già nella grande parete di San Giorgio Magno, con il
Martirio di Sant'Andrea . Anche se questo può sembrare singolare, la poetica degli affetti e
dei caratteri - proprio per la reazione didattica che sapeva destare nella vecchierella
tramandata nell'apologo famoso dell'Agucchi - finiva per prendere il posto di più immediate,
brucianti istantanee del naturalismo. Non c'è dunque da stupirsi se, in anni immediatamente
successivi, anche la vena inevitabilmente meticcia del Guerrieri lascerà affiorare, come ho già
del resto accennato, il sapore dell'inquadratura scenica dello Zampieri.
Che poi questo primo soggiorno romano avesse per il Guerrieri non ancora ventenne il valore
di un apprendistato operante, lo si può ricavare anche - ritengo - dall'esercizio di copia che
egli laggiù venne facendo. Già sappiamo che, nella provincia marchigiana, egli faceva copie
da Barocci, nel quadro di quel vero piccolo artigianato così diffuso e anche scorrettamente
praticato, che costrinse il Barocci stesso a restaurare alcuni suoi capolavori, e specialmente
la Sepoltura di Cristo di Santa Croce di Senigallia, tra il 1602 e il 1608. Nella cartella delle
fotografie di cui Longhi era tanto geloso avevo intravisto una Deposizione di Cristo, copia
evidente dal Caravaggio della Vaticana, che il professore già aveva collocato al nome del
Guerrieri e che almeno le circostanze topografiche e di data potevano in effetti restituirgli.
E il quadro si trovava per giunta a Milano, in San Marco! La mia fantasia di critica restituzione
totale andò dall'attribuzione al Guerrieri, fino alla ricostruzione mentale di un "necessario"
viaggio del Guerrieri in Lombardia. Questo avrebbe risolto alla radice molti problemi, e
ricongiunto il Guerrieri a Caravaggio, in un vero viaggio sentimentale. In realtà, il quadro
c'era andato lui, a Milano, con le soppressioni rovinose del Beauharnais, agevolate dalle
scelte smodate di Andrea Appiani (1808-10 ca.) responsabili del più grande terremoto
conservativo italiano dell'età moderna. Nel frattempo, strani sottilissimi fili ci conducevano
ad individuare nella Pinacoteca di Ferrara una vicina copia, questa volta di Carlo Bononi, e
all'incirca delle stesse date. Un'analogia di cammino, nulla di più: ma è singolare, ancora, che
le cose più belle della giovinezza del Bononi siano proprio due tele nella cappella del Santo
in San Paterniano di Fano (1612 ca.), altro luogo importante della cultura marchigiana. E che
si collocassero, per temperie narrativa, proprio alle spalle della Cappella di San Nicola a
Sassoferrato, che è del 1614.
Cosa pensare, d'altronde, della ricca e tuttavia piuttosto sensitiva fantasia culturale e
pittorica del giovane Guerrieri? Collocata sullo scenario che abbiamo appena disegnato, essa
rivela perfino tratti di una duttilità e di una versatilità che - in altri tempi ed in altre,
accademiche scuole - si chiameranno caratteristiche dell'eclettismo. E ovviamente, si tratta di
intenderci. Il codice della poetica prima del Guerrieri è attraversato necessariamente dai
segni di transizioni imponenti, ma poi è il mondo stesso che si sta facendo policentrico
proprio sotto i suoi occhi di cittadino di una piccola comunità metaurense, e che sta
cambiando pelle anche nell'arte, dopo quello che ha visto a Roma, e dopo le esperienze che
forse avrà comunicato al padre in qualche lettera che nessuno ci ha mai, purtroppo,
tramandato.
La poetica concreta di un giovane, toccato dalla grazia del naturalismo drammatico e
veritiero della Roma caravaggesca nel primo decennio del Seicento, si immerge in una serie
naturale di contaminazioni: dove l'antico, che è traccia fisiologica, in un territorio come
quello montefeltresco, si tramanda nel nuovo - o addirittura nell'inedito - vestendosene
come per un ritratto comprensibile e chiaro. Di qui nascono, crediamo, le proposte di
historia e di narratività anche sapiente di cui il Guerrieri è per tanti versi maestro. Ma di qui
sgorgano anche le adesioni più intime, a cominciare da quella riservata a Orazio Gentileschi,
sgorgano anche le adesioni più intime, a cominciare da quella riservata a Orazio Gentileschi,
che fanno rifluire sull'attualità anche il prestigio del passato, in una nozione di tramando che
accorpa anche taluni modelli del manierismo, così fitto e frequente, peraltro, da riempire
chiese e palazzi d'ogni genere di pittura. Claudio Pizzorusso, un attento lettore della
traiettoria marchigiana del Gentileschi, ha ricondotto sulla memoria storica del Guerrieri
anche taluni precedenti narrativi come quelli di Simone de Magistris, dedicati alle storie
benedettine di Fabriano. Personalmente, ritengo che l'immobile intensità sacrale, l'assoluto
iperboreo della Crocifissione con i dolenti di Gentileschi, a Fabriano stessa, sia una vivente
memoria del passato tridentino. Quanto al Guerrieri, la presenza in lui, e in quella sua
costruzione liturgica didattica e persuasiva, di elementi tratti dal Pulzone e anche dal
Valeriano, va in direzione di una efficiente dimostrazione di rettorica non umanistica, non
letteraria o metaforica, quanto piuttosto immediata e perfino banale nella sua medietà.
Il rapporto di Guerrieri col Gentileschi vive tutto, crediamo, entro l'efficace figura del toscano
come mediatore, e rivendicatore di una intera tradizione storica. Nessuno, d'altronde, aveva
mai potuto esibire così integra, così nitida entro la forma del nuovo linguaggio
caravaggesco, una tradizionalità persistente, acuta, indeformabile. In Gentileschi si potevano
leggere molte condizioni dell'arte del Cinquecento, poste quasi nella più esemplare
trasparenza pur nel vortice della nuova rivoluzione. Quale condizione migliore per un
giovane provinciale? La sua adesione al Gentileschi è discontinua nella forma, ma costante
nell'atteggiamento. A Gentileschi il nostro riserva un posto magistrale, risolutivo, ma non ne
segue la tempestività di stile e di cronologia. Si tratta insomma, per lui, di un modello ma
non di un maestro. E il confronto lo fa sentire bene.
Del resto, proprio la Maddalena orante che si trovava ancora in casa Cappellani a
Fossombrone, e che portava la data ostentata e orgogliosa del 1611 (una specie di tirocinio
del Guerrieri che dichiara di aver ventidue anni), mostrava d'essere il classico risultato di un
esercizio di contrabbando della incomparabile Maddalena che Orazio Gentileschi aveva
eseguito per la chiesetta della Maddalena a Fabriano, la cui datazione proprio il gesto
deferente del fossombronese rendeva finalmente possibile anticipare a quell'anno stesso, o
al precedente. Più che di un esercizio sul naturalismo, Guerrieri ci consegnò un exploit un
po' muscolare e un po' manierista, che fa delle diafane ombrìe dell'originale, di quei
semitoni gettati dai capelli disciolti sulle spalle, dei simboli stessi della solitudine e della
penitenza abbandonati sul terreno, tanti motivi un po' affaticati da un pennello che, per
essere naturale, non trova di meglio che gravare tocco e materia. E poiché si tratta, da questi
anni fino alla morte, d'una materia oleosa che "rientra", si ossida, scurisce, sulla pelle di tele
e di preparazioni polverose, povere, il risultato nel tempo è destinato ad aggravarsi. E incide,
naturalmente, anche sulla leggibilità oggi, già resa un po' pericolante dal doppio livello della
produzione,
comprensibile
in
un
artista,
che
vive
in
una
provincia
di economia
modestamente agricola.
