Tema n. 19 illustri il candidato le principali differenze ed i punti di

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Tema n. 19 illustri il candidato le principali differenze ed i punti di
Tema n. 19
Illustri il candidato le principali differenze ed i punti di contatto tra le diverse discipline dell’azione revocatoria fallimentare e azione revocatoria ordinaria nell’ambito del fallimento
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 2901, 2902 c.c.
Artt. 66-67 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 80/2005
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Effetti della dichiarazione di fallimento nei confronti del fallito.
B.I rimedi azionabili dal curatore per la ricostruzione dell’attivo fallimentare:
la revocatoria ordinaria e fallimentare.
C.I presupposti delle azioni nell’art. 67 L.F. come modificato dalla L. 14-52005, n. 80 e dal D.Lgs. 12-9-2007, n. 169.
D.Il termine di decadenza della revocatoria fallimentare alla luce delle modifiche apportate dalla riforma fallimentare introdotta col D.Lgs. 9-1-2006,
n. 5.
E.Rapporti tra le due azioni.
F.La posizione dei terzi aventi causa dal fallito.
A^>Tra gli effetti di natura privata derivanti dal fallimento e riguardanti la posizione giuridica del fallito, alcuni sono di natura personale ed altri di natura patrimoniale.
La riforma del 2006, nell’ottica dell’eliminazione delle sanzioni personali a carico
del fallito, ha abolito il registro dei falliti (peraltro mai istituito), nonché ha soppresso la
prevista incapacità per il fallito, nei 5 anni successivi al fallimento, di esercitare il diritto di voto (elettorato attivo).
In coordinamento con tali interventi, è stato soppresso l’istituto della riabilitazione.
Permangono tuttavia le altre incapacità che il codice civile e le leggi speciali collegano alla figura del fallito, tra cui: la perdita della possibilità di esercitare alcune professioni (avvocato, titolare di farmacia, geometra) con cancellazione dai relativi albi
professionali; la perdita della capacità di assumere determinati uffici (tutore o curatore; giudice popolare; esattore delle imposte; amministratore o liquidatore di società per
azioni).
Il decreto correttivo del 2007, inoltre, ha specificato che tutte le incapacità personali riguardanti il fallito cessano con la chiusura del fallimento, ha eliminato ogni riferimento al fallimento nelle disposizioni riguardanti il casellario giudiziale e in tema di
disciplina del commercio, ha eliminato la disposizione che vietava l’iscrizione nel regi-
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Tomo Secondo: Materie giuridiche stro delle imprese dei soggetti dichiarati falliti fino alla sentenza di riabilitazione. Anche il soggetto fallito, dunque, può iscriversi nel registro delle imprese, quale titolare
di una nuova impresa commerciale, distinta da quelle assoggettate a fallimento.
La sentenza dichiarativa di fallimento incide, inoltre, su due diritti civili dell’imprenditore, costituzionalmente garantiti: il diritto di libertà e segretezza della corrispondenza
(art. 15 Cost.) ed il diritto di locomozione e soggiorno (art. 16 Cost.); per effetto del fallimento, infatti:
— il fallito (persona fisica) deve consegnare al curatore la propria corrispondenza riguardante i rapporti compresi nel fallimento, inclusa quella elettronica (art. 48 L.F., come
modificato dal D.L.gs. 169/2007). Nel caso di mancato ottemperamento dell’obbligo, il fallito decade dal beneficio dell’esdebitazione;
— il fallito deve comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del
proprio domicilio. In caso di mancato adempimento, è prevista una sanzione penale (art. 220 L.F.). Egli deve presentarsi personalmente agli organi del fallimento per
fornire informazioni o chiarimenti sulla gestione della procedura, anche a mezzo di
mandatario in caso di legittimo impedimento (art. 49 L.F.).
Nell’ambito degli effetti di natura patrimoniale, la dichiarazione di fallimento produce per il fallito la perdita della disponibilità giuridica del proprio patrimonio.
Il fallito viene spossessato dei suoi beni, che passano all’amministrazione del curatore che li prende in consegna (artt. 42 e 88 L.F.). A tale soggetto il legislatore demanda il compito di ricostruire l’attivo fallimentare nel caso in cui il fallito abbia compiuto, anteriormente alla stessa dichiarazione di fallimento, atti di disposizione del proprio patrimonio.
B^>I rimedi di cui egli può avvalersi sono l’azione revocatoria ordinaria (art. 66
L.F.) e quella fallimentare (art. 67 L.F.). A questi va aggiunta la possibilità di invocare,
ex art. 64 L.F., l’inefficacia degli atti a titolo gratuito posti in essere dal fallito nei due
anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.
Ritornando alla revocatoria, va rilevato come i due tipi di azione presentino, al di là
delle evidenti differenze di presupposti e di ambiti applicativi, taluni punti di contatto.
Entrambe le azioni sono esperibili in presenza di atti pregiudizievoli per i creditori, ed entrambe producono l’inefficacia relativa (cioè l’inopponibilità al fallimento) degli atti compiuti in frode ai creditori.
In tutte e due le ipotesi, poi, la finalità di ricostruzione della massa attiva del fallimento viene perseguita attraverso la giuridica riacquisizione al patrimonio del fallito
dei beni che ne sono usciti, nonché attraverso la liberazione dello stesso patrimonio dai
debiti e dalle garanzie che il fallito abbia assunto con pregiudizio delle aspettative creditorie.
La revocatoria fallimentare, tuttavia, diversamente da quella ordinaria — e in questo risiede la principale differenza tra i due rimedi — è tesa a garantire la soddisfazione paritaria dei creditori (par condicio creditorum): essa mira cioè a tutelare l’interesse
non del singolo creditore, ma di tutti quanti i creditori ammessi al passivo.
C^>Ma vediamo ora quali sono i presupposti in presenza dei quali il curatore può
agire e come essi si atteggiano nei due tipi di azione.
Presupposti dell’azione revocatoria ordinaria sono (art. 2901 c.c.): il compimento, da parte del debitore, di un atto di disposizione del proprio patrimonio, l’eventus
Tema n. 19: L’azione revocatoria fallimentare e ordinaria
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damni ed il consilium fraudis. È opportuno precisare al riguardo che il concetto di
atto di disposizione va accolto nella sua accezione più ampia, intendendo per negozio
dispositivo ogni atto idoneo ad incidere negativamente sul patrimonio dell’obbligato, decurtandone l’attivo o aumentandone il passivo. Perciò, è da considerare tale non soltanto l’atto con il quale il debitore alieni certi beni a terzi, a titolo gratuito o a titolo
oneroso, ma anche quello con cui si costituisca una garanzia reale o si attribuisca un
diritto reale di godimento o, ancora, si assumano obbligazioni nei confronti dei terzi.
L’eventus damni consiste nel pregiudizio che può derivare alle aspettative creditorie,
ravvisabile nella diminuzione (o il pericolo di essa) del patrimonio del debitore. In tal
senso è revocabile anche l’atto di disposizione che renda soltanto più difficile od onerosa la realizzazione del diritto di credito. Per consilium fraudis, infine, deve intendersi la consapevolezza da parte del debitore di ledere, con l’atto di disposizione, le ragioni creditorie. Se l’atto di disposizione è a titolo oneroso, il curatore dovrà provare
altresì la sussistenza della partecipatio fraudis, cioè la consapevolezza, da parte del
terzo contraente, del pregiudizio che l’atto stesso arreca alle aspettative del creditore;
nel caso di un atto posto in essere anteriormente al sorgere del credito, inoltre, il curatore dovrà dimostrare che il terzo era partecipe della dolosa preordinazione.
