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RASSEGNA STAMPA
venerdì 15 maggio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere Sociale del 15/05/15
Forum del Terzo Settore: “Il non profit e le
politiche culturali”
ROMA – Si terrà giovedì 21 maggio, dalle 10.30 alle 13.00, presso Sala Convegni del
Senato, piazza Capranica 72, l’incontro pubblico “Il non profit e le politiche culturali”.
L’iniziativa è promossa dal Forum del Terzo Settore, in collaborazione con Arci, CTSCentro Turistico Studentesco e Giovanile, Legambiente, Touring Club Italiano, UNPLIUnione Nazionale Pro Loco d’Italia, e con il patrocinio di: CAE-Culture Action Europe. A
coordinare il convegno sarà Pietro Barbieri, portavoce Forum Nazionale del Terzo Settore.
di Mirella D’Ambrosio
http://sociale.corriere.it/appuntamento/forum-del-terzo-settore-il-non-profit-e-le-politicheculturali/
Da Redattore Sociale del 14/05/15
Terzo settore, sulla riforma sfilza di audizioni
anche al Senato
Dal Forum terzo settore alle Acli, passando per Arci, Convol, Co.ge.,
Uisp e Banca Etica, sono già 16 le organizzazioni “prenotate” per essere
ascoltate in audizione dalla Commissione Affari Costituzionali. I
senatori: “Necessario approfondire”
ROMA – Per il momento si sono prenotati in 16, ma già si annunciano ulteriori richieste e
la lista è quindi destinata con certezza ad allungarsi. Anche al Senato, come già era stato
alla Camera, prima di entrare nel merito della discussione sul testo della legge delega che
riforma il terzo settore ci sarà spazio per le audizioni di esperti, singoli, associazioni e
realtà del non profit. A Montecitorio erano state molte e approfondite, saranno ripetute al
Senato anche perché – come fanno notare alcuni senatori – il testo nel frattempo è
cambiato assai e ascoltare i protagonisti del terzo settore diventa nuovamente necessario.
Ieri pomeriggio, in Commissione Affari costituzionali, la presidente Anna Finocchiaro ha
informato che il Gruppo Lega Nord ha chiesto di sentire i rappresentanti della Consulta
nazionale dei comitati di gestione dei fondi speciali per il volontariato (Consulta Co.Ge.),
mentre dai senatori del Gruppo Misto è arrivata la proposta di audire un vasto numero di
sigle: Forum del terzo settore, Arci, Federazione delle cooperative sociali, Cgil, Cisl e UiL,
Fair trade, Convol, Acli, Settore della cooperazione sociale della Lega delle cooperative,
Uisp, Movi, Banca Etica, oltre a Gianpaolo Barbetta (Università Cattolica di Milano) e
Andrea Bassi (Università di Bologna).
Finocchiaro ha dato tempo fino al prossimo martedì 19 maggio, per comunicare ulteriori
nominativi di esperti che si intendono convocare in audizione. E le proposte arriveranno,
se è vero che sia il senatore Mario Mauro (Gal) sia la senatrice Lo Moro (Pd) hanno
anticipato che i rispettivi gruppi lo faranno. (ska)
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del 15/05/15, pag. 5
Padova, fiaccolata contro gli immigrati
Razzismo. Sindaco leghista e centrodestra contro il possibile arrivo di
nuovi profughi. E il Pd cittadino sta a guardare
Ernesto Milanesi
Temporale, soprattutto politico, nella città che da sempre è identificata da storici «foresti»
(Giotto, sant’Antonio, Galileo). Stasera sono in programma due manifestazioni e Padova è
già un «caso» sul fronte dell’immigrazione. Alle 19.45 giusto di fronte a palazzo Moroni e
al Bo si è data appuntamento la maggioranza silenziosa convocata da Massimiliano
Pellizzari, commerciante schieratissimo con il centrodestra che amministra la città da un
anno in aperta polemica con magnifici commendatori dell’Università e lobby post-dorotee.
Alle 19 in piazza Garibaldi invece si sentiranno voci, ragioni e cuore di «Padova accoglie»:
la cooperativa sociale Percorso Vita, la Casa dei diritti don Gallo, Arci, A braccia aperte,
Beati costruttori di pace, Asu, Adl-Cobas, Mimosa, Ya basta, Legambiente, il centro
sociale Pedro, Razzismo Stop e Anpi mobilitati da giorni in alternativa alla fiaccolata
fascio-leghista. È anche campagna elettorale, soprattutto per la Lega del sindaco Massimo
Bitonci che cavalca a colpi di ordinanza il «respingimento» di chi è appena sbarcato.
«Un’invasione, qual è quella di questi cosiddetti profughi che in realtà sono quasi tutti
clandestini, non si accoglie, ma si respinge. È come se, quando avevamo i barbari alle
porte, avessimo fatto loro strada invece di combatterli» tuona anche per replicare al
vescovo Antonio Mattiazzo e alle cronache dell’Avvenire. Sintomatica l’imbarazzante
confusione che regna nel Pd, incapace di metabolizzare la sconfitta elettorale e il definitivo
tramonto del «ventennio Zanonato». I giovani segretari Antonio Bressa e Massimo Bettin
non hanno aderito all’appello lanciato da don Albino Bizzotto e da chi quotidianamente si
preoccupa dell’accoglienza. Ed è ancora difficile da archiviare il proclama di Francesco
Vezzaro, sindaco Pd di Vigodarzere, pronto a dimettersi se fossero arrivati i migranti di
Lampedusa: esattamente in sintonia con Bitonci… E stasera — diluvio permettendo — la
fiaccolata si snoderà lungo le piazza e il centro storico per approdare sotto le finestre del
prefetto Patrizia Impresa che è nel «mirino» insieme al governo Renzi. Sindaco, assessori
e consiglieri di maggioranza dovrebbero essere alla testa del corteo «benedetto» dal
governatore Luca Zaia in cerca di conferma nelle urne. Poi partirà la manifestazione antirazzista che ha incassato l’adesione politica dei consiglieri di Padova 2020, insieme a Sel
e Rifondazione. Ma in piazza si vedrà di nuovo la «Padova degna» che serve la cena in
piazza ogni estate, si offre volontaria quando la «sussidiarietà istituzionale» fa un passo
indietro, accompagna chiunque abbia bisogno, resta fedele al diritto di cittadinanza. «La
fiaccolata che vedrà in prima fila il sindaco rappresenta un’aggressione alla vera anima dei
padovani, che è da sempre aperta, accogliente, solidale e fraterna, nonché un insulto ad
una città volenterosa, che si vuole marginalizzare e immiserire con l’odio e la paura»
affermano i promotori dell’iniziativa in piazza Garibaldi. Padova, simbolo della Lega di lotta
e di governo, sembra finalmente pronta a girare pagina. Ben al di là degli interessi
elettorali di Alessandra Moretti e Flavio Tosi che infatti continuano a preferire i «meeting
blindati»…
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Da Redattore Sociale del 14/05/15
Ponte Mammolo, le associazioni:
“Accoglienza non per tutti, in 100 ancora per
strada”
Sbrigativo e senza preavviso, le associazioni A Buon Diritto, Amnesty
International, Arci, Asgi, Medu e Prime Italia puntano il dito contro lo
sgombero di lunedì scorso a Roma. “Agli abitanti nessuna notizia su
data e demolizione delle abitazioni”
ROMA – Uno sgombero lampo, con “conseguenze anche drammatiche” e per circa un
centinaio di persone ancora niente accoglienza, solo la strada. È questo la situazione
attuale a Ponte Mammolo, periferia nord est di Roma, dove si trovavano circa 400 persone
tra profughi eritrei, immigrati dell’Europa dell’Est, e di altri paesi sgomberati lunedì scorso
dall’insediamento che sorgeva a due passi dalla fermata della Metro. A denunciare
l’attuale situazione, un comunicato congiunto di A Buon Diritto, Amnesty International,
Arci, Asgi, Medici per i diritti umani (Medu) e Prime Italia. “La rapidità con cui è avvenuto lo
sgombero della baraccopoli ha causato delle conseguenze in qualche caso drammatiche –
spiegano le associazioni -. Nel corso dell'operazione, svoltasi in maniera repentina, molti
degli abitanti non hanno avuto neanche il tempo di portare via i propri documenti ed effetti
personali. E chi è riuscito a recuperare qualcosa ha avuto pochi minuti per farlo”.
Un insediamento di cui, secondo le associazioni, si è parlato “in diverse sedi istituzionali”
da qualche anno per trovare “una soluzione abitativa dignitosa”, finito però in uno
sgombero “sbrigativo” e senza preavviso. Un contesto che vedeva impegnate anche le
associazioni in percorsi di fuoriuscita. “Le associazioni che a vario titolo seguivano i
migranti lì residenti si erano riunite più volte per avviare un percorso di uscita dalle
occupazioni e di inserimento in altre strutture cittadine – spiega la nota -. Un modo di
procedere che teneva conto delle diversità tra i diversi gruppi di abitanti, il tempo di
permanenza presso l'insediamento e le loro aspirazioni. Ma la sbrigatività con cui
l’intervento delle forze dell’ordine si è svolto ha reso vano ogni tentativo di mediazione. E
la maggior parte delle testimonianze raccolte vanno in un unico senso: le persone
sapevano che prima o poi sarebbero state sgomberate, ma non avevano mai avuto notizia
né della data né della demolizione contestuale delle loro abitazioni”.
Critiche anche sul piano di accoglienza per gli sfollati del comune. “Nonostante si sia
parlato di un piano per l'accoglienza degli sfollati – spiegano le associazioni -, nella pratica
ciò non è avvenuto per tutti. E, sin dalla notte dell'11 maggio, circa 200 persone hanno
passato la notte all'addiaccio”. E la situazione non sembra essere migliorata a qualche
giorno dallo sgombero. “La situazione attuale è la seguente – spiegano le associazioni -:
oltre un centinaio di persone si trova nel piazzale di fronte all'area sgomberata, assistito
dalle associazioni che a turno forniscono i pasti. Medici per i diritti umani (Medu) è
presente con la clinica mobile portando assistenza sanitaria”. Una situazione che, secondo
l’associazione, “determina preoccupazione tra i residenti della zona”. Al Comune di Roma,
infine, la richiesta di “valutare la condizione delle persone lì presenti e provvedere al più
presto a una loro sistemazione – spiega la nota -, tenendo conto delle diverse condizioni e
delle specifiche vulnerabilità e considerando anche la possibilità di realizzare strutture di
transito per i migranti forzati, come è già accaduto in altre circostanze e come accade in
altre città”.
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Da Repubblica.it (Genova) del 14/05/15
Crowdfunding stile Arci, paghi e vinci
sempre: anche il pranzo di nozze
Tante idee,un teatro che va a mille ma anche un debito difficile da
ripianare E allora via alla moderna versione della colletta:fa bene anche
a chi paga
di MICHELA BOMPANI
All'Arci Belleville il crowdfunding è anche uno scambio servizi
SE doni 30 euro, e ti suonano alla porta, sarà il maestro di rilassamento guidato, a
disposizione per un’ora. Se sei più generoso e arrivi a 60 euro, arriva a casa, per due ore,
l’insegnante di danze popolari francesi. Se sei più fortunato, poi, un esperto ti farà
manutenzione nel tuo pc per un intero pomeriggio. Oppure, un fotografo esperto in esterni
ti scorrazza per un pomeriggio nel centro storico e ti insegna le angolazioni più ripide. Con
150 euro, ti arriva il cuoco a casa e cucina una meravigliosa cena di tre portate per quattro
persone. Oppure c’è l’opzione “ mago delle parole” che organizza una serata per quindici
bambini a costruire storie, con lettura finale, anche un po’ paurosa, a mezzanotte. Chi
esagera, e ci mette 2000 euro, vince l’intero servizio catering per le nozze.
Il crowdfunding, così, non lo aveva (quasi) mai fatto nessuno. Almeno a Genova.
Se lo sono inventati quelli del Circolo Arci Belleville, confluiti nella gestione del Teatro
Altrove, cuore pulsante delle idee e della cultura nel quartiere della Maddalena, nel centro
storico.
Idee, appunto. «Se la gestione del Teatro Altrove va bene - spiega Vanessa Niri, tra i
promotori dell’iniziativa - ci stiamo trascinando un debito di 7000 euro. Proprio per salvare
il Teatro Altrove, avevamo deciso di accollarci il debito residuo dell’associazione che lo
gestiva prima di noi e non aveva più risorse per continuare. Lo abbiamo ridotto, dalla cifra
iniziale, oltre 30.000 euro, siamo stati bravi, ma vogliamo esaurirlo del tutto, non avere più
pesi e proseguire il nostro lavoro all’Altrove pensando solo al futuro ».
Ecco dunque l’idea del crowdfunding, ma reinterpretato, come sono abituati a fare
all’Altrove. «Invece di regalare spilline e gadget - aggiunge Vanessa abbiamo deciso di
regalare, in cambio di donazioni, le nostre capacità. Ci sono cuochi, educatori, artisti,
fotografi: insomma per ringraziare chi ci aiuterà abbiamo pensato che sarebbe stato bello
regalare un pezzo di “noi”, di quello che facciamo e che sappiamo fare meglio».
La raccolta fondi è partita due giorni fa e si stanno già facendo avanti i primi donatori:
soltanto chi arriverà per primo, nelle varie quote, potrà “vincere” gli speciali regali di
ringraziamento. Per partecipare all’iniziativa,
occorre andare sulla piattaforma www.produzionidalbasso. com e cercare “Liberi dal
debito per investire su partecipazione, cultura e socialità”.
«Viviamo senza contributi pubblici e solo grazie all’impegno di decine di volontari - indica
Vanessa- vorremmo investire maggiormente per rendere più accessibili concerti e
iniziative culturali a chi si trova in condizioni di difficoltà, non solo nel quartiere».
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/05/14/news/crowdfunding_stile_arci_paghi_e_vin
ci_sempre_anche_il_pranzo_di_nozze-114332956/
Da NextQuotidiano.it, Varese7press.it e VareseNews.it del 09/05/15
La storia di un profugo
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Lettera di Mauro Sabbadini, vicepresidente provinciale Arci
Egregio direttore,
oggi vorrei raccontare una storia, ambientata nell’Europa del XX o del XXI secolo, non
importa molto. Tutto comincia con una giovane coppia che lascia la propria casa per
fuggire alla guerra, alle persecuzioni e naturalmente alla povertà seguita alla guerra: il
paese da cui scappano è la Polonia, la guerra è quella del ’14 -’18 e il paese scelto per
costruire una nuova vita sarà il Belgio; qui, nel 1924 hanno il primo figlio, Adolphe, che più
avanti sceglierà di chiamarsi Ralph. Nemmeno il tempo di iniziare il racconto e arriva una
nuova guerra: la giovane coppia non è solo polacca ma anche ebrea e, con l’arrivo
dell’esercito nazista, non c’è scelta se non divenire nuovamente profughi, attraversare il
mare con un’imbarcazione di fortuna, da Ostenda a Dover, proprio nei giorni della battaglia
di Dunkirk, su una nave stracarica e con gli aerei della Luftwaffe che danno la caccia alle
navi in fuga lungo tutto il Canale. Due adulti e due bambini, che sfidano l’annegamento, la
povertà e i gli aerei tedeschi perché solo in questo vedono una speranza per il futuro.
Superata la Manica verranno accolti in qualche modo, sperimentando sia la solidarietà di
alcuni, sia l’antisemitismo di altri. Così come la miopia di chi crede che non valga la pena
fare una guerra per difendere il Belgio o la Francia dai nazisti che, in fondo, non avevano
attaccato l’Inghilterra per primi. O di chi pensa che, con una guerra in corso, non ci sia
spazio per accogliere profughi.
Ma il giovane Ralph non è tipo da farsi scoraggiare: impara l’inglese, finisce la scuola e
parte volontario con la Royal Navy, da straniero, con l’idea di aiutare a liberare il paese
dove è nato e nel quale, ironicamente, è ancora considerato straniero.
Ralph, che negli anni successivi si opporrà con forza a nuove guerre, fa il suo dovere di
marinaio di leva e ne viene ricompensato con la cittadinanza britannica, nel ’46 si iscrive
alla London School of Economics, l’università privata creata decenni prima dai sindacati e
dalla Fabian Society per dare al Regno Unito una scuola che contribuisse a cambiare
l’ideologia imperiale della Gran Bretagna del capitalismo ottocentesco. Diviene così
professore di filosofia e di scienze politiche, divenendo negli anni ’60 uno dei principali
filosofi inglesi; oltretutto un filosofo particolare: marxista, rivoluzionario, fra le voci più forti
di quella che doveva venire ricordata come la New Left britannica.
Un “ospite” che inneggia alla rivoluzione? Sì, eppure nessuna persona di buonsenso lo
accusa di essere uno straniero che dovrebbe ringraziare per l’ospitalità, anziché
inneggiare al sovvertimento della monarchia. A pochi anni dal suo arrivo temerario Ralph è
un cittadino come un altro, sia per chi condivide le sue idee, sia per chi le osteggia.
Ralph Miliband morirà per problemi cardiaci nel 1994, troppo presto per sapere che suo
figlio maggiore David sarebbe divenuto Segretario del Foreign Office (ministro degli esteri)
o che il minore, Ed, avrebbe fatto il leader dell’opposizione per 5 anni, dimettendosi solo
dopo aver sfiorato la possibilità di diventare Primo Ministro.
Negli ultimi tempi ho ripensato molto a questa storia, è simile per alcuni aspetti ad altre
che hanno avuto impatto sulla politica mondiale degli ultimi anni: l’ex presidente francese
Nicolas Sarkozy, l’ex segretario di stato USA Madeleine Albright, l’ex vicecancelliere
tedesco Philipp Roessler, hanno tutti un passato che nasce da storie di profughi e rifugiati
di guerra. E già questo ci interroga: probabilmente nascere lontani dal proprio paese per
effetto dell’ingiustizia spinge a impegnarsi per il bene comune, o forse il fatto di partire
svantaggiati dà motivazioni addizionali per cercare di recuperare il terreno perduto?
Interrogativi che restano validi anche nel caso in cui si sia particolarmente critici verso le
politiche che questi uomini e donne si trovano poi a interpretare.
Personalmente i Miliband li ho conosciuti un po’ più degli altri, prima leggendo i libri di
Ralph, poi trovandomi a far causa comune, molto parzialmente, con Ed che mi è anche
capitato di incontrare due volte a Londra.
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Incontrandoli, materialmente o nelle letture, non ho mai potuto fare a meno di pensare a
quanti come loro, oggi, affidano il proprio destino alla clemenza del mare, alla dubbia
abilità di piloti improvvisati di barconi, a trafficanti di profughi tra le rive del Mediterraneo.
Quanti Miliband abbiamo perduto nell’ultimo naufragio nel canale di Sicilia? Quanti altri
abbiamo perso non “accogliendoli a casa nostra”, come fecero gli inglesi e altri in momenti
diversi?
Quanta vita, energie e intelligenze vengono sottratte al nostro futuro in queste stesse ore?
E, soprattutto, quand’è stato che la nozione, un tempo ovvia, che i profughi devono essere
assistiti, si è riempita di “se” e di “ma”, per giungere addirittura ai demenziali eccessi dei
respingimenti in mare o dei blocchi navali? Alla truce contabilità sul numero di miglia
marine oltre le quali non è più necessario effettuare salvataggi, o alla folle preoccupazione
di politici locali che temono di essere messi in crisi da poche decine di persone.
Ed Miliband, sfidando il clima anti immigrazione montante anche nel suo Paese, in piena
campagna elettorale, dichiarò che non è pensabile ritenere che accogliere i profughi
sarebbe una sorta di incentivo a farli partire dai propri paesi, poiché un simile
ragionamento equivarrebbe a dire che farli morire in mare sarebbe un possibile e
accettabile disincentivo, “credo che noi tutti siamo migliori di così”, concluse.
La storia delle elezioni gli ha dato torto? Forse no, visto che il suo avversario ha vinto
principalmente in zone rurali e periferiche, dove gli immigrati si vedono di rado e i profughi
solo in Tv, però certo la sua sconfitta porta con sé anche il ritiro della proposta di mandare
la marina britannica ad effettuare missioni di salvataggio nel mediterraneo. Una proposta
che, per inciso, sarebbe andata anche nella direzione di aiutare i paesi di confine, come
l’Italia da tempo chiede.
Non devo, al termine di questa lunga lettera, trarre alcuna conclusione, credo che i fatti da
soli insegnino qualcosa, spero solo che noi tutti troviamo, da qualche parte, la capacità di
dare ascolto alla realtà prima ancora che ai sentimenti.
Cordialmente, Mauro Sabbadini
Vicepresidente Provinciale Arci
http://www.nextquotidiano.it/la-storia-di-un-profugo/
http://www.varese7press.it/100465/varese/ci-scrivono-le-elezioni-inglesi-e-linsegnamentodi-miliband
http://www.varesenews.it/2015/05/fra-i-profughi-di-lampedusa-gli-statisti-didomani/369460/
Da Rockit.it del 14/05/15
Chiude Zuni, lo storico circolo Arci di Ferrara
di Sandro Giorello
L'Arci Zuni chiude i battenti. Era uno dei punti di riferimento per la città di Ferrara che
proponeva di continuo concerti, mostre e attività di vario tipo. I gestori l'hanno annunciato
direttamente dalla pagina Facebook del locale: “Domani vi aspettiamo dalla mattina fino
alla sera, saremo sempre aperti per l’ultima, definitiva giornata insieme. Vi aspettiamo”.
Non si conosce la motivazione precisa di tale scelta. Nel corso degli anni il locale è stato al
centro di malumori che hanno portato il consigliere comunale Francesco Rendine a
proporre un'interpellanza contro i rumori molesti. C'è stata anche qualche polemica
quando il vicesindaco Massimo Maisto ha espresso i suoi apprezzamenti sulla proposta
culturale del circolo, scatenando diversi commenti negativi sul sito locale Estense.com. Gli
organizzatori - sempre via Facebook - hanno voluto precisare: “Potete dire quello che
volete ragazzi, ma non lo sapete perché abbiamo deciso di chiudere. Di sicuro non è per i
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personaggi che ci attaccano su estense.com né per i vicini. Sono tanti i motivi ma di certo
non ci siamo arresi a loro. Quando e se avremo voglia ne parleremo”.
http://www.rockit.it/zuni-ferrara-locale-chiude-polemiche
Da Tiscali News del 15/05/15
Viaggio tra i Beni confiscati: risorsa e
modello sociale alternativo
Il progetto itinerante del gruppo Il Parto delle Nuvole Pesanti con Arci e
Libera.
Viaggio tra i Beni confiscati: risorsa e modello sociale alternativo
Reggio Calabria 15.05.2015, (CN) Un viaggio a tappe da Corleone a Trapani, dalla Piana
di Gioia Tauro ad Isola Capo Rizzuto, da Mesagne a Cerignola, da Casal di Principe a
Castel Volturno, fino a Roma, Bologna, Torino e Milano, per documentare l’esperienza dei
beni confiscati alle organizzazioni criminali, raccontare le storie delle tante persone,
spesso giovani, che vi lavorano tra mille difficoltà, intimidazioni e vandalismi, e far
comprendere che i beni confiscati non rappresentano solo un valore simbolico ma una
vera e propria risorsa, un modello di sviluppo economico e sociale alternativo. Da questo
viaggio sono nati Terre di Musica.
Viaggio tra i beni confiscati alla mafia, progetto musicale e culturale di GirodiValzer, ideato
da Salvatore De Siena, leader di Il Parto delle Nuvole Pesanti e realizzato in
collaborazione con Libera e Arci. “Un viaggio in giro per l’Italia lungo due anni – spiegano
dall’organizzazione -, emozionante e umanamente ricco, intrapreso con la convinzione che
la legalità possa affermarsi anche a partire da piccole azioni quotidiane, e che la musica, il
cinema, la letteratura siano linguaggi capaci di arrivare alla gente con maggiore facilità e
immediatezza. Da questo viaggio sono nati un libro e un film documentario che raccolgono
le note storiche, sociali e culturali dei beni confiscati alla mafia nonché l’esperienza umana
dei suoi protagonisti”.