Narrazione storica e natura morta
Nel corso di quelle prime ricerche, incappai - nello studio di un notaio urbinate, fra cartoffie
e lampadine da 30 candelein una Natura morta che mi venne anche troppo istintivo di riferire
alla mano del Guerrieri e a quelle date. Innegabile la commozione di vedervi riprodotta la
bottiglia e la trasparenza amatissima tratta da Caravaggio, un tempo di posa semplice e
anche un po' banale, come sofferta da un lontano ammiratore, piuttosto che studiosamente
osservato. Allora, l'entusiasmo mi tradì facendomi scrivere di una copia tratta da una
"scomparsa natura morta di Caravaggio". In realtà, l'apparato della "natura in posa" è
decisamente popolare. L'attribuzione al Guerrieri ha avuto però il suo seguito, forse
addirittura eccessivamente fiducioso, e ha convinto - strada facendo - un mio valoroso
amico bolognese ad acquistare tanti anni fa, a Pergola, una seconda Natura morta che forse
avrebbe potuto coltivare relazioni con la prima, oggi nella Collezione Molinari Pradelli. Più
tardi, da Spoleto - dietro suggerimento di Bruno Toscano era il professor Pompilj che
collegava al gruppetto così formatosi altre due belle Nature morte, di cui oggi si può dare
illustrazione. Forse il gruppetto, al quale sono state accostate da Luigi Salerno ancora due
illustrazione. Forse il gruppetto, al quale sono state accostate da Luigi Salerno ancora due
Nature morte, non brilla sempre per omogeneità e occorre riprenderne l'esame, tanto più che
una di queste due ultime è siglata: "fg 1620". Ma si deve ricordare anche che l'opera del
Guerrieri, soprattutto in questi anni iniziali, è fortemente discontinua; e che il ductus, la
pennellata segnalano corsività e incertezze anche di vasta escursione. Naturalmente, per
l'intero gruppo è sempre la Maddalena di casa Cappellani a dettar legge, con la sua
organizzazione dello spazio un po' semplicistica, e gli oggetti in posa che non hanno nulla
da dire -in quanto evento visivo -ma sembrano assoggettarsi al pennello un po' arido e
faticoso. Una bella natura morta, molto più evoIuta, sarà quella destinata ad apparire sotto
l'autorevole e personale Santa Rita della chiesa di Sant'Agata a Fossombrone, un piccolo
capolavoro dove però il nuovo soggiorno romano, molto scaltrito intellettualmente nei lavori
decorativi di Palazzo Borghese a Campomarzio, porta sotto i nostri occhi il Borgianni di
Sezze Romano: quanto a dire, gli ocra, i bianchi, le terre bruciate più belle e "spagnole" del
caravaggismo, dopo la morte del Caravaggio.
Su un tema come questo, le novità non sono state molte in questi decenni. Il gruppetto
centrale (Molinari Pradelli-Pompilj) è ancora ravvisabile in quel quadro un po' letterario nel
quale ci sembrava giusto descriverlo nel 1958.
"Si tratta di recuperare l'aspetto intimo della scarsa sensibilità del giovane di fronte
all'evento misterioso e moderno espresso da una composizione di natura morta, quasi
nell'incapacità sintomatica di poter intraprendere la silente descrizione di un mondo dove
tono, passaggio, sfumatura e infine 'valore' siano i soli invisibili gesti con cui s'esprime una
'historia' narrata per poetiche analogie. Meglio vi riuscirà, è vero, rapportando vasti brani di
natura morta alla più grande stesura di una 'historia' di uomini: qui lo aiuta, oltre tutto, il
lungo tirocinio d'una tradizione manieristica, da tempo adusa ad assegnare a simili decorose
invenzioni un posto, una luce ed un tono subordinati e aggiunti.
Intorno al 1620 il Mancini, nel descrivere le 'Classi' o 'Scole' in che egli veniva dividendo gli
artisti del tempo, nel muovere forse per la prima volta alla 'Classe' dei caravaggeschi il
canonico appunto della carenza di 'Historia', veniva a riflettere in parole quello che fu un
tipico tratto della cultura riformata subito dopo la morte del Caravaggio, e che non mancò
certo di agitarsi in polemiche vive e serrate, prima di passare a infrigidire nelle accademie
del Bellori: '...nella composition dell'Historia, et esplicar affetto prendendo questo
dall'Immaginatione e non dall'osservanza della cosa per ritrar il vero che tengon sempre
avanti non mi par che vi vaglino essendo Imposibil di metter in una stanza una moltitudine
d'huomini che rappresentin l'Historia con quel lume d'una finestra sola, et haver un che rida
, ò che pianga ò faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare e così poi le loro
figure ancorché habbin forza mancano di moto di affetti e di gratia...'. Un lustro e più avanti
le dichiarazioni del Mancini, il Guerrieri a Sassoferrato sembra preoccuparsi, con curiosa
assonanza, di dar corpo alle revisioni che sul caravaggismo si venivano operando. Ognuno
riconoscerà, credo, in questa singolare 'Historia' di come una canna, fra l'ammirazione dei
presenti, può gettar acqua, proprio una attenzione rivolta ad ampliare la misura esterna e fin
la partecipazione quantitativa delle 'persone' in un dialogo fino a quel momento univoco, al
quale dovevan soccorrere moderne e capitali qualità di pittura; restando tuttavia nei termini
di una limpida oggettività del frammento, condotto 'sur le motif', pur nel contesto di una
legatura che palesemente mostra di rifarsi ad antichi, e sempre attuali fra i riformati, modelli
toscani".
Un modo per cominciare
Ma da dove incominciare per dipanare la matassa dell'opera intera del Guerrieri, e dove
cercare un bandolo da cui prendersi per riconoscibile discendenza di stile e di commessa,
fino a tentarne una plausibile ricostruzione? Il tema veniva affrontato da Federico Zeri, e con
quella preveggenza che, pur contraddetta più tardi dalle sue stesse diverse convinzioni, ha il
merito di tracciare una via di metodo. Infatti nel suo catalogo della Galleria Spada, che è del
1954, egli affida va in ipotesi alla mano del giovane ventenne Guerrieri in Roma, sia la bella
Madonna col Bambino della Galleria Spada stessa, che - pur ad una data più matura - la
Madonna col Bambino della Galleria Spada stessa, che - pur ad una data più matura - la
versione della Galleria Pitti di Firenze. A distanza di tanti anni, bisogna sottolineare che le
due suggestioni, per quanto sottoposte ad un notevole fuoco di fila, hanno resistito
abbastanza. La versione della Spada, accostata più volte a Caroselli, continua a nutrire ricordi
vicini del manierismo: ricordi che possono seguitare a darci un'ipotesi almeno allusiva di
quale fosse il temperamento del Guerrieri intorno al 1608-9. Quanto alla versione Palatina di
Firenze, che proveniva da un'attribuzione all'ambito di Artemisia Gentileschi (Longhi 1943),
essa fu abbracciata con particolare e maggiore affetto poiché in essa si poteva scorgere devo confessarlo - un profilo inferiore, una inflessione più corposa e popolaresca, una
maneggio di materia più terrosa e pratica. Certo, sostenere ancora la paternità del Guerrieri
non è facile, ma tra i nuovi nomi volenterosi convocati allo scopo ha finito per imporsi di
nuovo quello più tradizionale e sperimentato, e cioè il nome di Artemisia Gentileschi. Si
tratta di una riacquisizione preziosa, proposta anche da Roberto Contini e da Gianni Papi,
due giovani che molto dibattito e opportune inchieste hanno rivolto a questi problemi.
