le operazioni mentali dell`ascolto trieste - Comune di Trieste

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le operazioni mentali dell`ascolto trieste - Comune di Trieste
LE OPERAZIONI MENTALI DELL’ASCOLTO
Vi presento tre casi che ho esposto due seminari di formazione che ho tenuto a Trieste il 23
settembre: al mattino con educatori ed insegnanti delle scuole elementari e medie, al
pomeriggio con insegnanti di scuole materne ed asili nido, sul tema dell’ascolto.
Molte riflessioni di quei seminari sono contenute nel mio libro “La mente abbraccia il
cuore”, edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.
LE OPERAZIONI MENTALI DELL’ASCOLTO.
1. L’ASCOLTO COME RICONOSCIMENTO DELL’ALTERITA’, COME SUPERAMENTO
DEL NARCISISMO
2. L’ASCOLTO COME ACCETTAZIONE E ACCOGLIENZA DI CIO’ CHE C’E’
3. L’ASCOLTO COME DIMENSIONE NON COINCIDENTE CON IL FARE, COME
CAPACITA’ DI TENERE A BADA L’URGENZA DELL’AGIRE
4. L’ASCOLTO COME DISPONIBILITA’, MENTALE E DI TEMPO, COME EROGAZIONE
DI ENERGIA E OFFERTA DI TEMPO ALL’ALTRO
5. L’ASCOLTO COME INTERESSAMENTO E INCORAGGIAMENTO A PARLARE, COME
MANIFESTAZIONE DI UNA PRESENZA ASCOLTATRICE
6. L’ASCOLTO COME IMPEGNO A FARE SILENZIO, COME DISPONIBILITA’ A
SGOMBRARE LA NOSTRA MENTE DA CONTENUTI E PREOCCUPAZIONI DISTURBANTI
PER DARE SPAZIO ALL’ALTRO.
7. L’ASCOLTO COME IMPEGNO A NON GIUDICARE
8. L’ASCOLTO COME IMPEGNO ALL’ASCOLTO DI SE’ E CONSAPEVOLEZZA DEI
LIMITI E DELLE PROPRIE INTERFERENZE SOGGETTIVE ALL’ASCOLTO
9. L’ASCOLTO COME EMPATIA, VIAGGIO ESPLORATIVO NELLA MENTE
DELL’ALTRO RESTANDO SE STESSI
10. ASCOLTO COME CAPACITA’ DI RESTITUIRE LE EMOZIONI, COME VICINANZA E
COMPETENZA EMOTIVA
Un esempio di come gli effetti benefici dell’ascolto possano essere distrutti dal giudizio, dalla tendenza ad imprigionare i
comportamenti dell’altro in schemi precostituiti è data da questo esempio che traggo da un articolo di Claudio Bosetto (cfr. C.
Bosetto, C. Foti, “L’ascolto: una speranza per la scuola”, Sie edizioni):
Marco è un bambino che ha gravi crisi violente durante le quali aggredisce i compagni, compie atti auto lesivi, distrugge tutto ciò
che lo circonda, in particolare le proprie cose.
Quando racconta delle violenze fatte e subite Marco ride, dice che è bello fare e farsi del male, che a lui non importa nulla.
Un giorno Marco deve studiare una poesia, si impegna straordinariamente, riesce a leggerla bene, addirittura ad impararla a
memoria; un mattino, in classe, la recita davanti ai compagni. I compagni alla fine lo applaudono. Marco li guarda felice e poi
inizia a piangere e sembra che non smetta più.
La maestra Carla lo ferma e dice: «Vederti piangere mi rende tanto felice ma anche tanto triste. Ci sentiamo tanto felici quando gli
altri ci apprezzano, così come ci sentiamo tanto tristi e arrabbiati quando tutti ci disprezzano, maltrattano e non abbiamo nessuno
di cui fidarci».
Marco smette un po’ di piangere e risponde: «Io piangevo sempre, ma non l’ho mai detto».
Nel pomeriggio cambia insegnante e Carla, incauta, racconta ad una collega quello che è successo. La collega si rivolge a Marco e
commenta: «Oh, ma che sciocco che sei! Cosi grande e piangi per così poco!».
