La storia del Diritto Fallimentare: le origini e le evoluzioni E` stato

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La storia del Diritto Fallimentare: le origini e le evoluzioni E` stato
La storia del Diritto Fallimentare: le origini e le evoluzioni
E’ stato approvato il c.d. “D.L. Fallimenti” il quale inserisce nel sistema del Diritto Fallimentare
una molteplicità di innovazioni, nell’ottica di favorire una soluzione privatistica alla crisi
dell’impresa.
L’impianto sistematico del Diritto Fallimentare è stato costruito in un’epoca in cui era ancora forte
la visione dell’imprenditore in crisi come una figura negativa, contagiosa e che doveva essere
eliminata dal traffico commerciale. Questa manifestazione di pensiero traeva le sue radici dal
periodo medioevale delle c.d. “societas mercatorum”, in cui il mercante che si trovava nella
situazione di non riuscire più a fronteggiare i propri debiti era considerato come un ladro: “decoctor
ergo fraudator”. Si trattava chiaramente di una logica sanzionatoria, che non lasciava scampo agli
imprenditori deboli ed inesperti.
La concezione punitiva mutò nel tempo, infatti si assistette ad un radicale cambiamento di pensiero
ed alla costruzione di una procedura che doveva riuscire, in qualche modo, a garantire il
soddisfacimento di coloro che avevano fatto affidamento sulla bontà dell’impresa: i creditori. Si
sposta quindi l'attenzione sulla figura dei creditori, considerandoli come i soggetti maggiormente
tutelati (e da tutelare) in caso di squilibrio economico dell’imprenditore. Si arrivò, dunque, a creare
uno dei principi cardine del Diritto Fallimentare, la “par condicio creditorum”, intesa come
esigenza di soddisfacimento – in misura graduata e contemporaneamente paritaria – dei vari
creditori. Ciò ha portato il Legislatore a verificare il loro comportamento durante l’attività
imprenditoriale ed a distinguerli a seconda del tipo di prestazione che apportassero a favore
dell’impresa: dai fornitori, ai titolari di ipoteche sui beni immobili dell’imprenditore nonché coloro
che durante la procedura di fallimento avessero effettuato una prestazione a favore dell’impresa
fallita.
Consapevole della necessità di una positivizzazione del sistema che si stava gradualmente
formando, il Legislatore nel 1942 decise di redigere la Legge Fallimentare, sotto forma di Regio
Decreto Legge, n. 267. Il sistema era impiantato sulla graduazione dei creditori in: creditori
chirografari,
creditori prelatizi (cioè titolari di privilegio, pegno o ipoteca sui beni
dell’imprenditore) e creditori di massa (tra cui assumono rilevanza i creditori c.d. prededucibili).
Vennero individuate due tipologie di requisiti di assoggettabilità alla procedura fallimentare: il c.d.
requisito soggettivo, individuato dall'art. 1 della legge fallimentare (“Sono soggetti alle disposizioni
sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale,
esclusi gli enti pubblici.) e il c.d. requisito oggettivo, a sua volta descritto dall'art. 5 della legge
fallimentare (“L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito”.). Pertanto colui
che esercita un'attività imprenditoriale commerciale e che si trova in stato di insolvenza può essere
dichiarato fallito.
Tralasciando le caratteristiche prettamente procedurali, può essere interessante osservare che la
procedura de quo, così come strutturata dal Legislatore del '42, presenta caratteri “pubblicistici”: è
governata dal tribunale, il quale ha il potere di accertare lo stato di impotenza dell'imprenditore nel
pagare i propri debiti e conseguentemente dichiararlo fallito, qualora tale accertamento avesse esito
positivo. Inoltre, il tribunale è dotato di poteri di controllo e di autorizzazione al compimento di atti
da parte del curatore fallimentare (quest'ultimo è l'organo che viene nominato con la sentenza che
dichiara il fallimento e ha il potere di amministrare e conservare il patrimonio dell'imprenditore
fallito) e del comitato dei creditori (un organo rappresentativo della massa dei creditori del fallito,
che può essere composto da 3 o 5 creditori, con il potere di dare pareri al curatore sulle modalità di
liquidazione del patrimonio o anche sulla possibilità di continuare ad esercitare l'attività di impresa
anche dopo la dichiarazione di fallimento).