Ma io amavo la Vergine col Bambino di Pitti, e l'amavo anche più di quella romana della
Spada, perché mi ero in realtà invaghito della fisionomia di un "pittore contadino". Tanto vale
rivelarlo del tutto: perfino una certa grossolanità del Guerrieri, quando lavorava in casa
propria e per parroci poveri, forniva pale d'altare e di devozione ai contadini di Mercatello,
dell'Acqualagna o delle rive del Metauro; un certo tono di trasandata preoccupazione tesa al
ritratto, alle vesti di povera taglia, ai dettagli della vita circostante; e quelle apparizioni di
paesaggio riconoscibile, dove il campanile o la torre civica prendevano il posto che nei secoli
andati era stato degli archetipi patronali; tutto questo mi gettava nella perfetta convinzione
che il "pittore contadino" desse così il maggior compimento possibile e previsto ad un
naturalismo annunciato, fin da quando, ritornato nella campagna da una Roma ormai
attraversata da altri spiriti per lo più monumentali e decorativi, il Guerrieri aveva insomma
deciso di ritirarsi nella povera, abbandonata patria roveresca. Sulla quale tirava ormai tetro il
vento della devoluzione alla Chiesa.
Questa interpretazione non era però soltanto fantasiosa e "oratoriana". In effetti il registro
del nostro pittore era doppio - per non dire ancor di più: disinvolto a seconda dell'economia
della committenza - tuttavia appariva soprattutto votato a una convinzione giovanile,
acquisita nella stagione romana, e a dire di se stesso, con la propria pittura, una presenza
che puntava alla moralità naturale, all'efficacia evangelica del "riconoscibile". Era insomma
come se il caravaggismo, cacciato ormai da Roma, affrontasse la sua diaspora povera ed
emarginata.
Se il Guerrieri fu, come si diceva un tempo, un petit-maître , ciò avvenne soltanto nel senso
dell'isolamento in cui egli talora fu costretto a calarsi, pur seguitando a dare di sé segnali di
qualità forse alterni ma sempre interessanti. Ma questa caratteristica non invade la quantità
della sua produzione; ché anzi egli fu, sotto questo profilo, intensamente efficiente, talora
anche piuttosto concessivo, soprattutto nel lento, gravoso scorrere degli anni. La sua
bottega, se pure esistette, non gli permise grandi aiuti, oltre a quello davvero poco più che
affettivo della figlia Camilla.
Il pittore delle parrocchie
È noto come il fenomeno del naturalismo caravaggesco, dilatato alle diverse personalità dei
suoi primi allievi, a cominciare dal Gentileschi dal Saraceni e dal Borgianni, investì
specialmente l'Europa precocemente borghese e commerciale del Paesi Bassi, nonché la
Francia e la Spagna. In Italia non è piccolo il numero degli artisti che, dimissionati dal rapido
mutamento di gusto della capitale, affrontano il ritorno alla patria d'origine, alla lontana
provincia, come il Musso in Piemonte, oppure Tanzio da Varallo; e poi il Manzoni in
Romagna e il Riminaldi pisano. Fra Marche e Romagna, il Guerrieri - sempre sospinto
dall'avvenuto passaggio del Gentileschi (Fabriano, Ancona) - istituisce di fatto un clima che
poi vedremo crescere anche nel Pandolfi a Pesaro, toccare la bella attività più matura di
Claudio Ridolfi, e risuonare nella prima formazione dei riminesi Centino e Cagnacci, e anche
del cesenate Serra, e poi collocarsi in un vano di memoria lontana, forse un po' ingenua, ma
del cesenate Serra, e poi collocarsi in un vano di memoria lontana, forse un po' ingenua, ma
fondatamente esistenziale, quale alimentò la giovinezza di Simone Cantarini. Lentamente, la
sua inflessione sempre più dialettale invade anche la più diretta, immediata provincia
urbinate, là dove il linguaggio cortese, la sublime agghindatura baroccesca sembrava
reggere, lei sola, l'araldica cortese ormai in dissoluzione. Ma ciò avvenne, ch'io sappia,
soltanto intorno alla metà del Seicento, dopo vent'anni almeno che Urbano VIII s'era
impossessato del Granducato, sradicandone ogni orma di antica indipendenza.
Dagli scritti fondamentali di Jedin dedicati alla "riforma" cattolica, la critica d'arte e la sua
storia hanno tratto vantaggio specialmente su di un fronte, che è quello della miglior
comprensione - almeno quanto a volontà - delle dinamiche interne alle grandi, e talora
meno grandi, partizioni diocesane quando non addirittura vicariali e parrocchiali. Non è il
caso di tornare qui a rimuovere il problema che oscilla tra Riforma e Controriforma,
rinviandolo semmai alle pagine fondamentali di Paolo Prodi (1962) e a quelle riepilogative di
Maria Calì (1980), nelle quali ultime il grande tema viene assai bene messo a nudo. Si
vorrebbe qui proporre un'attenzione migliore a riguardo, almeno, di quel nucleo
intensamente presente e come fuoco liturgico e come istituzione amministrativa, che fu la
parrocchia nell'ordito territoriale italiano. È evidente che occorrono grandi strumenti per
un'indagine circa i modi e i flussi di una commessa polverizzata qual è stata quella
promossa e condotta dai parroci, dentro una capacità gestionale che non raggiunge
ovviamente quella dei grandi abati del medioevo. Nell'età tridentina, tuttavia, non manca di
presentarsi spesso come connessa e legata alle istanze delle confraternite e delle comunità,
queste frequentemente in grado anche di esprimere una loro volontà che giunge fino al
nome dell'artista oltre che fino al dettato liturgico e iconografico desiderato.
La dilatazione dell'opera pittorica del Guerrieri avverrà, prevalentemente, proprio nelle chiese
parrocchiali comprese tra Foglia e Metauro, distendendosi anche sull'alto, profondo
Montefeltro montano ed occupando, ai margini, posizioni solide verso la Romagna e verso la
Marca di Ancona. Si tratta di un invaso dove già il repertorio del Vernarecci aveva suggerito
strade possibili e dove l'ottima organizzazione di lavoro indirizzata a strutturare questo
stesso libro, guidata e condotta da Franco Battistelli, ha scavato una vera e propria geografia
minore della commessa e della messa in opera di pale d'altare e di dipinti in genere del
Guerrieri fossombronese, per la loro gran parte dopo il 1618 e fino alla fine della sua vita
(1657), senza affatto venir meno a quella specie di abbrivio che, anzi, la sua attività meglio
sopporta proprio con il crescere degli anni.
Probabilmente, il disegno di una stratigrafia topografica della committenza potrebbe
illuminare molti problemi che, di norma, vengono rinviati ad altra futura occasione. Certo, il
caso del Guerrieri dovrebbe poi essere paragonato all'intera dinamica dei flussi di commessa
che, per tutto il primo Seicento, invadono le sedi chiesastiche e specialmente le parrocchie,
in rapporto anche alla grande età delle canonizzazioni post-tridentine e all'emanazione delle
norme, ovvero strategie di immagine, che in quei decenni vengono colmando il nostro spazio
visivo e devozionale. Tra tutti, per citare il più corposo in Guerrieri stesso, emerge il caso di
San Carlo Borromeo, per giunta caratterizzato da connotazioni fisionomiche precise; ma è
poi tutta la sequenza dei Santi patroni riconfermati, dei Santi mendicanti rafforzati, dei Santi
curatori o taumaturghi di nuovo identificati, che dobbiamo immaginare in movimento verso
la devozione pubblica, verso i modelli ribaditi politicamente e ideologicamente della biblia
pauperum . Guerrieri è pittore di parrocchia non solo perché la committenza prevalente nella
sua età storica ed economica è appunto quella: ma perché, per converso, parrocchiale e cioè
intensamente didattico, senza bisogno di ricorrere alla persuasione come strumento, è il suo
codice espressivo. A cominciare dalla particolare ingegneria liturgica che, con gli anni,
presiede
alla
formulazione
degli
spazi
e
dei
rapporti
di immagine, arricchendosi
specialmente con i potenti contatti con l'arte bolognese; per finire con lo specifico
linguaggio espressivo, nato a Roma e contaminato giorno dietro giorno con un senso diretto
della realtà, paragonato in modo crescente con i diversi modelli che la piattaforma
marchigiana era in grado di sottoporgli, dal Boscoli al Ridolfi; in Guerrieri si avverte
pressoché esclusiva la formulazione di un prodotto artistico del tutto impegnato sul fronte di
pressoché esclusiva la formulazione di un prodotto artistico del tutto impegnato sul fronte di
quella società immobile che sta tra città e campagna, anzi tra campagna e città. In altri
tempi, un forte accento letterario e populista ci sembrava descrivere evocativamente questo
problema:
"Non è raro che lo studioso, vagando per quella ideale provincia che s'allinea sotto il brullo
scoscendere della Strega e del Catria, partendosi da Fabriano e giungendo, dopo aver
toccato Sassoferrato, la Pergola e il Furlo, alle terre rosse di Fossombrone, s'imbatta,
nell'interno di qualche remota pieve appenninica, in una tela sulla quale gli anni, la polvere e
la secolare dimenticanza han fatto tale presa da nascondere, ormai, fin l'oggetto della pietà
pubblica. Preci ordinarie, egli sente, biasciate e lente; santi quotidiani, domestici, deposta
l'aureola, con la buona grazia di tutti i giorni dell'anno, vengono volentieri incontro a tante
afflizioni familiari: un corredo già consunto e liso dai debiti, un bambino che non cresce; a
una puerpera è 'rientrato' il latte.
