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Introduzione
Dal 2000 a oggi ho avuto due compiti che mi hanno obbligato
a seguire assiduamente e con meticolosità le vicende della televisione italiana, quelle legate all’emittenza, quelle del pubblico e
soprattutto dei programmi. È meglio chiarire subito che parole
come “compiti” e “obbligato” non sono le più giuste, potrebbero
trarre in inganno per quella valenza un po’ negativa che spesso
assumono e che si portano dietro. Nel mio caso nulla di tutto questo. Seguire giorno per giorno la programmazione televisiva non
può essere soltanto un peso; può essere motivo di arrabbiature,
di sdegno, di irritazione e talvolta anche di tristezza. Ma solo un
peso mai, perché – è la prima cosa che spiego ai miei studenti – la
televisione è un mezzo bellissimo, fondamentale nella vita delle
società moderne e che, quando si ricorda di fare bene il proprio
lavoro, è in grado di suscitare un entusiasmo che, personalmente,
non provo di fronte a nessuna altra forma di comunicazione. Non
credo sia solo un’impressione soggettiva, frutto di una passione
individuale o generazionale o di un gusto personale e un po’ singolare; al contrario, sono convinto che si tratti di un sentire molto
diffuso. Il titolo scelto per questo volume – Ci salvi chi può – vorrebbe esprimere proprio quest’idea di una passione condivisa. Ma
per arrivare alla spiegazione chiara e completa occorre procedere
a tappe.
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Il primo chiarimento riguarda i due “compiti” a cui ho accennato in apertura e che si sono svolti parallelamente. Da un lato,
infatti, a partire dal gennaio del 2000 su una rivista intitolata «Itinerari Mediali», ideata e diretta da uno studioso di cinema come
Dario E. Viganò, ho individuato ogni due mesi l’argomento, il
problema, il programma più interessante e significativo di quel
momento della televisione, ho cercato di analizzarlo e di fornirne
un’interpretazione ai lettori. Da questa esperienza è già nato un
volume che nel 2004, a metà di questo percorso, raccoglieva in
ordine cronologico gli interventi sotto un titolo allusivamente
cinefilo, polemico e tuttavia benaugurante I peggiori anni della sua
vita. Dopo di che il compito è proseguito con la stessa cadenza
bimestrale e purtroppo senza incontrare nei quattro anni successivi segni di miglioramento.
La seconda occasione di costante verifica e di attenta osservazione delle vicende della tv nazionale mi è stata offerta dalla
collaborazione, iniziata nel 2001, a un programma settimanale di
analisi, commento e discussione della programmazione televisiva.
L’esperienza svolta per i primi cinque anni nell’ambito di Il grande
talk realizzato da Sat2000 e nei tre successivi nel Tv Talk di Rai
Educational, molto coinvolgente e gratificante, non viene richiamata qui per questi suoi effetti soggettivi – che peraltro non ho
affatto intenzione di nascondere o trascurare – ma per il fatto che
ha rappresentato un altro “compito” o meglio ha dato a quello già
avviato un ritmo più intenso, dettato dall’esigenza di non trascurare proprio nulla della programmazione in vista del consuntivo
in forma di talk in onda a fine settimana.
Ora è evidente che un’immersione così continua nel flusso televisivo rappresenti un quotidiano viaggio all’inferno, un confronto
costante con i peggiori vizi della società italiana di questi anni:
l’amoralità, la banalità, l’opportunismo, la volgarità, l’assenza di
ogni progetto. Un inferno, quello televisivo nazionale, che appare
tanto più buio quando accade di confrontarlo con il suo passato
visto, non attraverso lo sguardo della nostalgia che caratterizza
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tante rievocazioni sospirose («Ah! com’era bella, com’era elegante
la tv in bianco e nero!»), ma osservato in una prospettiva storica,
attraverso l’analisi di produzioni ed esperienze che colpiscono per
la loro originalità di scrittura e per l’ambizione di contribuire alla
modernizzazione e al progresso della società. Il lettore che avrà
la bontà di arrivare al secondo capitolo troverà varie occasioni
di questo confronto, suggerite dalle vicende di un’informazione
sprofondata, nei telegiornali e nei talk show, a livelli di qualità
indegni di una tradizione che è stata costruita in passato dal lavoro
di Roberto Rossellini, Mario Soldati, Pier Paolo Pasolini o Enzo
Biagi.
La sensazione della pochezza, della vanità, della bassezza
degli oggetti con cui quotidianamente ho avuto a che fare è stata
spesso violentissima, non solo quando si è trattato di affrontare
i momenti notoriamente indecenti della programmazione televisiva – i famigerati reality, l’esibizione dell’intimità o del macabro
– ma spesso di fronte a momenti e luoghi della tv insospettabili
come la rappresentazione degli avvenimenti, sportivi e non solo,
in diretta, quel campo in cui la tv ha rivelato fin dalle origini le
sue grandi potenzialità, in cui si è accreditata come il vero mezzo
di informazione moderno e che invece in questi anni ha visto prevalere un atteggiamento di rinuncia, di chiusura.
L’indignazione, la rabbia esplose di fronte alle “proposte indecenti” della televisione si sono spesso trasformate in scoramento,
tanto che avevo pensato di intitolare questo volume Diario di un
vizio, non solo per riproporre un’allusione cinefila, ma per esprimere un timore che coglie chi dedica il proprio tempo a questo
tipo di osservazione, il timore di un’ambiguità, di sporcarsi troppo
le mani con materiali così bassi, di vivere quotidianamente in un
universo così degradato da cui si può essere contaminati, risucchiati in un gioco perverso a cui ci si illude di opporsi e di cui
invece si finisce per essere complici.