Nella revocatoria fallimentare queste tre condizioni vengono sostanzialmente declassificate.
Fermo restando, invero, il compimento dell’atto impugnato nel periodo sospetto stabilito dall’art. 67 L.F. (periodo i cui termini, per ciascuna delle diverse tipologie di atti,
il citato D.L. 35/05 ha provveduto a dimezzare), si osserva che la consapevolezza da parte del debitore di ledere con l’atto di disposizione le ragioni creditorie (consilium fraudis) non deve essere provata dal curatore ma è presunta in re ipsa; in altri termini, si
presume che il debitore insolvente si renda conto, nel momento in cui pone in essere
l’atto, dell’incidenza negativa dello stesso sul proprio stato di insolvenza, in danno dei
creditori. La partecipatio fraudis viene trasformata, in sede di revocatoria fallimentare, in una conoscenza dell’insolvenza da parte del terzo contraente (cd. scientia decoctionis). Tale conoscenza è sorretta da una presunzione relativa per gli atti indicati
nel comma 1, mentre deve essere provata dal curatore per le ipotesi previste dal comma 2. Con riguardo agli atti revocabili ai sensi del comma 1 della norma citata, essa va
intesa non tanto come conoscenza effettiva quanto come conoscibilità dello stato di decozione, secondo le capacità medie di apprensione intellettiva possedute da una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza, e tenendo altresì conto delle condizioni di
tempo e di luogo e degli elementi di conoscibilità reperibili nella fattispecie. La prova
della inscientia decoctionis grava, naturalmente, sul terzo contraente.
D^>La riforma delle procedure concorsuali, introdotta con il D.Lgs. 5/2006, ha introdotto nella disciplina della revocatoria fallimentare un termine di decadenza per
l’esercizio dell’azione. Ha infatti previsto che le azioni revocatorie non possano più
essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi
cinque anni dal compimento dell’atto (art. 69bis L.F.). Anteriormente alla previsione
della riforma, l’originaria formulazione della legge nulla prevedeva in merito ad un
possibile termine di decadenza o di prescrizione della revocatoria e per colmare tale
lacuna normativa, in giurisprudenza si riteneva che fosse ad essa applicabile il termine
di cinque anni previsto per la revocatoria ordinaria, decorrente però dalla data della
sentenza di fallimento (e non dal compimento dell’atto). È palese l’intenzione del legislatore della riforma, prevedendo espressamente un termine di decadenza, di limitare
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Tomo Secondo: Materie giuridiche la situazione di instabilità nei rapporti commerciali determinata dalla possibilità di
esperire azioni revocatorie.
E^>Per quanto riguarda l’esperibilità delle due azioni nel corso della procedura
fallimentare, la revocatoria ordinaria costituisce in pratica l’opzione residuale a disposizione del curatore nel caso in cui gli atti dispositivi compiuti dal fallito non rientrino
nelle categorie di quelli sottoposti alla revocatoria fallimentare, per esempio perché
l’atto da revocare è stato compiuto dal fallito prima del periodo sospetto, oppure perché
è escluso dal regime della revocatoria fallimentare. A ben vedere, infatti, le condizioni
richieste per la revocatoria ordinaria sono più gravose rispetto a quelle previste per la
fallimentare, in quanto in quest’ultima sono presunte, negli atti onerosi compiuti in
condizioni di “normalità” (art. 67, 1° comma, L.F.), sia la conoscenza del debitore che
la malafede del terzo contraente, mentre la revocatoria ordinaria pone a carico del
curatore l’onere di provare l’eventus damni (cioè il pregiudizio che l’atto ha determinato o aggravato nello stato di decozione del fallito), il consilium fraudis del debitore e la
partecipatio fraudis del terzo.
Altra differenza che sussiste tra le due azioni è data dal fatto che la revocatoria ordinaria presuppone la validità degli atti compiuti dal debitore in frode ai creditori, mentre la revocatoria fallimentare si fonda sull’indisponibilità che colpisce il patrimonio del
fallito, prevista dall’ordinamento a tutela della par condicio creditorum.
Inoltre, mentre la revocatoria ordinaria è esperibile solo contro quegli atti che effettivamente costituiscono una lesione del diritto del creditore, la revocatoria fallimentare si estende allo stato di insolvenza prefallimentare ed è diretta a ricostituire l’integrità del patrimonio del debitore per la soddisfazione della generalità dei creditori.
F^>Resta da spendere qualche parola sugli effetti che le due azioni producono nei
confronti del terzo. Va detto al riguardo che, se il rimedio esperito è quello ordinario,
rimane esclusa la possibilità da parte del terzo di concorrere sul ricavato dei beni che
hanno formato oggetto dell’atto dichiarato inefficace (art. 2902 c.c.); se, invece, si procede con la revocatoria fallimentare, all’eliminazione dell’efficacia dell’atto nei confronti del
fallimento corrisponde il diritto del terzo ad essere ammesso al passivo del fallimento
per la somma di cui risulti creditore (art. 70, comma 2, L.F., nel testo introdotto dal
D.L. n. 35/05). La ratio di questo diverso regime è evidente. Il terzo nella prima ipotesi
è proprietario e quindi, se non può concorrere al riparto, può tuttavia appropriarsi
dell’eventuale residuo di prezzo non in qualità di creditore, bensì uti dominus, salvo
agire per i danni nei confronti del debitore-alienante.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 20, Tomo II - Effetti del fallimento sui soci illimitatamente responsabili
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
Tema n. 20
Illustri, il candidato, gli effetti prodotti dalla procedura fallimentare nei riguardi
dei soci illimitatamente responsabili
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 2195, 2290 c.c.
Artt. 10, 147 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.L’imprenditore assoggettabile a fallimento alla luce della riforma apportata dal decreto correttivo del 2007.
B.Il fallimento della società che abbia cessato l’esercizio dell’impresa commerciale.
C.Effetti del fallimento nei confronti dei soci.
D.Il fallimento di una società di capitali.
E.Obblighi degli amministratori e dei liquidatori.
F.Il problema del socio occulto.
G.Il fallimento di una impresa familiare.
A^>Con l’espressione fallimento si indica lo stato patrimoniale di un soggetto che
non ha più la capacità obiettiva di far fronte puntualmente alle proprie obbligazioni.
Esso consiste in un processo esecutivo rivolto alla realizzazione coattiva del diritto
dei creditori, che si fraziona in vari sub procedimenti tendenti, anzitutto, ad accertare la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per la dichiarazione di fallimento; quindi, ad identificare, acquisire e conservare tutti i beni del fallito, ad accertare i
suoi creditori, a liquidare tutti i suoi beni ed, infine, a ripartire il ricavato tra i creditori stessi.
La procedura fallimentare è dunque universale, in quanto colpisce tutti i beni del
debitore, nonché concorsuale, perché è predisposta nell’interesse di tutti i creditori.
Al fallimento è assoggettabile ogni soggetto purché sia dotato di autonomia patrimoniale, eserciti un’impresa commerciale, non sia un ente pubblico e non superi i limiti dimensionali e di indebitamento (di non fallibilità) stabiliti all’art. 1 della legge fallimentare, come modificato dal D.Lgs. 169/2007.