I musicisti del Parto delle Nuvole Pesanti hanno fatto dell’impegno civile un tratto distintivo
del proprio progetto artistico: tra le altre cose, hanno collaborato con ‘I Ragazzi di Locri’,
movimento di lotta culturale calabrese nato dopo l’assassinio di Fortugno, e partecipato al
dvd Il caso Fortugno, un’opera multimediale sull'omicidio del Vicepresidente della Regione
Calabria. La band ha partecipato alla manifestazione nazionale antimafia, svoltasi a Cinisi
(Pa) per l’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, e ha chiuso il Forum
Antimafia del Nord per protestare contro il sindaco leghista che aveva fatto rimuovere la
targa di Peppino Impastato che dava il nome alla biblioteca comunale di Ponteranica (Bg).
Le Nuvole Pesanti hanno partecipato alle manifestazioni nazionali contro la ‘ndrangheta a
Locri, Reggio Emilia, Villa San Giovanni, organizzate ogni Primo Marzo dai Consorzi
Sociali Goel nati in Calabria sulla scorta dell’esperienza del movimento civile creato dal
Vescovo Bregantini nella locride.
Il progetto Terre di Musica è stato presentato a marzo a Bologna in occasione degli eventi
legati alla Giornata della Memoria e dell’Impegno 2015 e, nei giorni successivi, a Bolzano,
Casalecchio di Reno (BO) e Modena. Sul canale youtube de Il Parto delle Nuvole Pesanti
è possibile visionare il trailer del film.
http://notizie.tiscali.it/regioni/calabria/feeds/15/05/15/t_74_20150515_0901_news_Viaggiotra-i-Beni-confiscati-risorsa-e-modello-sociale-alternativo.html?calabria&sub=ultimora
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Da Tiscali news del 15/05/15
#ArtMakesCommunity alla ricerca di idee
Il Progetto e concorso del Laboratorio della Comunita' Universitaria il cui scopo e' di
contribuire a migliorare gli spazi e le relazioni sociali nel Quartiere Maisonettes
Centro Residenziale.
di CN LAB
Rende (Cosenza) 15.05.2015 (CN) - Stimolare, attraverso la creatività e la leva culturale,
comportamenti proattivi e uno stare insieme orientato a produrre cura degli spazi,
responsabilità collettiva, appropriazione e identità territoriale. E' questo l’obiettivo di Art
Makes Community, il Progetto della Comunità Universitaria di Arcavacata (Unical) il cui
scopo è quello di contribuire a migliorare gli spazi e le relazioni sociali nel Quartiere
Maisonettes del Centro Residenziale. In prima fila ci sono i suoi abitanti, gli studenti
internazionali, provenienti dall’Europa, dal Sud America, dall’Asia, ecc. Lo scopo è altresì
quello di contribuire a sviluppare una comunità universitaria più vivace e coesa,
incoraggiando forme di cittadinanza attiva, di gestione partecipata di beni comuni, processi
di interdisciplinarietà e intercultura; forme di integrazione tra il territorio/i territori e le
comunità degli studenti, autoctoni e stranieri; pratiche di innovazione sociale sostenibili.
Il primo di una serie di interventi di animazione del Quartiere Maisonettes si terrà il 27 e 28
Maggio 2015: un workshop dedicato.
Gli obiettivi specifici del progetto – spiegano i promotori - sono relativi a interventi: di
progettazione e realizzazione di spazi verdi (aiuole e aree relax); di definizione di piani
colore per rompere il senso di "grigiore" delle residenze abitative; di realizzazione di
installazioni temporanee tese ad attivare processi relazionali tra le persone e tra le
persone e lo spazio pubblico-privato; laboratoriali di progettazione di kit con i quali
personalizzare/abbellire gli spazi abitativi interni/esterni (ad esempio spazi d'ingresso,
camere, terrazze, spazi comuni) valorizzando gli approcci do it yourself”.
Gli interventi saranno in parte il frutto del lavoro e della creatività della rete sociale che si è
fatta promotrice del progetto (Aniti Impresa Sociale, Arci Calabria, A di Città, Tekove Intercultural Group) ma anche delle idee che giungeranno attraverso il Concorso di Idee
attivo su RisorgiMenti.Lab.
“Cerchiamo idee – ricordano i promotori - e partecipanti attivi (comunità universitaria tutta,
giovani creativi, designer, architetti calabresi) per il Workshop legato al progetto Art Makes
Community e al Quartiere delle Maisonettes del Centro Residenziale dell'Università della
Calabria. Obiettivo? Costruire insieme comunità responsabili a partire dalla cura di spazi
comuni, di aggregazione, di socialità, di residenzialità. Le Maisonettes sono un vero e
proprio quartiere, vissuto tutto l'anno da una comunità ricca di studenti internazionali e
culture, lingue, punti di vista differenti. Uno spazio caratterizzato da una dimensione
locale, da qualità intrinseche connesse sia ai volumi e ai manufatti abitativi sia alle aree
verdi. Un luogo che, tuttavia, presenta diverse criticità sulle quali occorre riflettere e
iniziare a immaginare e avviare azioni collettive. Le unità abitative risultano integrate nel
contesto, ma in un registro monocromatico e monotono. Emerge, nonostante un valore di
fondo, un paesaggio piatto, incapace di implicare lo sguardo e di generare empatia e
coinvolgimento emotivo. Lo spazio urbano, inoltre, risulta privo di adeguati marcatori
finalizzati a orientare l'attraversamento, l'esplorazione di servizi collettivi o di spazi privati
funzionali. Oltre ai limiti fisici, si segnalano i limiti relazionali e di integrazione. Le occasioni
di interazione tra i residenti calabresi (i giovani autoctoni) e la comunità internazionale di
studenti, sono al momento complessi da risolvere, quando in realtà possono trasformarsi
in contaminazione positiva, occasione di confronto, scambio culturale, crescita reciproca e
della comunità. Elementi che lo rendono luogo ideale per l'avvio di azioni partecipate. Non
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si tratta di semplici idee di rigenerazione urbana ma di esperienze, occasioni per
incontrarsi e stare insieme. Sono le persone, infatti, a costruire luoghi, a fare
dell'ambiente, dell'architettura e delle strutture del campus qualcosa di vivo e di
importante, sono loro a conferirgli un senso”.
http://notizie.tiscali.it/regioni/calabria/feeds/15/05/15/t_74_20150515_1051_news_ArtMake
sCommunity-alla-ricerca-di-idee.html?calabria&sub=ultimora
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ESTERI
del 15/05/15, pag. 7
Il ritorno negato a Kuf Bi’rem
Palestina. A 67 anni dall'esilio di 800mila palestinesi dalle proprie terre,
la lotta per il ritorno non si ferma. In Galilea un gruppo di rifugiati è
tornato nel proprio villaggio, ancora target delle politiche di espulsione
israeliane
Chiara Cruciati
Quante catastrofi può vivere un popolo? Quella del popolo palestinese, vessato dalla
storia, colonizzato per secoli, va avanti: a 67 anni dal 15 maggio 1948 — dichiarazione di
indipendenza dello Stato di Israele — è costretto ancora, quotidianamente, a rivivere la
propria sofferenza. La chiamano “ongoing Nakba”, la catastrofe che continua dopo quella
di 67 anni fa quando 800mila palestinesi (l’80% della popolazione dell’epoca) furono
cacciati dalle milizie sioniste dalle proprie terre.
E se fuori dai confini della Palestina storica il popolo della diaspora è ancora in esilio,
all’interno le politiche israeliane di trasferimento forzato tentano di separare i palestinesi
dalle proprie terre.
O da quello che ne resta. Kufr Bi’rem è uno degli esempi, modello del significato del diritto
al ritorno, sancito dalla risoluzione Onu 194/48, e della sua violazione. Lo chiamano il
villaggio dei rifugiati ritornati da quando, due anni fa, i profughi sono tornati a vivere tra le
case distrutte. Ma permettere il ritorno anche ad un solo rifugiato significherebbe aprire
una pericolosa breccia in un muro che appare indistruttibile. Così da due anni, quei
profughi ritornati sono target delle autorità israeliane.
«Alla Nakba che continua abbiamo risposto con una lotta che continua», spiega al
manifesto Wassim Ghantous, membro di al-Awda (ritorno in arabo), comitato che dagli
anni ’80 si occupa di far rivivere Kufr Bi’rem.
Situato nell’estremo nord della Galilea a 3 km dal Libano, godeva di una posizione
strategica fondamentale. «All’epoca il movimento sionista aveva fissato delle priorità
nell’occupazione delle comunità palestinesi – continua Ghantous – Prima presero di mira
le città, sedi delle zone industriali, del commercio, dei centri culturali; poi, i villaggi agricoli
perché possedevano molta terra ma pochi abitanti. Come Kufr Bi’rem, 12mila dunam di
terre e 1.040 residenti».
Per cacciarli, a differenza di altri villaggi teatro di barbari massacri o di deportazione fisica
(intere famiglie caricate su camion, barche o trattori), a Kufr Bi’rem le milizie sioniste
usarono l’inganno. Il 29 ottobre ’48, sei mesi dopo la nascita di Israele, le neonate autorità
chiesero ai residenti di allontanarsi per due settimane per ragioni di sicurezza, vista la
vicinanza al confine libanese.
I mille abitanti si fidarono e lasciarono la comunità senza portare con sé nulla, convinti di
tornare a breve. Non accadde mai. «Subito i rifugiati attivarono e l’anno dopo la Nakba
presentarono alla Corte Suprema israeliana una petizione che chiedeva l’autorizzazione a
tornare nel villaggio. Nel 1951 la Corte rispose con una decisione a metà: imponeva il
ritorno dei rifugiati in quanto non esistevano più ragioni che ne giustificassero
l’allontanamento, ma allo stesso tempo lasciava l’ultima parola all’esercito».
Il timore che quei rifugiati tornassero era comunque forte. La distruzione totale del villaggio
arrivò dal cielo, nel ‘53. Dalla collina accanto i suoi abitanti assistettero impotenti e in
lacrime ai raid che ridussero in macerie le case.
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«Oggi i discendenti dei 1.040 residenti del 1948 hanno raggiunto le 6mila unità: la metà
vive ancora in Palestina. L’altra metà in Libano». Chi è riuscito a rimanere non ha smesso
di lottare: dagli anni ’50 i rifugiati di Kufr Bi’rem hanno scioperato, si sono fatti arrestare,
hanno seguito le vie legali, hanno organizzato campi estivi per i propri figli tra le rovine del
villaggio. Un’idea lanciata trent’anni fa che, nel 2013, si è trasformata in ben altro: due
estati fa, dopo la fine del tradizionale campo estivo, il comitato ha deciso di rimanere.
La scuola e la chiesa, unici edifici rimasti in piedi, sono stati rinnovati. I rifugiati si sono
divisi in comitati, ognuno responsabile di compiti diversi: cucinare, organizzare festival,
ripulire dalle erbacce i resti delle case. E mantenere una presenza fissa: ogni notte e ogni
giorno 100 persone si sono date il cambio per evitare l’espulsione. Che è arrivata sotto
forma di raid militare l’11 agosto 2014, nonostante la petizione del villaggio presentata al
tribunale di Nazareth fosse ancora pendente: funzionari dell’Israeli Land Authority si sono
presentati a Kufr Bi’rem, hanno confiscato utensili della cucina, materassi, allacci a
elettricità e acqua e distrutto le stanze costruite intorno alla chiesa.
Il terzo raid in due anni. Ma Kufr Bi’rem resiste: il comitato al Awda si sta riorganizzando
per tornare nel villaggio. E sfidare ancora le politiche israeliane.
Del 15/05/2015, pag. 17
Abu Mazen, missione da Renzi
“Riconosca lo Stato palestinese ”
Il leader dell’Anp oggi dal premier: segua l’esempio del Vaticano Poi
incontrerà Mattarella. Domani la visita a Papa Francesco
Maurizio Molinari
Il presidente palestinese Abu Mazen incontra oggi a Palazzo Chigi il premier Matteo Renzi
augurandosi che l’Italia «segua l’esempio del Vaticano nel riconoscere il nostro Stato».
Sono alcuni dei più stretti collaboratori di Abu Mazen a descrivere le attese del governo
palestinese nei confronti dell’Italia. «Il Vaticano ha mandato un messaggio importante in
un momento non casuale», afferma Bassam Salhi, membro del comitato esecutivo
dell’Olp, spiegando che «il riconoscimento dello Stato di Palestina è il passo da adottare
per qualsiasi Paese che, come l’Italia, vuole salvare la soluzione dei due Stati in Medio
Oriente». «Ci auguriamo che l’Italia getti il suo peso a favore di questo percorso»
aggiunge Salhi, parlando in sintonia con Xavier Abu Eid, braccio destro del capo
negoziatore Saeb Erakat, secondo il quale «l’iniziativa presa dal Vaticano può creare un
nuovo momentum favorevole al riconoscimento del nostro Stato da parte dell’Europa» e
dunque «sta ora all’Italia di Renzi muoversi in questa direzione».
Primo faccia a faccia
Negli ambienti del governo palestinese si considera Renzi «un buon amico di Israele»
aggiungendo che «questo può essere un elemento positivo per sostenere la soluzione dei
due Stati» ma c’è attesa per le parole che il premier dirà ad Abu Mazen nel loro primo
incontro. «Il riconoscimento della Palestina non ostacola ma accelera la soluzione dei due
Stati, è un passo a lungo dovuto da parte dell’Italia - osserva Abu Eid - ma il
pronunciamento del vostro Parlamento in merito è stato modesto, direi debole, rispetto alle
posizioni di altri partner dell’Ue, non abbiamo grandi attese per ciò che Renzi potrà dire o
fare a breve ma crediamo che l’Italia possa esprimersi con maggiore sostegno».
Nemer Hammad, consigliere di Abu Mazen ed ex rappresentante diplomatico palestinese
a Roma, aggiunge un altro elemento: «Il nuovo governo israeliano di Netanyahu è più
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estremista di quello precedente ed è dunque importante che l’Italia si esprima con
chiarezza contro gli insediamenti ebraici sui territori palestinesi, trovando la maniera per
punirli». La decisione del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, di associarsi alla
recente posizione dei Paesi europei sull’identificazione dei prodotti israeliani provenienti
dagli insediamenti in Cisgiordania è stata considerata un «passo nella direzione giusta» a
Ramallah. Ma ora Nemer Hammad, parlando al telefono da Amman, chiede a Renzi di
fare di più: «È importante punire gli insediamenti in maniera efficace, per avere effetto, se
Israele evade le misure europee cambiando le etichette di provenienza, l’Unione europea
deve trovare il modo per riuscire a identificare i prodotti che provengono dagli insediamenti
ebraici sui territori dello Stato palestinese».
Gli altri appuntamenti
Oltre a Renzi, Abu Mazen vedrà oggi a Roma il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e
Gentiloni mentre domani farà tappa in Vaticano per l’incontro con Papa Francesco. E
domenica assisterà alla canonizzazione di due suore palestinesi del XIX secolo: Marie
Alphonsine Ghattas di Gerusalemme e Mariam Bawardy della Galilea diventeranno le
prime sante contemporanee risalenti alla dominazione Ottomana in Palestina.
del 15/05/15, pag. 7
Nel governo di Netanyahu domina il partito
dei coloni
Israele. Nel nuovo esecutivo conferma del falco Moshe Yaalon alla
Difesa
Michele Giorgio
Ieri sera, mentre chiudevano il nostro giornale, si attendeva la cerimonia di giuramento del
nuovo governo israeliano. Un ritardo di diverse ore sul programma annunciato, frutto della
battaglia tra i dirigenti del partito di maggioranza relativa Likud per accaparrarsi gli ultimi
ministeri rimasti disponibili. Un vero e proprio assalto alla diligenza conseguenza degli
accordi di coalizione raggiunti da Benyamin Netanyahu con le altre forze politiche. Pur di
garantirsi una maggioranza di governo — peraltro risicatissima di appena 61 seggi su 120
— il premier ha ceduto ministeri di importanza centrale ai nazionalisti religiosi di Casa
Ebraica, rischiando di lasciare a bocca asciutta alti dirigenti del Likud che, dopo l’ampia
vittoria elettorale del 17 marzo, si consideravano già ministri. Di sicuro ieri sera appariva
certa solo la riconferma del falco Moshe Yaalon al ministero della difesa.
Tirate le somme, il nuovo governo Netanyahu non sarà a guida Likud. Al timone di fatto ci
sarà Naftali Bennett, il capo di Casa Ebraica, il partito dei coloni, nominato al ministero
dell’istruzione da dove potrà imprimere in nome del nazionalismo religioso più estremista
che lo ispira, cambiamenti significativi ai programmi scolastici e universitari. Bennett,
diventato l’arbitro della stabilità del governo dopo l’improvviso passaggio all’opposizione
del leader del partito di estrema destra «Yisrael Beitenu», Avigdor Lieberman, è
consapevole del grande potere che si ritrova tra le mani. E lo userà per rilanciare la
colonizzazione israeliana e imporre il rifiuto dello Stato palestinese. I coloni eserciteranno
sul governo un’influenza come mai è avvenuto prima e tra di loro regna l’euforia. «C’è una
realtà permanente in Giudea e Samaria (la Cisgiordania ndr) che è irreversibile…Siamo
ottimisti…Non cerchiamo lo scontro ma il mondo non può dettare qualcosa respinta dalla
democrazia israeliana (il voto del 17 marzo, ndr)», ha detto al Times of Israel Yigal
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Dilmoni, il portavoce del Consiglio di Yesha che rappresenta la maggioranza dei «settlers»
(coloni) israeliani.
Non è perciò una esagerazione affermare che questo non sarà un governo del Likud ma
un governo di Casa Ebraica con un primo ministro del Likud. Oltre a Bennett al ministero
dell’istruzione, del governo faranno parte in posizioni chiave altri dirigenti di Casa Ebraica.
Come Uri Ariel, alfiere della costruzione degli insediamenti nel governo precedente scelto
come ministro dell’agricoltura dove potrà prendere il controllo della Divisione per gli
Insediamenti, un’agenzia governativa che finanzia le colonie.
Un altro rappresentante del partito, Eli Ben Dahan, diventerà vice ministro della difesa con
la supervisione dell’Amministrazione Civile (ma retta da militari) che amministra i
palestinesi che vivono nella «Zona C», ossia il 60% della Cisgiordania.
Più di tutto il braccio destro di Bennett, Ayelet Shaked, 39enne laica ultranazionalista, sarà
ministra della giustizia, senza avere alcuna competenza in questo settore. Shaked che
l’anno scorso pubblicò sul suo profilo Facebook frasi di un estremista di destra che
definiva i bambini palestinesi «piccoli serpenti» e fu accusata di dichiarazioni a sostegno
del genocidio della gente di Gaza (lei nega), critica la Corte Suprema e il sistema
giudiziario che ritiene troppo «liberal». Ora sarà in grado di influenzare la nomina dei
giudici e di spingere in avanti progetti di legge che mirano a colpire tutto ciò che considera
«progressista».
Nachman Shai, un parlamentare dell’opposizione, ha commentato che dare a Shaked il
Ministero della Giustizia è come «nominare un piromane a capo del vigili del fuoco».
del 15/05/15, pag. 7
Sul red carpet a Gaza non star ma senza casa
Palestina. Il lungo tappeto rosso, ripreso da un drone, disteso tra le
macerie di Shujayea
Michele Giorgio
Il lungo tappeto di colore rosso, simbolo di ogni festival del cinema che si rispetti, che era
stato steso lungo una delle poche strade di Shujayea liberate dalle macerie, è stato
riavvolto ieri sera, a chiusura del Karama-Gaza Human Rights Film Festival (Red Carpet),
che quest’anno si è svolto anche a Gaza oltre che nella sua sede ufficiale di Amman.
Su quel tappeto rosso, ripreso mentre veniva disteso anche dall’alto da un drone,
finalmente civile e non armato come di solito nella Striscia alla ricerca di prede da colpire
ed eliminare, non si sono alternate stelle del cinema tra flash incessanti delle macchine
fotografiche, ma gli abitanti di Shujayea.
Uomini, donne e bambini rimasti senza casa e che da quasi un anno si aggirano tra le
macerie delle loro case ridotte in detriti, pietre e polvere dalla furia dei bombardamenti
israeliani della scorsa estate. Persone che non hanno più un tetto, che vivono dove
possono, quando va bene da un parente più fortunato o in aula di una scuola trasformata
in rifugio, altrimenti tra le macerie della propria abitazione.
Non hanno un tetto quei palestinesi ma per tre giorni hanno avuto uno schermo sul quale
gli organizzatori del Karama Festival hanno proiettato film e documentari, presenti cineasti
e filmmaker, sul tema dei diritti, in Palestina e nel resto del mondo. Diritti da non
dimenticare e da rivendicare.
Le ultime tre sere per gli abitanti di Shajayea sono state eccezionali, perché hanno
spiegato che il mondo non dimentica Gaza.
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Non i governi, i presidenti, i premier occidentali e arabi che preferiscono non vedere 1,8
milioni di palestinesi che da otto anni vivono sotto un blocco rigidissimo attuato da Israele
e dall’Egitto. Sono le persone comuni che non dimenticano e che ogni giorno rilanciano
notizie sulla Striscia, riferiscono ciò che i media internazionali preferiscono ignorare,
avviano dibattiti in rete e su skype, avviano iniziative di sostegno in vari Paesi.
Persone, come gli organizzatori del Karama Festival, consapevoli che le macerie di Gaza
sono la testimonianza di crimini contro civili incolpevoli, peraltro ammessi qualche giorno
fa da decine di militari israeliani che hanno scelto di rompere il silenzio su ciò che è
accaduto tra luglio e agosto dello scorso anno.
Nella speranza che quei governi, presidenti e primi ministri scelgano finalmente di aprire
gli occhi e di non fingersi più ciechi.
Del 15/05/2015, pag. 18
Ahmed Rashid
L’analista anglo-pachistano spiega il riaccendersi della crisi E perché
sarà impossibile per gli Usa ritirarsi del tutto
“Una lista infinita di errori ora il paese
esplode di nuovo”
ANNA LOMBARDI
«L’AFGHANISTAN è nel caos. E le responsabilità maggiori ce le hanno gli americani,
certo. Ma anche la comunità internazionale. Perché nessuno si è concentrato su quel che
serviva veramente». Ahmed Rashid, il giornalista anglo-pachistano che con le sue
inchieste si è imposto come uno dei massimi esperti mondiali di Islam radicale, autore di
saggi come Talebani e Pericolo Pakistan ( editi da Feltrinelli) al telefono dalla sua casa di
Lahore risponde quasi con stizza. «L’Afghanistan è stato trascurato e oggi queste sono le
conseguenze: un paese tutt’altro che pacificato. Altro che ritiro. L’ultima cosa che gli
americani possono sognarsi di fare è andarsene».
L’attentato di ieri a Kabul è un’ulteriore conferma delle difficoltà del processo di
transizione?
«I Taliban avevano annunciato lo scorso aprile la ripresa dell’offensiva e la stanno
mettendo in atto con ineguagliata violenza. Nell’ultimo mese abbiamo assistito ad alcuni
dei peggiori attacchi e più virulenti combattimenti degli ultimi cinque anni. Hanno
imbracciato le armi in tutte le province del Paese, concentrandosi particolarmente nel
nord. E anche in altre grandi città come Herat, al confine con l’Iran, ci sono stati attacchi
sanguinosi come quello a Kabul di ieri. Se stiamo assistendo a una tale quantità di azioni è
perché i Taliban pensano sia il momento giusto».
Perché? Quali errori sono stati commessi?
«La lista degli errori è infinita... Intanto le dirò questo. L’Afghanistan era una nazione dove
bisognava ricostruire l’intero sistema: reinventare l’esercito, la burocrazia, il sistema della
giustizia. Ma questo è stato compreso troppo tardi dagli americani. Che hanno cominciato
a lavorare su questi temi solo negli ultimi 4 o 5 anni. Facendo comunque troppo poco.
Come si poteva pretendere di trovarsi davanti a un paese in grado di camminare sulle sue
gambe?».
L’ispettore speciale per la Ricostruzione afgana John Sopko, chiamato da Obama a
monitorare quel che accade nel paese asiatico, mercoledì scorso ha ribadito la
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convinzione che gli afgani non saranno capaci di tenere in piedi quel che fin qui è
stato costruito. Che ne pensa?
«Sopko è uno dei pochi, forse l’unico, che dice la verità a Washington. I 62,5 miliardi di
dollari spesi in Afghanistan fra 2002 e 2013 sono stati spesi male: 13 anni dopo, gli afgani
ancora non hanno le capacità finanziarie, militari, tecniche manageriali e quant’altro di
prendersi cura del loro paese».