Durante il pomeriggio Marco taglia a pezzettini il foglio su cui aveva scritto la poesia.
Buttare la maschera e incontrare le emozioni
Simona è un’insegnante che mette una maschera di forza nel rapporto con i suoi allievi di
una classe molto difficile di quinta elementare. C’è un bambino in particolare che le crea
malessere: Mario un bambino di “buona famiglia”, che manifesta nel proprio
comportamento un’aggressività e talvolta una ferocia che disorientano. Mario percepisce
che dietro l’atteggiamento “tutto d’un pezzo” dell’insegnante c’è una fragilità, una difficoltà
ad essere autorevole e a mantenere le regole e cerca di sfidarla e provocarla nel suo punto
debole. Un giorno all’interno di un piccolo gruppo di formazione, al cui interno si
utilizzano i principi e i metodi dell’intelligenza emotiva, Simona sente un clima di
accettazione e fiducia che le consente di lasciarsi andare ad una forte comunicazione
emotiva, scoppiando a piangere e facendo cadere la corazza che si porta dietro. «Io non
voglio più fare niente per Mario, non voglio sprecare il mio tempo e le mie energie per lui.
Io non posso a volte accorgermi degli altri perché c’è sempre lui che assorbe la mia
attenzione. Non è giusto, non lo voglio più vedere, non voglio avere niente a che fare con
lui, lo odio, vorrei che sparisse, che non ci fosse più, non ce la faccio proprio più!».
Nell’incontro successivo Simona comunica al gruppo che qualcosa sta cambiando: «Non
lo so che cosa sia accaduto, però qualcosa è cambiato, io mi accorgo che quando vado in
classe sono meno angosciata. È strano, ma sono riuscita a telefonare allo psicologo e mi
sembra che Mario sia cambiato: in realtà ero proprio io che riuscivo a guardarlo, non
riuscivo a pensarlo con il suo carico di sofferenze senza sentirmi io carica delle sue».
Si cerca di capire nel gruppo cosa ha consentito il cambiamento. «Secondo me – dice
Simona – è stato riuscire a far uscire il rospo, la cosa terribile, la vergogna, e vedere che gli
altri non soccombono a questo orrore … io mi sono sentita la peggiore delle insegnanti, mi
sentivo umiliata da Mario, lo sentivo più forte di me».
Ciò che è avvenuto in Simona a seguito della comunicazione emotiva autentica del
proprio malessere di insegnante all’interno del gruppo è l’avvio di un importante processo
di integrazione di stati mentali e di coscienza che fa nascere un nuovo senso di Sé e che ha
immediate ricadute trasformative. Il funzionamento mentale e professionale, basato su un
rigido autocontrollo difensivo, lascia spazio alla componente emotiva a cui finalmente
Simona può lasciarsi andare. La componente di fragilità e debolezza del suo Sé personale e
professionale può essere manifestata in un contesto di accoglienza emotiva e può essere
ridimensionato un Io ideale intransigente, basato sull’esibizione di una facciata di forza. Il
bisogno di occuparsi di sé ha finalmente trovato ascolto e soddisfazione a scapito di un
bisogno coattivo di farsi carico in maniera soggettivamente opprimente della sofferenza
altrui, sentendosene iper responsabile. Simona, senza più farsi bloccare dalla vergogna, ha
potuto presentare e prendere contatto con la propria impossibilità di aderire ad un ideale
irrealistico di altruismo o di perfezione educativa. Ha potuto parlare di odio prendendo le
distanze da un modello idealistico e volontaristico che vorrebbe l’educatore capace di
esprimere soltanto amore.