L’art. 1 L.F., come novellato dal D. Lgs. 5/2006 ed applicabile ai fallimenti dichiarati dal 16 luglio 2006 al 1° gennaio 2008 escludeva dal fallimento il piccolo imprenditore, intendendo per tale chi restasse al di sotto di determinate soglie dimensionali di fallibilità riguardanti l’importo degli investimenti e l’ammontare dei ricavi
lordi.
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Tomo Secondo: Materie giuridiche Non era considerato piccolo imprenditore chi, nell’esercizio della propria attività
commerciale, in forma individuale o collettiva, alternativamente:
— avesse effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a
300.000 euro;
— avesse realizzato, in qualunque modo risultasse, ricavi lordi calcolati sulla media
degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro.
Nella legge fallimentare, sia prima che dopo la riforma del 2006, si aveva riguardo,
quale indice delle dimensioni dell’impresa, a parametri legati alla quantità: di reddito
prodotto dall’imprenditore, nella disciplina previgente; di patrimonio investito nell’azienda e di ricavi conseguiti, nel testo novellato (criteri quantitativi).
Nella definizione di piccolo imprenditore contenuta all’art. 2083 del codice civile,
invece, si ha riguardo al modo in cui il reddito è prodotto, e cioè alla circostanza che
l’imprenditore si avvalga del lavoro proprio e dei componenti la propria famiglia.
La problematica connessa ai rapporti tra l’art. 2083 c.c. e l’art. 1 L.F. era stata parzialmente superata con l’entrata in vigore della riforma fiscale e con la sentenza della
Corte Costituzionale che dichiarava l’illegittimità dell’art. 1 L.F. rendendo inoperante
l’articolo stesso per cui, nella vigenza della normativa ante riforma, il piccolo imprenditore era di fatto definito dal concetto di prevalenza fornito dall’art. 2083 c.c.
La riforma del 2006, riformulando l’art. 1 L.F., aveva superato i problemi di coordinamento con la normativa fiscale, ma non aveva offerto una risposta esauriente alla necessità di conciliare tale definizione con quella codicistica, dato l’utilizzo di parametri
non coincidenti (quantitativi l’una e qualitativi l’altra).
Per risolvere i problemi interpretativi che la riforma del 2006 aveva lasciato irrisolti,
è dunque intervenuto il D.Lgs. 169/2007 (cd. decreto correttivo). Con esso, il legislatore ha di nuovo completamente riformulato l’art. 1 L.F., con l’importante novità di eliminare ogni riferimento alla nozione di piccolo imprenditore, che aveva suscitato i problemi di coordinamento con la parallela definizione codicistica di cui all’art. 2083 c.c.
Vengono individuati direttamente una serie di requisiti dimensionali massimi che
tutti gli imprenditori commerciali devono avere congiuntamente per non essere assoggettati alle procedure concorsuali. Accanto ai due criteri strettamente dimensionali già individuati dalla riforma del 2006 viene introdotto un ulteriore terzo parametro,
avente ad oggetto la misura dell’esposizione debitoria dell’imprenditore.
Il nuovo presupposto soggettivo si applica ai procedimenti per dichiarazione di fallimento ed alle procedure fallimentari, rispettivamente, iniziati o aperte successivamente al 1°gennaio 2008, data di entrata in vigore del decreto stesso, nonché alle procedure di fallimento già in corso a tale data.
Alla luce del novellato art. 1 L.F., non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento
e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali che dimostrino il possesso
congiunto dei seguenti requisiti:
— avere avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superore a 300.000 euro;
— aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data del
deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200.000 euro;
— avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000 euro.
Tema n. 20: Effetti del fallimento sui soci illimitatamente responsabili
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B^>Un problema di rilievo è quello relativo alla possibile assoggettabilità a fallimento della società che abbia cessato l’esercizio dell’impresa commerciale. L’art. 10
L.F., nella nuova formulazione introdotta dal decreto correttivo, stabilisce in proposito
che l’imprenditore individuale o collettivo, entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, può ugualmente essere dichiarato fallito se il presupposto dell’insolvenza si sia determinato anteriormente alla cancellazione o entro l’anno successivo.
Il decreto correttivo del 2007 è intervenuto sulla norma in esame prevedendo che
solo il pubblico ministero e i creditori possono fornire la prova di tale effettiva cessazione dell’impresa. Analoga facoltà non è concessa al debitore qualora la cessazione sia
intervenuta anteriormente alla cancellazione.
Quando però la società è stata cancellata d’ufficio (nei casi, cioè, di mancata presentazione del bilancio di liquidazione per 3 anni consecutivi, ex art. 2490 c.c., nonchè nelle ipotesi previste dal D.P.R. 247/2004), essa ha la possibilità di dimostrare che il momento dell’effettiva cessazione dell’attività non corrisponde alla data della cancellazione
dal registro delle imprese ma si è verificato anteriormente, facendo così decorrere il termine annuale dalla concreta cessazione dell’attività commerciale.
Per quanto riguarda, infine, le società non iscritte nel registro delle imprese, vale a dire
le società di fatto o le società di persone irregolari, che non sono menzionate nella norma, esse continueranno ad essere assoggettate a fallimento senza alcun limite temporale.
Relativamente alla disciplina anteriore alla riforma del 2006, la dottrina e la giurisprudenza erano intervenute per colmare i problemi applicativi posti dalla norma, individuando il momento in cui si considerava cessata l’attività d’impresa. In particolare, per le società commerciali, la cessazione non poteva coincidere con l’inizio della
fase di liquidazione, bensì con l’estinzione dell’ente che, per le società di persone coincideva con la chiusura della liquidazione, mentre per le società di capitali, con la cancellazione dal registro delle imprese. Appare chiara, quindi, l’esigenza della riforma di
fissare un momento preciso di decorrenza del termine, per non rendere inutile la sua
previsione.
C^>Il punto più importante della disciplina giuridica relativa al fallimento delle società riguarda, però, gli effetti che il fallimento stesso produce nei confronti dei soci.
In proposito, determinante è la distinzione tra soci a responsabilità limitata e soci
a responsabilità illimitata.
Il fallimento di uno o più soci illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società, mentre la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a
responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili (art. 147, comma 1, L.F.).
Sostanzialmente, una volta dichiarato il fallimento: nella società in nome collettivo
(registrata o irregolare) sono assoggettati alla procedura tutti i soci; nella società in accomandita per azioni, il fallimento della società si estende ai soli soci accomandatari;
nella società in accomandita semplice falliscono tutti i soci accomandatari e quelli tra i
soci accomandanti che abbiano compiuto atti di amministrazione, ovvero abbiano concluso affari in nome della società in mancanza di una procura speciale, ovvero ancora
che abbiano consentito che il loro nome fosse compreso nella ragione sociale, casi in
cui nella società in accomandita semplice il socio diventa illimitatamente responsabile.
Infatti, anche se il socio a responsabilità illimitata non è, per ciò stesso, imprenditore commerciale, tuttavia il legislatore ha considerato che l’impresa, che pure formal-
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Tomo Secondo: Materie giuridiche mente viene gestita dalla società, sostanzialmente è gestita dai soci illimitatamente responsabili e quindi l’estensione del fallimento a questi ultimi è un modo di realizzare appieno la responsabilità degli stessi, soprattutto nei confronti dei creditori che hanno la possibilità di agire anche sul loro patrimonio.
È da sottolineare che la riforma del 2006 ha precisato che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata riguarda tutti i soci delle società di persone, siano essi persone
fisiche o altre società. Ricordiamo, infatti, che in seguito alla Riforma del diritto societario, l’art. 2361 c.c. prevede espressamente la possibilità anche di una società di capitali di partecipare ad una società di persone quale socio illimitatamente responsabile.