Possibile che tanti soldi non abbiamo lasciato il segno?
«Il denaro speso in scuole e ospedali ha indubbiamente migliorato le condizioni culturali e
di salute degli afgani. Ma sono miglioramenti che dipendono da fondi stranieri. Così il
resto: buona parte dell’economia si è concentrata sul fornire servizi alle truppe. Ma se le
truppe se ne vanno... E poi l’Afghanistan ha un serissimo problema di corruzione. Anche
con quello bisogna fare i conti».
Che rapporti hanno i Taliban con l’Is?
«La presenza dell’Is in Afghanistan è insignificante. Semmai lo Stato Islamico guarda ai
Taliban come riferimento. Hanno voluto costruire uno stato nei territori conquistati in Iraq
proprio come questi avevano fatto in Afghanistan ».
I colloqui di pace con i Taliban moderati porteranno a qualche risultato?
«Progressi ci sono, lo riconosco. Ma per ora possiamo solo trattenere il fiato e sperare che
vadano avanti».
Del 15/05/2015, pag. 19
Siria, l’Is avanza verso Palmira paura per i
tesori archeologici
Nuovo audio di Al Baghdadi
OMERO CIAI
SE L’INCANTEVOLE “ Sposa del Deserto” cadrà nelle mani dei miliziani dello Stato
Islamico (Is) sarà una catastrofe internazionale: è l’appello lanciato dall’Osservatorio
siriano per i diritti umani, organizzazione umanitaria basata a Londra, ora che le forze del
Califfato avanzano verso Palmira, l’antica città 200 km a sud est della capitale siriana, uno
dei siti archeologici più importanti del Paese, patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Gli
attivisti temono che la furia devastatrice degli jihadisti possa scatenarsi su templi, antiche
rovine, statue e bassorilievi preziosissimi com’è già accaduto nel nord dell’Iraq. Il loro
punto di vista è condiviso dal direttore generale dell'Unesco Irina Bokova: «Palmira è un
tesoro insostituibile per il popolo siriano, e deve essere salvato», ha affermato, chiedendo
alle truppe governative e ai miliziani estremisti di «risparmiare le rovine».
E mentre si combatte per Palmira, lo Stato Islamico ha messo sul web un nuovo
messaggio audio che attribuisce a Abu Bakr Al Baghdadi, il leader probabilmente ferito in
un raid aereo nel marzo scorso, dove il Califfo afferma che l’Islam «è una religione di
guerra». In queste ore l’aviazione siriana sta bombardando postazioni dello Stato islamico
nei pressi della città ma fonti dell’Is affermano che Palmira «è ormai prossima a essere
conquistata » e che gli jihadisti sono già entrati «in alcuni quartieri» della periferia orientale
e «hanno abbattuto un Mig dell’aviazione siriana».
Secondo Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osservatorio, «la battaglia è in corso a soli
due chilometri dai siti archeologici della città» e l’Is ha già preso il controllo dei posti di
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blocco dell’esercito siriano fra Sukhna e Palmira. Mentre ventisei civili sono stati
“giustiziati” dagli “uomini in nero” dell’Is, dieci dei quali decapitati.
Famosa in tutto il mondo per la sua bellezza come “la Sposa del Deserto”, Palmira —
Tadmor, ossia “palma” nel suo nome originale in aramaico — è una antichissima oasi
vicino all’Eufrate, descritta già da Plinio il Vecchio, per secoli snodo, tra Oriente e
Occidente, delle carovane, e tappa fondamentale per i viaggiatori e i mercanti che
collegava l’impero romano con la Mesopotamia e la Persia verso l’India e la Cina. Centro
culturale dell’antichità, Palmira visse il suo massimo splendore tra il primo e il terzo secolo
dopo Cristo, nelle epoche degli imperatori Traiano e Aureliano. Oggi ha circa 45mila
abitanti. I suoi siti archeologici più noti sono il Santuario di Baal (Zeus), quello di Nabu, la
via colonnata, l’Agorà costruita dai romani, le Terme, la cinta muraria e la necropoli. Nel
museo archeologico sono conservate statue, bassorilievi, sarcofagi, mosaici e ceramiche.
Per salvare Palmira dalla ferocia del-l’Is è intervenuto anche il direttore dell’Istituto dei
Beni culturali siriano, Maamoun Abdulkarim: «Dobbiamo agire subito per evitare
l’ennesima devastazione di un patrimonio culturale di eccezionale valore».
Del 15/05/2015, pag. 26
Varoufakis contro Draghi “Non ci aiuterà sul
debito perché teme la Germania” Grecia,
stipendi a rischio
Il ministro: scadenze vanno allungate e legate alla crescita Atene chiede
un anticipo sulla tranche di aiuti da 7,2 miliardi
ETTORE LIVINI
La Grecia va in pressing per riuscire a sbloccare nuovi prestiti entro la fine del mese e
dribblare una crisi di liquidità che si fa ogni giorno più dura. «Noi abbiamo fatto la nostra
parte. Ora tocca ai creditori fare un passo verso di noi per incontrarci a metà strada», ha
detto il premier Alexis Tsipras. «C’è un’intesa su gran parte delle riforme», gli ha fatto eco
il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. E secondo le indiscrezioni, Atene sarebbe
pronta a chiedere un Eurogruppo straordinario entro fine mese per provare a convincere
Bruxelles a girarle almeno una prima tranche dell’ultimo pacchetto da 7,2 miliardi di aiuti.
Non sarà facile. I falchi della Ue hanno già alzato il fuoco di sbarramento: «Il clima delle
trattative è migliorato – ha ammesso il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang
Schaeuble – ma di sostanza se ne vede ancora poca». Il governo ellenico proverà nei
prossimi giorni a fargli cambiare idea, presentando un piano per la riforma fiscale del
Paese in linea con le richieste dei creditori e, probabilmente, accelerando l’iter delle
privatizzazioni del Porto del Pireo e di 14 aeroporti per cui è in stand-by un accordo con i
tedeschi di Fraport.
La crisi della Grecia è stata sul tavolo di un incontro tra Mario Draghi e il numero uno del
Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde a Washington in cui il governatore della
Bce ha sottolineato come «il quantitative easing andrà avanti fino a quando sarà
necessario», sostenendo che «si è rivelato più potente delle previsioni di molti». Nessun
accenno invece all’ennesima provocazione di Varoufakis, che ha proposto di «sostituire i
prestiti della Bce in scadenza quest’estate con l’intervento del Fondo salva-Stati», ipotesi
che «riempie di paura l’anima di Draghi», ha aggiunto, preoccupato di una rivolta della
Bundesbank. «I finanziamenti della Bce alle banche del Partenone è catalogabile in
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qualche modo come finanziamento al Paese», ha detto sibillino in un’intervista ad
Handelsblatt il presidende della Buba, Jens Weidmann Eurotower ha acceso la spia
dell’allarme anche per i ripetuti attacchi di uomini di Syriza al governatore della banca
centrale di Grecia Yannis Stournaras, ex ministro del governo di centrodestra di Antonis
Samaras. «Non mi dimetto malgrado le pressioni dell’esecutivo - ha detto lui – Segnalo tra
l’altro che sono stato io a suggerire il modo per pagare i 760 milioni di prestiti in scadenza
con l’Fmi la scorsa settimana». Rata rimborsata mettendo mano a un fondo speciale
depositato proprio presso il Fondo.
La fretta del governo di arrivare a un’intesa, del resto, ha una spiegazione facile: la
necessità di riaprire i rubinetti dei finanziamenti, saldamente in mano – purtroppo per
Tsipras – a Bce, Ue e Fmi. La prossima scadenza è quella degli stipendi di fine mese
(servono 1,5 miliardi circa). Poi a inizio giugno ci sono da pagare altri 305 milioni a
Washington. «Il nostro compito è guardare a tutti gli scenari ma non pensiamo a una
Grexit», hanno detto ieri i vertici del Fondo.
I mercati, piuttosto cinici, hanno invece già preso posizione nel caso di default. I titoli della
canadese Fortress Paper hanno guadagnato il 75% in una settimana alla Borsa di Toronto
sulle voci di un accordo con il governo di Atene non commentato dal vertice – per la
stampa della dracma o di una valuta parallela.
del 15/05/15, pag. 1/25
Il Piano Marshall alla cinese per contrastare
gli Stati Uniti
di Ian Bremmer
Dagli anni Ottanta a oggi, l’unica costante nella politica internazionale è stata
l’inarrestabile avanzata della Cina. Tuttavia, l’espansione della sua influenza economica si
distingue nettamente dall’affermazione del suo ruolo militare. Il presidente Xi Jinping non
ha nessuna intenzione di sfidare la supremazia militare americana in un prossimo futuro.
Appare ovvio che, al di fuori dell’Est asiatico, il predominio militare convenzionale
statunitense faccia piuttosto comodo alla Cina, poiché argina il rischio di conflitti globali
che potrebbero nuocere allo sviluppo economico del Paese.
Laddove Washington è riuscita ad evitare il conflitto, soprattutto in Medio Oriente, la
leadership cinese si mostra restia ad accettare nuovi costi e rischi. Se Mosca non esita a
flettere i muscoli, Pechino preferisce lavorare in sordina per gettare solide basi della sua
forza futura, grazie a un’economia sempre più dinamica.
Sullo scacchiere asiatico, il presidente Xi si rende conto che una Cina più forte ha
incoraggiato i suoi vicini, compresa l’India, a rinsaldare i legami con Washington. E mentre
le riforme in Cina rallentano l’economia, Pechino farà di tutto per scongiurare di
danneggiare senza motivo i rapporti commerciali con il Giappone, che resta la terza
economia mondiale. La Cina, con ogni probabilità, intensificherà gli scontri con Paesi
confinanti più piccoli, in particolare quelli, come il Vietnam, che non sono alleati
dell’America. La Cina è pronta a sviluppare nuove cyber-capacità, anche perché ne
traggono beneficio le aziende cinesi. Se Pechino non è disposta a far la voce grossa con
Taiwan nei prossimi mesi, è proprio perché i rapporti con Taiwan sono considerati una
questione di politica interna, non estera. In breve, Pechino non ha alcun interesse a
scatenare una crisi di sicurezza in qualunque punto del pianeta, se questo rischia di
provocare effetti collaterali nocivi per la sua crescita economica e il suo piano di riforme.
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Altra storia è invece la crescente influenza economica cinese. Pechino ha lanciato un
assalto frontale all’ordine economico globale guidato da Washington offrendo al mondo
nuove istituzioni e alternative agli investimenti e agli standard tecnologici statunitensi.
Anzi, nessun altro Paese è oggi in grado, come la Cina, di sfruttare la sua potenza
economica, sotto la guida statale, per allargare con altrettanta efficacia il suo raggio di
influenza.
Settant’anni fa, gli Stati Uniti investirono miliardi di dollari — fino al 4% del loro prodotto
interno lordo — nello sforzo di ricostruire le economie europee dopo la Seconda guerra
mondiale. Il piano Marshall non aveva certo scopi altruistici, era anzi un piano di
investimenti, con finalità strategiche, concepito dall’America per rilanciare la crescita con i
suoi principali partner commerciali e per mettere in piedi un ordine globale, a guida
americana, allo scopo di contrastare un’eventuale avanzata comunista verso Occidente.
Di lì a poco seguirono istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca
mondiale.
Dopo le lunghe e costose guerre in Iraq e Afghanistan, i cittadini americani vogliono che i
loro soldi vengano utilizzati in patria, e non sono disposti ad accettare nuove spese in
politica estera, specie di tale importo. Il governo Obama, per rispettare questa volontà,
farà sempre più ricorso alla «militarizzazione della finanza», vale a dire l’accesso al
mercato dei capitali (la carota), e l’applicazione di sanzioni mirate (il bastone) per ottenere
i propri scopi senza convogliare né truppe né soldi verso focolai di conflitto. Tuttavia
questa strategia complica i rapporti con gli alleati, che spesso si ritrovano con le loro
aziende, banche e investitori intrappolati nel fuoco incrociato.
Ma anche la Cina ha pressanti esigenze di spesa pubblica. È in procinto di mettere in piedi
la più grande rete di ammortizzatori sociali del pianeta, e di investire in infrastrutture
futuristiche per creare nuovi posti di lavoro e stimolare la crescita, senza contare poi la
necessità di risanare l’ambiente pesantemente inquinato. Gli investimenti statali, in Cina,
non sono però condizionati dal sistema democratico dei contrappesi, né sono esposti al
pubblico scrutinio. Il presidente Xi appare convinto che le rivalità all’interno del partito
siano gestibili e che le sue riforme godano di un vasto appoggio pubblico.
Le conseguenze per Washington sono sempre più palesi. A differenza del piano Marshall,
la Cina non investe nell’espansione della democrazia liberale né di riforme economiche
verso il libero mercato, le condizioni prestabilite per i Paesi che ricevettero gli aiuti
finanziari americani nel Dopoguerra. Gli accordi cinesi sono quasi sempre stipulati con
singoli governi, in modo da sfruttare al massimo la leva negoziale di Pechino, e non
puntano più ad assicurare rifornimenti di materie prime a lungo termine né a creare
opportunità per le aziende e per i lavoratori cinesi all’estero. Oggi, Pechino investe per
promuovere l’allineamento del maggior numero possibile di governi stranieri con la politica
industriale cinese, nelle telecomunicazioni, in Internet, nella gestione e nella normativa
finanziaria, e per diffondere l’utilizzo della sua valuta, il renminbi. I recenti successi di
Pechino nell’attirare alleati statunitensi come la Gran Bretagna (e forse anche il Giappone)
a far parte della Banca di investimento per le infrastrutture in Asia, guidata dalla Cina,
segna una svolta nell’influenza cinese in campo internazionale. Se l’inclusione di tante
economie avanzate assicura da una parte che l’egemonia cinese sui processi decisionali
resterà limitata, dall’altra segnala che Pechino è ormai diventato un «prestatore di prima
istanza» per una lista sempre più lunga di governi in difficoltà. Questa nuova legittimità
rafforzerà il predominio cinese in altri settori, come la via terrestre della seta e le iniziative
di investimenti marittimi, che puntano a estendere l’influenza commerciale cinese da un
capo all’altro dell’Eurasia, fino all’Europa e al Mediterraneo. Molti americani hanno a lungo
pensato che prima o poi la Cina adotterà sistemi politici ed economici occidentali, per
evitare un’implosione di stile sovietico. Questa supposizione non è mai parsa così miope
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come ora. Piuttosto, sarà la concorrenza globale tra Usa e Cina per l’egemonia
commerciale a costringere tutti i Paesi intermedi a fare difficili scelte economiche.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
del 15/05/15, pag. 6
A Bujumbura scene di guerra civile
Burundi. Dopo la destituzione di Nkurunziza, lealisti e golpisti
combattono intorno alla sede tv
Emanuele Giordana
Sono ore di paura e di incertezza per le popolazioni del Burundi, già stremate dalla
tensione e dalla violenza di settimane di protesta. Chi controlla il Paese all’indomani
dell’annuncio della destituzione del Presidente uscente Pierre Nkurunziza da parte del
generale ed ex capo dei servizi segreti Godefroid Niyombare? Giovedì un altro generale, il
Capo di Stato Maggiore delle forze del Burundi Prime Niyongabo — rimasto fedele al
Presidente — ha annunciato «il fallimento del colpo di stato» sulle frequenze della radio
nazionale. A Bujumbura, la capitale, pesanti combattimenti sono scoppiati tra lealisti e
golpisti intorno alle sede della televisione e della radio nazionale (unico mezzo di
comunicazione, e per questo di strategica importanza, per raggiungere la popolazione).
Da una località tenuta segreta in Dar es Salaam, Tanzania, (dove si era recato per
partecipare ad un vertice della Communauté des États d’Afrique de l’Est (Eac) sulla crisi in
Burundi) il presidente Nkurunziza ha condannato i golpisti e ringraziato «i soldati che
stanno mettendo ordine», perdonando «ogni soldato che decide di arrendersi». Messaggio
affidato alla radio poco prima che le trasmissioni venissero interrotte. Il suo tentativo di
rientrare nel Paese durante la notte è fallito a causa della chiusura dell’aeroporto di
Bujumbura ad opera degli uomini del generale Godefroid Niyombare.
Resta difficile in tale situazione determinare chi controlla il potere nella capitale, tra le
dichiarazioni dei lealisti secondo cui i punti strategici come la radio, l’aeroporto e gli uffici
presidenziali sarebbero nelle loro mani e quelle dei golpisti che affermano di controllare
«quasi tutta la città» di Bujumbura. Nella notte tra mercoledì e giovedì due delle tre
principali radio private del paese (Rpa e Radio Bonesha) e la principale televisione
indipendente, Télé Renaissance, che avevano trasmesso le dichiarazioni dei golpisti, sono
state saccheggiate e date alle fiamme dalla polizia e dall’Imbonerakure, l’ala giovanile del
partito al governo. Nella mattinata è stata la radio pubblica a essere attaccata dai golpisti,
nel tentativo di sottrarne il controllo alle truppe lealiste. Gli spari sono continuati per tutta la
notte intensificandosi poco prima dell’alba, mentre colonne di fumo nero si alzavano sul
porto della città.
Evidente nella capitale il contrasto con lo scenario del giorno prima. Ai canti e alle danze di
giubilo di mercoledì, giovedì è subentrata la quiete agghiacciante: strade pattugliate da
uomini armati in uniforme e bloccate da barricate di pneumatici dati alle fiamme; sporadici i
veicoli in circolazione. Una notte insonne per la gente del Burundi, rimasta rintanata in
casa tra l’angoscia per una situazione di caos e l’attesa di conoscere l’epilogo della lotta
per il potere che si sta consumando tra le ali rivali delle alte sfere politiche e militari. I pochi
che hanno tentato di affacciarsi fuori di casa sono stati fermati. Secondo la Reuters, in un
sobborgo un gruppo di giovani che ha cercato di raggiungere a piedi il centro della città è
stato bloccato dalla polizia, mentre altrove alcuni agenti sono stati visti picchiare un
ragazzo.
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A scatenare il golpe (o tentato tale) sarebbe stata la decisione di Nkurunziza di candidarsi
per il terzo mandato quinquennale alle presidenziali del prossimo giugno. Candidatura del
tutto contraria alle disposizioni della Costituzione che ne prevede solo due e respinta dalla
popolazione, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale l’abbia invece ritenuta
ammissibile (avendo considerato il primo mandato del presidente affidato su nomina dal
Parlamento invece che dal voto popolare).
C’è però da considerare che durante la guerra civile in Burundi che si è conclusa nel 2005,
l’esercito era nelle mani della minoranza Tutsi in lotta contro i gruppi ribelli della
maggioranza Hutu, tra cui quello guidato da Nkurunziza. L’esercito è stato poi riformato
per includere le fazioni opposte, ma i timori di rivalità etniche persistenti al suo interno
sono rimasti.
del 15/05/15, pag. 16
In Sud Sudan
Tra i profughi del Paese più povero e analfabeta del mondo. Le mucche
come moneta, la scuola tra le tende, le donne tuttofare. Qui solo la
pioggia ferma la guerra
Tra le tende frustate dal vento, appare Ngor. Indica un buco nel telo che fa da tetto a lei e
ai suoi quattro figli, implora che qualcuno glielo ripari. Presto. Perché il cielo è imbronciato
e minaccioso, la stagione delle piogge alle porte. Poco più in là Akuol, 47 anni e un marito
morto al fronte, scava con una zappa una gigantesca buca: diventerà una latrina. «Devo
fare tutto da sola, in fretta, prima che l’acqua ci sommerga» urla da due metri sottoterra.
C’è fermento tra i profughi in fuga dai combattimenti e dalla fame nella tendopoli di
Mingkaman, nell’ultimo Stato al mondo, il Sud Sudan. Chi prepara canali di scorrimento,
chi terrapieni. Il movimento prima della paralisi: quando gli acquazzoni renderanno inagibili
queste dissestate vie di terra rossa, perfino la guerra si fermerà. Potere dell’acqua. La sua
forza arriva dove mesi di negoziati e trattative hanno fallito. Il secondo anno di guerra civile
— un conflitto fuori dai radar internazionali — sta portando il Paese più giovane e più
fragile del mondo sull’orlo della bancarotta e della fame.
Con le piogge si fermano anche le mandrie. I pastori interrompono il loro vagare in cerca
di pascoli. «Con i primi rovesci ci spostiamo al villaggio per assicurarci il cibo» racconta il
leader di un «cattle camp» (accampamento di bovini) in una prateria nascosta tra i rovi
della savana, a pochi chilometri da Mingkaman. Sono loro i «tesorieri» di questo Paese, gli
allevatori, custodi della vera «moneta locale», le mucche: risorsa anti crisi, eredità, status
symbol, mezzo per comprarsi una o più mogli: «Ne occorrono da 30 a 350, a seconda del
rango e della bellezza della donna e se è cresciuta in un cattle camp vale di più» spiega il
capo dell’accampamento, dove i bambini non vanno a scuola «perché è troppo lontana.
Nessuno qui parla di sviluppo, strade e scuole: sono tutti troppo impegnati a fare la
guerra». I bambini scorazzano intorno, qualcuno con un bastone in mano fa il
«guardiano». In questa zona per ora la «grande guerra» tace ma «viviamo nella paura di
furti e attacchi criminali» dice Abuk Wat, avvolto in un panno rosso.
In questo clima di tensione perenne è naturale che ci sia chi preferisce lasciare la famiglia
al sicuro tra i profughi di Mingkaman. Quello che fino a due anni fa era un agglomerato di
tukul — capanne di fango e paglia — nel mezzo del nulla è diventato una sterminata
distesa di teli e tende bianchi con oltre 70 mila sfollati, fuggiti in massa dai combattimenti
che infiammavano Bor e dintorni, sull’altra sponda del Nilo. Traversata che richiede un
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paio d’ore in battello, un viaggio lungo 19 giorni per Ruben Agang e la sua famiglia: «Sono
scappato con moglie, tre figli, genitori e anche con mio nonno centenario» dice indicando
l’anziano seduto davanti alla tenda con una croce alle spalle. «Durante la fuga abbiamo
visto vicini di casa sterminati». Orrore e terrore, fame e sete. Giorni a piedi tra i giunchi
fino a Ziam Ziam e da qui su un barcone fino a Mingkaman.
«Sono cresciuto con la guerra civile e ora, dopo anni, lo stesso destino tocca ai miei figli
— riflette Ruben — . La comunità internazionale vuole subito la pace, ma il Paese è
ancora un bambino, siamo una società analfabeta, dobbiamo istruirci, ecco perché mando
i miei figli a scuola. Voglio che Nancy diventi medico» dice stringendo la sua bimba di tre
anni.
Sono 2.400 i bambini che frequentano la scuola del campo gestita da Save the Children,
cento per classe. Una ventina di aule in bambù con il tetto in lamiera che abbracciano un
enorme cortile. Dentro non c’è nulla, soltanto una lavagna. «Spesso facciamo lezione lì
fuori — dice Malaak, 28 anni, uno dei 19 maestri — sono bambini interessati a tutto».
L’«aula» è sotto il mando: la campanella è suonata, ma loro non se ne vogliono andare. Si
sentono dei privilegiati in un Paese dove 7 bambini su 10 non hanno mai messo piede in
una scuola.
Poco più in là c’è Madit che a tre anni passa il pomeriggio con in braccio il fratellino Magot
di uno, sotto un telo insieme ad altri bambini. Arriva la mamma, il volto segnato dalla
stanchezza: «Qui la vita è dura — dice — andare a cercar legna per cucinare è pericoloso,
bisogna sempre guardarsi le spalle». Le donne rischiano molestie e aggressioni quando
escono dall’accampamento, ma la legna è un’incombenza che spetta a loro. E a loro tocca
anche procacciare acqua e cibo: coltivare i campi, caricarsi sulla testa 50 chili di cereali
quando c’è la distribuzione dei viveri. Per fortuna chi sta qui deve percorrere solo qualche
centinaio di metri per accedere alla propria razione d’acqua giornaliera, 15 litri. Oxfam ha
creato impianti di filtraggio e distribuzione delle acque del Nilo: una manna per
Mingkaman. Tra i passatempi dei ragazzini, il taglio dei tubi di gomma sistemati fuori,
divertimento negato nella tendopoli di Bor dove l’acqua scorre sottoterra .
