Ontologia dell`arte come metafisica dell`ordinario

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Ontologia dell`arte come metafisica dell`ordinario
Ontologia dell’arte come metafisica dell’ordinario
Maurizio Ferraris
Ontologia dell’arte
Esiste l’arte. Esiste un mercato dell’arte, esistono libri che raccontano storie non
necessariamente accadute ecc. Per quale motivo non dovrebbe esistere una filosofia
dell’arte? Inoltre, negli ultimi due secoli sono avvenute cose che hanno cambiato lo
status dell’arte e della filosofia. Per esempio, si è detto che l’arte è l’organo della
filosofia, o che il mondo è diventato una favola o un’immagine, o che la stessa
verità non è conformità della proposizione alla cosa, ma “apertura” o creazione.
Perché non dovrebbe esserci un’ontologia dell’arte? Soprattutto, esiste la scienza,
che avanza la pretesa di dare una spiegazione completa della realtà, relegando nella
preistoria gli sforzi della filosofia. Per quale motivo la filosofia, invece di dialogare
con la scienza, non dovrebbe allearsi all’arte, e proporre una verità alternativa?
Qualcosa del genere devono essersela detta in molti, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Teorici delle scienze dello spirito, filosofi dell’esistenza o studiosi di cose artistiche che potevano così vedersi insigniti
del dubbio titolo di filosofi. Sicuramente deve esserselo detto Heidegger, nel suo
scritto della metà degli anni Trenta, L’origine dell’opera d’arte, composto pochi
anni dopo Essere e tempo, un’opera ambiziosa e incompiuta. Nello scritto sull’opera d’arte, Heidegger sostiene per l’appunto la tesi dell’arte come verità alternativa
rispetto alla scienza, e quel testo ha costituito a lungo uno dei riferimenti principali dell’ontologia dell’arte: se non riesci a fare un’ontologia filosofica (questo
è il risultato involontario di Essere e tempo), puoi giocarti la carta dell’ontologia
artistica.
c 2004 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/)
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Metafisica prescrittiva e metafisica descrittiva
Malgrado il suo andamento descrittivo, Heidegger ha in mente una metafisica prescrittiva, cioè una metafisica che ci insegni a correggere delle assunzioni sbagliate
che abbiamo sul mondo. Una versione molto enfatica di una simile metafisica, dal
momento che vuole rivaleggiare con la fisica: l’essere indagato dall’ontologia filosofica non è l’ente di cui si occupa la scienza e nemmeno quello con cui ha a che
fare il senso comune.
Nella sfera specifica dell’ontologia dell’arte, la sua tesi di fondo suona infatti
così. 1. C’è il mondo della fisica, è già aperto (ossia si limita a descrivere quello
che c’è, come se fosse una cosa da poco). Non è interessante. 2. C’è il mondo
dell’arte (e della religione, della filosofia, della morale e della politica). È interessante, e apre. La fisica parla di atomi, campi e forze, l’ontologia di “apertura di
prospettive”. 3. Con “apertura” si intende che l’arte ci fa accedere a un reale più
profondo del reale. 4. Questa ontologia ha a che fare con l’interpretazione, giacché la semplice percezione o la semplice constatazione hanno a che fare, nella sua
prospettiva, con la fisica.
Indipendentemente dalla riuscita o meno di un simile progetto, in Essere e tempo, o nelle successive riflessioni sulla storia della metafisica, nella sfera dell’ontologia generale, il problema di fondo è che l’apertura non è affatto uno specifico
dell’arte. Anzi, appartiene in primo luogo alla scienza e alla tecnica, in quanto
attività correttive: dove pensavi che ci fosse una tazza di caffè che si raffreddava,
c’era un caffè che cedeva calore all’ambiente circostante; dove Aristotele riteneva
che ci fosse la tendenza a ritornare nei luoghi naturali, operava la forza di gravità;
dove Tolomeo credeva che il sole tramontasse, era la terra che gira intorno al sole;
e – per quanto riguarda la tecnica – ruote e clave, computer e post-it non cessano di
trasformare la nostra esperienza. Inoltre, mentre anche un piccolo ritrovato tecnico (per l’appunto, il post-it) “apre”, la teoria dell’arte come apertura suppone che
questa funzione sia riservata alla “grande arte”; resta indeciso non solo che cosa
sia la “grande” arte, ma soprattutto che cosa resti alle opere d’arte brutte o – caso
in un certo senso anche più interessante – alle opere d’arte così così.