L’intelligenza emotiva può favorire dunque un processo di integrazione tra ragione e
ragioni del cuore, superando quella barriera di cui parlava Pascal. L’intelligenza emotiva è
la razionalità che supera un impasse in cui è rimasta bloccata per secoli la cultura
occidentale. Imparare a contattare, comprendere e gestire le ragioni del cuore è una
prospettiva impegnativa ma tutt’altro che impossibile in un percorso di crescita, che si apre
davanti al soggetto, al gruppo e all’intera comunità sociale. Una prospettiva, che può
diventare realistica e nel contempo assai vantaggiosa per aumentare l’autoconsapevolezza,
per far crescere l’autocontrollo delle spinte emotive, per motivare gli individui a realizzare i
propri obiettivi, per favorire l’empatia, per ottimizzare la comunicazione tra gli esseri
umani, per affrontare al meglio i problemi relazionali e sociali. Non ci troviamo di fronte
ad una panacea, bensì ad una strada in salita, che richiede una messa in discussione di
abitudini difensive, un impegnativo allenamento emotivo, uno sforzo culturale e
personale, per i singoli e per i gruppi.
L’intelligenza emotiva tenta di risolvere un’antica contrapposizione tra un altruismo
basato sulla negazione delle ragioni emotive del Sé e un’autorealizzazione intesa come
ricerca smodata dell’appagamento dei piaceri, tra un autocontrollo inautentico e sacrificale
ed una realizzazione individualistica di Sé, basata sull’esaltazione dell’immediatezza
emotiva.
La vicenda di Simona è significativa: l’integrazione emotiva della soggettività produce un
impegno più autentico di attenzione e di cura del suo allievo, basato su un senso di
maggiore differenziazione, un nuovo rispetto di sé stessa e una più sensibile comprensione
dell’altro. Da qui scaturisce una prospettiva di un altruismo più sano, di una nuova
integrazione interpersonale. Specifica Siegel: «Si tratta del “noi” del benessere. Nel
migliore dei casi , i nostri circuiti di risonanza ci permettono di sentire il mondo interno
degli altri, mentre essi a loro volta , ci rendono parte del loro mondo interno e ci portano
con sé anche quando non siamo insieme».
Simona a distanza di un anno scrive una lettera ad una componente del gruppo, da cui si
può dedurre che nella relazione tra la maestra e l’allievo la spirale della vergogna e
dell’odio si sia fermata e sia comparsa nuova circolarità di attenzione alle emozioni. Nella
mente dell’insegnante sembra emergere una nuova mappa mentale di sé e di Mario ed in
quest’ultimo una nuova mappa mentale di Simona.
Sono in quinta adesso, – racconta Simona – Mario non è cambiato, è sempre
rompiballe uguale: durante la prima settimana ha sputato addosso a un compagno, ma
sembra che sia cambiato tutto quanto invece. Oggi mi ha abbracciata senza più
vergogna, durante l’intervallo si è avvicinato con occhi ridenti, mi ha abbracciata
intensamente, poteva proprio farlo, era sicuro che poteva farlo. L’anno scorso quando i
suoi compagni mi venivano vicino per darmi un bacio li prendeva in giro e lui scappava
lontano facendo grande scena. Lui non ha risolto le sue sofferenze, le ha ancora dentro,
ma qualcosa di grosso si sta sciogliendo; quando leggo le fiabe ha gli occhi sgranati e
non ne perde un pezzo, e poi me le ripete e il giorno dopo chiede: “Ma ce la leggi la
storia?”. Io ero molto titubante, pensavo che in quinta le fiabe non sono più accettate,
pensavo alle risate, alle prese in giro: invece mi ascoltano, tutti mi ascoltano, mi
ascoltano con gli occhi vivi.
Succede che sono più forte e sono anche severa, so dare delle regole e riesco a farle
rispettare. Mario ha fame di regole, per quanto ho capito lui regole non ne ha. Sapere
che c’è qualcuno che stabilisce una cosa, e questa regola non viene cambiata in
continuazione, gli dà sicurezza.
Poi può permettersi anche di cercare calore, può abbracciarmi, possiamo guardarci
negli occhi: con gli occhi si comunica. A volte mi rendo conto che le cose non dette sono
le più importanti. Io con gli occhi gli dico che per lui ci sono, che nella mia mente lui c’è,
non lo butto via, lo tengo dentro alla mia mente. A volte è così tenero, e si preoccupa
quando piove e io sono in bicicletta, oppure quando devo uscire da scuola tardi dopo le
riunioni, e mi dice: «Fai attenzione, io so che lì si fermano dei ragazzi che si bucano».