Quello di Bor non è un insediamento aperto come Mingkaman ma un campo chiuso,
all’interno di una base Onu. Un rifugio violato, teatro di una strage che non si può
dimenticare. «Stavo vendendo i miei chapati (tradizionale pane non lievitato, ndr ) quando
ci hanno attaccato» racconta con il terrore ancora negli occhi Nyachan. «Mi sono
precipitata qui e ho trovato il mio figlio più piccolo che sanguinava, l’avevano ferito a un
braccio» ricorda. È passato un anno dall’assalto, ma per lei e gli altri 2.400 sfollati rimasti
accampati qui quell’irruzione armata, proprio nel luogo in cui avevano cercato protezione,
resta uno choc. Pochi giorni fa si è svolta una cerimonia per commemorare le 59 vittime.
Di etnia nuer, la stessa delle milizie ribelli. E nuer sono gli sfollati di questo campo: una
sorta di «enclave» in un’area dinka, la tribù più numerosa, quella del presidente e dei suoi
seguaci.
Nuer contro dinka, dinka contro nuer. Così viene ridotta la guerra civile scoppiata alla fine
del 2013 in Sud Sudan, a soli due anni dalla nascita del Paese, dopo un conflitto
ventennale per strappare l’indipendenza dal Sudan. A infiammare lo scontro etnico, la lotta
tra il presidente dinka e il suo ex vice nuer, ma soprattutto l’incapacità di condividere il
potere in un Paese dove negli ultimi trent’anni non si è fatto altro che combattere.
La linea del fronte si è spostata molti chilometri più a nord di Bor eppure il campo resta
affollato. Oltre alla guerra tra esercito e milizie, ci sono le violenze etniche. Le atrocità
compiute, un passato che non passa, benzina per ritorsioni e vendette senza fine.
«Abbiamo paura a uscire da qui. Molti di quelli che ci provano vengono uccisi» riferisce il
capo del campo di Bor. Così quelle che dovevano essere sistemazioni provvisorie sono
diventate insediamenti di lunga durata. E pensare che quando per la prima volta proprio in
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Sud Sudan l’Onu ha aperto i suoi cancelli agli sfollati non li ha voluti chiamare campi ma
PoC , siti per la protezione di civili, a sottolinearne il carattere temporaneo.
Il ritorno a casa per molti resta un miraggio nonostante le pressioni del governo che
intende chiudere i campi. Garang aveva provato a rientrare nella sua casa di Bor ma ha
dovuto riandarsene via. «La vita lì è ancora troppo insicura» dice questo giovane
agronomo. Ed eccolo a Mingkaman con moglie e figlia. Lui, dinka, si è messo in salvo
grazie alla soffiata di un amico nuer: «Mi avvisò di un imminente attacco in città e mi
consigliò di scappare».
Impossibile tornare anche per Marza, trent’anni e 4 figli, che parla con in braccio il più
piccolo, nato sei mesi fa sulla strada polverosa per l’ospedale. Saccheggiato e devastato
all’inizio del conflitto, il nosocomio di Bor è stato riportato in vita con l’aiuto di Oxfam che
ha costruito cisterne per l’acqua, bagni e fognature e Medici senza frontiere che offre
supporto tecnico. Nel reparto maternità Nyamei Riek, 21 anni, è radiosa accanto ai suoi
gemellini di 3 giorni. Stanno tutti bene. Un piccolo miracolo nel Paese dove ogni 50 donne
che partoriscono una muore. Anche lei conferma: «Qui siamo dinka, i nuer a Bor stanno
nel campo, fuori li sgozzano».
Scuote la testa Toby Lanzer, responsabile Onu in Sud Sudan: «Per tornare a casa devono
esserci le condizioni: molte abitazioni sono state occupate da soldati feriti; c’è un problema
di sicurezza e una crisi di fiducia tra le 64 comunità etniche». Riconciliazione fallita e
collasso economico: il petrolio forniva il 98% delle entrate, ma ora produzione e prezzi
sono crollati, il costo dei beni raddoppia di settimana in settimana e molti prodotti iniziano
a scarseggiare. Nubi nere su questo giovane Paese governato dalle piogge e dalle
mucche .
Alessandra Muglia
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INTERNI
Del 15/05/2015, pag. 8
La tentazione di Berlusconi “Tornare al tavolo
con Renzi dobbiamo evitare le urne ora siamo
troppo deboli”
Dopo le regionali il Cavaliere non vuole che le riforme saltino I contatti
di Verdini per dar vita ad un gruppo di “responsabili”
TOMMASO CIRIACO
«Io non posso prendere schiaffi da Salvini e farmi trattare da pensionato. Così mi ride
dietro mezza Italia. Dopo le Regionali torno al tavolo con Renzi, che ha bisogno dei nostri
numeri. Oppure mando tutti a…». In questo dilemma si consuma Silvio Berlusconi.
Assente dalla scena, costretto a ripararsi dietro a un antipiretico per ritardare la missione
in Puglia. Terrorizzato dalla disfatta, dopo l’umiliante 4% raccolto in Trentino Alto Adige
che è però servito a prendere atto della realtà: «Se facciamo opposizione, la Lega e i
grillini ci svuotano». Meglio allora pianificare un clamoroso dietrofront, proponendo alla
maggioranza un soccorso azzurro sulla riforma del Senato. Uno stratagemma per uscire
dall’isolamento e allontanare le urne fino al 2017. «Votare oggi sarebbe un disastro».
L’alternativa, così ripete sempre più spesso l’ex Cavaliere, è una ritiro dorato ad Antigua.
Tra le quattro mura di Arcore va in scena il prologo di quanto potrebbe verificarsi il primo
giugno, a urne chiuse. L’allarme scatta a colazione. «Smettetela di insistere - si
innervosisce Silvio Berlusconi, al telefono con i big del cerchio magico - io in Puglia non ci
vado». I fedelissimi sudano freddo. La campagna elettorale è appena iniziata e la
defezione somiglierebbe a una resa anticipata. A Bari, intanto, lo attendono solo poche
decine di militanti. Un mezzo flop. Giovanni Toti e Deborah Bergamini, Maria Rosaria
Rossi e Antonio Tajani si consultano. Il summit improvvisato con iMessage partorisce una
soluzione. Meglio, una toppa: «Ha la febbre, tutto dipende dall’antipiretico». Serve a
prendere tempo. Nel frattempo gli avversari si scatenano e mettono in dubbio l’influenza
fuori stagione: «Forse sono finiti i bei tempi in cui affollava le piazze?». Inizia un pressing
asfissiante. «Presidente, così si mostra debole», ripetono, «penseranno che ha già
mollato». Alla fine Berlusconi cede, ma è solo una tregua. Ormai ha capito di essersi
infilato in un vicolo cieco.
Il primo campanello d’allarme era suonato lo scorso week end, con il tonfo in Trentino. Il
secondo poco dopo, quando Salvini ha invitato l’ex premier a godersi la pensione. «E voi chiede il leader - riuscite a immaginare cosa dirà dopo le Regionali? ». E in effetti se il
centrodestra conquistasse solo il Veneto con Luca Zaia, i toni del segretario padano si
farebbero ancora più aggressivi. Il terzo indizio l’ex Cavaliere lo apprende dai giornali.
“Verdini tratta con Fitto”. Certo, il leader dei frondisti nega convergenze - «ho grande
rispetto per Denis, ma lui punta a dialogare con l'area renziana», ma è ormai chiaro che i
due ribelli, sia pure da posizioni politiche distanti, potrebbero colpire e affondare il capo,
sfilandogli metà dei gruppi parlamentari. E se anche alla fine fosse solo Verdini a
sostenere il ddl Boschi, l’effetto per l’ex premier sarebbe devastante. Non a caso, il piano
vagliato in queste ore da Berlusconi è lo stesso dell’ex coordinatore: offrire a Renzi il
bottino di voti di FI, garantire il via libera alla riforma costituzionale ed evitare la fine
traumatica della legislatura. Esiste un ostacolo di non poco conto, a ben guardare. Non è
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detto che il premier sia disponibile a sedere di nuovo al tavolo con l’uomo di Arcore. Luca
Lotti, che da sempre tratta i dossier più spinosi, non offre sponda ai big del cerchio magico
che cercano di rintracciarlo. E Verdini spiega in privato il perché: «Con Luca il rapporto è
quotidiano. Se FI vuole trattare con Renzi, deve passare da me». Se Berlusconi non
dovesse accettare, si ritroverebbe con una scissione ordita dal garante azzurro del patto
del Nazareno. «Dovessi lasciare il partito – è la linea di Verdini - andrei nel Misto o in un
gruppo autonomo». Difficile invece che ceda alla corte dell’ala meridionale di Ncd e ai
centristi dell’Udc, che continuano a proporre all’azzurro un “matrimonio” filorenziano.
Nelle prossime settimane, comunque, il capo di FI non potrà mostrarsi interessato a
ricucire con Palazzo Chigi. Non prima, almeno, del voto regionale. Il vero scoglio, ora, è
dribblare il nemico interno, quel Fitto che continua a metterne in discussione la leadership:
«Berlusconi rappresenta oggi una politica vecchia e superata - si sgola il capo del frondisti
- noi guardiamo a Cameron». L’anziano leader controbatte colpo su colpo, bocciando il
progetto del ribelle: «Fitto chi? Faccia come crede, comunque, perché il centrodestra non
è diviso - dice all’ Ansama esistono alcune frange eterogenee che si sono messe insieme
per una piccola operazione legata a vecchie logiche notabilari, senza speranza e senza
senso politico». «Gli faremo vedere chi siamo!», la replica. Sullo sfondo, ma solo per
adesso, resta la tentazione dell’addio. Dal Milan alle aziende, non mancano i segnali di
una exit strategy. E anche i suoi ragionamenti non nascondono le crepe: «Chi sarà il
leader? È presto per dirlo - ammette a sera, mettendo finalmente piede in Puglia - i leader
creati a tavolino non hanno mai funzionato. L’ultima parola spetterà ai cittadini».
del 15/05/15, pag. 1/25
La questione morale in periferia
di Gian Antonio Stella
Mancano solo « Genny ‘a carogna » e « Giggino ‘o drink », dicono i nemici di Vincenzo De
Luca guardando le liste elettorali messe insieme dal «mai rottamato» sindaco di Salerno
che corre alla conquista della Campania. E snocciolano un elenco sempre più lungo di
figure più o meno impresentabili: dal fascista nostalgico che andava in pellegrinaggio sulla
tomba del Duce e bollò tre gay «questi mi fanno schifo», ai riciclati dalla lunga carriera
vissuta all’ombra di Nicola Cosentino, dalle mogli di potentissimi padroni delle tessere
forzisti in perenne transumanza da un partito all’altro fino a personaggi ai confini tra la
mala-politica e la mala-vita.
Presenze che, via via che si avvicinano le elezioni ed emergono nuovi nomi e nuovi
curricula , alimentano a sinistra un imbarazzo crescente. Al punto da spingere una
giornalista nemica della camorra e in questa veste eletta in Parlamento dal Pd, Rosaria
Capacchione, la quale solo due anni fa aveva detto all’ Unità «nel Pd non ci sarà mai un
caso Cosentino», a riconoscere: «Su certi temi abbiamo abbassato un po’ la guardia». Di
più: «Troppo facile dire “aspetto la Procura”, non si può lasciare il giudizio politico sui
candidati solo alla magistratura». Roberto Saviano è andato più in là: «Nel Pd e nelle liste
c’è tutto il sistema di Gomorra , indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss.
Il Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione
consolidata».
L’ ex sindaco di Salerno, che non ama le critiche e in uno sketch televisivo invitava a
lasciare i giornali in edicola per comprare piuttosto «una zeppola, una frolla, una riccia,
una sfogliata...», ha risposto che lo scrittore «ha detto un’altra enorme sciocchezza: non
accetto lezioni sul versante della lotta alla camorra».
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Sarà... Ma certo non può essere liquidato con una battuta il tema che sta squarciando la
sinistra campana e non solo, al punto che ieri Rosy Bindi ha fatto sapere che prima del
voto esaminerà i nomi di tutti i candidati nelle liste regionali e farà sapere quali sono gli
impresentabili, cioè quelli in qualche modo legati al voto di scambio.
Un avvertimento che non riguarda solo il Partito democratico, vista la presenza di altri
nomi discussi anche in altri partiti, altre regioni, altre elezioni... Ma che, dati i rapporti
sempre più tesi dentro il Pd, pare l’avvisaglia di un altro scontro interno sulla questione
morale. Tanto più che lo stesso candidato democratico campano è un’«anatra zoppa» a
causa della condanna in primo grado per abuso d’ufficio. La legge Severino è lì: una
tagliola. E il tema minaccia d’essere cavalcato anche dal sindacato, deciso ad aver la pelle
di Renzi per non rischiare di cedere la propria.
«Ci sono candidati che mi imbarazzano e che non voterei neanche se costretto», ha
riconosciuto l’altro giorno il premier e segretario, scaricando la colpa sugli alleati del suo
aspirante governatore e rivendicando comunque che «le liste del Pd sono pulite». «Io non
ne sapevo niente. Una lista l’hanno presentata alle due di notte del Primo Maggio»,
avrebbe confidato De Luca.
Ma il tema è: come è possibile che dopo tante accuse, denunce, inchieste e condanne che
parevano aver messo a nudo certi mestieranti della partitocrazia; dopo tante promesse e
assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati e sinceri; dopo tante campagne
condotte all’insegna di una svolta virtuosa, un po’ tutti i partiti (con l’eccezione scontata del
M5S) siano alle prese con cacicchi locali che anno dopo anno si sono arroccati ciascuno
nel suo piccolo feudo, come se nulla fosse successo, ben decisi a far pesare le loro
rendite di posizione? E non vale solo per i baroni del voto clientelare in rapporti con i
baroni della mala. Men che meno vale solo per la Campania. Comunque le guardi, dalle
Marche dove un decimo dei candidati è indagato per peculato e spese pazze fino alla
Liguria, dove sono sotto inchiesta per reati vari esponenti dell’uno e dell’altro
schieramento, le liste lasciano per lo meno perplessi.
I dubbi sui carichi penali di certi figuri che davvero non possono essere affidati solo ai
giudici, però, sono solo un pezzo del problema. Al di là dei destini giudiziari personali
(auguri a tutti) la domanda, fastidiosa, è: ma davvero ogni prezzo può essere pagato, pur
di vincere?
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 15/05/15, pag. 1/9
I candidati «impresentabili» al vaglio
dell’Antimafia
Iniziativa di Rosy Bindi, i risultati resi noti prima del 31 maggio
ROMA Gli «impresentabili» al setaccio dell’Antimafia. Sul tavolo di Rosy Bindi c’è un
fascicolo alto così, con i nomi dei candidati che negli ultimi giorni hanno riempito le pagine
politiche dei giornali. I curricula di inquisiti, fascisti, presunti amici di «Gomorra»,
trasformisti e via sobbalzando verranno valutati dalla commissione parlamentare. Un
organismo che tra i suoi compiti costitutivi annovera quello di «indagare sul rapporto tra
mafia e politica, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle
candidature per le assemblee elettive».
Sulla base di questo principio la presidente Bindi ha avviato un’inchiesta interna, i cui
risultati saranno resi noti prima delle regionali del 31 maggio. La scrematura delle liste
sarà fatta attenendosi ai dettami del codice di autoregolamentazione, che l’Antimafia ha
approvato all’unanimità il 23 settembre 2014. L’intento non è certo quello di condizionare il
voto, ma di fornire agli elettori un vademecum che consenta di tracciare una linea netta tra
i candidati puliti e gli altri, i cui nomi non andrebbero scritti sulla scheda.
Dal punto di vista della legge Severino sono tutti in regola, anche quelli spuntati nelle liste
di Vincenzo De Luca in Campania e che tanto scandalo hanno suscitato. Il punto, per
Bindi, è l’opportunità politica di infilare, nelle liste civiche che appoggiano l’aspirante
presidente, persone che non sono affatto al di sopra di ogni sospetto. E che magari, pur
senza essere direttamente coinvolte in affari criminosi, hanno legami con famiglie della
malavita.
«L’etica della politica non è misurabile solo con gli atti giudiziari» va ripetendo Bindi, che
ieri alla presentazione della Enciclopedia delle Mafie al Senato ha detto «il garantismo è
un grande valore, ma la politica deve essere molto più rigorosa e darsi un codice di
comportamento più stringente, che non faccia riferimento agli atti giudiziari». Per la ex
presidente del Pd, insomma, la politica deve arrivare prima della magistratura: «Se si dice
che nelle liste ci sono impresentabili si deve anche dire ai cittadini che gli impresentabili
non vanno votati». Il presidente Pietro Grasso ha parlato della «dimensione clientelare
della politica» e del rapporto di scambio con l’elettorato, «sovrapposizione» che non
consente al nostro Paese «un progresso visibile sul piano della lotta alla criminalità
organizzata» .
Il Pd è in allarme. Il presidente della Toscana Enrico Rossi ha dichiarato a Repubblica che
il Pd avrebbe dovuto intervenire da Roma per «bloccare ed espellere, evitare presenze
imbarazzanti e insignificanti». I senatori Capacchione, Cuomo e Saggese hanno chiesto al
Nazareno di «fare pubblicamente i nomi degli impresentabili da non votare» e ora si
dolgono di non essere stati ascoltati: «C’è un problema politico che la segreteria regionale
del Pd non è riuscita a risolvere...».
Ma Lorenzo Guerini assicura che le liste del Pd «sono pulite, di qualità e rispettano il
codice etico interno». Certo, ammette il vicesegretario, alcuni casi «creano amarezza». Un
«supplemento di vigilanza» sarebbe stato utile e bisognerà al più presto aprire una
riflessione su quelle liste civiche che sono diventate «puri collettori di voti». Eppure De
Luca si sente a posto con la coscienza e, senza imbarazzo, chiede a Renzi di
«correggere» la legge Severino che potrebbe impedirgli di governare.
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Al Corriere Nichi Vendola ha detto di vedere «sinistre somiglianze» tra Renzi e Berlusconi,
il quale aveva «confidenza con la mafia». Ma ieri il leader di Sel ha aggiustato il tiro: «Non
penso affatto e non ho mai detto che Renzi abbia confidenza con la mafia. Trovo
semplicemente imbarazzante il suo silenzio alle parole di Saviano sulla presenza di
Gomorra nelle liste associate al candidato Pd della Campania ».
Del 15/05/2015, pag. 10
Giustizia, compromesso sulla nuova
prescrizione per i reati di corruzione
Verrà rivisto il testo della Camera che triplicava i tempi: saranno solo
raddoppiati. Il pressing Ncd
LIANA MILELLA
La paura di andare sotto al Senato, per via dei numeri assai “stretti” della maggioranza,
detta legge sulla prescrizione. In particolare sulla prescrizione per i quattro più importanti
reati di corruzione, quella propria, quella impropria, quella in atti giudiziari, infine
l’induzione. Niente aumento secco, il massimo della pena più la metà, più un altro quarto
non appena si compie un atto nel processo, più l’interruzione di tre anni tra Appello e
Cassazione. Così la nuova prescrizione lunga era passata alla Camera appena il 24
marzo scorso. Adesso non sarà più così, perché la prescrizione non guadagnerà subito
l’aumento che scatterà solo con gli atti compiuti nell’inchiesta. Con un calcolo
approssimativo, sul reato di corruzione, scendiamo da una prescrizione di quasi 22 anni a
18, forse a 16. Un compromesso al ribasso, secondo l’ala più dura del Pd. Un
compromesso necessario, «un buon risultato» secondo il Guardasigilli Andrea Orlando,
che guarda la faccenda in prospettiva: la prossima settimana, alla Camera, il voto
definitivo sulla legge anti-corruzione, con il falso in bilancio punito fino a 8 anni. Poi, al
Senato, il sì alla prescrizione che, se dovesse uscire stravolta, può sempre tornare alla
Camera. Ancora una volta la prescrizione divide la politica. E anche la maggioranza. Gli
alfaniani di Ncd puntano i piedi, impongono un vertice in via Arenula, minacciano di non
votare il testo al Senato, dove il governo Renzi a quel punto andrebbe sotto, suggeriscono
che all’incontro non sia presente Donatella Ferranti, la presidente Pd della commissione
Giustizia della Camera, firmataria del ddl sulla prescrizione in attesa dal 28 febbraio 2014,
autrice del blitz alla Camera del 24 marzo. Con lei fuori anche Walter Verini, il capogruppo
Pd in commissione. Quel giorno a Montecitorio era passato un testo con la prescrizione
lunga per la corruzione, su cui da subito, addirittura in aula, il vice ministro della Giustizia
di Ncd Enrico Costa cominciò a fare la guerra. Calcoli, prospetti, un chiaro avvertimento ad
Orlando, Ncd non vota al Senato se la legge non cambia. Già alla Camera, proprio quel
giorno, Orlando promette in aula che il testo della prescrizione sarà coordinato con quello
dell’anti-corruzione, nel quale proprio il reato di corruzione subisce un aumento, passa
dalla pena massima di 8 anni a 10 anni. Costa insiste: «La Ferranti non ha rispettato i
patti, né le indicazioni del governo. Non si può aumentare la prescrizione due volte con
due leggi contemporanee, una volta perché aumenta la pena, una seconda perché si
aumenta il tempo di prescrizione».
La “guerra” va avanti per due mesi. Ieri arriva allo show down. Nel ruolo di mediatore
David Ermini, il responsabile Giustizia del Pd, attestato su un principio: «Una prescrizione
che dura 18 anni per un reato è più che sufficiente per garantire il processo». L’obiettivo
politico è portare a casa tutte e due leggi, l’anti-corruzione, voto finale in aula alla Camera
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il 22 maggio, e prescrizione al Senato, e rabbonire Ncd. Le prime convocazioni della
seduta, con Ferranti e Verini, vengono cancellate. Sostituite da un elenco in cui loro due
non ci sono perché si parla di un ddl in discussione a palazzo Madama. Chiosa ironico
Verini: «Nessuno ipotizzi cose diverse da quelle affermate pubblicamente da Renzi, cioè
raddoppio dei tempi di prescrizione per la corruzione ».
Ma in via Arenula la faccenda va diversamente. Cade la linea Ferranti. Prevale la linea
Costa. Ermini tratta sull’effettivo raddoppio. Orlando impone nel pacchetto dei reati anche
l’induzione. Non ci sono mai stati abuso d’ufficio e peculato. Materia tecnicamente ostica.
Tesi Ferranti: si aumenta la prescrizione cambiando l’articolo 157 del codice penale che
ne regola il meccanismo, il nuovo massimo della pena, quindi 10 anni, più la metà, cioè 5
anni. Cui aggiungere, com’è adesso, un quarto dei 15, quindi 3 anni e 9 mesi, per gli atti
del processo. E ancora altri 3 anni, la nuova sospensione della prescrizione dopo l’appello
(2 anni) e la Cassazione (1 anno). Siamo a 21 anni e 9 mesi. «Un tempo infinito» chiosa
Costa. Ma al vertice passa la diminutio. «Non mi straccio le vesti - dice Ermini - perché 3
anni in meno non cambiano granché». La prescrizione resta ferma al massimo della pena.
Quindi 10 anni per la corruzione. Via la modifica di Ferranti al 157. Si sposta tutto
sull’articolo 161, che regola sospensioni e interruzioni del processo. L’attuale quarto di
pena in più (2 anni dei 10) dovrebbe diventare la metà (5 anni), anche se Costa e Ncd
premono per un terzo, più i tre anni di Appello e Cassazione. Se si raddoppia arriviamo a
18 anni, altrimenti si scende ancora. Sarà la battaglia del dopo voto, assieme a
intercettazioni a Csm.
del 15/05/15, pag. 8
Via D’Amelio, il falso pentito contro la polizia
In aula a Palermo Andriotta racconta le pressioni per il depistaggio sulla
morte di Borsellino: “Perché pago solo io?”
di Sandra Rizza
Prima ha ricordato le pressioni subite per sviare le indagini sulla strage di via D’Amelio,
rilanciando persino l’ipotesi di una matrice internazionale del depistaggio: “Arnaldo La
Barbera mi promise che se avessi dichiarato quello che lui diceva, mi avrebbero tolto
l’ergastolo e fatto entrare nel programma di protezione Usa.” Poi, l’ex pentito imputato per
calunnia Francesco Andriotta è scoppiato in lacrime: “Vorrei capire perché in quest’aula ci
siamo solo io e Scarantino.