Il sole continua a nutrire, di fuori, un paesaggio devoto al Creatore, dove una fissità antica ha
riempito gli occhi a Piero e a Raffaello.
Questa terra è un brano della 'Marca'; quell'ignoto dipinto è di Giovan Francesco Guerrieri da
Fossombrone [...] mai umana vicenda s'è tanto strettamente allacciata con le intenzioni di
una pittura. Non un aggettivo, quotidiano e ricorrente, che non sia passato con la stessa
inclinazione sentimentale con che venne usato nella vita, alla sostanza della realizzazione
pittorica. Che è come parlare di una sincerità visiva, libera da strutture intellettuali, che non
sorprende la semplice, realistica attesa dei committenti.
Pratica quotidiana, talora artigianale; condotta pittorica di incastro rude e scarsamente
cedevole, con quello che di serenamente, civilmente assettato questi stessi aggettivi
contengono. Una civiltà memore, decorosa e devota. L'attenzione potrà talvolta far luogo alla
diligenza,
la
cultura
all'informazione;
mai
tuttavia
l'obiettività,
anche
se sciolta
discorsivamente, alla fantasia di 'maniera'. Ad ogni parroco, che chieda miracoli da mostrare
ai poveracci, verrà corrisposto quel tanto di realtà che l'intenzione dello stesso committente
comporta, confidente narrazione di una riconoscibile 'historia', dove 1'azione cresca suoi
ritmi secondo doveri e regole della nuova cultura delle missioni borromeiane; o addirittura,
eludendo queste ultime come le accademie polverose, trovi rifugio nel particolare, fino a
rinvenirne quel tempo di posa denso di eventi spirituali che commenta dall'interno il vivere
degli oggetti, delle cose di tutti i giorni".
Una evocazione di questo genere, al limite dell'elzeviro, che non era ancora passato di
moda, raffigura bene, in ogni caso, la necessità di indagare il pittore "parrocchiale" calato
nella densità dei rapporti dovuti con la comunità e con le istituzioni che a questa per tanti
diretti e immediati versi presiedevano. Di qui transita potentemente quel gusto culturale, che
oscilla tra la forza della riforma naturalistica e il più quotidiano costume d'espressione e
d'arte, e che si dilata dopo la fine delle avanguardie romane, dopo il 1610, entro la venatura
fitta e capillare della chiesa minore.
Le storie di San Nicola del 1614
Un punto d'arrivo nel costante progresso di questa via alla "metodica" naturalistica è di certo
rappresentato dalle due tele che decorano la cappella di San Nicola da Tolentino nella chiesa
di Santa Maria del Ponte del Piano a Sassoferrato. Commissionate da Vittorio Merolli, medico
di Paolo V Borghese, esse sono citate anche nel "diario" del Guerrieri di cui - com'è noto - fa
uso il preciso Vernarecci: "mi fu pagata [la cappella] scudi quattrocento di pavoli e tutte le
spese di colori come del vitto per me et un servitore". La prima tela, quella che raffigura Il
Miracolo della canna , è più esplicita: alla firma estesamente riferita, si aggiunge l'anno di
vita, il ventiseiesimo dell'artista, e la data 1614. Fin da quando - per la prima volta - ebbi
occasione di osservare da vicino le tele, un tempo assai mal ridotte, oggi invece restaurate,
ebbi la sensazione che il Miracolo della canna ripetesse suggestioni dirette da quel
Sant'Isidoro del Caravaggio che stava un tempo in San Filippo ad Ascoli, e che, disperso, ci è
noto solo da una copia (Longhi 1943).
noto solo da una copia (Longhi 1943).
I due dipinti, così interessanti quanto ad assetto compositivo, adottano una versione in
qualche modo classicizzata, o almeno staticizzata, del naturalismo. Probabilmente, come si è
ricordato, preme su di loro la recente impresa del Domenichino a Grottaferrata, quella stessa
curiosa espressività di gesti, di attenzioni di allusioni ben orientate e finalizzate. Enorme è la
distanza, ad esempio, che separa questo modo di vedere e di raffigurare dall'altro modo, che
è un vero e proprio "vuoto di eventi" che grava sulle narrazioni romane di Guido Reni, l'astro
del momento: una specie di surplace, dal quale nasce una musicalità lievemente trascinata e
insieme sublime. Qui, nelle due tele di Sassoferrato, anche il palcoscenico, che non è mai il
cavallo di battaglia del Guerrieri, è volutamente attento, animato, prospetticamente solido. Il
gruppo degli astanti al Miracolo della canna , fra i quali appare il Merolli - probabilmente
l'amico marchigiano che tiene i contatti con la famiglia Borghese - è un brano, a suo modo,
di antologia del ritrattismo "povero" e intenzionale del Seicento. La verità che vi affiora è
quasi lombarda, la presa "diretta" sulle fisionomie sorprendente. Colui che guarda gli
spettatori, un bruno olivastro con pizzetto e la trasparente età di venticinque anni, è certo il
Guerrieri stesso. Per quanto ridotta a una funzionalità povera, nella materia, questo dipinto
intreccia precisioni psicologiche mirabili e individue, muovendo - si direbbe - la sua
mentalità evangelica e piana con un agio adattato ai luoghi della committenza, e alla cultura
di questi luoghi. Non è vasta, ad esempio, la tavolozza del Guerrieri, si muove per lo più nel
giro breve delle terre, degli ocra, dei verdi interi, con qualche cinabro che affiora - a queste
date specialmente - con la parsimonia dei poveri. Su questa trama un po' polverosa, il
corpo, lo spessore del colore, campeggiano espressivamente, il pennello evidenzia il suo
ripetersi e sovrapporsi. Il chiaroscuro, che è assai tinto, assorbe molta della luce circostante,
e così facendo crea nella solitudine rurale degli altari una gora d'ombra dalla quale
emergono volti giudiziosi, atteggiamenti devoti, e anche decise espressioni, fierezze di una
società che il neofeudalesimo ha precipitato fra rigorismo cattolico e violenza sociale.
Una vecchia lettura sul posto
"Forse non riusciremo mai a risarcire una sola opera del Guerrieri, e tanto meno queste di
Sassoferrato, dai guasti e dalle alterazioni del tempo. Già il buon canonico Vernarecci
lamentava l'abuso delle miscele oleose, sensibili agli anni. Ma è proprio nell'adozione di una
particolare dimensione dell'ombreggiatura, o meglio dello 'scuro', che par di intravedere
nell'artista provinciale l'aspirazione, purtroppo frustrata, ad un effetto della macchia di tipo
gentileschiano, per il tramite cioè di quelle gradazioni della macchia che sono i 'valori'. La
opalina, silente ombreggiatura gentileschiana, traspirante come un domestico interno che
riceva luce da alberature primaverili, viene alterata dal tempo nel suo portato più nuovo,
quello stesso che il Marchese Giustiniani farà legge sul '30, raccomandando che 'i sudici non
sieno crudi, ma farli con dolcezza ed unione; distinte però le parti oscure, e le illuminate, in
modo che l'occhio resti soddisfatto dell'unione del chiaro e scuro senza alterazione del
proprio colore, e senza pregiudicare allo spirito che si deve alla pittura...'.