Sembra difficile sostenere una visione così enfatica e improbabile dell’arte che,
inoltre, presenta l’inconveniente di non distinguere l’esperienza estetica dalla tecnica o dalla scienza, cioè vien meno proprio rispetto a quello che pare essere lo
scopo per cui è stata escogitata. Una più saggia strategia per definire l’ontologia dell’opera d’arte (ossia, senza troppi giri, per dire che tipo di cosa è un’opera
d’arte) sembra essere quella di una metafisica descrittiva, che non definisca l’arte
come un’esperienza straordinaria ma – proprio al contrario – come la quintessenza
delle esperienze ordinarie, che si basa su un’umanità media, su una taglia media,
su invarianze (cioè su elementi molto più stabili di quanto non avvenga nell’intima
dinamicità della scienza) e sulla percezione (che in un certo senso è la quintessenza
della medietà).
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I quattro criteri distintivi dell’artefatto artistico
Mimando i quattro momenti del giudizio di gusto kantiano, possiamo sintetizzare
così queste quattro caratteristiche di fondo degli artefatti artistici e dunque – per
un’ontologia che si pensa essenzialmente come teoria dell’oggetto – dell’ontologia
dell’arte.
1. Conversazione: l’arte ha una funzione antropologica essenziale, come spunto conversazionale. Come ha suggerito recentemente Roberto Casati1 , gli artefatti artistici sono prodotti con lo scopo prioritario di provocare una qualche
sorta di conversazione rispetto alla loro produzione. Non servono a un tipo
di “comunicazione” tra artista e pubblico, non portano messaggi. Devono
produrre attenzione (e perciò non avere o nascondere un aspetto strumentale) entro un contesto linguistico in cui valgono come oggetti di discussione.
L’arte può essere uno spunto conversazionale precisamente perché condivide
un mondo di senso comune, che non può essere cambiato (o può esserlo solo
entro margini piuttosto ridotti). Si dirà che un simile concetto vale solo per
l’arte moderna, quella che più di ogni altra ha sviluppato istituzioni, musei,
critica d’arte. Ma anche chi nel neolitico dipingeva il soffitto di una caverna,
in ciò che non riguardava l’assolvimento di un rito o delle informazioni sulla
caccia stava generando conversazione. Di fatto, si tratta, a mio parere, di
una controprova della tesi hegeliana dell’arte come cosa del passato: proprio
quando l’arte viene relegata nel passato come pretesa di verità, proprio nel
momento in cui si va dal medico invece che dallo sciamano o si usano le
armature istoriate non come difesa ma come ornamento, l’arte si rivela come spunto di conversazione (“Bella quella armatura” ecc. ecc.). In questa
dimensione, mette a frutto alcune invarianti che valgono per ogni tempo.
2. Aisthesis: le opere d’arte sono più vicine alla percezione che all’interpretazione. Sono essenzialmente oggetti fisici. Questa è la ragione del richiamo di Baumgarten alla conoscenza sensibile, alla conoscenza chiara ma non
distinta, che era già al centro della critica di Leibniz all’identificazione cartesiana tra chiarezza e distinzione2 . Nella fattispecie, questa considerazione
ci dice che c’è una forte differenza tra l’esperienza scientifica e l’esperienza
sensibile, tra ciò che sappiamo e ciò che vediamo. L’arte è collegata prioritariamente alle strutture del senso comune e alla fisica ingenua (si pensi alle
metafore). L’arte non è la scoperta di un mondo alternativo alla fisica, ma
una descrizione del mondo dell’esperienza in quanto non è implicato nella
trasformazione delle teorie fisiche.