È chiaro allora che nella società di persone i singoli soci illimitatamente responsabili falliscono anche in proprio. Non a caso il fallimento della società e quello dei singoli soci vengono dichiarati con un’unica sentenza; è unico il curatore, anche se poi le
diverse procedure e le masse fallimentari rimangono distinte (ciò avviene a causa della sia pur limitata autonomia patrimoniale della società).
Ne deriva che i creditori sociali possono trovare soddisfazione anche sul patrimonio personale dei singoli soci (a tal fine, l’insinuazione al passivo della società si intende avvenuta anche nel fallimento dei singoli soci ed essi partecipano alle ripartizioni
sino all’integrale pagamento), mentre i creditori particolari dei soci possono rivalersi
esclusivamente nei riguardi dei soci loro debitori.
Non si sottrae al fallimento della società, qualora l’insolvenza sia insorta prima della cessazione del rapporto sociale, il socio che è receduto o che sia stato escluso, ovvero
che abbia ceduto la sua quota (oltre al caso di morte) entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento.
Questo principio, già consolidato in giurisprudenza ed in dottrina — pur in assenza di un’esplicita previsione nella legge fallimentare — nonché suffragato dalla sentenza della Corte Costituzionale 21 luglio 2000, n. 319, è stato espressamente introdotto
nell’art. 147 L.F. dalla riforma del 2006, la quale ha previsto che il fallimento dei soci
illimitatamente responsabili «non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, anche in caso
di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti
ai terzi i fatti indicati».
La riforma, oltre a comprendere tutti i casi in cui il socio illimitatamente responsabile abbia sciolto, per qualsiasi ragione, il suo rapporto con la società anteriormente
alla dichiarazione di fallimento di quest’ultima, ha inoltre cercato di ricondurvi anche
le ipotesi in cui la responsabilità illimitata cessi sebbene non muti la sua qualità di socio, come accade nei casi di trasformazione, fusione o scissione societaria.
La società che ha deliberato la sua trasformazione può fallire nella sua originaria
struttura organizzativa. In tal caso, per l’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili prima della trasformazione possiamo distinguere tra trasformazione di
società di persone in società di capitali e trasformazione interna alla società di persone.
Se una società di persone si è trasformata in società di capitali, dottrina e giurisprudenza ammettono il fallimento dei soci che prima della trasformazione erano illimitatamente responsabili, purché ricorrano due condizioni:
— che la società nata dalla trasformazione versi in uno stato di insolvenza dipendente
anche da obbligazioni sorte in epoca precedente alla trasformazione;
— che i creditori sociali della società di persone non abbiano acconsentito alla trasformazione, secondo le modalità indicate dalla legge.
Tema n. 20: Effetti del fallimento sui soci illimitatamente responsabili
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Anche in caso di trasformazione interna alla società di persone (s.n.c. in s.a.s. o viceversa) si mantiene inalterata, per le obbligazioni anteriori alla trasformazione, la responsabilità illimitata dei soci della società che ha deciso la trasformazione, a meno
che i creditori sociali abbiano aderito alla trasformazione. Il fallimento della società
trasformata produce, quindi, il fallimento dei soci già illimitatamente responsabili per
le obbligazioni sorte prima della trasformazione.
È tuttavia condizione indispensabile che lo scioglimento del rapporto sociale o la cessazione della responsabilità illimitata sia stata resa nota ai terzi attraverso l’adempimento delle formalità prescritte dalla legge nei singoli casi (iscrizione nel registro delle imprese).
Il socio illimitatamente responsabile della società di persone contro la quale è stata
presentata domanda di fallimento ha diritto di essere convocato anche personalmente
per consentirgli il diritto di difesa con riferimento alla sua dichiarazione di fallimento:
egli, infatti, deve avere un preciso avvertimento che si vuol dichiarare il fallimento non
solo contro la società, ma anche contro di lui personalmente.
D^>Diverse sono le conseguenze del fallimento di una società di capitali, che non
si estende ai soci, i quali, per il principio dell’autonomia patrimoniale perfetta, sono
responsabili soltanto nei limiti delle azioni o delle quote. Il fallimento è, infatti, dichiarato in nome della società, in persona degli amministratori che la rappresentano.
Nell’ipotesi, invece, in cui la società non risulti iscritta nel registro delle imprese, mancando essa della personalità giuridica (l’iscrizione, infatti, ha per questo tipo di società,
effetto costitutivo) e non potendo, dunque, essere dichiarata fallita, il fallimento verrà
dichiarato nei confronti di coloro che hanno agito per la società, i quali sono illimitatamente e solidalmente responsabili per le operazioni compiute a nome della stessa.
Anche se nelle società di capitali la dichiarazione di fallimento non influisce sullo
stato personale dei soci, ciò nonostante la legge pone a carico di determinati soggetti
alcune conseguenze personali.
E^>Così gli amministratori e i liquidatori rispondono sia verso i soci che verso i
creditori per l’inosservanza dei doveri che l’art. 146 L.F. ad essi impone; hanno l’obbligo di comunicare al curatore ogni cambiamento di residenza o domicilio e devono
essere sentiti in tutti i casi in cui la legge prevede che sia sentito il fallito (artt. 49 e 146
L.F.).
A norma dell’art. 48 L.F., come modificato dal decreto correttivo del 2007, il fallito
persona fisica è tenuto a consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento. La corrispondenza diretta al fallito che non sia persona fisica è consegnata al curatore. La distinzione fatta con il decreto correttivo è opportuna in quanto, mentre la posta indirizzata al fallito persona fisica potrebbe interessare personalmente il fallito oppure l’impresa della quale egli era titolare o socio, e quest’ultima va consegnata al curatore, la
posta diretta al fallito società va tutta consegnata al curatore, in quanto non può che
avere interesse per la sola procedura.
Lo stato di liquidazione in cui si trovi eventualmente la società non osta alla dichiarazione di fallimento, così come, d’altronde, il fallimento non estingue la società.
Ovviamente, la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione della società secondo le regole del codice civile, o la sospende se è già in atto: essa avverrà, infatti, mediante la procedura fallimentare.
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Tomo Secondo: Materie giuridiche F^>Ulteriore ipotesi da analizzare è quella relativa al socio occulto, cioè l’ipotesi in cui,
rispetto ai soci nei cui confronti si sia verificata l’estensione del fallimento, si scoprano altri
soci illimitatamente responsabili rimasti fino ad allora sconosciuti, non avendo mai manifestato all’esterno il loro ruolo in società. È opinione prevalente che per l’estensione del
fallimento non occorra che il rapporto sociale sia manifesto; del resto questa è una soluzione che si ispira non solo al principio del favor creditoris, ma anche alla tutela dei soci
illimitatamente responsabili, dichiarati falliti, che hanno interesse ad includere nella massa passiva anche il patrimonio dei soci occulti. In tal senso si esprime l’art. 147 L.F., nel
testo modificato dalla riforma del 2006, a norma del quale: «se dopo la dichiarazione di
fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale,
su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi».
La riforma è intervenuta nella disposizione in esame solo nella parte in cui ha attribuito la facoltà di presentare domanda di fallimento di tali soci illimitatamente responsabili
non più solamente al curatore, ma anche ai creditori e agli altri soci già dichiarati falliti.