Al modo che parrà 'Impossibil' al Mancini - ma non più tuttavia nella cruda oscurità della
stanza caravaggesca - qui ci si industria di cogliere, con qualche eloquenza esteriore, il
gesto del personaggio che accetta, con una sorta di fresca e antica ingenuità, di star fermo
proprio 'per lasciarsi copiare'. Forse è lo stesso Vittorio Merolli, con tutti gli eredi, presenti al
paese per la villeggiatura estiva, sgusciati giù dalla porta (e gli ultimi non han ben compreso
ancora di che si tratta), che decise di rompere il cerchio di quelle discussioni sempre più
oziose, col progredire degli anni, per mostrare finalmente 'un che rida, ò che pianga ò faccia
atto di camminare' nel contesto di un'opera che dal caravaggismo tragga, nel temperamento,
forza nuova, verso una 'naturale' dimensione del riproducibile.
Lo stesso paesaggio, al di là dell'alta balconata, pur dipartendosi dalle tiepide molecole,
misteriose e ronzanti come un evento stagionale, di che il verde si copre nelle boscaglie di
Elsheimer e Gentileschi, nella foga di una scrittura più corsiva, punta tuttavia verso un tocco
più 'gluant' che non avvenga nelle contemporanee redazioni riformate che del tocco
caravaggesco danno i settatori provinciali; curando quasi, negli slungati filamenti che il
caravaggesco danno i settatori provinciali; curando quasi, negli slungati filamenti che il
pennello distende scendendo dall'alto verso il basso, che il bianco astringa potenziale di
luce, raggrumando al vertice degli scrimoli teneri delle valli. Come, cioè, s'accentua intorno
agli stessi anni nella pittura del Saraceni l'aprire verso una rapida intuizione a carpire, come
già disse Roberto Longhi, il moto 'per carattere'; non senza che si renda opportuna anche la
citazione di quelle interpretazioni che del paesaggio i bolognesi diedero a Roma,
consegnando prototipi alla storia del classicismo.
'Ben ideate le composizioni - scrisse il Vernarecci, alludendo quasi certamente a queste tele
di Sassoferrato - le figure ben poste, mai affollate... Il disegno poi sempre, o quasi sempre,
in cima al pensiero'. E mi par fin lecito, pur sotto l'usualità di questa terminologia
accademica, rinvenire un atto critico, intuitivo della disformità fra la serrata interezza del
segno caravaggesco, e la rilassatezza di quello, spesso obliato o sottoposto alle
sopraffazioni di maniera, in uso presso la pittura accademica.
E infine l'acuta, metallica seduzione di quella natura morta, ci invita per un attimo a
riconsiderare i problemi insiti nei rapporti tra forma e colore, fra segno e 'valore', così come
si vengono configurando nella pittura destinata ad emigrare nei Paesi Bassi. Quella
flemmatica cadenza lineare, fin troppo attenta a disegnarsi sul ruvido ammattonato;
quell'ombreggiatura lunettata tutt'attorno con la trasparenza di una polvere di alluminio,
ripetono con qualche altezza di risultati poetici le più moderne intenzioni di Orazio
Gentileschi, sia pure accettando un posto, un vano ed una gerarchia assegnate loro dalla
tradizione, e non creato ex nihilo dalla nuova visione naturalistica, nel contesto della
narrazione come 'Historia'. Credo sia facile, ora, intendere come nella cultura dei primi
riformati e specialmente in questo precoce isolamento provinciale del Guerrieri, potessero
fare la loro sortita mire ed immagini di un metodo particolare. Come una fede saldamente
acquisita, la gravida eredità del caravaggismo, pur se stemperata nelle tradizioni figurative
regionali, vien conducendo per mano l'artista alla consultazione naturalistica del particolare,
mentre il problema della connessione d'insieme resta più spesso affidato alla capacità di
memoria storica, prossima o remota, che egli mostra, volta a volta, di saper possedere e
interpretare. Da tale iniziale nucleo di diligenza obiettiva si dipartono problemi nuovi, che
forse la carica umanamente profonda del Caravaggio rendeva, così come da lui risolti,
inimitabili. È soltanto con l'adozione di metodi di assonanza storica, quasi di tecnica
sperimentale, che progressivamente tali problemi verranno chiariti e talora elusi. Escogitando
cioè per la prima volta, dopo il rapido fluire degli eventi del primo decennio, una palese
metodica naturalistica che, variando il tema ed il legamento d'insieme, si prende tuttavia da
un
iniziale
nucleo
di
osservazione
del
naturale,
la
più
salda
asserzione
di
quell'insegnamento.
Chi ci saprà ridire in parole la trepida certezza con cui gli oggetti tornano, in questa prima
accademia rozza e romantica, a scoprirsi alla luce? Chi l'impaccio delizioso della materia,
così organicamente visibile e definita, quando serra negli incastri rudi e artigianali un attimo
di riconquistata verità visiva, insieme alle scorie di un insegnamento tradizionale che stenta a
morire? Ogni sorta di tramite allora par buono alla fabulazione che il sentimento, più che
l'intelletto, inizia. Del lussuoso pretesto inventato dal Gentileschi per far sì che il pennello
venga indugiando quanto più possibile a descrivere la luce discreta e rada, e in diaccia
superficie e in tenera penombra, si fan mille variazioni, scovando fin in soffitta i più ornati
abiti di casa, le collane da fiera e i pizzi campagnoli di rozzo cotone. Dell'aprire del tocco, e
dell'allargare della composizione, che fa il Saraceni sul secondo decennio, si traggono spunti
sempre buoni per una pennellata colata con delizia lunga e filata, nel gusto un po' gessoso
dell'à plat cromatico, entro lo stampo della forma rinserrata. Delle ombre portate che dan
senso di certezza a questa umanità, alla quale il lume universale aveva già tolto ogni
pensiero di esistenziale concretezza, come una giornata di pallido sollustro, si giunge a
proiettare ombra fin sulle nubi posticce che fan da trono di cartapesta alle giovani vergini.
Questa è una storia affidata, quanto mai altra, alla freschezza dei sensi: e non occorre
mortificarla con una valutazione che in altri tempi si sarebbe imposta, scorrendo tutti i gradi
di
una
positivistica
persuasione,
oziosamente
eclettica.
Ma
piuttosto comprendere
di
una
positivistica
persuasione,
oziosamente
eclettica.
Ma
piuttosto comprendere
l'appassionato tentativo di tornare a far coincidere tempi nuovi e storia remota, nel gusto di
una rievocazione romantica e quasi romanzesca della vera storia dei primi anni della nuova
intuizione figurativa.
La diafana e vitrea immagine degli stupendi affreschi della Cappella del Crocifisso in
Fabriano, il punto più alto raggiunto dall'artista sulla strada dei 'valori', nella quale s'era
specchiata tanta storia nata e presto dimenticata nella fretta degli anni carichi di vicende,
aveva lasciato luogo, come a riscuotersi dopo un silente dramma, alle grandi tele
borromeiane e 'borghesi', delle quali è espressione massima il quadro di Brera. Una
interpretazione dell'intervento superno, del gesto di fede, che a furia di voler narrare l'ora, il
luogo e la luce, finisce in una sorta di rappresentazione senza misteri, con un fiducioso
possesso della realtà che non ha luogo in una fede di dubbi e rivelazioni, ma piuttosto
discopre il primo accestire di una mente profondamente 'protestante'.