Dal 1942 però le cose sono cambiate. La vecchia concezione punitiva è stata sempre più messa da
parte per favorire una continuazione dell'attività imprenditoriale. Ebbene con il passare degli anni,
in particolare dal 2006, è nato il c.d. “concordato preventivo”, uno strumento che consente
all'imprenditore insolvente di evitare la dichiarazione di fallimento e di poter offrire un
soddisfacimento dei crediti che – seppur inferiore al valore iniziale – è concordato con i creditori ed
è assicurato. Questo perché di solito dalla dichiarazione di fallimento alla ripartizione del
patrimonio dell'imprenditore possono passare anni, viste le lungaggini dei processi (in perfetta
distonia con il principio della ragionevole durata del processo!). Pertanto, tra ricevere il credito
subito o comunque in maniera dilazionata ma sicura, anziché dopo anni e con un velo di
insicurezza, i creditori preferiscono sicuramente la prima soluzione. Il Legislatore ha colto quindi la
palla al balzo per regolamentare questo nuovo istituto del concordato preventivo all'interno della
stessa Legge Fallimentare, conferendo all'imprenditore commerciale che si trovi in uno stato di crisi
(diverso dallo stato di insolvenza, che richiama una situazione irreversibile di impotenza a pagare i
debiti) la possibilità di proporre ai suoi creditori un concordato preventivo.
Grazie a questa riforma cambia il modo di concepire il fallimento. Si assiste ad una concezione
della procedura fallimentare non più come indispensabile per garantire i creditori, ma come
procedura alternativa, sorpassata dalla procedura concordataria. Ma non è finita qui. Il concordato
preventivo è uno strumento che la Dottrina Giusfallimentarista inquadra come soluzione privatistica
alla crisi d'impresa. A onor del vero basti pensare che le modalità di ripartizione dei vari crediti sono
decise dall'imprenditore in accordo con i creditori; c'è poi chi addirittura tenta di ricondurre il
concordato ad una figura contrattuale, ma rimane un orientamento isolato dal momento che il
concordato comunque è sottoposto ad un controllo da parte del tribunale, sotto forma di
omologazione.
Dal 2006 ad oggi il concordato preventivo ha poi assunto ulteriori forme (il c.d. concordato
preventivo con riserva, il concordato preventivo con continuità aziendale) che pongono in luce
l'esigenza di consentire la prosecuzione dell'impresa e il soddisfacimento concordato dei crediti.
Grazie al D.L. Fallimenti citato in premessa, è consentito ai creditori, la possibilità di proporre un
concordato preventivo quando la proposta del debitore non prevede la soddisfazione di almeno il
25% dei crediti chirografari, purché si tratti di proposta migliorativa. In questo modo si favorisce
l’immissione di nuovi capitali nell’impresa in crisi e la corretta valorizzazione del patrimonio del
debitore.
In conclusione – e a prescindere dalle conseguenze di natura tecnica che ha dato vita l'ultima
riforma – si comprende agevolmente che il Diritto Fallimentare è stato rivoluzionato nel tempo. Da
un sistema punitivo, afflittivo, in cui l'imprenditore/mercante che non pagava veniva eliminato dal
mercato, ad un sistema di benefici e di strumenti che danno una seconda chance all'imprenditore in
crisi. La tendenza evolutiva si è spostata sul piano del Diritto Privato, infatti si preferisce lasciare
l'imprenditore libero di organizzare la sua attività con i suoi creditori, senza quella continua
pressione che esercita il tribunale con la procedura fallimentare.
Francesco Marzano