G^>Il legislatore non ha dettato disposizioni circa il regime di responsabilità dell’impresa
familiare. Così non è possibile individuare i soggetti (o il soggetto) da assoggettare a fallimento nell’ipotesi in cui detta impresa, esercitando una delle attività di cui all’art. 2195 c.c.,
venga a trovarsi in stato di insolvenza. La riforma del 2006 ed il successivo decreto correttivo,
pur avendo novellato l’art. 1 L.F. relativo all’ambito di assoggettabilità al fallimento, hanno
continuato a non prendere in considerazione esplicitamente la figura dell’impresa familiare,
lasciando pertanto insoluti i dubbi di interpretazione della precedente disciplina.
La dottrina è assai divisa sull’argomento. Alcuni autori (FINOCCHIARO, GRAZIANI) ritengono che l’impresa familiare debba ritenersi inserita nella struttura di una società di persone e, di conseguenza, ammettono il fallimento di tutti i soggetti che vi partecipano ex art. 147 L.F. Appare difficile, però, far rientrare l’impresa familiare nello
schema della società, soprattutto se si tiene conto del fatto che non tutti i partecipi hanno poteri di gestione ordinaria nell’ambito della stessa. Inoltre, è stato opportunamente rilevato (MAZZOCCA) che l’introduzione dell’impresa familiare nell’ambito dello
schema strutturale delle società coinvolgerebbe paradossalmente nel fallimento anche
la casalinga che presti solo lavoro domestico.
Secondo la giurisprudenza, il fallimento coinvolge il familiare-imprenditore, ossia
il vero gestore dell’impresa, che assume i propri diritti e le obbligazioni nascenti dai
rapporti con i terzi sino a risponderne illimitatamente e solidalmente con i suoi beni
personali. Gli altri familiari, partecipanti all’impresa, non falliscono automaticamente
per estensione, a meno che si dimostri che fra essi non si sia costituita, in luogo dell’impresa familiare, una vera e propria società di persone.
Anche siffatto orientamento, però, non manca di suscitare legittimi dubbi, in specie
se si considera che gli altri partecipi hanno comunque poteri di gestione straordinaria
e possono concorrere persino alla deliberazione circa gli indirizzi produttivi.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 2, Tomo II - L’imprenditore occulto
• Tema 19, Tomo II - L’azione revocatoria fallimentare e ordinaria
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
Tema n. 21
Il candidato, dopo aver brevemente illustrato le differenze tra il concordato preventivo ante e post riforma di cui alla legge n. 80/2005, illustri le caratteristiche
della procedura di concordato secondo le norme attualmente vigenti, anche alla
luce del nuovo istituto della transazione fiscale
(Traccia assegnata all’Università degli studi di Firenze ‑ I sessione 2009)
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 160-186 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 80/2005
D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, conv. in L. 51/2006
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
D.L. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in L. 2/2009
D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in L. 122/2010
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Nozione di concordato preventivo.
B.Presupposti per l’ammissione al concordato ante e post riforma di cui alla
L. 80/2005.
C.Procedura di concordato preventivo.
D.Effetti dell’ammissione al concordato.
E.Gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
F.Prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione.
G.La transazione fiscale.
A^>Il concordato preventivo è una procedura concorsuale a cui può ricorrere un
debitore che si trovi in uno stato di crisi o di insolvenza per tentare il risanamento
oppure per liquidare il proprio patrimonio, evitando il fallimento.
Esso consiste in un accordo tra l’imprenditore e la maggioranza dei creditori finalizzato a risolvere la crisi aziendale e ad evitare il fallimento mediante una soddisfazione, anche parziale, delle ragioni creditorie.
Tra i vantaggi del concordato preventivo va ricordato:
— la libertà che ha il debitore di decidere il contenuto del piano di concordato;
— la possibilità di prevedere un pagamento anche parziale dei creditori privilegiati;
— la possibilità di concludere una transazione fiscale e previdenziale per i crediti tributari e per quelli contributivi;
— l’effetto della proposta di concordato di determinare, per i crediti anteriori alla procedura, la scadenza dei crediti pecuniari e l’interruzione delle azioni esecutive;
412
Tomo Secondo: Materie giuridiche — il fatto che il piano approvato dalla maggioranza dei creditori e omologato dal tribunale vincola anche i creditori dissenzienti e quelli estranei;
— il fatto che, eseguito il concordato, i creditori conservano la loro azione nei confronti di coobbligati, fideiussori del fallito e obbligati in via di regresso;
— il fatto che, in caso di successivo fallimento, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti
in essere in sua esecuzione non sono revocabili e i crediti sorti in occasione o in funzione della procedura sono prededucibili.
B^>La procedura di concordato preventivo è ammissibile solo quando ricorrono
alcuni presupposti soggettivi ed oggettivi (art. 160 L.F.). L’ambito di tali condizioni
è stato fortemente ridotto dal D.L. 35/2005 (cd. decreto competitività), conv. in L. 80/2005,
i cui interventi di riforma sono finalizzati a favorire il ricorso al tale istituto.
Sotto il profilo soggettivo, per l’ammissibilità della domanda di concordato preventivo è necessario:
— che l’istante sia imprenditore commerciale (non avente i requisiti di non fallibilità richiesti dall’art. 1 L.F.).
Possono accedere alla procedura, quindi, sia gli imprenditori individuali che le società; inoltre, essendo venuti meno i requisiti di meritevolezza previsti dalla disciplina
anteriore, non ci sono limiti all’ammissibilità del concordato delle società anche non
iscritte nel registro delle imprese, come le società irregolari, di fatto, apparenti o occulte. Ne sono esclusi gli enti pubblici, gli imprenditori agricoli e le società semplici;
— che versi in stato di crisi o di insolvenza.
Nella vigenza dell’originario testo della legge fallimentare, per poter accedere al concordato preventivo era richiesto che l’imprenditore versasse in stato di insolvenza, cioè
che si fossero già manifestate quelle condizioni di oggettiva impotenza continuata nel
tempo ad adempiere le proprie obbligazioni, che giustificano l’inizio della procedura
fallimentare.
Il nuovo disposto, come modificato dal D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005, consente il ricorso al concordato preventivo anche all’imprenditore che si trova in un più generico stato di crisi, cioè a colui che si trova in una temporanea situazione di difficoltà ad adempiere, permettendogli così di avviare il risanamento aziendale, conseguente al concordato preventivo, in una fase precedente e meno gravosa di quella della vera e propria insolvenza.
Non essendo stata data inizialmente dal legislatore una definizione di stato di crisi,
in dottrina si è discusso sul rapporto tra tale situazione e l’insolvenza richiesta per l’ammissione al fallimento. In particolare, ci si chiedeva se in presenza dell’insolvenza l’imprenditore potesse essere ancora ammesso al concordato preventivo (che avrebbe continuato a porsi come alternativa al fallimento) o se tale procedura, alla luce delle modifiche introdotte, fosse a lui preclusa.
Per risolvere i dubbi interpretativi creatosi, il legislatore è nuovamente intervenuto
precisando che ai fini di cui al primo comma dell’art. 160 L.F., relativo ai requisiti di
ammissione al concordato preventivo, per stato di crisi si intende anche lo stato di
insolvenza (comma aggiunto all’art. 160 L.F. dal D.L. 273/2005, conv. in L. 51/2006),
permettendo quindi l’accesso al concordato preventivo anche agli imprenditori per i
quali sia già manifesta la situazione più grave dell’insolvenza.
Con il D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005, sono inoltre stati eliminati gli ulteriori requisiti soggettivi, richiesti in origine dalla legge fallimentare, per poter accedere al concordato preventivo.