È assai probabile, nonostante quell'altera interpretazione, che a questi dipinti potesse più
facilmente rivolgersi l'attenzione del Guerrieri, dopo il secondo soggiorno romano; poiché in
essi si veniva ricomponendo un tipo di pala chiesastica di dignitose proporzioni e di direttrici
tradizionali; e fors'anche perché, dopo il bellissimo exploit della Madonna Rosei e degli
affreschi del Crocifisso, il Gentileschi pare ricordarsi, soprattutto nella Cappella di San Carlo
in San Benedetto, di qualche tratto di recente pittura romana, quale particolarmente s'era
schierata in Roma, intorno al '14, nella chiesa di Sant'Adriano, e ad opera soprattutto di
Orazio Borgianni. Nulla più, s'intende, che un lontano ricordo, una allusione spesso soltanto
inventiva; e sovente più viva nelle parti che si son sempre ritenute di collaborazione; ma quel
tanto che basta per tornare a tiro della serrata poetica del Guerrieri, attraverso la simpatia di
materie meno elette, e non nei gesti silenziosi e abbreviati di una pittura senza tempo; per
quella carica più organica della superficie cromatica, ed un tocco più romanzesco che non
fossero quelle larve soffiate via dal tempo come per l'appannarsi di un cristallo al fiato. Su
questi più corporei elementi poteva con antico agio tornare a industriarsi l'univoca vocazione
del Guerrieri, salito al rango di accolito dalla gavetta, affezionato alla vita eroica dei tempi
più difficili, patito della 'resistenza' contro le pallide insegne del manierismo nazionale,
eternamente 'protestante' contro le fortunate divulgazioni, le inutili sperperazioni dei
sentimenti della pittura chiesastica controriformistica.
Tali, a nostro parere, le conseguenze non scarse di quella civiltà che, movendo dall'ambito
caravaggesco e riformato, per la vicenda marchigiana di Orazio Gentileschi, mise salde radici
nella regione. Piccola civiltà, per buona parte affidata all'ultima fortuna della borghesia
locale, prima che la devoluzione del Ducato alla Chiesa doni nuovi orientamenti alle relazioni
e al commercio, facendo di questa provincia una plaga appartata e intristita, viva soltanto
nelle nuove cittadine costiere. Con gli ultimi anni del terzo decennio, in una col cadere delle
ultime speranze di indipendenza, è un inerte precipitare di care tradizioni, una malinconica
sera, un triste rezzo. Gli scrittori tramandano che accompagnasse quegli anni la diffusa
uggia d'un cielo eternamente chiuso e piovoso. Sono, si sa, tempi terribili per tutta Italia: e le
parole del buon canonico Vernarecci ci accompagnano, nel ricordo, quasi con un delicato
sentimento manzoniano".
Intelligenza e duttilità dell'artista
Sono questi gli anni più forti e sorprendenti del Guerrieri. Nella stessa chiesa di Sassoferrato,
un anno dopo, egli dipinge anche la pala della famiglia Volponi, dedicata alla ritrovata
liturgia della 'cintura', il soccorso che la Vergine porge a Santa Monica e al figlio suo,
Agostino d'Ippona. Si tratta - nel 1615 - di un dipinto esemplare nel quadro generale del
naturalismo italiano. La composizione, che si impianta su di un paesaggio familiare e
quotidiano, non esibisce che la severa presenza dei Santi e dei donatori, agevolmente
coinvolti in questo essere "insieme" che dona fiduciosità ed emana certezza. La struttura
pittorica è basata sui bruni e sulle terre rossastre; il senso del ritratto (penso alla giovane
donna che tutti i giorni si osserva, tra i frequentatori della messa del mattino) è anche in
questo caso psicologicamente forte, tranquillo, di una domestica vicinanza, di un affetto
questo caso psicologicamente forte, tranquillo, di una domestica vicinanza, di un affetto
accostabile e umanissimo. A fronte di dipinti come questo, collocato nel pieno silenzio di
una chiesa contadina, è stato quasi necessario -in anni ormai lontani (quando il fervore degli
studi era tutt'uno con il voler consistere di una visione sociale più animosa, o soltanto più
fiduciosa) - credere che il valore salvifico, la dimensione evangelica ed illuminante del
naturalismo di tradizione caravaggesca, abitasse proprio in un'Italia minore e sperduta,
ricacciata entro le valli appenniniche ed inseguita fin nel profondo dell'emarginazione. La
stessa che negli anni della nostra giovinezza - ormai invadeva i casolari solitari, i campi
abbandonati, le chiese silenziose.
Fu allora come divenisse possibile, alla nostra formazione intellettuale e anche politica e
sociale, tracciare un immaginario museo di tutti coloro che avevano adottato schemi
sentimentali e anche stilistici simili, o analoghi soltanto; di tutti coloro che, transfughi di una
cultura aggredita e sbandita, avessero adottato - proprio come il miglior Guerrieri
"contadino" - la sapiente familiarità del quotidiano, inteso però non come la cordialità dei
bolognesi, quanto piuttosto con la ferma severità di chi arresti, o tenti di arrestare, un
evento esistenziale unico: capace cioè di ripetersi ogni volta nei volti, nel paesaggio
circostante, nei gesti pacati e ampi, senza mai divenire "tipicità" e accademia, sia pur del
naturale. Se ripenso a quei mesi, rivedo, puntualmente, con gli occhi di un viaggiatore forse
esigente, certo volenteroso, i dipinti abruzzesi nelle enclaves lombarde di Fara o di
Pescocostanzo, la Circoncisione e la bella Madonna del Fuoco di Tanzio da Varallo. Penso di
avvicinarmi alla Circoncisione di Orazio Gentileschi nel Gesù di Ancona, illuminare il
Crocifisso con San Francesco di Nicolò Musso a Casale Monferrato; cercare la luce della
Visione di San Francesco del Borgianni a Sezze Romano, oppure della sua Sacra Famiglia
oggi a Palazzo Barberini; intimidirmi alla scoperta dell'Hontorst bellissimo dei Cappuccini di
Albano, o del Saraceni del Suffragio di Cesena, e stupirmi della straordinaria realtà dei
riminesi, del Centino e infine della Madonna con Santa Margherita e Santa Maria Maddalena
di Guido Cagnaccio La quale, alla porta marchigiana di Rimini, verso la Colonnella distrutta
dalle bombe, sembrava davvero voler riproporre al Cantarini, già più che avanzato nell'arte
dietro l'incoraggiamento di Guido Reni, che la strada più vera era ancora quella della sua
giovinezza, la realtà della vita e il succedersi degli eventi, generazione dietro generazione,
senza metafore che non fossero il battere calmo e solenne della luce vera che discende da un
cielo non metafisico.
La commessa di Marcantonio Borghese
Ho già ricordato il vero senso di disagio che, nel pieno di una stagione come quella che ho
cercato di narrare, provocò in me il saggio puntuale, aggiornato e documentatissimo di
Paola Della Pergola; più ancora l'esistenza stessa di un artista improvvisamente mondano ed
elegante quale inopinatamente il Guerrieri volle mostrarsi dall'alto del fregio delle tre stanze
decorate, fra il 1615 e il 1618, in Palazzo Borghese a Roma. Il disappunto fu in me
consistente, tanto più che il volumetto che Francesco Carnevali, mitico direttore dell'Istituto
Statale d'Arte di Urbino, mi aveva voluto affidare, sostava da un paio d'anni in bozze per
qualche sventura amministrativa; e ci sarebbe rimasto fino al 1958. Per chi aveva concepito
la ricerca marchigiana tutta fra l'estate del 1954 e l'intero 1955, sembrava, in certo modo,
offuscarsi il volto terrestre e quella stessa dimen sione provinciale del Guerrieri che più
voleva amare. E che era anche l'unico conoscibile, poiché - ripeto - le decorazioni di Palazzo
Borghese erano e restano un episodio molto compatto e irripetuto se non per episodi
parziali o minori.