È una vergogna: ricorrerò alla Corte di Strasburgo, scriverò al presidente Mattarella,
chiedo perdono per quello che ho fatto, ma devono pagare anche i funzionari della polizia
di Stato che mi hanno costretto a spedire degli innocenti al 41-bis’’. Il processo Borsellino
quater torna a interrogarsi sul ruolo delle istituzioni nella confezione della verità di comodo
su via D’Amelio e tra i singhiozzi Andriotta, l’uomo accusato con Vincenzo Scarantino e
Salvatore Candura di aver partecipato a quello che il procuratore Sergio Lari definì “il
depistaggio più colossale’” nella storia dello stragismo, si scaglia in aula contro i tre
poliziotti che lo avrebbero obbligato a mentire: Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore
La Barbera, tutti indagati per concorso in calunnia aggravata con l’accusa di aver
indirizzato l’inchiesta su un falso binario, agli ordini del questore Arnaldo La Barbera,
scomparso nel 2002.
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Andriotta, a tratti contraddittorio e persino reticente, ritrova tutta la sua lucidità quando
riferisce che proprio quest’ultimo gli fece avere dei fogli: “Appunti che dovevo imparare a
memoria.” E che Bo, a Torino, in una pausa dell’interrogatorio con il pm Anna Palma, gli
spiegò cosa non doveva dire “per non far saltare il processo.” Ma oggi, a sei anni
dall’apertura, il fascicolo sui tre segugi antimafia è ancora in attesa di definizione. I
poliziotti che per Andriotta “si dovrebbero vergognare” sono funzionari dello Stato che
godono della massima considerazione: Ricciardi, già questore di Novara, è in pensione;
Bo è dirigente presso la Questura di Gorizia e Salvatore La Barbera dirige la Criminalpol a
Roma. Non c’è stata per loro una richiesta di rinvio a giudizio, ma neppure una richiesta di
archiviazione, tanto è vero che Ricciardi e Bo nel novembre 2013 si sono potuti avvalere in
aula della facoltà di non rispondere. Solo La Barbera, il 3 dicembre 2013, ha accettato di
deporre, precisando: “Io ricevevo solo disposizioni”.
Condotta con prudenza dai pm nisseni, consapevoli che le accuse contro i poliziotti
provengono dagli stessi balordi che furono protagonisti della messinscena su via
D’Amelio, l’inchiesta sul depistaggio “istituzionale” prosegue in un clima di totale
riservatezza. E se dagli archivi dell’intelligence è venuto fuori che il questore La Barbera
era al soldo del Sisde con il nome di Rutilius, Lari nel 2012 precisò che fino ad allora gli
accertamenti “non avevano fornito sufficienti riscontri alle accuse nei confronti dei
funzionari di Polizia.” Ma poi? Che ne è stato dell’indagine sul depistaggio di Stato? Di
certo c’è che la procura nissena continua a indagare sul coinvolgimento di eventuali 007
nella strage. A febbraio, l’ispettore Giuseppe Garofalo testimoniò in aula di aver incontrato
tra i rottami fumanti di via D’Amelio un “esponente dei servizi” che faceva domande sulla
valigetta di Borsellino.
Garofalo disse che “non si trattava del capitano Giovanni Arcangioli’’ (accusato e poi
prosciolto per il furto dell’agenda rossa), ma di una persona “compatibile con un soggetto
che in un video appare vicino ad Arcangioli’’. Una rivelazione stoppata immediatamente
dal pm Stefano Luciani: “Faccio opposizione: su questo argomento c’è un’indagine in
corso”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 15/05/2015, pag. 14
LA QUESTIONE IMMIGRATI
L’Italia chiede il comando della missione antiscafisti ma ora i militari frenano
Alfano: “Pronti ad assumere la leadership di azioni mirate sulle coste
della Libia” La Marina: “È solo uno degli strumenti, serve strategia per
trattare con governi locali”
VINCENZO NIGRO
Non sarà facile far partire una missione militare contro i trafficanti di uomini in Libia.
L’Italia, che si è fatta avanti per chiedere alla Ue di organizzarla e all’Onu di approvarla, si
è offerta di comandarla e ospitare il quartier generale, come ha spiegato ieri il ministro
Alfano («Pronti ad assumere la leadership di un piano militare energico contro gli scafisti:
azioni mirate come è stato fatto in Somalia contro i pirati »). Ma nelle ultime ore, di fronte
all’eventualità che una missione militare venga approvata, sono esplosi dubbi e incertezze.
A Palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa, i collaboratori del ministro Roberta
Pinotti frenano le fughe in avanti belliciste: «Avete sentito cos’ha detto il presidente
Mattarella, che tra l’altro è il capo supremo delle Forze armate? Non ci possono essere
interventi in Libia senza richiesta delle autorità locali, e intorno a questa necessità bisogna
ragionare e organizzare le cose nella maniera più opportuna, senza immaginare sbarchi o
lanci di paracadutisti». In queste ore lo stato maggiore della Marina aggiorna e rivede i
suoi piani, ma la verità è che la partita politica è ancora lunga, e di conseguenza gli uomini
dell’ammiraglio Giuseppe de Giorgi hanno ancora troppe opzioni aperte prima di definire la
loro tattica. Non è chiaro cosa verrà approvato, e soprattutto non è chiaro quale sia la
strategia politica del governo italiano non soltanto sulla questione-migranti, quanto sulla
guerra civile in Libia che è il quadro in cui si inserisce l’emergenza. Con quale milizia, con
quale formazione politica allearsi? Quali le autorità politiche riconosciute? E se ci si
appoggia a Tripoli come reagisce Tobruk?
Il meccanismo messo in moto a Bruxelles dal vertice del 23 aprile sta marciando. Ieri il
ministro degli Esteri tedesco Steinmeier, al vertice Nato in Turchia (dove era presente
anche Mogherini), ha detto di «non vedere opposizioni di Russia e Cina in Consiglio di
Sicurezza su una missione anti-scafisti». La Russia aveva detto però che non intende dare
luce verde a un’autorizzazione per colpire indiscriminatamente i barconi a disposizione
degli scafisti, ma ciò in questo momento è quasi un aiuto dato a chi, soprattutto nella
Marina Militare, sta lavorando per riportare con i piedi per terra la parte della politica più
“interventista”. Dice un ammiraglio: «Nessuno può nemmeno immaginare di andare in
villaggi di pescatori per far saltare decine e decine di barconi indiscriminatamente, ma non
si può neppure pensare che atti di cri- minalità e pirateria continuino a essere perpetrati
nel Mediterraneo senza che la comunità internazionale reagisca. Una modalità di azione
può essere individuata, sapendo che l’azione militare è solo uno degli strumenti da
utilizzare». L’ammiraglio si riferisce chiaramente alle reazioni dei due governi libici (quello
filo-islamico di Tripoli e quello filo-egiziano di Tobruk) alle notizie di possibili operazioni
militari Ue/Onu. Tobruk, dove siede il Parlamento sostenuto dall’Egitto che arma il
generale Khalifa Haftar, ha già detto che non tollererà che alcun militare straniero
intervenga in Libia: gli uomini di Haftar vogliono essere loro a ricevere le armi per
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combattere le milizie di Tripoli, sconfiggerle e poi provare a fermare i barconi. Ma i barconi
partono soprattutto dalla Tripolitania, l’area in cui Haftar non è presente. Nelle ultime ore,
dopo un breve rallentamento, i trasferimenti di migranti sono ripresi. In 11 operazioni di
soccorso sono stati assistiti 2.000 profughi, tra l’altro anche da navi militare tedesche e
inglesi e da navi civili organizzate per questo. In un’intervista a una radio americana
l’inviato Onu per la Libia Bernardino Leon ha fatto una sua valutazione: potrebbero essere
ancora 500mila i profughi in grado di essere portati sulla costa libica per provare a
sbarcare in Italia. Leon è molto cauto, non è chiaro quali calcoli gli suggeriscono quella
cifra, ma lui la Libia la conosce bene.
Del 15/05/2015, pag. 9
Libia, nella risoluzione dell’Onu c’è il sì a
colpire i barconi nei porti
La bozza: “Legittimo l’uso della forza”. Obama e i Paesi del Golfo: “Non
c’è soluzione militare”
Paolo Mastrolilli
La risoluzione Onu sulla Libia, che «La Stampa» può anticipare nei dettagli, invoca il
Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite per consentire tre tipi di operazioni militari:
nelle acque internazionali, nelle acque territoriali di Tripoli, e nei porti, con la possibilità
quindi di scendere a terra, se fosse necessario per rendere inutilizzabili i barconi. La
Russia non ha minacciato finora di bloccarla col veto, ma il negoziato è complesso e il
voto potrebbe slittare a giugno. Questo mentre il presidente Obama e i Paesi del Golfo
Persico, riuniti a Camp David, avvertono: «Non c’è soluzione militare per i conflitti in corso
nella regione».
Il collegamento
Il testo, ancora in via di elaborazione, è molto breve, sulle tre pagine. Dopo i preamboli di
rito, dice che esiste un collegamento diretto fra il traffico degli esseri umani, la sicurezza e
la stabilità della Libia. Sottinteso che terroristi e fazioni in lotta ne approfittano. Questo è il
passaggio chiave per invocare il Capitolo VII, che permette di usare la forza e superare la
soglia di una missione umanitaria. Detto ciò, individua con precisione l’ambito geografico
dell’intervento, chiarendo che le unità navali potranno operare nelle acque internazionali,
in quelle territoriali libiche, e anche nei porti.
Non si parla di un intervento di terra, ma se le truppe speciali avranno bisogno di scendere
per rendere inutilizzabili i mezzi dei trafficanti, saranno autorizzate a farlo. La versione
originale degli italiani conteneva la parola «destroy», distruggere, ma si è scontrata con
l’opposizione non solo dei russi, ma anche degli americani, che favoriscono una
risoluzione limitata al problema migrazioni. Quindi è stata tolta, e l’Alto rappresentante per
la politica estera, Federica Mogherini, ha chiarito la modifica quando ha detto che lo scopo
dell’intervento è «destroy the business model», cioè distruggere il modello operativo dei
trafficanti, non bombardarli dall’aria. Ora si cerca il linguaggio alternativo accettabile per
tutti, sulla linea del verbo «dispose», eliminare, anche se non è ancora questo il termine
prescelto. Il comando italiano viene dato per scontato, ma anche la Gran Bretagna, oltre a
Francia, Spagna e Malta, ha una nave militare che già opera nella zona per i soccorsi ed è
disposta a partecipare.
Il nodo dei rifugiati
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L’altra questione fondamentale è il trattamento dei migranti che verranno fermati.
Rispetterà le leggi internazionali, e quindi non potranno essere rimandati indietro. Su
questo è d’accordo anche Londra, che separa la discussione sulla risoluzione da quella
sulle quote di rifugiati che ogni Paese Ue dovrà accettare.
La Russia vuole evitare che si ripeta il 2011, quando la risoluzione per aiutare i civili libici
venne usata per rovesciare Gheddafi, e quindi chiede un linguaggio in cui sia chiaro che
l’intervento è consentito solo per contrastare il traffico. Per il resto, il futuro del Paese è
ancora affidato al mediatore Onu Leon, che ha inviato una proposta di governo di unità
nazionale alle parti in lotta, ha ricevuto le risposte, e sta per rimandare loro una versione
corretta. Leon e la Mogherini sono coinvolti anche nel negoziato con le autorità locali per
la risoluzione.
Essendo basata sul Capitolo VII, sul piano legale non avrebbe bisogno del via libera del
Paese interessato. I partecipanti però non vogliono dare l’impressione di invadere, e quindi
stanno discutendo con il governo in esilio di Tobruk l’invio di una lettera che inviti
l’intervento. Il problema è gestire il rapporto con l’esecutivo islamico di Tripoli, che
controlla le coste da dove partono i barconi. Tobruk non vuole che l’Onu dia ai suoi
avversari un riconoscimento formale, ma almeno sul piano dell’implementazione servirà
che Tripoli dia il proprio assenso. La risoluzione comincerà a circolare la settimana
prossima, e la speranza è farla approvare entro maggio. A causa di questi problemi
negoziali, però, il voto probabilmente slitterà a giugno.
Del 15/05/2015, pag. 9
Intelligence, commando e incursori
Così l’Italia vuole sabotare i trafficanti
Francesco Grignetti
Ad ascoltarla con attenzione, Roberta Pinotti, ministra della Difesa, in Parlamento è
esplicita quando accenna alla regione euro-mediterranea. «E’ qui, nel Mediterraneo, che
l’Italia deve fare di più, perché è qui che in forma diretta siamo più esposti a rischi e
minacce». Per una volta non si cita la Libia, ma è chiaro di che cosa si parla. La ministra
illustra ai parlamentari il Libro Bianco per la Difesa, le luci e le ombre delle nostre forze
armate, la necessità di uno scatto di modernizzazione. Ma tanti discorsi rivolti al futuro
devono fare i conti con il presente. E perciò ecco un’orgogliosa puntualizzazione: «L’Italia
è sia capace, sia disponibile per esercitare un ruolo riconosciuto di responsabilità nella sua
area di riferimento».
Le truppe speciali
Siamo alla vigilia di decisioni importanti a livello internazionale, così alla Difesa è calata
una cortina di silenzio sul quello che realmente sta per accadere. Non è un mistero, però,
che negli Stati maggiori si siano esaminate per mesi le diverse opzioni d’intervento. Che
sarà internazionale e non solo italiano. È stata scartata l’ipotesi di un massiccio intervento
di terra da parte di truppe straniere: sarebbe l’innesco di un’ennesima guerra che nessuno
vuole. Più facile, si fa per dire, sarà la guerra delle ombre, affidata ai commando, agli
incursori, alle truppe speciali. E non per uccidere, bensì per sabotare i mezzi che sono alla
base del traffico di esseri umani. «L’ipotesi – spiega a sua volta il ministro Angelino Alfano
– è un’azione di polizia internazionale in un quadro di legalità internazionale, con azioni
mirate in Libia che possano contrastare gli schiavisti del nostro secolo». Ma siccome il
pericolo è che anche queste «azioni mirate» si trasformino in qualcosa di diverso, la Pinotti
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avverte: «La Difesa metterà al servizio del Paese le sue multiformi capacità di capire,
prevenire, affrontare e risolvere le situazioni di crisi e di sviluppare un tessuto di relazioni
in grado di favorire la stabilizzazione dell’area mediterranea».
I mezzi in campo
Fuori di eufemismo, significa che l’intelligence avrà il compito di prendere gli opportuni
accordi e di dare le giuste informazioni perché nessuna milizia libica si senta aggredita se
qualche barcone - alla maniera di quanto accadde in Albania negli Anni Novanta - all’alba
avrà la chiglia sfondata. «È un compito che gli incursori della marina e dell’esercito sanno
fare benissimo», avverte Carlo Biffani, un esperto del ramo sicurezza, già ufficiale del 9°
reggimento Col Moschin. Per i blitz occorreranno navi al largo, sottomarini, elicotteri, e
soprattutto un’attenta vigilanza dal cielo grazie a droni e satelliti. Forse non è un caso se il
dispositivo aeronavale «Mare Sicuro», di una decina di navi e circa 2000 uomini, già da un
mese è da quelle parti.
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WELFARE E SOCIETA’
del 15/05/15, pag. 19
Mamme tardive
In Italia il primato dei parti da over 40 Solo la Spagna ha la stessa
tendenza «Lo Stato spende poco per la famiglia»
DALLA NOSTRA INVIATA BRUXELLES Fattori culturali? In parte sì. Talvolta anche una
scarsa consapevolezza. E questo, forse, è l’aspetto che colpisce di più. Ma non l’unico.
Dietro alla mappa disegnata da Eurostat sull’età delle primipare nei 28 Paesi dell’Unione
europea si disegna in filigrana una realtà complessa che tiene insieme economia e
politiche sociali.
Partiamo dai numeri. La maggioranza delle donne europee (il 51,2%) partorisce il primo
figlio in un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, la media è di 28 anni e sette mesi. In Italia le
mamme in questa fascia sono solo il 38%, la nostra età media è infatti di 30 anni e sei
mesi. Siamo invece il Paese in Europa con il tasso più elevato di donne che fanno il primo
figlio dopo i quarant’anni: 6,1%, contro una media europea del 2,8%. La maggioranza
delle italiane, il 54,1%, partorisce per la prima volta tra i 30 e i 39 anni, contro una media
Ue del 40,6%. Più numerose di noi in questa fascia di età sono solo le spagnole: sei su
dieci. Nel gruppo delle mamme «ritardatarie» ci sono anche l’ Irlanda (52,7%) e la Grecia
(51,9%). Sono gli stessi Paesi in cima alla classifica delle mamme ultraquarantenni, oltre a
essere quelli che hanno sofferto di più negli ultimi anni per la crisi economica.
Nella Vecchia Europa si distinguono la Francia, dove sei giovani su dieci partoriscono tra i
20 e i 29 anni e la Germania, dove il rapporto è 5 su dieci. Si difendono bene anche i
Paesi del Nord Europa, ma il primato delle mamme giovani va ai Paesi dell’Est Europa.
Dare la colpa alla crisi sarebbe la scusa più facile, in realtà «ormai da parecchi anni l’età
media delle donne che affrontano la prima gravidanza è più elevata rispetto al passato e le
cause sono molteplici, incluse quelle congiunturali. Uno degli impatti della crisi economica
in Italia è stato quello di spingere a posticipare la decisione di avere figli in attesa di una
condizione lavorativa meno precaria», osserva Alessandra Casarico, docente di Scienza
delle Finanze all’Università Bocconi ed esperta di temi di economia di genere. «Ma il
problema è più ampio — prosegue — e coinvolge oltre alla partecipazione femminile al
mondo del lavoro (c’è una correlazione tra bassa fecondità e bassa occupazione
femminile) anche lo sviluppo dei servizi a sostegno della maternità. E poi c’è quello che i
demografi identificano come una rigidità tipicamente italiana nella programmazione dei
figli». Lo spiega bene Giampiero Dalla Zuanna, professore di Demografia dell’Università di
Padova: «Ci sono due tendenze che si sovrappongono. Da un lato la maternità tardiva è
un fenomeno tipico dell’Occidente, dove donne e uomini accostano a quello della
maternità/paternità anche altri desideri come realizzarsi nel lavoro e avere più tempo
libero. È una fase della modernità come era stato per i babyboomer abbassare l’età in cui
avere il primo figlio. Dall’altro lato, i Paesi della sponda sud del Mediterraneo così come il
Giappone e la Corea del Sud, sono caratterizzati da legami di sangue molto forti e
accomunati dalla tradizione culturale di attribuire una grande importanza ai figli. Questo
impone condizioni indispensabili più stringenti per mettere al mondo un figlio: creazione di
una famiglia, acquisto della casa, lavoro sicuro, tutti elementi che portano a posticipare la
decisione. È difficile da noi vedere una studentessa-madre, nei Paesi del Nord non è
così». In più, osserva Dalla Zuanna c’è l’aspetto sociale: «In questi Paesi il figlio viene
considerato come un bene privato e lo Stato investe poco sui bambini e sulle politiche di
conciliazione. Basti pensare che in Italia un terzo dei bambini fino ai tre anni è affidato ai
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nonni». E in effetti, osserva Casarico, «nel nostro Paese la spesa pubblica per la famiglia
è pari a circa l’1,4% del Pil», contro al 5% della Francia, dove il numero di figli per donna è
di 2 dal 1973 mentre l’Italia è scesa a 1,42.
«Certo la crisi economica ha reso più difficile avere figli — conclude Dalla Zuanna —. Ma il
rinviare ha conseguenze molto più pesanti di quanto si creda, perché non è detto che poi a
40 anni le coppie che programmano un figlio riescano ad averlo. E infatti sono aumentate
le richieste di adozioni in età tardiva. Talvolta la scelta di aspettare nasce da
un’informazione non adeguata e si sottovaluta che la fertilità dopo i 30 anni diminuisce. È
bene pensarci».
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 15/05/15, pag. 8
Unioni civili, stop al Senato: il testo va già in
vacanza
In Commissione prevale la linea di area popolare (ncd più udc) e tutto si
ferma. si riprende a settembre
di Tommaso Rodano
Arrivederci unioni civili. La legge che introduce il riconoscimento giuridico delle coppie
omosessuali è stata bloccata in commissione Giustizia del Senato da oltre 4200
emendamenti (in buona parte sotto la regia degli alfaniani di Area popolare e
dell’onorevole Carlo Giovanardi). Nella frenata c’è altro, però: la cautela del premier e
della maggioranza. Dopo tanti annunci trionfali sulla svolta nei diritti civili, il governo ora
non ha più fretta. Anzi, valuta l’opportunità di prendersi una pausa di riflessione. Non
breve.
Come riferisce una fonte del governo all’agenzia parlamentare Public Policy, in
commissione non si tornerà a parlare di unioni civili prima della fine dell’estate. D’altronde,
a fine maggio ci sono le regionali. E dopo le regionali a palazzo Madama si comincerà a
discutere di riforma Costituzionale. È proprio il caso, per il Partito democratico, di andare a
cercare lo scontro con la sensibilità cattolica degli alleati di governo?
Le coppie omosessuali porteranno pazienza. La legge, che porta la firma della senatrice
dem Monica Cirinnà, ricalca il modello tedesco: le coppie omosessuali avrebbero diritto ad
iscriversi in un apposito registro dedicato alle unioni tra persone dello stesso sesso.
Significherebbe avere la possibilità di godere degli stessi diritti e doveri delle coppie
eterosessuali sposate: come la reversibilità della pensione, il diritto alla successione e a
partecipare alle graduatorie per l’assegnazione delle case popolari.
La legge non introdurrebbe l’adozione tout court per le coppie omosessuali, ma la
cosiddetta stepchild adoption: l’adozione del bambino che è figlio biologico di uno solo tra i
due componenti della coppia. Come lo stesso Pd si è premurato di specificare più volte,
per tranquillizzare i suscettibili alleati di governo, la legge portata in commissione non
porterebbe all’equiparazione tra il matrimonio gay e quello tradizionale: le nozze
rimarrebbero prerogativa delle coppie eterosessuali.
Cautele che evidentemente non sono bastate ai senatori di Area Popolare. Gli alfaniani si
sono sbizzarriti: 2.778 emendamenti. Il senatore Giovanardi ha voluto fare la parte del
leone: le sue personali proposte di modifica sono 282. Altri 829 emendamenti sono arrivati
da Forza Italia, 332 da Gal. In totale siamo sopra quota 4 mila. Ma come detto, ora Renzi
non ha più fretta: vengono prima le regionali, poi la riforma della Costituzione. Si deve
essere dimenticato, il premier, di una lunga sequela di annunci trionfali.
Che partono da lontano: 19 ottobre 2014. Ignazio Marino trascrive le nozze gay sui registri
del Campidoglio. Renzi non vuole essere da meno. Confida i suoi progetti a Barbara
D’Urso, su Canale 5: il testo sulle unioni civili sarà a Palazzo Madama entro l’anno,
massimo a gennaio 2015. Passa un po’ di tempo, si supera la data dell’annuncio, arriva un
altra dichiarazione enfatica. È il 9 febbraio, titolone del Messaggero: “Riforme, Matteo
Renzi rilancia: subito unioni civili e cittadinanza”.
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“Si comincerà dal Senato – si legge – con il testo sulle unioni civili già incardinato in
commissione e frutto dell’intesa raggiunta nella maggioranza”. Sarà. Passa un altro mese.
Il 17 marzo, una nuova sferzata: “Basta perdere tempo sui diritti. Unioni civili entro
primavera”. L’annuncio è a stampa (quasi) unificata. Ivan Scalfarotto specifica, al Corriere:
“Unioni entro maggio, ma solo per le coppie gay. Gli eterosessuali hanno già il
matrimonio”. Dopo l’approvazione dell’Italicum, si suggerisce che Renzi sia pronto a
ricucire lo strappo con la minoranza con riforme “di sinistra”, e allora avanti tutta. L’ultimo
annuncio, prontamente rilanciato dall’Espresso: “Matteo promette: unioni civili entro
l’estate”. Sotto l’ombrellone, invece, ci saranno solo i 4 mila emendamenti degli “alleati”. E
la passione per i diritti va in vacanza.