Tema n. 21: Concordato preventivo e transazione fiscale
413
In particolare, non è più necessario che l’imprenditore:
— sia iscritto nel registro delle imprese da almeno un biennio o dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto origine nell’ultimo biennio;
— abbia tenuto regolarmente la contabilità nel biennio;
— non sia stato dichiarato fallito negli ultimi 5 anni, non sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo, né sia stato condannato per bancarotta o per delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria o il commercio.
Con la riforma del 2005 è stata superata la concezione del concordato preventivo
come beneficio per l’imprenditore e, eliminati i requisiti soggettivi di ammissibilità nonché il requisito della meritevolezza, è definitivamente emersa la priorità dell’interesse
dei creditori e di quello alla conservazione dei complessi produttivi. In quest’ottica è
stata valorizzata l’autonomia delle pattuizioni concordatarie quale strumento di regolazione della crisi di impresa ed è stato ridimensionato il ruolo del giudice, chiamato
ad un mero controllo di legalità, oltre a quello, ad esso connaturale, di terzo chiamato
a risolvere le controversie (GUGLIELMUCCI).
Sotto il profilo oggettivo occorre che l’imprenditore proponga ai creditori un piano di risanamento della propria esposizione debitoria alternativamente attraverso:
— la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma,
anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, compresa l’attribuzione ai creditori di azioni, quote, obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito;
— l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad
un assuntore;
— la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei;
— trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse.
Anche sotto il profilo oggettivo, il D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005 ha operato una
decisa semplificazione, dal momento che non è più prevista come condizione di ammissibilità l’indicazione di una percentuale minima dell’intera esposizione debitoria da
offrire in pagamento. Precedentemente, invece, era necessario che il debitore fornisse
serie garanzie reali e personali di pagare integralmente i creditori privilegiati ed in una
percentuale non inferiore al 40% i creditori chirografari, oppure che offrisse la cessione ai creditori di tutti i suoi beni pignorabili.
Scompare, inoltre, la previsione che stabiliva l’ammissibilità di decurtazioni o dilazioni nel tempo per il pagamento dei crediti privilegiati. Viene, invece, rimessa all’imprenditore in stato di crisi la possibilità di suddividere i propri creditori in classi omogenee per posizione giuridica e per interessi omogenei.
Sui requisiti di ammissione è inoltre intervenuto il decreto correttivo (D.Lgs.
169/2007), il quale ha cercato di conciliare la disciplina del concordato preventivo con
quella del concordato fallimentare, chiarendo che la proposta di concordato può prevedere la soddisfazione anche non integrale (bensì in percentuale) dei creditori privilegiati (alla stregua di quelli chirografari), a condizione che il piano ne preveda la
soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita del bene su cui cade la causa di prelazione, avuto riguardo al suo valore di mercato indicato in apposita relazione redatta da
un professionista revisore dei conti.
414
Tomo Secondo: Materie giuridiche C^>La procedura di concordato inizia con la proposizione della domanda, che
consiste in un ricorso sottoscritto dall’imprenditore e diretto al tribunale del luogo in
cui si trova la sede principale dell’impresa.
La disciplina relativa alla prima fase di ammissione alla procedura di concordato
preventivo è stata oggetto di due modifiche da parte del legislatore: la prima avvenuta
con il D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005, la seconda effettuata dal decreto correttivo
(D.Lgs. 169/2007).
Nella disciplina previgente al decreto correttivo era previsto che il tribunale, ricevuta la domanda, procedesse alla valutazione della sua ammissibilità, sentito il P.M.; verificata, quindi, la completezza e regolarità della documentazione, accoglieva la domanda e, con decreto non soggetto a reclamo, dichiarava aperta la procedura di concordato.
Se, invece, il tribunale avesse accertato l’insussistenza delle condizioni di legge respingeva con decreto la proposta e dichiarava, con separata sentenza, il fallimento.
Il D.Lgs. 169/2007 ha previsto, invece, la possibilità del tribunale, qualora accerti
qualche problema nella redazione del piano in ordine alla sussistenza dei requisiti di
ammissibilità, di concedere al debitore un termine, non superiore a quindici giorni, per
apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti. Se all’esito di tale procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui al primo e secondo comma
dell’art. 160 L.F. e che il ricorso non ha i requisiti di cui all’art. 161 L.F., sentito il debitore in camera di consiglio, dichiara inammissibile la proposta di concordato con
decreto non soggetto a reclamo. In tali casi il tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del P.M., deve accertare l’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e, solo qualora ne determini la sussistenza, dichiara il fallimento del debitore.
Se, invece, l’indagine ha esito positivo, il tribunale ammette, con decreto, il debitore alla procedura di concordato, nomina il giudice delegato, ordina la convocazione dei
creditori entro trenta giorni, designa il commissario giudiziale e stabilisce il termine,
non superiore a 15 giorni, entro il quale il debitore deve depositare in cancelleria la
somma che, secondo quanto previsto dal decreto correttivo, deve essere almeno pari al
50% delle spese che si presumono necessarie per l’intera procedura, o alla minor somma, non inferiore al 20% di esse, determinata dal giudice delegato.
La proposta di concordato preventivo deve essere approvata dall’adunanza dei
creditori, presieduta dal giudice delegato; a tal fine è richiesto il voto favorevole dei
creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Se sono previste diverse classi di creditori, tale maggioranza deve verificarsi anche nel maggior numero di classi.
Hanno diritto di intervenire all’adunanza tutti i creditori esistenti alla data della proposta, mentre sono esclusi dalla votazione i creditori privilegiati per i quali è previsto
nel piano il pagamento integrale, salvo non rinuncino alla prelazione.
I creditori privilegiati per i quali, invece, il piano prevede il pagamento parziale, possono votare per la parte di credito che non sarà soddisfatta.
Se la proposta non è approvata, tale decisione è vincolante per il tribunale, il quale
tuttavia non può più dichiarare immediatamente il fallimento, bensì la sola inammissibilità del concordato e pronunciare sentenza di fallimento solo allorquando abbia accertato l’esistenza dei presupposti dell’insolvenza e qualora ne facciano richiesta i creditori o il P.M.
Se, invece, la proposta di concordato è approvata dai creditori, si apre il giudizio di
omologazione, che avviene davanti al tribunale, previa verifica meramente formale del
Tema n. 21: Concordato preventivo e transazione fiscale
415
raggiungimento delle maggioranze prescritte: il decreto correttivo, infatti, ha eliminato definitivamente qualsiasi controllo di merito del tribunale, il quale può operare accertamenti istruttori e valutazioni di merito solo in presenza dell’opposizione di parte.
Il tribunale, quindi, in assenza di opposizioni, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione (controllo di mera legittimità), omologa il concordato con decreto motivato non reclamabile, senza effettuare alcuna indagine istruttoria.
Se, invece, sono state proposte opposizioni, il tribunale assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti di ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio, senza però poter procedere ad indagini istruttorie di particolare complessità.
Il decreto è comunicato al debitore e al commissario giudiziale, che provvede a darne notizia ai creditori, ed è soggetto alla stessa pubblicità prevista per la sentenza dichiarativa di fallimento. Esso è provvisoriamente esecutivo.
Se il tribunale respinge il concordato dichiara, su istanza del creditore o su richiesta del P.M., e previo accertamento dei presupposti di legge, il fallimento del debitore,
con sentenza emessa contestualmente al decreto.