In quei tre anni il Guerrieri, che presumibilmente era protetto dal Merollo, il sentinate medico
di Paolo V Borghese, diede sviluppo ad un saggio di pittura internazionale e di iconografia
operante. I fregi raffiguranti il Parnaso, il Trionfo della Religione , il Trionfo delle Scienze e il
Trionfo delle Virtù (tutti nella seconda sala) in modo del tutto speciale - ma poi anche le
decorazioni della sala III al piano nobile - costituiscono un repertorio di straordinario
interesse sotto il profilo dei contenuti allegorici e iconografici. "L'interesse che simile
repertorio iconologico presenta - scriveva P. Della Pergola - e non solo per gli affreschi del
repertorio iconologico presenta - scriveva P. Della Pergola - e non solo per gli affreschi del
Guerrieri, ma per la cultura del primo Seicento, non può sfuggire ad alcuno. Il Guerrieri
semplifica gli attributi dei simboli, anche perché le immagini non sono, per la sua
decorazione, isolate ma vengono concatenate in un insieme che ha altro intento di
glorificazione. Sono tutte cioè subordinate alla gloria più alta commessa da Marcantonio
Borghese". Questi, principe di Sulmona, era il nipote eletto a rappresentare il primogenito
della nuova potenza familiare. Nell'abbondante bagno culturale ed allegorico, se massicce
sono le citazioni dal Ripa (il quale, come si ricorderà, ristampò a Siena nel '13 una seconda
edizione di quella romana, ridotta e mutilata quando fu diffusa, e cioè nel 1603), altrettanto
frequenti sono le immissioni figurative, così storiche che più recenti. L'ambito generale è
certo quello gentileschiano, la cui chiarezza e trasparenza sono in fondo doti che
consentono di allacciare il naturalismo chiaroscurato e deciso del caravaggismo alle
dominanti "senz'ombra" ereditate dagli interminabili elenchi metaforici del manierismo. Ma
affiorano concomitanze ancora da sceverare, tuttavia palesi, come quella che individua
nell'invenzione e nell'esecuzione delle figure dello Studio una cadenza vicina al Maestro del
Giudizio di Salomone; oppure, in altri luoghi, suggestioni dal Cigoli, dal Rosselli o
dall'Empoli; nonché dai bolognesi romanizzati, come Domenichino - una passione già nota oppure certi aspetti donneschi di Guido Reni; per non dire infine del Cesari e del Baglione.
Con questo scritto minuzioso, il Guerrieri entrò di colpo e inaspettatamente nel novero dei
protagonisti del secondo decennio, aspirando addirittura ad altre illustri attribuzioni - per noi
tuttora difficoltose - come quella del Lot con le figlie della Galleria Borghese. Ne uscirà però
alla fine del 1618 per non rientrarvi mai più, confinato in una provincia solitaria di cui la
storia politica scandisce con amarezza l'uscita di scena, con uno straordinario senso di
dignità del passato storico. È la stessa dignità che animava le pagine di Bernardino Baldi e
che ancor più intimamente si annidava entro l'identificazione cristologica di Federico Barocci
e del suo paesaggio urbinate. Di tutto il resto della vita del Guerrieri parlerà oggi, come è
giusto, soprattutto questo nuovo e più completo volume, che l'amicizia di Franco Battistelli
ha ideato e agevolato in tanti modi. Essa è punteggiata con frequenza da opere e da citazioni
documentarie, si lascia seguire come un complice itinerario sentimentale fra Marche e
Romagna sulle paginette ingiallite del prezioso volumetto di don Augusto Vernarecci. La vita
del Guerrieri si chiuderà - l'abbiamo appreso solo di recente, per merito di un altro
ricercatore fossombronese, don Giuseppe Ceccarelli - il 3 settembre 1657 a Pesaro, dopo
una penosa decadenza fisica. La sua scomparsa segna, in qualche modo, i confini delle
mutazioni del gusto e della cultura figurativa della tarda età barocca nelle Marche.
Giovan Francesco Guerrieri: dopo il 1618, la vita a Fossombrone
Le lettere recentemente ritrovate negli Archivi Vaticani non hanno sottratto drammaticità ai
giorni della morte di Caravaggio, ed anzi hanno caricato il modo di quella disperata ricerca
delle opere trafugate e perdute. Non sappiamo se Guerrieri visse l'eco del dramma nelle
strade di Roma, lui che a Roma era giunto proprio all'atto dell'esilio del Caravaggio e che
dunque non aveva mai avuto la possibilità di vederlo. Anche se così insistentemente legato
ai pittori della prima generazione, e specie al Gentileschi e a Borgianni, il Guerrieri
appartiene alla seconda generazione e di essa, per l'intero secondo decennio, ne descrive
temi e problemi. Il ritorno a casa, sul finire del 1618, dovette avere per molti versi l'aspetto
di una liquidazione di età e di costume, quasi preannunciate in fondo dall'arcaica
progettazione delle decorazioni di Palazzo Borghese e da quella loro immobile rievocazione
di un tempo mitologico, iconologico e sapienziale ormai defunto.
Per chi debba affrontare l'intero arco dell'esperienza del Guerrieri, la sua vita matura e più
intensamente produttiva inizia proprio dagli anni Venti, e percorre più di tre decenni dentro
una vicenda che non si può chiamare altro che feconda, perfino ammirevole. Se abbiamo
insistito minuziosamente a riguardo delle prime esperienze romane e marchigiane, ciò è
avvenuto soprattutto per l'importanza incisiva di quegli anni, e per il riflesso che quelle
esperienze gettavano su di un pittore giunto giovanissimo dalla periferia italiana, così da
provocarne reazioni e suscitare congiunzioni. Entrare nella piena luce del palcoscenico
provocarne reazioni e suscitare congiunzioni. Entrare nella piena luce del palcoscenico
romano del primo decennio, calcarne in qualche modo la scena, reggendo del resto molto
dignitosamente la tensione, è già impresa forte. La versione romantica e drammatica
scaturita dall'approccio al naturalismo, maturato anche attraverso altri modelli di cultura ed
anzi incrociato tra i flussi che giungono da diverse componenti italiane, è decisamente
importante: e per noi ha anche il significato di investire il territorio artistico marchigiano (e
probabilmente anche romagnolo) di una voce narrativa,piana e forte, senza cantilene. Una
voce che continueremo ad ascoltare per molto tempo e che risuonerà per giunta nella
memoria stilistica più immediata, da Cantarini a Cagnacci e al Centino.
Il repertorio delle opere, che in questo libro è stato disteso con qualche volontà didattica e
che appare dunque abbastanza minuzioso, può render conto delle numerose varianti che si
preparano ad irrompere nello studio del Guerrieri già al suo ritorno da Roma, alla fine del
1618. Ciò ci esime forse dal percorrere dipinto per dipinto questo lungo, ammirevole tratto
di cammino. C'è di più: la personalità stilistica dell'artista, come già in altre occasioni
abbiamo detto, ha caratteri di concreto, veloce assorbimento stilistico, ma non testimonia
sempre di una coerente velocità o sollecitudine di reazione. Anzi, affiorano ora dipinti che
hanno la fortuna di conservare una datazione positiva, una firma o un documento, in grado
così di collocarsi a ridosso di altre opere che però non ne condividono sempre le costanti.
Così, si potrebbe scambiare per bolognese o addirittura guercinesco, come è già accaduto in
altri tempi, quel San Michele Arcangelo della Pinacoteca di Fossombrone, che invece rivela ad una migliore attenzione - una data precocissima, il 1624; segno evidente che quel
disegno fluido e quel cromatismo trasparente sono forse sintomi di una non ancora cessata
influenza gentileschiana. Ciò non toglie però che la sorpresa sia consistente e che il timore
di qualche altra chigane sia verisimile.