Del 15/05/2015, pag. 12
Fecondazione, cade l’ultimo tabù “Via libera
alle coppie fertili se hanno malattie
genetiche”
La Consulta: anche loro hanno diritto di fare la diagnosi pre-impianto La
legge 40 smontata dai giudici: in dieci anni norme cambiate da 36
verdetti
Fertili, ma portatori di malattie genetiche, per anni hanno vissuto con il terrore la voglia di
diventare genitori. Con giorni segnati dalla drammatica scelta di mettere al mondo bambini
con poche speranze di vita o ritrovarsi ad abortire al quinto mese. Ora, la Corte
Costituzionale gli da la speranza di avere figli che non debbano soffrire per le loro
patologie, che abbiano un futuro. Ieri, dopo un mese di lunghe riunioni all’insegna del
silenzio, la Consulta ha infatti deciso: è incostituzionale la norma della legge 40 che
vietava l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita, e dunque alla diagnosi preimpianto, alle coppie fertili ma portatrici sane di patologie genetiche. Per capire bene in
quali i termini i giudici hanno dichiarato incostituzionale la norma, bisognerà attendere la
pubblicazione delle motivazioni della sentenza, visto che non ci sono state volutamente
dichiarazioni ufficiali da parte della Consulta. Una cosa però è certa: da oggi le coppie
portatrici di malattie genetiche, come la distrofia muscolare o la fibrosi cistica, potranno
fare la diagnosi pre-impianto. Potranno insomma sottoporsi alla tecnica che consente di
individuare gli embrioni sani e di trasferire solo quelli in utero. «Nessuno deve più ritrovarsi
al quinto mese con la tragedia di scegliere un aborto che è praticamente un parto. Perché
quello che noi desideriamo è solo una gravidanza serena, che non finisca con un aborto o
con figlio con bassissime possibilità di sopravvivenza. Cerchiamo solo di crearci una
famiglia in un Paese che viene sempre dipinto negativamente per la bassa natalità»,
hanno detto Maria Cristina Paoloni, Armando Catalano, Valentina Magnanti e Fabrizio
Cipriani, che con le loro storie hanno convinto i giudici. «Siamo felici, questa è una vittoria
dei malati» hanno commentato la decisione i loro avvocati Filomena Gallo (segretario
dell’Associazione Luca Coscioni), Gianni Baldini e Angelo Calandrini, legali che da anni
seguono i procedimenti sulla legge 40. «È una bellissima notizia. Leggeremo con
attenzione il dispositivo della Corte Costituzionale che da un altro colpo a una legge
ingiusta, perché ripeto, la Legge 40 è una legge ingiusta». Così la senatrice Pd Emilia De
Biasi, presidente della Commissione Sanità del Senato. Ma la decisione dei magistrati non
ha provocato solo commenti positivi. «La caduta del divieto di diagnosi genetica pre38
impianto apre una serie di interrogativi cui sarà difficile dare risposta, legata in primo luogo
al mancato rispetto di tutte le vite umane, alcune delle quali, per sentenza, hanno minor
valore perché disabili». Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione
Scienza & Vita. Questa della Corte Costituzionale è l’ennesima bocciatura per la legge
sulla fecondazione assistita, smantellata in dieci anni a furia di ricorsi, dalle coppie, con i
loro drammi, la loro voglia di non sentirsi più cittadini di serie B. Sono state 36 decisioni dei
tribunali di cui 3 della Consulta. Tra le bocciature più importanti e recenti: il divieto di
fecondazione eterologa, l’obbligo di impiantare al massimo tre embrioni e tutti insieme, il
divieto di accesso alle tecniche (e conseguentemente alla diagnosi pre-impianto) alle
coppie fertili.
Del 15/05/2015, pag. 20
Il Parlamento arcobaleno record di deputati
gay l’ultima rivoluzione della Gran Bretagna
La svolta di Cameron: più attenzione ai diritti civili e via libera ai
matrimoni tra omosessuali
ENRICO FRANCESCHINI
QUANDO a metà degli Anni ‘80 l’allora deputato conservatore Matthew Parris confessò al
primo ministro Margaret Thatcher di essere gay, la “lady di ferro” gli mise un braccio sulla
spalla e commentò addolorata: «Deve essere molto difficile per te parlare di una cosa
simile, non è vero?». E ancora una decina d’anni dopo Tony Blair, premier laburista, non
riusciva a fare a meno di domandare al suo consigliere Lance Price, dichiaratamente gay:
«Ma cosa provi quando vedi una donna?». Da allora molta acqua, come si suol dire, è
passata sotto i fiumi del Tamigi. E adesso una ricerca universitaria aggiunge un nuovo
risultato alle elezioni britanniche della settimana scorsa: il Regno Unito ha il parlamento
con il maggior numero di deputati apertamente gay o lesbiche al mondo. Sono in tutto 32,
pari al 5 per cento del totale dei parlamentari. Appartengono a tutti i partiti: 13 sono
laburisti, 12 conservatori, 7 dello Scottish National Party. In Svezia, i membri gay del
parlamento sono 12, il 3,4 per cento del totale. In Germania sono 9, l’1,7 per cento. Negli
Stati Uniti sono 6, l’1,3 per cento. In Francia sono 2, lo 0,3 per cento. Insomma, la
bandiera arcobaleno — comunemente associata con le lotte per i diritti del movimento
Lgbt (Lesbiche Gay Bisessuali Transgender) — avrebbe diritto di sventolare sopra il
parlamento di Westminster, accanto all’Union Jack della Gran Bretagna.
La percentuale dei deputati gay o lebsiche della camera dei Comuni riflette più o meno
quella di gay e lesbiche nella società britannica (stimato tra il 5 e il 7 per cento della
popolazione). In parlamento, in effetti, si è sempre saputo che ce n’erano un buon numero:
ma fino a non molti anni or sono restavano “nell’armadio”, come si dice in inglese, ovvero
non avevano il coraggio di dichiararsi tali. Il primo deputato dichiaratamente gay a
Westminster fu Stephen Twigg, un giovane laburista eletto nel 1997: l’anno in cui la vittoria
di Blair mise fine a 17 anni di governo conservatore, e dunque una svolta epocale per
molte ragioni. Paradossalmente, tuttavia, negli ultimi anni sono stati i Tories ad accelerare
la fine della discriminazione politica nei confronti degli omosessuali. Non per nulla la legge
sul matrimonio gay è opera del governo di David Cameron, il quale ne ha fatto uno dei
suoi baluardi: «Noi conservatori siamo per la famiglia e i valori tradizionali », ha detto,
«dunque siamo a favore del matrimonio». Per eterosessuali o omosessuali, ha aggiunto,
non fa differenza. E se i deputati gay laburisti sono in leggero vantaggio su quelli
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conservatori (un seggio in più), i Tories avevano ai Comuni più gay di tutti: 42 (comprese
tre donne), seguiti da 39 liberaldemocratici, 36 del Labour, 21 verdi, 7 dell’Ukip, 7 del
partito nazionalista scozzese, 3 del partito del galles e 1 del partito unionista nordirlandese. In Inghilterra non solo sem- bra caduta la discriminante anti- gay, ma pare che
essere gay aiuti a essere eletti: l’analisi del professore Andrew Reynolds, autore della
ricerca pubblicata ieri dal Guardian e dal Times, indica che alle ultime elezioni i candidati
apertamente gay, nei seggi giudicati vincibili, hanno ottenuto mediamente più voti dei
candidati eterosessuali. Ciò non significa che le discriminazioni siano finite: Stonewall,
l’associazione britannica per i diritti di gay, lesbiche, bisessuali e transgender, lamenta il
fatto che non ci sia un solo ministro Lgbt nel nuovo governo insediato questa settimana da
Cameron. Oltretutto, come ministro per l’Eguaglianza tra i sessi il premier ha scelto
Caroline Dinenange, che votò contro la legge sul matrimonio gay nel precedente
parlamento. A livello sociale, inoltre, i progressi sono difformi: il 55 per cento dei giovani
gay, per esempio, sono rimasti vittime di episodi di bullismo, secondo dati raccolti da
Stonewall. E il professor Reynolds sostiene che il numero reale dei deputati gay o lebsiche
sia più alto di quello della sua statistica, perché molti parlamentari continuano ad avere
paura a dichiarare la propria sessualità. Ma in trent’anni, dalla Thatcher a Cameron, i gay
in Gran Bretagna ne hanno fatta di strada. E ora possono vantare il parlamento più rosa
del mondo.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 15/05/15, pag. 24
IL NOBEL AMARTYA SEN
La fame è un problema economico
La produzione di generi alimentari legata al diritto inalienabile al cibo
L’intervento che segue è un ampio stralcio del discorso che Amartya Sen tiene oggi, a
Milano (ore 10,30, Palazzo Edison - Foro Bonaparte 31), in occasione del primo
appuntamento del ciclo di conferenze “Innovation, Institutions and Economy during Expo
2015”, organizzato dalla Fondazione Edison. Il premio Nobel Sen proprio ieri ha firmato la
Carta di Milano: «È un grande piacere firmare questo documento dai contenuti così
importanti».
Il protrarsi della diffusa piaga della fame nel mondo – un mondo oggi più ricco di quanto
sia mai stato – è un problema gravoso. Dobbiamo comprendere i rapporti di causa ed
effetto che stanno dietro al persistere sia della fame endemica – di intensità variabile –
della quale soffre una considerevole percentuale della popolazione mondiale, sia
dell’occasionale manifestarsi di gravi carestie che mietono la vita di un gran numero di
esseri umani devastando quella di molti altri.
Il primo concetto da chiarire per comprendere il problema della fame nel mondo e il suo
perdurare è la necessità di considerare la privazione di cibo come un problema
economico, invece che un “problema alimentare” strettamente definito. Oltre quarant’anni
fa, nel 1981, nel mio libro intitolato “Poverty and Famines” (Povertà e carestie), per
spiegare le carestie cercai di utilizzare un concetto che definii “diritto inalienabile al cibo”,
ma questo concetto è fondamentale anche per comprendere il rapporto di causa ed effetto
delle penurie di cibo di vario tipo – la fame endemica moderata e la carestia saltuaria,
catastrofica e letale.
L’idea di fondo della definizione di “diritto inalienabile al cibo” è estremamente semplice ed
elementare. Dal momento che i generi alimentari e altri beni primari non sono distribuiti
gratuitamente alla popolazione, il loro consumo in genere – e la possibilità delle persone di
consumare cibo in particolare – è legato e dipendente dal paniere di beni e servizi che gli
individui possono comprare per sé (o al quale hanno in altro modo diritto). In un’economia
di mercato, la variabile fondamentale è la quantità di cibo che una persona può acquistare
sul mercato, o può possedere direttamente perché lo produce in un proprio appezzamento
di terreno (il che è importante in particolare per chi coltiva da sé prodotti alimentari da
raccogliere). La presenza di molto cibo nel mondo, o in un paese, o perfino in una data
località, di per sé non necessariamente rende più facile per una vittima dell’inedia
procurarsi il cibo. Ciò che possiamo comprare dipende dal nostro reddito, e ciò a sua volta
dipende da quello che abbiamo da vendere in cambio (ovvero i servizi che siamo in grado
di offrire, i beni che produciamo, o la forza lavoro che possiamo mettere in vendita con
un’occupazione retribuita). Quanto cibo e quanti altri beni di prima necessità siamo in
grado di comprare dipenderà quindi dalla rispettiva condizione occupazionale, dal livello
dei salari e delle altre retribuzioni, nonché dai prezzi dei generi alimentari e dei beni di
prima necessità che compriamo con le nostre entrate. La fame e l’inedia, come cercavo di
sostenere già nel mio libro del 1981, derivano dal fatto che alcune persone molto
semplicemente non hanno abbastanza cibo da consumare, e non sono indicative del fatto
che in un determinato paese o in una determinata regione non c'è abbastanza cibo da
consumare.
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Pertanto, una variabile fondamentale di cui tener conto è l’“insieme inalienabile” dei beni di
prima necessità che siamo in grado di comprare (o possediamo in altro modo). Da tale
insieme inalienabile di beni di prima necessità, il nucleo famigliare può scegliere uno
qualsiasi dei panieri alternativi che sono alla portata delle sue possibilità economiche. La
quantità di cibo contenuta in ciascun paniere determina che cosa è in grado di consumare
quella famiglia, e ciò a sua volta determina se i membri di quel nucleo famigliare saranno
costretti a patire la fame o meno, oppure se resteranno in condizioni di fame endemica.
In un’economia di mercato, i diritti acquisiti devono dipendere tra altre cose dal tipo di
risorse di cui disponiamo, da quali sono le nostre capacità, e per buona parte del genere
umano ciò per lo più consiste – in qualche caso in via esclusiva – nella propria forza
lavoro. Nel caso di coloro che sono relativamente meno poveri, a ciò si integrano i terreni
e gli altri beni di proprietà che possono essere utilizzati direttamente per produrre o
possono essere messi in vendita sul mercato. Ma tutto dipende anche da quali opportunità
il mercato offre al nostro lavoro e ai beni e servizi che possiamo mettere in vendita, e quali
prezzi e disponibilità vi sono per i generi alimentari e gli altri beni di prima necessità che ci
auguriamo di poter comprare con i soldi che guadagniamo. Ne consegue che avere cibo
da mangiare a sufficienza o essere costretti a patire la fame dipende dalle nostre capacità
personali e dalle condizioni di produzione e scambio che nell’insieme definiscono i nostri
diritti acquisiti. Se non siamo in grado di comprare abbastanza cibo da soddisfare la nostra
fame, non ci resta che patire la fame. Fame e privazione del cibo nascono primariamente
dal fallimento del nostro diritto acquisito.
Come ho detto poco sopra, la fame non è esclusivamente un “problema alimentare”, ed è
in verità un elemento di un più generico “problema economico”. Le difficoltà a rispettare il
diritto alimentare inalienabile sorgono per molteplici ragioni, oltre che per le difficoltà legate
alla produzione di cibo. Eppure, come è facile vedere, le due cose non sono scollegate
l'una dall'altra. Come si rapporta la produzione di generi alimentari al concetto di diritto
inalienabile al cibo? La produzione di cibo non agisce da fattore che condiziona in modo
importante il diritto inalienabile al cibo. Fame e inedia possono essere considerevolmente
condizionate dalla scarsa quantità della produzione alimentare. Per esempio, una famiglia
di contadini può dover patire la fame perché la produzione dei suoi raccolti crolla a causa,
per esempio, di siccità o di alluvione. In una catena differente di rapporti di cause ed
effetti, una famiglia di dipendenti salariati può dover patire la fame perché i prezzi dei
generi alimentari aumentano troppo in seguito a raccolti andati male. Volendo analizzare
un altro collegamento ancora di questo tipo, coloro che lavorano nel settore agricolo
possono dover patire la fame e l’inedia se perdono i loro posti di lavoro in seguito a una
diminuzione della produzione dei raccolti. Un simile rapporto di causa ed effetto può
presentarsi similmente nella produzione agricola di generi non alimentari. Nondimeno, la
produzione di generi alimentari e agricola in genere non può non essere un elemento
fondamentale che condiziona il diritto inalienabile al cibo della gente, e questa influenza
può operare attraverso molteplici canali distinti. Dobbiamo tenere conto infatti di altri
processi economici al di là della produzione alimentare, quali l’occupazione e il crollo nei
salari reali, ma non possiamo trascurare l’importanza dei generi alimentari stessi. Tutto sta
quindi nell'allargare la nostra visione delle cose, nel non sostituire a uno sguardo limitato
(che si concentra quindi sulla sola fornitura di generi alimentari) un altro sguardo
altrettanto limitato (e ignorare il ruolo che la catena di generi alimentari ha nel suo
insieme).
(Traduzione di Anna Bissanti)
La versione integrale dell’intervento di Amartya Sen Amartya Sen
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INFORMAZIONE
Del 15/05/2015, pag. 6
Il piano
La legge stenta in Parlamento, e il governo studia un piano B. No al
decreto, ma nemmeno alla proroga dell’attuale vertice
L’allarme di Palazzo Chigi slitta la riforma
della Rai l’ipotesi di un nuovo cda nominato
con la Gasparri
GOFFREDO DE MARCHIS
Matteo Renzi si prepara a rivoluzionare i vertici della Rai ma con la vecchia legge
Gasparri. È un’ipotesi ma il premier ha paura che il Senato stia andando troppo piano, che
il ricambio a Viale Mazzini possa complicarsi se si attende l’approvazione della riforma che
lui stesso ha presentato. Dunque, Renzi comincia a ragionare sul rinnovo dei vertici con le
regole che ci sono già. Prima dell’estate, se serve, quando saranno più chiari i progressi
nell’esame parlamentare del provvedimento governativo. A Palazzo Chigi non sono
granchè fiduciosi.
Il premier aveva detto: «La tv pubblica è un luogo di cultura, non può essere governata da
una legge che porta il nome di Gasparri». Così era nato il disegno di legge di riforma,
sull’onda di questo principio e di una scadenza improrogabile: gli attuali amministratori di
Viale Mazzini concludono il mandato il 25 di questo mese. Adesso Renzi medita di
cambiare le carte in tavola. Costretto, obbligato dagli eventi, spiega ai suoi fedelissimi.
«Stanno insabbiando il nostro disegno di legge al Senato. E io non voglio prorogare il
consiglio in carica. Se non si danno una mossa, faremo le nomine con la legge vigente», è
il concetto che da qualche giorno si sente ripetere a Palazzo Chigi. Il Parlamento non dà
segnali di voler imprimere l’accelerazione necessaria e il capo del governo studia il piano
B peraltro annunciato pubblicamente nella conferenza stampa in cui fu presentato il testo
della riforma. «Se non va bene, non ci sarà alcun decreto. Procederemo con la Gasparri»,
disse Renzi. Ed è la strada che sembra segnata.
Al Senato l’iter sulla riforma è partito. La legge è in commissione. Sono in corso le
audizioni degli esperti e dei vertici Rai. L’impressione però è che i tempi non siano
brevissimi. Anche l’attenzione del premier non è la stessa dedicata a provvedimenti più
cari all’esecutivo: la legge elettorale o il Jobs act o la scuola. In realtà il capogruppo del Pd
a Palazzo Madama Luigi Zanda, che tiene i collegamenti Parlamento-governo, rassicura.
È certo di aver raggiunto un accordo nella commissione che potrebbe portare alla prima
approvazione del ddl entro metà giugno. Il testo verrebbe poi trasmesso alla Camera
dove, con numeri della maggioranza più garantiti, potrebbe davvero vedere la luce a luglio.
Secondo il cronoprogramma renziano, quindi.
Eppure Renzi non è convinto e parla di «affossamento», di «ritardi», di «tira e molla ». Il
decreto lo ha escluso da subito, di concerto con Sergio Mattarella che aveva comunicato,
discretamente, le sue perplessità. Il Quirinale era intervenuto anche sul testo, cassando
l’ipotesi di consiglieri eletti dalle Camere riunite, procedura prevista nella Costituzione solo
per precise fattispecie. Il progetto di riforma firmato da Antonello Giacomelli è nato anche
su queste basi e con l’urgenza dei tempi di fine mandato dell’attuale vertice guidato da
Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi.
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Un testo che ha qualche punto critico ma che con un accordo blindato può fare
velocemente la sua corsa. La presidente Tarantola ha fatto notare proprio l’altro ieri il nodo
dei poteri dell’amministratore unico, figura chiave della riforma. «Il Cda appare mantenere
un ruolo sulle nomine che spettano all’ad sentito il consiglio. Ma l’ad dovrebbe potersi
discostare dalle opinioni del consiglio anche sulle nomine editoriali. Bisogna evitare
incertezze applicative». L’altro novità, quella del consigliere eletto dai dipendenti (1 su 7),
sconta l’incertezza normativa. Dovrebbe essere eletto dall’assemblea dei lavoratori,
assemblea che però non esiste nello statuto dell’azienda, e sulla base di un regolamento
che va costruito dal nulla. Così si rischia di avere, per due o tre mesi, un cda monco di un
consigliere.
La Gasparri è immediatamente applicabile ma non ha meno problemi. La commissione di
Vigilanza, l’organo che elegge i 9 consiglieri e il presidente, è balcanizzata. Il Pd ha 16
membri ma molti sono bersaniani, Forza Italia è spaccata come in Parlamento, i 5 stelle
hanno una loro forza: il presidente Roberto Fico e 6 parlamentari (possono strappare un
consigliere). Il vero problema è come eleggere il presidente Rai che ha bisogno del voto
dei 2/3 della Vigilanza. Una maggioranza qualificata, a oggi, appare difficilissima da
individuare. Però questa è la via scelta da Renzi. Gli attuali consiglieri saranno tutti
sostituiti, a cominciare da Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, esponenti della società
civile. Verro, De Laurentiis e Rositani hanno raggiunto il limite di due mandati. È già
cominciata la competizione per queste poltrone. Ma il governo guarda soprattutto alla
direzione generale. Alcuni nomi sono già stati sondati dal premier. Nella rosa ristretta ci
sono due uomini e due donne. L’attuale amministratore delegato di 3 Vincenzo Novari è in
pista, insieme con il vicepresidente di Sky Andrea Scrosati. Ma Renzi è tentato dall’idea di
una donna al comando operativo dell’azienda. I nomi in pole sono due: Patrizia Grieco,
presidente di Enel e Marinella Soldi, amministratore delegato di Discovery Channel.
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SCUOLA,INFANZIA E GIOVANI
Del 15/05/2015, pag. 2
Scuola, l’alt del Garante “Blocco scrutini
illegittimo pronto a precettare i prof”
La riforma approda in aula tra le polemiche, mercoledì il voto finale
Appello dei sindacati ai parlamentari: “Venite in piazza a protestare”
CORRADO ZUNINO
«Il blocco degli scrutini è illegittimo». Il Garante sugli scioperi, Roberto Alesse, lo dice per
tempo, anche se al momento non c’è alcuna comunicazione ufficiale su uno sciopero che
possa interferire con le valutazioni di fine anno. In una nota Alesse ha scritto: «Auspico
che la precettazione resti solo un’opzione teorica perché, in caso di blocco degli scrutini,
sarebbe la via obbligata e doverosa per evitare la paralisi dei cicli conclusivi dei percorsi
scolastici». In verità, dopo gli ammorbidimenti di Cisl e Uil, il segretario della Gilda, Rino Di
Meglio, aveva spiegato che l’arma del blocco degli scrutini era nata spuntata: «Per legge
abbiamo solo due giorni a disposizione».
Il giorno dopo il video di Matteo Renzi alla lavagna per raccontare la sua “Buona scuola”, è
arrivata — ieri — la reazione (spesso in video) di sindacati e studenti.
«È inutile che Renzi mostri i muscoli, nessuno riforma il Paese da solo», ha detto
Annamaria Furlan. Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Il premier deve andare
dietro la lavagna perché dice le bugie». I confederali più Gilda e Snals, dopo aver già
incontrato i parlamentari in due occasioni alla Camera, oggi alle dieci li invitano a una
manifestazione pubblica al Pantheon. Ci sarà Stefano Fassina, minoranza del Pd, che
senza «radicali correzioni» sul disegno di legge ha annunciato la conclusione del suo
percorso nel partito. Ci sarà, «ad ascoltare», Simona Malpezzi, lei deputata della
maggioranza renziana. Lunedì e martedì le stesse sigle hanno organizzato a Montecitorio
una sorta di “Speaker’s corner” in concomitanza con la fase finale della discussione
parlamentare. Alla Camera si parte questa mattina, alle 10, e fino alle 10 di sera si
voteranno gli emendamenti. Il calendario prevede sedute notturne venerdì, lunedì e
martedì. Mercoledì 20 le dichiarazioni di voto in diretta tv. Dei 1.800 emendamenti
depositati, due terzi potrebbero essere tagliati questa mattina dalla Commissione Bilancio.
Sulle revisioni del testo lo scontro tra minoranza e maggioranza Pd si è fatto convulso.
Sugli idonei del concorso 2012, in particolare, non si sa più chi ha firmato la richiesta della
loro rimmissione tra gli assunti del prossimo settembre. In questi giorni la Camera
cambierà nuovi punti della “Buona scuola”. Dopo l’allarme lanciato a “Repubblica” dalle
associazioni no profit, il Pd riscriverà il passaggio che prevede che ogni contribuente
possa assegnare a un singolo istituto scolastico il 5 per mille della contribuzione lorda:
questa scelta non sarà più conflittuale con il 5 per mille oggi destinato alle associazioni.