D^>A differenza di quanto avviene con la sentenza dichiarativa di fallimento, il debitore ammesso alla procedura di concordato preventivo conserva l’amministrazione
dei suoi beni e continua l’esercizio dell’impresa (egli, cioè, non viene spossessato
dall’amministrazione e disponibilità del suo patrimonio), salvo i limiti previsti dalla
legge per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
La sua attività, comunque, è svolta sotto la vigilanza del commissario giudiziale.
Il debitore, durante la procedura, conserva altresì la piena capacità processuale: il
commissario giudiziale, pertanto, può intervenire nei giudizi in cui è parte l’imprenditore, ma non ha alcuna legittimazione surrogatoria che lo abiliti ad agire in sostituzione dell’imprenditore, né può impugnare sentenze alle quali quest’ultimo abbia prestato acquiescenza.
È richiesta, invece, l’autorizzazione del giudice delegato per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
Il decreto di riforma 5/2006 ha inoltre introdotto l’assoluta novità secondo la quale,
con il decreto di apertura della procedura di concordato preventivo o con successivo
provvedimento, il tribunale può stabilire un limite di valore al di sotto del quale non è
dovuta l’autorizzazione del giudice delegato.
Una volta concessa l’autorizzazione, gli atti sono compiuti direttamente dal debitore sotto la sorveglianza del commissario giudiziale.
Per quanto riguarda gli effetti del concordato nei confronti dei creditori, questi sono
in parte analoghi a quelli previsti nella procedura fallimentare, dovendo sempre essere rispettata la par condicio creditorum.
L’art. 168, 1° comma L.F., nel testo modificato dal decreto correttivo, dispone che il
divieto delle azioni esecutive decorre dalla data della presentazione del ricorso fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato diventa definitivo.
Non è riportata, per il concordato preventivo, la normativa relativa all’azione revocatoria e agli effetti sui contratti in corso di esecuzione.
E^>Nell’ambito della disciplina del concordato preventivo, il D.L. 35/2005, conv. in
L. 80/2005 ha introdotto la possibilità del debitore di stipulare con i creditori un accordo stragiudiziale di ristrutturazione dei debiti, che gli consenta di far fronte alla
crisi dell’impresa attraverso un piano concordato con la maggioranza dei suoi credito-
416
Tomo Secondo: Materie giuridiche ri. Si tratta di una procedura che velocizza il risanamento dell’esposizione debitoria,
perché si basa su patti stragiudiziali intercorsi tra il debitore in stato di crisi e almeno
il 60% dei suoi creditori, suffragati dalla relazione di un esperto che valuta la convenienza economica degli stessi.
Alla prima fase sostanziale segue poi quella giudiziale, consistente nella richiesta di
omologazione, che deve essere effettuata dal tribunale.
L’accordo, redatto in forma scritta, deve essere sottoscritto dai creditori che rappresentano almeno il 60% del passivo del debitore e deve garantire l’integrale e tempestivo pagamento dei creditori che hanno partecipato alla sua stipulazione.
Il decreto correttivo ha chiarito che l’accordo può essere presentato dall’imprenditore che si trova in stato di crisi, quindi non ancora pervenuto nella più grave situazione di insolvenza.
Se tale imprenditore intende chiedere l’omologazione dell’accordo, deve depositarlo nella cancelleria del tribunale, unitamente alla documentazione prevista dall’art. 161
L.F. e ad una relazione redatta da un esperto sull’attuabilità di esso.
Mentre nel concordato preventivo esiste da sempre il blocco delle azioni esecutive individuali, nell’accordo di ristrutturazione non è stato definito nulla in merito dal
D.L. 35/2005, per cui si riteneva che l’effetto del blocco delle azioni esecutive non potesse essere esteso ai creditori non aderenti all’accordo di ristrutturazione, che invece
avrebbero potuto intraprendere tutte le azioni necessarie.
Per agevolare l’utilizzazione degli accordi di ristrutturazione, però, già il D.Lgs.
169/2007 aveva stabilito che per sessanta giorni decorrenti dalla data di pubblicazione
dell’accordo nel registro delle imprese, sono inibite ai creditori azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore e che eventuali azioni in essere sono sospese.
Il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 è intervenuto nuovamente sugli effetti dell’accordo di ristrutturazione prevedendo un’estensione delle ipotesi in cui per i creditori è
esclusa la possibilità di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive. Tale divieto, infatti, è stato esteso anche alla fase delle trattative funzionali alla conclusione dell’accordo di ristrutturazione. A tal fine è necessaria una richiesta dell’imprenditore, corredata da una sua dichiarazione che attesti la presenza di trattative con i creditori che
devono rappresentare almeno il 60% dei crediti e da una dichiarazione di un professionista sulla presenza delle condizioni per assicurare il pagamento dei creditori che non
partecipano alla trattativa o che hanno negato la loro disponibilità a trattare.
In questo modo l’imprenditore potrà beneficiare di un’anticipazione temporanea degli effetti inibitori alla fase precedente il perfezionamento dell’accordo di ristrutturazione e ciò favorisce la conclusione degli accordi di ristrutturazione. La moratoria
sulle azioni esecutive o cautelari, infatti, attenua (per almeno sessanta giorni di trattative) il pericolo di aggressioni patrimoniali da parte dei creditori dissenzienti o estranei alle negoziazioni.
F^>Il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 ha introdotto nella legge fallimentare l’art.
182quater, rubricato «Disposizioni in tema di prededucibilità dei crediti nel concordato
preventivo, negli accordi di ristrutturazione dei debiti» che consente, a chi intende avere
fiducia ed aiutare un’impresa in difficoltà, di erogare finanziamenti con la sicurezza
che non saranno travolti dal fallimento, mantenendo ferma la possibilità che i finanziatori rientrino in possesso degli importi versati (considerati prededucibili).
È stato così previsto che i crediti, riferibili a prestiti e/o finanziamenti ottenuti dall’impresa da banche o da intermediari finanziari, in esecuzione di un concordato preven-
Tema n. 21: Concordato preventivo e transazione fiscale
417
tivo o di accordi sulla ristrutturazione dei debiti, siano prededucibili in caso di successivo fallimento ai sensi dell’art. 111 L.F.
Anche i soci possono finanziare l’impresa, contando sul recupero dei loro esborsi in
prededuzione in caso di fallimento, ma ciò è possibile solo fino all’80% dell’ammontare dei loro finanziamenti.
Tali modifiche, quindi, sono finalizzate a favorire l’accesso al credito alle imprese in stato di crisi che iniziano un procedimento di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione, riconoscendo la prededucibilità ai finanziamenti che possono derivare sia da mezzi di terzi (sistema bancario) sia da mezzi propri (finanziamenti dei
soci), che non assumono la veste di capitale di rischio e che possono, in caso di insuccesso del risanamento e quindi di dichiarazione di fallimento, essere totalmente (finanziamenti bancari) o parzialmente (finanziamenti dei soci) recuperati, beneficiando della prededuzione.
G^>Il decreto di riforma del 2006 ha introdotto nella disciplina del concordato (art.
182ter L.F., modificato dal D.Lgs. 169/2007 e, da ultimo, dal D.L. 78/2010, conv. in L.
122/2010) la possibilità per l’imprenditore di presentare, con il piano di ristrutturazione dei debiti previsto dall’art. 160 L.F., un programma di transazione fiscale, con il
quale egli può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli
enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria, anche se non iscritti a ruolo.