3. Mesoscopia: l’arte ha una taglia mesoscopica. Il mondo è pieno di cose di
taglia media, né troppo grandi né troppo piccole, cioè adeguate alla nostra
1
R. Casati, “The unity of the kind ‘Artwork’”, Rivista di estetica, n.s., n. 23, 2003, pp. 3-31.
G.W. Leibniz, Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis, Acta Eruditorum Lipsiensium
(nov. 1684), ed. Gerhardt vol. IV, pp. 422-427; tr. it. in Scritti filosofici, a cura di O. Bianca, 2 voll.,
Utet, Torino 1967, vol. II, pp. 675-682.
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estensione corporea e alle nostre risorse e necessità ecologiche. Suggerisco
di chiamare questa ipotesi “Ipotesi della mesoscopia”3 . La mesoscopia è tipica dell’esperienza estetica. Il sublime designa ciò che è in qualche modo
troppo grande per essere rappresentato (d’accordo con la tesi di Kant che
indica la necessità di una taglia media per il fenomeno). L’unità di tempo,
luogo e azione in Aristotele sembra rinviare del pari a questa dimensione
mesoscopica. E le difficoltà incontrate da Wagner, e a maggior ragione dalle
Vexations di Satie (24 ore di pianoforte) o di Empire di Warhol (24 ore di
Empire State Building riprese a camera fissa) confermano l’ipotesi. Anche
la psicologia dei romanzi condivide l’ipotesi mesoscopica. Il verosimile narrativo, la possibilità di condividere dei sentimenti o di partecipare ad azioni,
rientra in questa taglia.
4. Invarianza: le opere d’arte hanno una durata nel tempo e possiedono una
specifica consistenza, che non può essere cambiata. L’invarianza è stata posta da Strawson4 alla base dell’idea di “metafisica descrittiva”. L’idea di
fondo è che mentre nella periferia del pensiero, quella che riguarda le nostre acquisizioni più sofisticate, le cose cambiano (o possono cambiare) con
grande rapidità, c’è un nucleo invariante del pensiero umano che non cambia (o cambia molto poco). Ora, in questo nucleo c’è sicuramente l’arte, che
ha – tipicamente – sviluppato il concetto immutabile o quasi di “classico”.
Rispetto a Strawson, aggiungerei che le cose non cambiano perché non si
possono correggere. L’inemendabilità è il tratto comune dell’aisthesis e dell’arte: se il foglio è bianco, non posso vederlo nero, neanche spegnendo la
luce (in quel caso non vedrei un foglio nero, semplicemente non vedrei nulla); Sherlock Holmes vivrà per sempre in Baker Street, non possiamo creare
una teoria alternativa a questo proposito. Huria Heep è cattivo qualunque
revisione della morale possiamo fare.
Conclusioni
Può sembrare frustrante trattare l’arte come il prototipo non di un ente straordinario, ma del più ordinario degli enti. Ma in ultima analisi non si vede il motivo di
una simile delusione. Nel momento in cui Aristotele definisce la poesia come più
universale della storia, giacché quest’ultima descrive il particolare e il contingente, mentre la prima coglie l’universale e il necessario, implica esattamente questa
medietà, e la teoria dell’arte come imitazione non fa che rafforzare l’impostazione
descrittivistica di un’ontologia dell’arte. All’altro capo (quasi) della storia, Proust
scrive che il compito dell’opera d’arte non è farci vedere meraviglie, ma servire
3 J.J. Gibson, An Ecological Approach to Visual Perception, Houghton Mifflin, Boston 1979; tr. it.
di R. Luccio, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna 1999.
4 P.F. Strawson, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Routledge Kegan and Paul,
London 1959; tr. it. di E. Bencivenga, Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Feltrinelli,
Milano 1978.
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da telescopio o da microscopio per cogliere la nostra vita. L’obiezione che mi si
potrebbe muovere, a questo punto, è che ho raccontato una storia nota, ma non mi
pare, se si considera che molta estetica sembra essersi sistematicamente affidata a
un messaggio alternativo, quello del barocchissimo Cavalier Marino: «è del poeta
il fin la meraviglia, e chi non sa stupir vada alla striglia».
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