Ancora, i supplenti di seconda fascia abilitati all’insegnamento che non entreranno nei 101
mila assunti subito potranno fare il concorso 2016 con un punteggio che riconosce gli anni
trascorsi in classe. Per tranquillizzare i docenti della graduatoria Gae (prima fascia) che
potrebbero non trovare la cattedra libera a settembre (in particolare Storia dell’arte e
Filosofia), alla Camera si scriverà che le Graduatorie a esaurimento saranno chiuse solo
dopo essere state “svuotate”. Una parte del Pd vuole contenere le detrazioni fiscali alle
famiglie di chi va alle paritarie e destinarle solo alle “private serie”, quelle, per esempio,
che accettano la valutazione Invalsi.
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Del 15/05/2015, pag. 2
E i dissidenti del Pd tornano in trincea “Se la
riforma non cambia noi non la votiamo”
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
Chiedono cambiamenti su tre punti: poteri del preside, finanziamento privato, precari da
assorbire. Promettono collaborazione ed emendamenti nel merito, tanto alla Camera
quanto al Senato. Ma proprio sulla scuola, su uno degli argomenti più di sinistra che si
possa immaginare, alcuni di loro (Fassina, D’Attorre) sono pronti allo strappo finale.
La minoranza pd si è riunita ieri per la prima volta dopo lo smacco dell’Italicum. Non erano
tutti. Una parte, dopo il voto di fiducia sulla legge elettorale, sta prendendo altre strade. Ma
c’erano, in sala Berlinguer alla Camera, una cinquantina di volti preoccupati. Perché tocca
combattere di nuovo, e la sconfitta è troppo recente per capire com’è meglio farlo. Così, i
leader di Area riformista e Sinistra dem Roberto Speranza e Gianni Cuperlo cercano di
tenere viva l’idea di una battaglia che si può vincere. O che comunque, bisogna portare
fino in fondo per tentare di cambiare una legge che non piace a nessuno di loro. È la
stessa visione dell’ex premier Enrico Letta: «La riforma della scuola ha bisogno di
gradualità, non di fretta — ha detto al salone del libro di Torino — se l’impegno di Renzi si
applicasse anche a fare le cose perbene l’Italia se ne potrebbe giovare, ma nessuno glielo
dice perché i politici sono condizionati dalla necessità di avere uno stipendio». E ancora:
«Si è voluta fare una cosa molto di corsa, molto di fretta, senza rendersi conto che si toccano milioni di famiglie, bambini e insegnanti».
È sui numeri, che vuole soffermarsi chi cerca di convincere il premier ad ascoltare: «A fare
sciopero sono state 618mila persone », dice l’ex capogruppo Roberto Speranza. «Hanno
rinunciato a un giorno di stipendio, a 70, 80, 90 euro. Davanti a questo, non puoi buttarla
sulla burocrazia, sui sindacati. È una roba di popolo, una grande parte del nostro popolo
che chiede una risposta». Le soluzioni le hanno messe in una ventina di emendamenti che
toccano quattro punti fondamentali: «Il primo è il ruolo del preside — spiega sempre
Speranza — in commissione si è già modificata la parte sulla stesura del piano di offerta
formativa, su cui avranno voce in capitolo anche il collegio dei docenti e il consiglio
d’istituto. Ma c’è ancora da cambiare la chiamata degli insegnanti, anche quella
dev’essere più condivisa. Lo ha detto bene Carlo Galli: la filosofia di questa riforma fa
male ai docenti perché un preside così forte ridurrà il loro spazio di autonomia. Quel che
era rimasto ai professori italiani, mal pagati, senza un adeguato riconoscimento sociale, è
una libertà di espressione ora in pericolo ». La parte su cui si lavora con più attenzione è
quella della possibilità di donare il 5 per mille alla scuola dei propri figli: «La cosa grave è
che questa norma non fa neanche riferimento a risorse aggiuntive — spiega Stefano
Fassina — così, soldi del fondo riservato alla scuola vengono redistribuiti sulla base delle
dichiarazioni dei redditi dei più ricchi». La conseguenza, a lungo andare, sono scuole
migliori nelle zone più agiate e scuole povela re nelle periferie. «Non è una cosa che un
partito di sinistra può permettere», si sfoga Speranza. Così, la prima modifica tentata sarà
cancellare l’intero articolo. Mentre un secondo emendamento propone di ribaltare le
percentuali: non più l’80 per cento alla scuola e il 20 al fondo di perequazione, ma il
contrario. Infine, c’è la questione dei precari, con la richiesta di un percorso di entrata certo
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per chi resta fuori dalle 100mila assunzioni. E ci sono gli sgravi per le private: «Darli anche
alle scuole secondarie significa incentivare i diplomifici, alla faccia della meritocrazia».
Ma che succede se il governo chiude la porta? Deputati come Stefano Fassina e Alfredo
D’Attorre hanno fatto capire di essere pronti a votare no alla riforma. Gli altri potrebbero
non partecipare, o astenersi. Qualcuno ha anche proposto di votare sì con un documento
che spieghi cosa va cambiato, sperando nelle modifiche al Senato. Ma è una linea poco
chiara, che tutti vorrebbero evitare. Chi conosce Fassina pensa a un addio imminente: «Il
voto finale è mercoledì, credo che dopo mollerà. Stefano è ormai convinto che sia
impossibile far vivere un punto di vista di sinistra dentro questo Pd». La stessa voce
comincia a girare su Alfredo D’Attorre, che sulla riforma è forse il più duro: «Renzi una
volta ha detto che è giusto che ci siano università di serie A e di serie B. Ed è questo che
sta mettendo in campo: una sorta di competizione darwiniana tra i diversi istituti che non
credo sia compatibile con l’idea di scuola pubblica. Per come la vedo io, autonomia
significa raggiungere obiettivi condivisi, non far aumentare le diseguaglianze».
Del 15/05/2015, pag. 1-32
La prevalenza del conflitto
FRANCESCO MERLO
LA MINACCIA di precettare gli insegnanti italiani come se fossero tranvieri milanesi o
netturbini romani o minatori inglesi è un oltraggio alla scuola pubblica, una di quelle
prepotenze verbali che, dicevano i vecchi rivoluzionari, «fanno alzare la febbre dei popoli»,
eccitano gli animi, accendono lo scontro sociale. E infatti nessun governo in Italia è mai
ricorso davvero alla precettazione dei professori.
NEPPURE nei momenti più caldi e ideologici, quelli del pensiero di piazza, dell’eternità
della rivolta, del perenne corteo, della scuola antiscuola che tutti insieme abbiamo faticato
a seppellire. Speriamo dunque che il presidente dell’autorità di garanzia degli scioperi
Roberto Alesse, dicendo che «lo strumento della precettazione in caso di blocco degli
scrutini, sarebbe la via obbligata e doverosa» si sia solo imbrattato di zelo secchione e che
gli vengano perciò tirate le orecchie da Renzi, dal ministro Giannini e persino dal
sottosegretario Faraone, al quale è stata affidata la battaglia “culturale” contro i nemici
della buona scuola e del “cambio verso”, proprio a lui che ha un brillante curriculum da
autodidatta. Quando l’ho conosciuto predicava «l’affezionamento » ora vuole «la
desecolarizzazione ». È vero che il blocco degli scrutini minacciato dai sindacati degli
insegnanti è la meno elegante e la meno tranquillizzante delle proteste possibili. Ma è
ancora diritto di sciopero, sia pure in una forma estrema. Non cancella infatti la valutazione
finale degli studenti e neppure nega le pagelle, ma solo le rinvia di uno o due giorni al
massimo. Gli scrutini del resto non avvengono nella stessa data in tutta Italia: ogni scuola
ha un suo calendario. E uno sciopero, nel giorno degli scrutini, non metterebbe in
ginocchio l’intero Paese e non paralizzerebbe la scuola. Per le famiglie sarebbe
ovviamente un fastidio, ma non certo un dramma, anche perché l’uso del registro
elettronico informa quotidianamente i genitori e la legge sulla trasparenza ha cancellato —
ormai sono venti anni — il mistero del voto, l’ansia terribile dell’esito finale.
Certo, se il blocco degli scrutini diventasse uno sciopero ad oltranza allora sì che la
precettazione sarebbe doverosa. Ma stiamo ipotizzando un conflitto sociale che non si è
mai visto, neppure nel sessantotto quando furono inseguiti tutti gli azzardi e tutte le
avventure. E difatti, già per trovare un (momentaneo) blocco degli scrutini bisogna risalire
al primo quadrimestre del 1991 quando i Cobas protestarono per il mancato rinnovo del
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contratto. Il ministro della Pubblica Istruzione era il democristiano Gerardo Bianco, che tutti
chiamavano Gerry White, uno stimato latinista che andava fiero d’essere nato nella stessa
provincia di Francesco De Sanctis. Eppure anche allora si aprì sulla precettazione uno di
quei dibattiti di legalità che sulla scuola sono comunque approssimativi, perché c’è sempre
una legge che rimanda ad un’altra legge e un’interpretazione che ne cancella un’altra. La
scuola è la palude dei cavilli, il “junkspace” (lo spazio spazzatura) dei ricorsi al Tar.
Persino gli esperti hanno le idee vaghe, ogni frazione sindacale segue un suo Codice e
solo questo governo è riuscito a compattare tutti e a dare un senso unico alla protesta
della più scoraggiata e maltrattata categoria professionale del Paese.
Purtroppo gli insegnanti italiani, che non ci stancheremo mai di difendere, ci mettono poco
a mettersi dalla parte del torto, anche quando hanno ragione. E lo hanno fatto due giorni fa
invitando gli studenti a non compilare i testi di italiano e di matematica (Invalsi si
chiamano). Ebbene, usare gli scolari, che basta una scintilla per incendiare, è un vecchio
vizio della demagogia, una scorciatoia del professore che chiede aiuto invece di darlo,
manipola la rabbia generazionale dei ragazzi e li manda avanti come scudi umani. E
tradisce pure la propria missione perché invitare a non onorare i test d’esame è uno
sciopero dei libri, una sconfitta per il professore e non per il governo: un insegnante che
insegna a non fare i compiti in classe è come un prete che spara in Chiesa, come un
medico che fa ammalare i suoi pazienti.
La dialettica democratica prevede che il governo porti in Parlamento le sue ipotesi di
riforma della scuola e che i professori possano scioperare, sino al blocco degli scrutini,
senza essere trattati come forconi, come camionisti cileni, come forestali siciliani, come i
privilegiati delle orchestre di Stato, come i vigili urbani di Roma che si ammalarono in
massa alla vigilia di Capodanno, come molti dipendenti della Rai, insomma come i tanti
che in Italia spacciano i propri privilegi per diritti sindacali. Non è il caso degli insegnanti
che temono che il preside diventi un capetto improvvisato nel paese degli Schettino con il
potere (clientelare?) di assumere docenti per cooptazione e di premiare il merito e punire il
demerito distribuendo danaro senza avere mai studiato management e gestione di
impresa. Anche le piccole mance previste dalla riforma sono controverse perché
introducono una classifica pubblica di qualità tra gli insegnanti di una stessa scuola. Ci
sarebbero dunque sezioni benedette dal certificato di eccellenza e sezioni dannate dal
certificato di fannulloneria. È ovvio che i mai premiati finirebbero per diventare i reietti,
nessuno vorrebbe frequentare le loro classi, e in ogni scuola ci sarebbe una bad company
per straccioni. Non esistono ospedali pubblici dove i medici più bravi sono pagati di più,
non ci sono magistrati che per merito ricevono gratifiche individuali. Certo, ci sono dei
passaparola, c’è la fama, c’è il credito sociale, ma non c’è il danaro che divide. Anche in
Consiglio dei ministri i più bravi non guadagnano di più, neppure quei geni della ministra
Giannini e del sottosegretario Faraone.
Del 15/05/2015, pag. 24
Bambini senza amore ecco la mappa
dell’infanzia violata
Più abusi al Sud che al Nord, tra le vittime soprattutto bimbe e stranieri.
Uno su due trascurato e malnutrito
MARIA NOVELLA DE LUCA
48
C’è uno spazio grigio in cui le ferite non si vedono e le urla non si sentono. Capita quando
un bambino smette di sorridere, diventa violento, non parla più e sembra detestare il
mondo. A volte, ma sempre più spesso, dietro quel comportamento c’è la storia di un
maltrattamento: non solo fisico, non solo evidente, ma fatto di trascuratezza, indifferenza,
incuria, di abbracci negati o di grida troppo forti. Sono migliaia i bambini italiani a cui
nell’infanzia viene tolto il diritto di essere piccoli, oltre novantamila soltanto quelli “censiti”
perché così tanto abusati da essere segnalati e seguiti dai servizi sociali, punta evidente di
un fenomeno assai più vasto e diffuso.
Un mondo nell’ombra che il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Vincenzo Spadafora ha
deciso di far uscire dal silenzio, con dati e cifre, “mappando” l’Italia da Nord a Sud. Per
raccontare chi sono, quanti sono e dove sono le bambine e i bambini maltrattati. Quali i più
esposti, quali le più fragili. Una ricerca dettagliata, curata per l’Authority dell’Infanzia da
due organizzazioni specializzate nella tutela dei minori, “Terre des Hommes” e “Cismai”. E
“L’indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia”, oltre a
fornire le cifre sui piccoli (91mila) già seguiti dai servizi sociali, spiega che i minori abusati
sono più numerosi al Sud che al Nord (273,7 casi su mille contro i 155,7 su mille dell’Italia
settentrionale). Segnalando che ad essere più vulnerabili sono soprattutto le bambine e
minori stranieri.
Ma quello che colpisce di più, in questa dettagliata indagine, sono le tipologie del
maltrattamento. Dove la prima voce, quella che riguarda il maggior numero di ragazzini
(42.965, il 47,1 per cento), è la “trascuratezza materiale e affettiva”. Voce macroscopica,
ma spesso inafferrabile, dietro la quale si celano bambini poco amati, poco curati, a volte
malnutriti, più spesso ignorati. «È una forma non evidente di maltrattamento - spiega
Vincenzo Spadafora - abusi che non si vedono ma se ripetuti nel tempo possono creare
danni gravissimi. La fotografia che emerge da questo lavoro è faticosa da guardare, ma
necessaria. Capire significa poter agire, comprendere l’entità del fenomeno, identificare i
soggetti più deboli, arginare il più possibile questa realtà violenta nei confronti di chi ha
meno di 18 anni».
Infatti. L’indagine, seguendo le indicazioni dell’Oms, inserisce nel termine maltrattamento
forme di abusi fino ad oggi non registrati, di cui forse si sottovalutava la gravità. La
“violenza assistita” ad esempio, al secondo posto nella mesta classifica di ciò che
subiscono i più piccoli, a cui seguono il “maltrattamento psicologico”, e la “patologia delle
cure”, anche questo un ambito finora mai censito. Ossia quell’atteggiamento malato,
definito di ipercura o discuria, che porta i genitori a trascurare la malattia di un figlio,
oppure a riempirlo di medicine senza necessità. Poi ci sono le botte. Quelle evidenti.
Schiaffi, calci, pugni. Frustate, anche raccontano i servizi sociali. Sembra impossibile ma è
così. E ad accorgersene spesso sono le maestre, a scuola. All’ultimo posto il delitto più
grave: l’abuso sessuale. Dei 91mila minori censiti nell’indagine sono stati in 3.800 a
subirlo. Un numero enorme, l’infanzia violata da una ferita che non si rimarginerà mai.
49
CULTURA E SCUOLA
del 15/05/15, pag. 1/9
SALONE DEL LIBRO: PRIMI SEGNALI DI RIPRESA DEL MERCATO
Mille editori in cerca di un nuovo inizio
I numeri crudi dell’editoria raccontano indubbiamente la realtà del mercato librario, ma dal
Salone del Libro di Torino, inaugurato ieri dal Presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella (applauditissimo nel suo giro per gli stand e ispirato nel suo discorso di
apertura, che ha toccato temi ideali come la libertà e pratici come la difesa del diritto
d’autore e l’Iva degli e-book) e con la Germania come ospite d’onore e fiore all’occhiello
della kermesse, forse si fa un po’ più di fatica a prenderli con la dovuta serietà. Vista
soprattutto la marea entusiasta di lettori che hanno affollato già da ieri il Lingotto, mettendo
gli operatori di buon umore. Così, tra i mille editori in mostra, si spera i numeri che
verranno annunciati stasera siano quelli giusti per vedere la luce in fondo al tunnel degli
anni con il segno meno.
Continua da pagina 1 Stasera l’associazione italiana degli editori mostrerà i nuovi dati
delle tendenze nella consueta indagine commissionata a Nielsen e vedremo se anche in
questo settore cruciale per la società italiana si inizia a vedere una piccola luce in fondo al
tunnel. Stando a quelli più recenti disponibili sembrerebbe di sì: i pesanti segni meno degli
ultimi anni su fatturati e produzione si sono andati assottigliando e non è improbabile che il
2015 alla fine si chiuderà con un piccolo segno positivo. Gli editori si possono già
consolare (lo ha notato in un passaggio anche il presidente Mattarella) con il mattoncino
del mercato dell’editoria per ragazzi che aveva incrementato il segno più del 2014,
chiudendo con un + 5,7% complessivo (pari a oltre 168,2milioni di euro) rispetto al 2013
nei canali trade .
Lo scenario sembra prossimo a cambiamenti in qualche modo epocali: la possibile
acquisizione della divisone libri Rcs (ieri, tra l’altro, nello stand Rizzoli si è visto anche il
presidente di Fca John Elkann con i figli) da parte di Mondadori muterà gli assetti di
mercato in maniera che preoccupa molti (e magari lascerà qualche piccolo marchio per
strada), il Gruppo Gems, che festeggia dieci anni, si conferma nella sua solidità, mentre
Feltrinelli fa bella mostra di sé con 12 Effe che sono un modo per ripercorrere la storia
della casa editrice.
Soffrono i piccoli editori (ma non quelli più raffinati, come per esempio Henry Beyle,
Aragno o Corraini) e le librerie indipendenti non se la passano benissimo, anche se la
strada per la quale devono passare (sempre indicata nelle Scuole per Librai Mauri, la più
importante in Italia) è quella della proposta e dell’assortimento mirato, in una ricerca di
qualità costante che alla fine paga. L’esempio inglese, da questo punto di vista, è
significativo: catene in crisi, grande distribuzione in via di sparizione, rifiorire di piccole
librerie che selezionano il pubblico con la proposta. Certo, all’orizzonte i grandi venditori
online sono sempre difficilissime da combattere.
In tutto questo, il Salone del Libro è un’isola felice che si rinnova e migliora, quasi per
miracolo, ogni anno. Anzi, «il Salone è un Capodanno librario – ha detto nella conferenza
d’apertura Rolando Picchioni, presidente dell’ente che organizza la manifestazione –, non
solo una vivace kermesse della nostra industria e produzione editoriale, ma una bussola
della cultura italiana di oggi». I numeri sono impressionanti: in cinque giorni oltre 1400
incontri con oltre 2mila autori, mille editori presenti, una costante attenzione
all’innovazione attraverso gli editori al lancio (quest’anno sono 31, record) e la zona
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dedicata ai più giovani, una scommessa in più con la scelta di uscire anche dal Lingotto
per diffondersi in tutta la città.
La 28a edizione con gli oltre 50 editori tedeschi presenti è una vetrina speciale per la
produzione editoriale italiana che non teme confronti con le altre maggiori nazioni: ed è
uno specchio “meraviglioso” di un Paese che vuole ripartire. Non è un caso che tra gli
stand dei padiglioni sono diversi quelli di paesi stranieri che saranno ospiti prossimamente
(Arabia Saudita, Kazakistan e Azerbaigian) o lo sono stati, ma mantengono presenze
significative (Romania ecc.). Ma è tutta la regione a fare sistema, se è vero, come ha
ricordato il sindaco Piero Fassino, che Torino coglie l’opportunità di qualificarsi sempre più
come città culturale, anche in concomitanza di un avvenimento mondiale non troppo
lontano come l’Expo di Milano. Non a caso nei giorni del Salone, Lingotto Fiere mette a
disposizione dei visitatori l'opportunità di acquistare i biglietti di Expo Milano 2015, con
pacchetti agevolati «Salone del Libro + Expo Milano».
Stefano Salis
Del 15/05/2015, pag. XV RM
Apertura il 20 ottobre con “Operetta burlesca” della regista siciliana
Da Orsini alla Dante la scena del Vittoria “A
rischio chiusura”
Presentato il cartellone e una lettera alle autorità così la sala di
Testaccio denuncia la mancanza di fondi
RODOLFO DI GIAMMARCO
UN TEATRO come il Vittoria con trent’anni di solida, promiscua e civile attività in un
quartiere popolare e storico di Roma che è il Testaccio, una sala in cui la stagione
prossima si alterneranno Moni Ovadia, Ascanio Celestini, la compagnia di Umberto Orsini,
un adattamento da un libro di Dacia Maraini, e vari rispettabili conferenzieri-performer
della cultura italiana, e dove il Romaeuropa Festival ha ritenuto di poter giustamente
collocare l’attesissimo lavoro di Emma Dante Operetta burle-sca, è un presidio teatrale
che rendendo pubblico il cartellone 2015/2016, diffonde anche una lettera aperta (già)
indirizzata a varie autorità italiane, e agli Enti Locali, dove si dichiara che il prossimo anno
il teatro stesso, il Vittoria, chiuderà. Verrà giù il sipario, sarà serrato l’ingresso, smetterà
l’attività perché l’attuazione del Decreto ultimo del Ministero dei Beni Culturali non ha
tecnicamente riconosciuto l’esistenza di un teatro attivo da tre decenni, declassando il
Vittoria a “Impresa di produzione” ovvero “Compagnia di giro” (esigendo la riformulazione
della domanda ministeriale nel giro di pochi giorni, con impossibilità pratica di ottemperare,
e con attuale ricorso al Tar, ricorso che in Italia coinvolge analogamente varie altre
strutture). Il preambolo irrituale e allarmante di questi fatti in corso è il bruttissimo
spettacolo in più che aleggerà sul cartellone vero annunciato ieri.
Come sopra accennato, l’infaticabile teatro sarà intanto preso d’assalto da masse di
giovani e di cultori quando dal 20 ottobre sarà di scena, perRomaeuropa, Operetta
burlesca scrittoediretto da Emma Dante, sul problema delle intolleranze che creano
diversità e marginalità. E contro un mondo posseduto dai demoni della violenza, del
razzismo e del delirio nazionalista, ecco intervenire nel marzo 2016 Moni Ovadia con Il
registro dei peccati, dove prendendo a spunto anche la fantasia dei dipinti di Marc Chagall
si giunge al linguaggio spirituale della gente della diaspora ebraica, intercettabile nel
51
khassidismo, un pensiero che s’esprime anche con il canto, la danza e la narrazione. E in
tema di impegno umano e trascendentale, al Vittoria in aprile-maggio è in programma il
debutto del testo di e con Ascanio Celestini Laika, protagonista un Gesù che vive oggi in
periferia, e si arrangia, operazione nell’ambito di una trilogia che comprende Discorsi alla
nazione e Radio clandestina.
Tornando alla cronologia del cartellone, si apre il 22 settembre con Weekend Comedy di
Sam e Jeanne Bobrick affrontato dagli Attori & Tecnici (che propongono anche Per questo
mi chiamo Giovanni, Assassinio sul Nilo e Rumori fuori scena), efigurano Un marito ideale
diWilde con Valentina Sperlì e regia di Roberto Valerio; La leggenda del pallavolista
volante di Nicola Zavagli; Riondino-Vergassola alle prese con Flaubert, Il sogno di un’Italia
con Scanzi-Casale; Tutto Shakespeare in 9-0’ con Benvenuti-Formicola-Gabbrielli; Teresa
la ladra della Maraini con Mariangela D’Abbraccio; e Max Paiella. Incursioni di Corrado
Augias, Marco Travaglio, Beppe Severgnini, Vittorio Sgarbi, Piergiorgio Odifreddi.