Si direbbe che l'intero terzo decennio sia dominato dalla necessità di dare più elevata
risposta alla fortuna che, dal nord padano, si impone a Fano soprattutto, con la forza
indiscutibile di artisti come Domenichino, Bononi, Tiarini e Guido Reni: per non dire della
qualità assoluta delle opere di costoro, della tempestività dell'occasione di cultura. Un
quadro come l'Estasi di San Paterniano di Bononi, e a quelle date, è impressionante
sull'orizzonte nazionale. La pala con i Santi Orso ed Eusebio della Cattedrale di Fano, che
Ludovico Carracci firma nel 1612, defluisce lentamente, e però riconoscibilmente, dentro la
struttura organica della natura del Guerrieri, quasi portando a maturazione quei sintomi di
più strutturata organizzazione del disegno e del panneggio, che peraltro l'imitazione del
Domenichino aveva già messo a dimora nel 1614, a Sassoferrato. Intorno al 1622 o poco
oltre, il Guerrieri mostra segni di consistente evoluzione, come nella Santa Caterina da Siena ,
di Fossombrone; e più tardi, nella bella e inedita pala di casa Anselmi ad Arcevia, il cammino
mostra di essersi aperto nel frattempo anche in un confronto con Lanfranco. È un peccato
che il pittore marchigiano non sia più a Roma, avrebbe potuto soggiornare anche lui con il
Guercino, questo giovane talento vivente, e con il Cagnacci ed il Serra, magari anche lui in
casa di Simon Vouet. E tuttavia, anche senza questi impulsi, il Guerrieri non abdica a
conseguenze di stile tali da far supporre che le sue informazioni non fossero davvero quello
che noi ameremmo riconoscere servendoci di un moderno concetto di provincia, ma che anzi
mantenessero legami e rapporti durevoli.
Così, l'intera decorazione della cappella di San Carlo in San Pietro in Valle a Fano, che
vorremmo collocare proprio intorno al 1630, o giù di lì, con quel suo ritorno di gusto
cromatico, con quel suo disegno più attento e rifinito, non può mancare di rinviare a Carlo
Saraceni e alla sua perdurante attività. La revisione del catalogo che questo libro ha reso
possibile, ci ha messo dinanzi dipinti e pale d'altare che un tempo erano, per noi, affidati
soltanto ad un'occhiata partecipe, ma frettolosa, come quella di chi è stretto nei tempi
precari di sopralluoghi difficili e condotti senza mezzi. La statura del Guerrieri ne esce oggi
molto esaltata, il rilievo e l'autorevolezza che il pittore fossombronese ne consegue sono
davvero consistenti. Quel che più è possibile notare, ed è insieme utile per altri sviluppi non
imprevedibili, ci riconduce in ogni modo dalla parte di un artista che ha costruito il suo
mondo sfiorando ai suoi giorni migliori la novità caravaggesca, e traendone comunque una
mondo sfiorando ai suoi giorni migliori la novità caravaggesca, e traendone comunque una
sua bellezza artigiana del naturalismo, mettendo cioè in luce incastri e à plat cromatici, fino
a denudarne l'onesta meccanica combinatoria. Era il naturalismo dei poveri, solo tangente
all'onda d'urto del sussulto del Caravaggio, misurato con un'economia e anche con una
poetica parrocchiali, di devozione e di liturgia intimamente moderne, e dunque proprio per
questo pronte a chiedere un prodotto riconoscibile, intellettuale, umano.
Tutta la lunga attività matura del Guerrieri declina su questa prima adesione il suo successivo
linguaggio, motivandola comunque con ricchezza di apporti e anche di personali diverse
esperienze. Difficile dire che cosa sia, fuori dai centri del potere economico, l'effettiva
autonomia della cultura artistica già nel Seicento avanzato, e cioè nella fase discendente di
quella transizione che cominciò intorno al 1580, e nelle Marche ancor più esattamente - nel
1579, l'anno straordinario di quella Deposizione di Cristo nel sepolcro che Federico Barocci
aveva eseguito per la chiesa di Santa Croce a Senigallia. Giovan Francesco Guerrieri sembra
rispondere oggi, dalla più folta sequenza dei suoi dipinti, che questa autonomia certo si era
lentamente, progressivamente annullata; ma che però anche la nozione incerta di periferia
urbano-rurale, nuovamente motivata peraltro da condizioni culturali e di liturgia, poteva
alimentare una vita di alta dignità e soprattutto di spesso straordinaria cultura. Pur nella
mobilità interattiva ed anche intima, Guerrieri conserva la salda moralità dell'artista nato al
lavoro in quei primi anni del secolo, quasi una rivelazione giovanile per un linguaggio rude e
comprensibile. Allineato negli anni e nei decenni, contraddistinto anche da un consistente
codice di recuperi e di precedimenti, di memorie e di intuizioni, la lunga carriera pittorica
del nostro continua a saldare la propria complessa immagine su quella altrettanto difficile di
un paesaggio sociale e culturale in crisi. Il livello di restituzione è molto alto, proprio perché
elevato è il grado di evocazione, potente la sua natura poetica, sensibile il suo sentimento
del luogo.
"Quanto potrà ancora durare la libertà mentale di Giovan Francesco Guerrieri, ora che anche
il trapasso da una indipendenza, sia pur solo formale, al dichiarato dominio della Chiesa, ha
sancito l'abbandono di quel paese intristito; ora che sempre meno si costruiscono chiese, si
decorano altari; ora che anche Urbino è vuota, scomparsa la dotta e antiquaria cultura di
Francesco Maria II, evacuati gli innumeri capolavori del Rinascimento attraverso i boscosi
valichi di Toscana; e poche orme risuonano a lungo nell'enorme Palazzo, non è facile dire.
Esigenze familiari si fan sempre più vive; cresce il numero, già tanto alto, dei figli: pochi
acquistano quadri, e son cosette da far controvoglia, pensando ai bei tempi, con un gusto
contrito e acre. Fino al 1636, a giudicare dalla paletta con la Madonna che porge il Bambino
a San Francesco , oggi nella Passionei di Fossombrone, perdurano i tratti di una antica
parsimonia... Il risultato che ne deriva potrebbe essere veritieramente fissato con le parole
del Lanzi, scritte per il Sassoferrato, che forse di questa nuova dimensione conseguita 'per
difetto' è il testimone più diretto e interessato: 'Il suo dipingere è di pennello pieno, vago di
colorito, rilevato di bel chiaroscuro: ma nelle tinte locali un po' duretto'.
[...] A questo punto, in verità, termina la vera storia della carriera poetica di Giovan
Francesco Guerrieri. Ma nell'appartata solitudine del suo tardo operare, nel tentativo di
riportarsi alla luce dei fatti artistici più importanti della regione, almeno una fiduciosa
moralità, seppure toccata dalle sventure, continua a durare. Come fosse una diligenza antica
di secoli, una pulitezza mentale spontanea, a risospingerlo al lavoro, ogni mattina, sempre
per gli stessi committenti, parroci malvestiti e assai poveri delle pievi del forese. E, in fondo
a tutto, ancora quelle poche oneste letture, il 'Leggendario dei Santi' e i 'Reali di Francia'.
Qualche pensiero di più, non che fossero ambizioni; ma, come il sarto manzoniano, se mai
avesse potuto studiare, chissà...?".
Abbiamo riprodotto qui, in finale di scheda bio-bibliografica, e di narrazione del problema
critico, la "scena" finale del nostro vecchio scritto del 1954-55, edito nel 1958, proprio per
far constatare con mano quanto diverse fossero le conoscenze storiche del problema, e
animosa l'interpretazione di valore sociale che se ne dava. L'accertata continuità di lavoro del
Guerrieri fin oltre il 1650 e la maturità ulteriore che egli rivela nelle opere terminali,
dipingono una diversa vecchiaia, in opposizione - in fondo - anche con i documenti
dipingono una diversa vecchiaia, in opposizione - in fondo - anche con i documenti
biografici superstiti. Ciò che tuttavia può resistere nel tempo è, una volta ancora, la forte
capacità che il Guerrieri ha di portare con sé, dentro la propria opera pittorica, la condizione
intera di un paesaggio di crisi.
Fonte: Andrea Emiliani , 'Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone', Catalogo delle opere,
1997, Elemond Editori Associati per la Fondazione Cassa di Risparmio di Fano.