La maschera della forza e dell’odio sono simmetricamente cadute e s’è avviata una
circolarità di emozioni autentiche.
La banalità del male della negazione delle emozioni
Recentemente1 in una scuola elementare di Torino è stato espulso dalla scuola un
bambino di sei anni, prima elementare. Non sono conosciuti i motivi precisi della
decisione: sembra che una grave mancanza del bambino sia stata quella di aver detto
“puttana” alla maestra. Non è neppure noto quale situazione di disagio stava vivendo
questo bambino. Certo l’espulsione non ha aiutato certo a comprendere la situazione di
1
L’episodio risale agli inizi del 2005.
malessere del piccolo che si può ipotizzare. Non sappiano neppure se e cosa abbia fatto la
maestra per suscitare la sua rabbia. Ma sappiamo che la rabbia di un bambino non è mai
priva di ragioni, legate vuoi al presente, vuoi al passato della sua breve esistenza. Viene in
mente una canzone autobiografica di Francesco Tricarico: “Io sono Francesco”.
Buongiorno buongiorno, io sono Francesco,
io ero un bambino che rideva sempre,
ma un giorno la maestra dice: “Oggi c'è il tema,
oggi fate il tema il tema sul papà”.
Io penso è uno scherzo sorrido e mi alzo,
le vado lì vicino e ero contento,
le dico non ricordo mio padre è morto presto.
Avevo solo tre anni non ricordo non ricordo.
Lei sai cosa mi dice, neanche mi guarda,
beveva il cappuccino non so con chi parlava,
dice qualche cosa, qualche cosa ti avrà detto:
“Ora vai al posto e lo fai come tutti gli altri!”.
Puttana puttana puttana la maestra,
puttana puttana puttana la maestra!
Io sono andato al posto ricordo il foglio bianco,
bianco come il vuoto per vent'anni nel cervello.
E poi ho pianto io non so per quanto ho pianto
su quel foglio bianco, io non so per quanto ho pianto.
Anche in questo caso non possiamo ricostruire cosa è avvenuto con precisione assoluta.
Tuttavia è certo che la maestra abbia perso una grande occasione con l’intera classe e con
Francesco. Ha lasciato cadere la possibilità di affrontare con i bambini il tema del lutto e
soprattutto – fatto più grave – non ha rispettato i sentimenti di Francesco, ha calpestato il
suo bisogno di essere ascoltato e compreso nella propria difficoltà, ha frustrato gravemente
il suo atteggiamento di apertura e la sua domanda di fiducia, un atteggiamento e una
domanda che risultano peraltro le premesse fondamentali negli allievi dell’impegno
scolastico. Molto probabilmente la maestra non s’è neppure accorta della grave sofferenza
e della rabbia sconvolgente, innescate dalla propria sordità emotiva nel bambino.
Il comportamento della maestra di Francesco risulta emblematico della cultura
dell’adultocentrismo e della negazione delle emozioni, che ha conosciuto dei cambiamenti,
ma è tuttora molto radicata nella nostra società e nella nostra scuola. Nel sistema
d’istruzione italiano permane un’inimicizia storica e strutturale fra trasmissione del
sapere e sentimenti, fra educazione e affettività, tra vita istituzionale e vita emotiva2;
l’apprendimento continua quasi sempre ad essere visto come il risultato di uno sforzo
unilaterale e talvolta imperioso della volontà e il dovere scolastico viene spesso visto
sostanzialmente, al di là delle enunciazioni programmatiche, come qualcosa che non deve
tener conto dell’originale soggettività di ogni allievo (“Ora vai al posto e lo fai come tutti gli
altri!”).
L’insegnante di Francesco ci ricorda come ciascuno di noi nella quotidianità, con
comportamenti che si presentano come comuni e normali, scivolando
nell’inconsapevolezza e nell’insensibilità emotiva verso l’altro, può porre in essere la
banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt3, producendo gravi danni ai propri simili
e all’intera comunità, perché ogni violenza non riconosciuta e non evitata produce
inevitabili ricadute ed effetti di escalation nell’intero corpo sociale e nella storia.