Del 15/05/2015, pag. XVII RM
Un palcoscenico per i protagonisti di tutte le arti Da Berio alla
Abramovic da Martone a Kentridge
Romaeuropa da trent’anni il Festival
contemporaneo
RODOLFO DI GIAMMARCO
UNA contemporaneità che dura da trent’anni, quella del Romaeuropa Festival, sorto nel
1986, con direzione affidata a Monique Veaute, che ne ha condotto le sorti per i primi 23
anni, passando poi i compiti all’attuale direttore Fabrizio Grifasi. Parlando oggi con loro,
prima che venga reso noto il cartellone 2015, si ha la sensazione che questo Festival
proiettato verso il futuro e l’altrove, poggi sul passato prossimo, su una miniera di cultura,
avventura e arte anticipatrici. «Jack Lang mi mandò a Roma, per aprire allo spettacolo la
Villa Medici diretta da Jean-Marie Drot - ricorda Monique Veaute - e all’inizio tutto era
basato sulla musica, quella di Boulez, di Berio, di Xenakis. Instaurammo rapporti con le
accademie tedesca, ungherese, spagnola, con il British Council. E arrivammo a ospitare i
massimi creatori della danza moderna, dalla ricerca di Maguy Marin all’iperastratta Trisha
Brown, a Bill. T. Jones legato al sociale e al multirazziale, fino più tardi a Anne Teresa De
Keersmaeker. Aprivamo le tante porte del mondo. Introducemmo la performance di Jan
Fabre, di Marina Abramovic, di William Kentridge. Un pensare artistico sempre diverso».
Integrando anche personalità italiane. «Ci furono Martone, Barberio Corsetti e Castellucci,
e più tardi Emma Dante è diventata fedele al Festival. Ma pure il “nostro” pubblico s’è fatto
importante. La logica di Romaeuropa s’affidava allo sguardo dell’artista, e abbiamo
recepito la globalizzazione, internet e la virtualità, ma anche il risguardo della tradizione.
Nel nostra Dna la tecnologia ha dato luogo ai processi di “Digital Life”». Altra arte è stata
quella del management del sostegno. «Siamo stati flessibili, adattandoci a finanziamenti
pubblici importanti e a diagrammi bassi di crisi, un 50% di introiti pubblici e un 50% di
biglietteria, risorse private e coproduzioni. Siamo indipendenti ».
Fabrizio Grifasi è colui che negli ultimi sette anni ha fatto fronte alla direzione più esposta
ad alti e bassi di investimenti. «I finanziamenti pubblici si sono molto ridotti, e noi ora
puntiamo di più sulla biglietteria. Siamo presenti nelle reti internazionali, abbiamo accesso
a fondi europei, abbiamo rafforzato la rete romana in sintonia con strutture pubbliche
(Teatro di Roma e Accademia di S. Cecilia), istituendo relazioni con spazi privati anche
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non teatrali, diversificando l’utenza con gli strumenti tecnologici di “Digital Life”, di
streaming, e con sodalizi col Maxi e col Macro». Alcuni spettacoli dell’autunno avranno
caratteristiche legate a un sito non teatrale, o a un palcoscenico particolare. «Abbiamo un
proficuo rapporto con la Sovrintendenza per l’Area Archeologica, e per la riapertura dell’ex
Planetariopuntiamosu Pezzi stacca-ti del Giulio Cesare diRomeoCastellucci, mentre ad
esempio il circo contemporaneo quebbecchese Les Sept Doigts avrà per sede il vasto
Brancaccio, e la storica coreografa Maguy Marin, presente trent’anni fa, torna col suo più
illustre lavoro di teatrodanza, May B., dedicato a Beckett, ora all’Argentina». Come si dirà
meglio all’annuncio del cartellone, il Romaeuropa Festival si diffonderà in 15 spazi, dal 23
settembre all’8 dicembre.
del 15/05/15, pag. 15
Matera capitale? Così la Cultura chiude il
teatro
La città lucana si prepara alle iniziative per l’anno europeo 2019, ma
sull’unico palco cala il sipario (e tra poco si vota)
di Antonello Caporale
È come se togliessero il sale al mare. A Matera, capitale europea della Cultura per l’anno
2019, hanno chiuso il teatro. Ci sarebbe stata l’insurrezione popolare se avessero abolito
dalla tavola le orecchiette con le cime di rapa. Meno tesa e preoccupata, aperta anzi a
nuove interessanti proposte, la valutazione sul destino del meraviglioso teatro Duni. Il
sindaco, Salvatore Adduce, impegnato in una campagna elettorale per la rielezione, ha
illustrato la sua strategia di fare perno su una rete teatrale estesa, allungando lo sguardo
anche al “Petruzzellis” di Bari. Una s in più evidentemente per generosa addizione (il
premier, tanto per dire, l’altroieri ha svolto il compito opposto, riducendo a umanista la
cultura umanistica della buona scuola) ma pur sempre un teatro in meno.
Il Duni, un gioiello dell’architettura del dopoguerra per opera dell’architetto Ettore Stella, ha
visto il suo cartellone messo a dura prova dallo scarso botteghino. Da qui la scelta,
traumatica ma ineluttabile, dell’eutanasia. Portone chiuso, dipendenti in libertà. L’unico
palco in città è così scomparso, speriamo provvisoriamente, e il fatto apre il varco a una
narrazione del controsenso nella quale la magnifica città dei Sassi, suo malgrado, avanza.
Perché è vero, nella speciale classifica dei paradossi, Matera conquista un primato
considerevole. Città gonfia di soldi (58 milioni di euro l’appannaggio per le realizzazioni
dell’evento internazionale), orgogliosa custode della sua vittoria e anche un po’ gelosa del
danaro che dovrà giungere, resta immobile sul piazzale degli opposti. Era già accaduto in
autunno, quando la Regione Basilicata aveva sostenuto il gigantesco aumento delle
cubature petrolifere deciso dal governo Renzi. I potentini, gli abitanti della città capoluogo
piuttosto distante e piuttosto nemica, protestavano, occupavano, denunciavano. Matera
invece sonnecchiava, valutava, disquisiva. Il governo, e anche il fantasioso governatore
regionale Marcello Pittella, erano riusciti ad accompagnare la meritata designazione della
città regina della Lucania a capitale europea della Cultura. A rendere dunque preminente il
carattere identitario, la storia rurale dell’abitato, la qualità e le condizioni di uno sviluppo
conservativo, pienamente compatibile con l’ambiente e la memoria. Allo stesso tempo il
governo lucano aveva accettato, contro ogni ipotesi di riduzione del danno e di
53
sostenibilità ambientale, l’aumento dei pozzi, l’autorizzazione a nuove future, possibili
perforazioni, e – nei fatti – l’inglobamento della capitale della Cultura in una cintura di
fuoco piuttosto oppressiva. Contraddizioni? Beh, le compagnie petrolifere (Eni e Total) che
godono dei diritti di sfruttamento sono poi le compagini che faranno da sponsor (insieme a
Fiat, Italcementi e Rai) al grande evento culturale sostenendo, in comunione con gli altri
partners, lo sforzo di elargire il 30 per cento del fabbisogno finanziario di Matera. La
Regione garantirà una quota essenziale e presumibilmente troverà nelle royalties ricavate
proprio dal petrolio le risorse per farvi fronte.
Il petrolio puzza altrove, ma a Matera ha effettivamente un odore più accettabile. Solo che
adesso la città perde il teatro proprio alla vigilia dell’apertura dei cantieri culturali e dentro
una campagna elettorale che vede la giunta uscente, targata Pd, in difficoltà nei confronti
del competitore del centrodestra Raffaello Ruggieri che ha costruito una coalizione a
banda larga (da destra a sinistra, nella formula ormai consueta dell’all inclusive) in grado
di vincere e agguantare anche il ricco premio di legislatura.
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ECONOMIA E LAVORO
del 15/05/15, pag. 3 (inserto Sbilanciamo l’Europa)
Bad Bank, la «priorità assoluta». Secondo
Renzi
Sbilanciamo l'Europa. La Commissione europea e non solo si chiede
quali crediti deteriorati verrebbero acquistati da questo veicolom, a
quale prezzo e chi dovrebbe farsi carico dell’operazione tra governo,
Cassa depositi e prestiti o altri
Andrea Baranes
Il governo italiano sta negoziando con la Commissione europea la creazione di una bad
bank, ovvero un veicolo che assorba parte dei crediti inesigibili delle banche.
Le sofferenze bancarie, la percentuale di crediti erogati che non vengono restituiti,
viaggiano intorno al 10%. Un’enormità, il che porta le banche a non prestare più a imprese
e famiglie, acuendo le difficoltà dell’economia e quindi le stesse sofferenze, in una spirale
che si auto-alimenta.
Nel recente intervento di Renzi alla Borsa italiana, si tratta di una «priorità assoluta» del
governo, dopo la riforma delle banche popolari, che ha portato quelle di maggiori
dimensioni a doversi convertire in Spa, mentre si attende di sapere cosa potrebbe
avvenire al resto del sistema popolare e cooperativo.
Riguardo la bad bank sono diverse le perplessità, non solo della Commissione europea
che vuole verificare che non si tratti di aiuti di Stato, ma più in generale nel capire quali
crediti deteriorati verrebbero acquistati da questo veicolo, a quale prezzo, chi dovrebbe
farsi carico dell’operazione tra governo, Cassa Depositi e Prestiti o altri, quali potrebbero
essere i potenziali impatti sui conti pubblici, e via discorrendo.
Sono ancora maggiori le perplessità sulla riforma delle popolari. Se una revisione della
governance era probabilmente necessaria, non si capisce dove siano gli elementi di
straordinaria urgenza e necessità richiesti dal nostro ordinamento per procedere tramite
un Decreto e non per via parlamentare.
Nel merito, il rischio è quello di ridurre o eliminare la necessaria «biodiversità bancaria» e
andare verso un modello a taglia unica, dove la taglia è quella dei conglomerati di
maggiori dimensioni, gli stessi in gran parte responsabili della crisi degli ultimi anni.
Le priorità del sistema bancario e finanziario sembrano, se non diametralmente opposte,
comunque decisamente altre. La prima, in Europa e in modo particolare in Italia, è la
trappola della liquidità. Con uno slogan, la crisi non è dovuta al fatto che non ci sono soldi,
ma che ce ne sono troppi; il problema è che sono (quasi) tutti dalla parte sbagliata.
I continui apporti di liquidità della Bce al sistema finanziario (ultimo in ordine di tempo il
Quantitative Easing) non si traducono in credito erogato a famiglie e imprese e in
investimenti, ma rimangono incastrati in un sistema finanziario sempre più
autoreferenziale.
A fronte di un’economia strangolata da austerità e credit crunch, l’eccesso di liquidità sui
mercati fa si che in Europa una montagna di titoli di Stato abbia un rendimento addirittura
negativo, mentre anche i piccoli investitori si spostano verso titoli sempre più rischiosi, alla
disperata ricerca di un qualche profitto. Al di là dell’incredibile inefficienza del sistema, il
rischio è di gonfiare ulteriormente una finanza ipertrofica mentre economia e occupazione
rimangono al palo; la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria.
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Non si capisce bene in che modo la riforma delle popolari potrebbe cambiare le cose.
Ancora peggio, la creazione di una bad bank – in assenza di una radicale riforma del
sistema finanziario – rischia di rappresentare un formidabile azzardo morale per le
banche: finché le cose vanno bene i profitti sono privati, quando il giocattolo si rompe
interviene il paracadute pubblico e si socializzano le perdite.
La “priorità assoluta” dovrebbe essere disincentivare le attività speculative e tenerle
separate dall’attività creditizia, e spostare risorse dalla finanza all’economia. Esattamente
la direzione in cui andrebbe la tassa sulle transazioni finanziarie, discussa da anni in
Europa e ufficialmente sostenuta anche dal nostro governo, anche se non sembra che il
semestre di presidenza UE a guida italiana verrà ricordato per i passi in avanti compiuti in
materia.
Finalità simili avrebbe la separazione tra banche commerciali e di investimento,
fondamentale per fare si che i risparmi depositati in banca e la liquidità fornita da Bce e
istituzioni pubbliche serva a erogare credito e non alla speculazione.
Ancora, una «priorità assoluta» in ambito finanziario dovrebbe essere il fare piena
chiarezza e trasparenza sulla disastrosa vicenda dei derivati nella pubblica
amministrazione, che potrebbe portare a perdite per oltre 40 miliardi di euro nei prossimi
anni.
Un governo che nelle ultime settimane ha centrato la comunicazione su un tesoretto di 1,6
miliardi previsto dal Def – attenzione, anche qui parliamo di previsioni e non di dati a
consuntivo – non sembra avere nulla da dire su potenziali perdite decine di volte superiori.
L’intero edificio finanziario andrebbe ricostruito dalle fondamenta, non si può pensare di
continuare indefinitamente a puntellarlo con soldi pubblici per tentare di rimandarne il
crollo. L’attuale sistema finanziario è in buona parte il problema da affrontare.
Anche con tutti gli annunci e l’ottimismo del mondo, se non si cambiano le regole del gioco
è difficile che possa diventare la soluzione.
del 15/05/15, pag. 4 (inserto Sbilanciamo l’Europa)
Andare oltre il Pil ma solo a parole
Sbilanciamo l'Europa. L’analisi del documento «ambientale» di Renzi.
Buone intenzioni e progetti risolti in un titolo o poco più
Guglielmo Ragozzino
Tutto nasce da un incontro tra le associazioni ambientaliste e il governo in persona del
sottosegretario Delrio l’11 dicembre 2014. È la fine del famoso semestre italiano e gli
ambientalisti chiedono un bilancio.
Ne scaturisce un paio di mesi più tardi un documento governativo, l’«Agenda Articolata»
del 9 febbraio 2015 di cui è responsabile lo stesso Delrio, allora factotum del presidente
del consiglio Matteo Renzi. Quest’ultimo, nei primi giorni del nuovo anno non ha perduto
l’occasione e ha promesso molto: «Ci siamo dati una cadenza ordinata per le nuove
iniziative di legge. A gennaio abbiamo provvedimenti su economia e finanza. A febbraio
tocca alla scuola. A marzo il Green Act — sull’economia e l’ambiente in vista della grande
conferenza di Parigi 2015. Aprile sarà il mese di cultura e Rai. A maggio tutti i riflettori sul
cibo, agricoltura, turismo, made in Italy: arriva l’Expo. A giugno i provvedimenti sulle
liberalizzazioni e prima dell’estate il punto sullo sport anche in vista della candidatura per
le Olimpiadi del 2024» (il corsivo è aggiunto). Renzi, secondo il suo solito, anticipa le
risposte, compresa quella agli ambientalisti. Rivela e promette il programmone di governo
scrivendo, in veste di segretario del Pd, ai democratici, suoi compagni di partito.
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L’Agenda del 9 febbraio è il principale documento ambientale del governo italiano in attesa
di qualche altro atto o impegno o telegramma che lo integri o lo sostituisca. Sono 16 punti,
alcuni tradizionali o prevedibili, altri curiosi o inattesi; alcuni ricchi di buone intenzioni e di
studio, altri risolti in un titolo o poco più. Sono: Energia e clima, Trasporti e infrastrutture,
Consumo del suolo, Difesa del suolo, Bonifiche, Biodiversità e aree protette, Mare,
Montagna, Beni culturali e paesaggistici, Agricoltura, Turismo e ambiente, Ministero
dell’ambiente, Delitti ambientali, Andare oltre il Pil, Informazione ed educazione
ambientale, Fondi europei di coesione.
I 16 punti che sorprendentemente coincidono nel numero con le 16 associazioni
ambientali che il governo invita e che scrivono al governo sono dunque a volta brevi
promemoria, oppure indicazioni generiche di ciò che si dovrebbe o potrebbe fare, senza
impegni effettivi, indicazioni di spesa e di tempo. Il nostro modello di coinvolgimento degli
interessati – si assicura – è molto migliore del sistema francese che – par di capire – è
accusato di statalismo. Colpiscono alcuni punti, ma ci limiteremo a toccarne due. Il
fondamentale primo punto, Energia e clima presenta una palese contraddizione. «In
questo ambito vanno lette le norme su gasdotti e trivellazioni»
«Una progressiva uscita dai combustibili fossili è stata assunta dall’Italia a livello nazionale
ed Europeo e non è mai stata messa in discussione». Però, aggiunge nella stessa frase
che «dotarsi di infrastrutture energetiche essenziali come la Tap o l’utilizzazione delle
risorse energetiche esistenti sul nostro territorio sono misure di buon senso in un Paese
che ha la più restrittiva normativa europea sulle trivellazioni in mare e (seconda
contraddizione) norme rigidissime di tutela ambientale (Tap è il gasdotto trans adriatico)»
L’altro punto è il quattordicesimo: Andare oltre il Pil. Finalmente, abbiamo pensato, anche
Delrio, Renzi e gli altri e le altre del governo hanno accertato che il Pil così com’è non va
bene. Sono in ritardo nei confronti del governo francese, perfino di quello americano; un
bel numero di premi Nobel lo ripetono da anni, ma va bene lo stesso.
Anche per noi, infine, il conto della natura deve essere calcolato e questo significa rifare
tutti i bilanci e le spese, ricalcolare il debito e così via. Ma non è così. L’Agenda parla
d’altro. Si ripete ancora una volta un modesto, decoroso discorso sull’industria verde che
può assorbire moltissimi disoccupati. E basta.
del 15/05/15, pag. 4 (ins. Sbilanciamo l’Europa)
Reddito di cittadinanza contro
l’impoverimento
Sbilanciamo l'Europa. Serve una politica di redistribuzione del reddito. Il
rischio è la creazione di una bolla occupazionale che esploderà tra 3
anni alla fine degli incentivi
Giorgio Airaudo
Il governo «agonistico» di Renzi continua a lasciare il lavoro e i lavoratori in fondo alla
classifica sociale degli interessi che rappresenta.
I quasi 15 miliardi impegnati per sostenere gli sgravi contributivi alle assunzioni hanno
prodotto, secondo i dati dell’Istat, tra marzo 2014 e marzo 2015 un saldo positivo tra
cessazioni e attivazioni di quasi 30.000 unità. Certo meglio che niente!
Ma molto poco se paragonato alle necessità: 3.400.000 disoccupati a cui vanno aggiunti
oltre tre milioni di scoraggiati e altri tre milioni, in aumento, di lavoratrici e lavoratori poveri
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che pur lavorando e in molti casi facendo più di un lavoro lottano con redditi che scivolano
sotto la soglia di povertà.
E ancora molto poco anche se confrontato con la quantità di denaro pubblico,15 miliardi,
investita in questa operazione.
Per avere dati più certi, al di là della propaganda di governo visto l’imminente
appuntamento elettorale in 7 regioni, bisognerà aspettare la fine di luglio con i nuovi dati
Istat.
Anche se colpisce il modo con cui il nuovo presidente dell’Inps Tito Boeri interpreti il suo
ruolo, più «cantore» del governo che amministratore delle pensioni degli Italiani, visto che i
più accorti tra noi sanno che i dati sulle attivazioni al lavoro che l’Inps può fornire sono dati
amministrativi e non reali.
Dati, perciò, che devono scontare le trasformazioni da un contratto all’altro e devono
anche tener conto del fatto che lo stesso individuo può essere interessato a più contratti di
lavoro nell’arco di un tempo anche breve.
Mentre per quanto riguarda gli effetti, modesti ma ravvisabili, degli incentivi che sono,
come è noto, senza vincoli e condizioni per le imprese, si può legittimamente dubitare
sulla stabilizzazione di quei posti di lavoro soprattutto dopo l’entrata in vigore effettiva del
contratto a tutele crescenti.
Il rischio concreto è che si stia creando una bolla occupazionale che esploderà tra 3 anni
alla fine degli incentivi. Si può in sintesi affermare che di nuovo, come per gli 80 euro,
stiamo spendendo male le poche risorse pubbliche che mettiamo a disposizione del
lavoro, senza aggredire le diseguaglianze e contrastare la crescente povertà che frantuma
la società italiana.
Il governo lascia soli le lavoratrici e i lavoratori, li rende merci tra le merci svalutandone la
prestazione e mettendoli in conflitto gli uni con gli altri in una eterna guerra tra poveri.
E, fatto ancor più grave, non si prende atto che anche una ripresa degli investimenti privati
potrà produrre, per l’effetto applicato delle innovazioni tecnologiche hardware e software e
delle loro ricadute sui processi organizzativi, un numero assai inferiore di occupati rispetto
ad un tempo.
Perciò è sempre più urgente la costruzione di una proposta politica e di governo che
imponga un’altra via, quella della redistribuzione del reddito attraverso un reddito di
cittadinanza che impedisca impoverimento ed esclusione sociale e quella della
redistribuzione del lavoro attraverso un piano che indichi all’Europa la via di un New Deal
in alternativa all’austerità.
Del 15/05/2015, pag. 33
SUL REDDITO MINIMO NON C’È DA
IMPROVVISARE
CHIARA SARACENO
IL reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è
una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e
siamo disponibili a parlare con i 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i
vincoli di bilancio». Così ha dichiarato Renzi nella conversazione con Repubblica . Ma ciò
che propongono i Cinquestelle è esattamente questo, una misura contro la povertà.
Sbagliano a chiamarla reddito di cittadinanza, perché questo termine evoca altre proposte
che circolano a livello internazionale e sono sostenute da studiosi di tutto rispetto, come
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Atkinson e Van Parijs, e da un network internazionale, che auspicano, appunto, un reddito
di base per tutti. Ma la proposta dei Cinquestelle si riferisce a chi si trova in povertà, come
quelle della Alleanza contro la povertà con il Reis (Reddito di inclusione sociale), della
commissione Guerra con il Sia (Sostegno di inclusione attiva), di una proposta di legge di
iniziativa popolare avanzata dal Bin (Basic Income Network) Italia, e prima ancora del
lontano reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.
Non mancano, infatti, le proposte e neppure le sperimentazioni, anche se Maroni, che oggi
a sorpresa annuncia di voler sperimentare il “reddito di cittadinanza” in Lombardia sembra
aver dimenticato di aver affossato il reddito minimo di inserimento appena diventato
ministro del welfare, chiudendo la sperimentazione e dichiarandola fallita, senza
spiegazioni né discussioni.
Al di là dei nomi, ciò di cui si parla, e che esiste già nella stragrande maggioranza dei
Paesi dell’Unione Europea, in molti Paesi Ocse e in diversi Paesi dell’America Latina, è
una misura universalistica, non categoriale (cioè non limitata a una o un’altra categoria di
poveri) di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, solitamente accompagnata dalla
richiesta di disponibilità ad accettare richieste di lavoro per chi ne ha la capacità, o a
partecipare a corsi di formazione per chi ne ha necessità, di fare in modo che i figli (per chi
ne ha) frequentino regolarmente la scuola e abbiano le cure mediche necessarie e così
via. Il termine “di cittadinanza” (anche se io non lo userei proprio perché si presta ad
equivoci) si riferisce al diritto di ricevere sostegno se si è in condizione di bisogno (così
come si ha diritto di ricevere una istruzione di base, o cure mediche quando si è malati), a
prescindere dalla appartenenza ad una o un’altra categoria.
Si può discutere dell’importo base di questa misura, di come debbano essere definiti i
diritti e i doveri di chi la riceve e dei doveri di chi deve fare funzionare le attività integrative
e di accompagnamento (dalla scuola ai servizi per l’impiego), su come e con quale
periodicità si devono effettuare i controlli. E si deve, ovviamente, ragionare su come
finanziarla (senza tut- tavia metterla sempre in coda rispetto ad altre priorità non
adeguatamente discusse). Ma, ripeto, si tratta di misure che già esistono in altri Paesi
(incluso il Portogallo, molto più povero dell’Italia) da diversi decenni. Sono state
sperimentate anche in Italia e alcuni comuni hanno da tempo qualche cosa di simile. La
provincia di Trento ha messo a regime il proprio reddito minimo da oltre due anni. Sono
esperienze da cui si può imparare senza iniziare ennesime sperimentazioni che servono
solo per rimandare la questione creando ulteriori disparità tra chi è coinvolto nella
sperimentazione e chi no: una disparità che può essere accettabile una volta, ma che non
può essere sistematicamente ripetuta, senza che si vada mai a regime.
Nei dibattiti di questi giorni, incluso “Ballarò” e “Di martedì” scorsi, si sono sentiti pareri,
commenti, fondati su una intollerabile ignoranza da parte anche di illustri commentatori e
commentatrici. Peraltro, nessuno sembra abbia pensato di sentire, oltre ai Cinquestelle,
chi di queste cose si occupa da anni e ha fatto proposte argomentate (ad esempio
l’Alleanza contro la povertà). Il dibattito sembra limitato a politici (inclusi quelli del Pd) e
giornalisti apparentemente scelti tra chi ne sa meno ed ha meno memoria storica. Con il
risultato di aumentare la confusione, delegittimando in partenza ogni proposta, lasciando
aperto il campo ad ennesime sperimentazioni più o meno idiosincrasiche, o all’invenzione
di qualche ennesima misura categoriale con cui vengono disperse risorse già scarse.
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