Ma, in seguito, hanno prevalso altre scelte, non solo di titolazione ma di impostazione generale. E così la forma diaristica che
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in una certa misura è conservata nel volume che ripropone, nelle
sue parti, la successione cronologica degli interventi, delle cronache bimestrali sugli accadimenti televisivi, si è disposta all’interno
di un tentativo di storicizzazione, di una lettura critica di alcune
linee della televisione italiana corrispondenti ai suoi macrogeneri. La prima di queste linee è quella riguardante la cornice di
norme, regole scritte o implicite, strutture e istituzioni all’interno
delle quali opera la produzione. Una cornice non sempre chiara,
sfuggente, disegnata da una legislazione discutibile, da pressioni
e sovrapposizioni politiche, non certo migliore del quadro che
vuole contenere. La seconda linea ripercorre le tristi vicende dell’informazione televisiva, a cui già si è accennato, la sua nobile
origine articolata sui generi dell’inchiesta e del reportage d’autore
e la prevalenza nell’ultimo decennio di formule obsolete e mortificanti come il telegiornale generalista o i rumorosi talk sedicenti
di approfondimento, in realtà inadeguati ad affrontare i grandi
problemi di una società complessa.
Il terzo capitolo segue una delle vicende più emblematiche e
scoraggianti dell’involuzione del sistema televisivo nazionale, l’annullamento della celebre metafora della finestra aperta sul mondo.
La chiusura della tv all’interno dei suoi studi, il suo compiacimento autoreferenziale, l’utilizzo narcisistico delle tecnologie e il
conseguente disinteresse per il mondo esterno si osservano con
particolare evidenza nell’analisi di un ambito che in passato ha
dato e potrebbe ancora dare impulsi in una saggia direzione opposta: la copertura televisiva delle grandi manifestazioni sportive.
Infine gli ultimi capitoli affrontano due generi ben definiti della
televisione, indispensabili per ogni sistema televisivo. Dapprima
l’intrattenimento con la sua crisi di identità, i tentativi di sopravvivenza delle sue formule tradizionali come il quiz e il varietà e il
suo aggrapparsi nei momenti difficili al più tradizionale e solido
dei suoi modelli, il teatro; da ultima la fiction, il settore più vivo
e vivace della tv, che ha conosciuto, negli ultimi anni, momenti
particolarmente felici, esperienze molto interessanti, scatti di qua10
lità alternati a pause, cadute, appiattimenti, all’interno del quale
si vive un confronto stimolante, sul piano produttivo ma anche su
quello della critica, tra la produzione nazionale e quella d’importazione americana.
Come già si è anticipato, i materiali di questo volume, le cronache inserite all’interno di questi cinque percorsi, provengono
dalla rivista «Itinerari Mediali». Fa eccezione il saggio sulla storia
del giornalismo televisivo “periodico” inserito nel secondo capitolo, che rappresenta una versione riveduta di un testo scritto per
il libro di autori vari Giovanni Minoli, il televisionista, pubblicato
nel 2007 dall’editrice 10/17 di Salerno in occasione della quarta
edizione del “Premio Smeraldo per la regia televisiva” organizzato
dal Comune di Amalfi.
Ma torniamo, in conclusione, al punto da cui siamo partiti e
al titolo scelto per questa raccolta di cronache. Dicevo, dunque,
che seguire giorno per giorno, mese per mese il compito di osservare la produzione televisiva lascia spazio, insieme con i timori, le
arrabbiature, lo sconforto, anche a un altro stato d’animo che, a
prima vista, può sembrare insensato. Anche nei giorni più neri,
nei periodi – e non sono pochi, né brevi – in cui la programmazione sembra non lasciare scampo all’intelligenza, al buon senso e
al buon gusto, in cui sembra che davvero tutto sia perduto, basta
un piccolo segnale positivo, un programmino ben fatto, per far
tornare la speranza, per farci dire: «Ma allora la bella tv si può
fare!»; «Dunque, un’altra televisione è possibile!» e soprattutto,
come qualcuno diceva del cielo di Lombardia: «Com’è bella la
televisione quando è bella!».
Vorrei illustrare questo singolare cambiamento di prospettiva attraverso un esempio di poche settimane fa. I primi mesi
del 2009 sono apparsi come un periodo tra i più neri della vita
televisiva italiana. Ancor prima che le cronache del terremoto in
Abruzzo diffondessero tutto il loro carico di retorica, di servilismo, di melensaggine, l’ennesima ripartenza di “isole”, “fattorie”
e “grandi fratelli”, unita all’ulteriore degrado dell’infotainement
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mattutino e pomeridiano e all’inconsistenza informativa dei telegiornali generalisti, sempre più compiacenti verso il potere politico, aveva diffuso un clima irrespirabile. Eppure, anche in un
momento così buio, è bastata una serata, anzi mezza serata – quella
che Fabio Fazio ha dedicato a Saviano e alla sua lezione teatrale
sulla camorra – e il suo felicissimo esito in termini di audience per
farci riscoprire non solo il piacere della televisione ma per darci il
senso della sua potenza, della sua importanza, della sua indispensabilità. È come se un sospiro, un fremito avesse percorso tutta
l’Italia, come se ogni spettatore avesse constatato che non solo
un’altra televisione può esistere ma che senza televisione è comunque impossibile vivere e che ogni giorno, dietro l’angolo, c’è la
possibilità di tornare a vedere e a fare un buon uso della tv, che la
salvezza dal degrado, dall’umiliazione, dall’inciviltà non è un’utopia, un sogno da rimandare al prossimo secolo ma una soluzione
concreta e a portata di mano. E dunque: «Ci salvi chi può».
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