Francesco è un bambino che ha già incontrato con ogni probabilità nel corso della propria
vicenda atteggiamenti di indisponibilità e di rifiuto del mondo adulto verso le proprie
emozioni e i propri sentimenti. Ha già dovuto rimuovere e forse dissociare esperienze di
2 C. Foti, La scuola, il sapere e i bambini invisibili, in C. Foti, C. Bosetto, A. Maltese, Il maltrattamento invisibile, Angeli,
Milano, 2000.
3 H. Arendt,La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2003.
vita e vissuti sofferti e difficili e si ritrova ancora una volta di fronte ad atteggiamenti di
mancato rispecchiamento (“neanche mi guarda, beveva il cappuccino non so con chi
parlava”).
La maestra inzuppa nel proprio cappuccino non solo la propria chiusura narcisistica, la
propria irresponsabilità, la dimenticanza della propria storia infantile – che si può
supporre costellata di vicende di mancato ascolto – ma anche il depauperamento del
significato e del valore della propria affettività, della propria vita personale e professionale.
Nei confronti del piccolo Francesco l’insegnante mette in atto la logica del dominio e del
controllo onnipotente dall’alto della sua funzione di autorità. Ciò che non piace (la
difficoltà cognitiva ed emotiva del bambino, il suo riferimento alla morte, l’intoppo alle
pretese di efficienza didattica e di rendimento scolastico) ciò che è imprevisto e turba la
pretesa di controllo onnipotente della realtà logica viene espulso mentalmente.
L’istituzione scuola può proseguire su questa strada, espellendo fisicamente e formalmente
il bambino.
La logica della consapevolezza è una logica meno rapida, meno illusoria di quella del
controllo onnipotente, ma che cerca di interagire con ciò che c’è. La consapevolezza invece
è un genitore buono che innanzi tutto accetta e dà un nome a ciò che compare nel campo
mentale e relazionale prima di giudicare, prima di differenziare i dati mentali e relazionali
buoni dai dati mentali o relazionali cattivi, salvando i primi ed evacuando i secondi. La
logica del giudizio rinvia alla logica del giudizio universale, dove i buoni vengono salvati e i
cattivi vengono allontanati. Così rischiamo di fare con le nostre emozioni. La
consapevolezza, a differenza della logica del controllo che elude l’emotività, è un genitore
che si rapporta al mondo interno, al mondo delle emozioni senza fretta di eliminare ciò che
immediatamente risulta disturbante, senza escludere immediatamente ciò che non può
essere subito riportato ad una dimensione ideale ed attesa.
Un’emozione - scrive Oatley - è come uno strattone: qualcuno ti sollecita, ti tira per la
manica. A volte è una scossa violenta, un colpo doloroso. Richiede di essere
riconosciuta, esige di essere compresa. Le emozioni rappresentano indicatori preziosi,
dell’importanza di un dato elemento e costituiscono l’occasione per porsi un
determinato problema: come tali sono tra gli aspetti più affascinanti della vita mentale,
sia per noi stessi, che per le persone che ci stanno a cuore.4
Tendiamo ad evacuare mentalmente gli strattoni che disturbano la nostra visione
inevitabilmente parziale e difensiva della realtà. Le emozioni sono la novità che bussa alla
porta delle nostre pretese di controllo miope ed illusorio e che tendiamo spesso a
respingere, lasciando così cadere gli indicatori preziosi contenuti nei vissuti emotivi. In
nome di un dominio sulla realtà, che promette l’evitamento della sofferenza, finiamo per
impoverirci, non raccogliendo l’informazione e l’energia che le emozioni possono
trasmettere al mondo interno e rinunciando al coinvolgimento sensibile nella relazione con
l’altro, che rappresenta la potenzialità più ricca e più profonda della nostra umanità.
4
K. Oatley, op.cit., Il Mulino, Bologna, 2004, p. 30.