Il D.L. 185/2008, conv. in L. 2/2009 ha previsto che con riguardo all’IVA tale proposta possa prevedere esclusivamente il pagamento dilazionato, ma non più il pagamento parziale.
Da ultimo, il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 ha precisato che, analogamente a
quanto già previsto per gli omessi versamenti IVA, la transazione relativa ai debiti per
ritenute operate e non versate può essere solo di tipo dilatorio.
Anche gli omessi versamenti di ritenute, quindi, devono essere pagati per intero potendo il debitore chiedere al massimo una dilazione.
A seguito delle modifiche apportate dal D.L. 185/2008, conv. in L. 2/2009, possono
essere oggetto di transazione fiscale non solo i tributi amministrati dalle agenzie fiscali e i relativi accessori, ma anche i contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e i relativi accessori. Il legislatore, infatti, ha voluto ampliare l’ambito dell’accordo tra il debitore e l’Erario oltre a quello meramente fiscale, rendendosi opportunamente conto che, spesso, la maggior parte del
debito privilegiato contratto dall’imprenditore è nei confronti degli enti previdenziali,
in particolare verso l’INPS, poiché nella prassi il primo e più comune modo di autofinanziamento dell’imprenditore in crisi finanziaria coincide con l’omissione di versamenti contributivi e con l’utilizzo delle somme non impiegate come previsto dalla
legge per finanziare l’attività imprenditoriale.
Per proporre una transazione fiscale il debitore deve:
— predisporre una domanda di transazione fiscale, allegandola al piano di concordato
ed alla relativa documentazione;
— preparare una serie di documenti da presentare ai competenti uffici fiscali.
Il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 ha precisato che i documenti inerenti il piano
di ristrutturazione dei debiti, che vanno obbligatoriamente allegati alla proposta di con-
418
Tomo Secondo: Materie giuridiche cordato preventivo di cui all’art. 161 L.F., devono essere presentati anche quando la
transazione fiscale è richiesta nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti.
Il debitore, inoltre, deve anche allegare un’autocertificazione attestante la veridicità e
completezza della situazione dell’impresa, con particolare riferimento alle poste attive
del patrimonio esposte nel piano.
Prima dell’intervento del suddetto decreto, l’art. 182ter L.F. vietava espressamente
di applicare la norma sugli accordi di ristrutturazione dei debiti ai debiti tributari amministrati da agenzie fiscali. Ora, invece, l’imprenditore in stato di crisi può avvalersi
della transazione fiscale non solo in caso di concordato preventivo, ma anche nell’ambito di trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione.
Gli uffici fiscali effettuano una serie di controlli sulla base della documentazione
presentata da chi propone la transazione.
L’assenso della proposta è espresso nei successivi trenta giorni ed equivale a sottoscrizione dell’accordo di ristrutturazione.
Il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 ha introdotto un nuovo comma all’art. 182ter
L.F. che, per evitare possibili abusi e nella considerazione che il contribuente possa sottrarsi ai propri obblighi contributivi, introduce la possibilità, per le sole transazioni fiscali concluse nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, della revoca di diritto della
transazione in caso di mancato pagamento delle somme dovute entro 90 giorni dalle
scadenze previste. La norma riguarda solo i debiti nei confronti delle Agenzie fiscali ed
enti contributivi.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 22, Tomo II - Classificazione dei creditori nel concordato preventivo
• Tema 25, Tomo II - Concordato preventivo
Tema n. 22
Premessa una sintetica illustrazione dei principi che ispirano la vigente disciplina del concordato preventivo, si occupi il candidato dei criteri che presiedono alla
classificazione dei creditori nella formulazione del piano concordatario, del potere di controllo del tribunale sulla formazione delle classi e della loro rilevanza ai
fini dell’approvazione del concordato
(Traccia assegnata all’Università degli Studi di Macerata ‑ I sessione 2010)
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 160-186 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 80/2005
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in L. 122/2010
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Disciplina del concordato preventivo.
B.Criteri per la formazione e trattamento delle classi.
C.Trattamento dei creditori privilegiati.
D.Esempio di suddivisione in classi.
E.Trattamento degli altri creditori.
F.Verifica da parte del tribunale dei criteri di formazione delle classi.
A^>Il concordato preventivo è una procedura concorsuale a cui può ricorrere un
debitore (sia esso imprenditore individuale, società o un diverso ente) che si trovi in
uno stato di crisi o di insolvenza, per tentare il risanamento oppure per liquidare il
proprio patrimonio, evitando il fallimento.
Lo scopo del concordato preventivo non è solo quello di tutelare l’imprenditore in
difficoltà, in quanto l’istituto tutela anche i ceditori.
Se da un lato il debitore, con l’accesso alla procedura, può paralizzare ogni possibile azione esecutiva nei suoi confronti e mantenere l’amministrazione dell’impresa, i creditori, dal canto loro, possono evitare l’attesa dei tempi lunghi necessari per portare avanti la più complessa procedura fallimentare e conseguire, così, in tempi relativamente brevi il soddisfacimento quantomeno parziale del loro credito.
Il debitore, per poter accedere al concordato preventivo, deve esercitare un’impresa commerciale. Il rimedio, quindi, può riguardare sia l’imprenditore persona fisica
che esercita attività commerciali, sia le società commerciali, sia le associazioni che esercitano un’attività commerciale e i gruppi di imprese.
Non possono, invece, accedere alla procedura, per espresso divieto di legge, le imprese agricole e gli enti pubblici.
420
Tomo Secondo: Materie giuridiche Il debitore deve trovarsi in uno stato di crisi. La legge però precisa che, ai soli fini
dell’ammissione al concordato preventivo, per stato di crisi si intende anche lo stato di
insolvenza. Lo stato di crisi è quindi un concetto vasto che comprende in generale tutte le situazioni difficili in cui può versare l’impresa tra le quali anche l’insolvenza, ossia l’ipotesi in cui l’impresa è in uno stato di manifesta incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni.
Il debitore, inoltre, non deve essere in possesso dei requisiti di non fallibilità previsit dall’art. 1 L.F.
Per poter accedere a tale beneficio il debitore deve elaborare un piano il cui contenuto è lasciato alla sua libera determinazione; è possibile, ad esempio, suddividere i
creditori in classi e pagarli parzialmente, oppure è possibile prevedere un piano di ristrutturazione dei debiti o una cessione dei beni ai creditori. È possibile anche offrire
un pagamento parziale dei crediti tributari e contributivi.
Passato il vaglio di ammissibilità del tribunale ed aperta la procedura, il piano deve
essere approvato dalla maggioranza dei creditori per poi essere omologato dallo stesso tribunale. L’approvazione della maggioranza ha l’effetto di imporre le condizioni stabilite nel piano anche ai creditori dissenzienti o estranei.
Ottenuta l’omologazione, il debitore deve dare piena esecuzione alle misure previste nel piano di concordato, secondo le modalità in esso previste.
A differenza del fallimento, l’ammissione alla procedura di concordato preventivo lascia l’imprenditore nell’esercizio dell’impresa e nell’amministrazione dei suoi beni; tuttavia, la sua attività è costantemente sottoposta al controllo del commissario giudiziale.
È necessario, inoltre, per gli atti di straordinaria amministrazione, l’autorizzazione
del giudice delegato come condizione di efficacia degli stessi; tuttavia, il tribunale può,
nel decreto di apertura della procedura, stabilire un limite di valore al di sotto del quale tale autorizzazione non è dovuta.
B^>La novità più rilevante introdotta nella disciplina del concordato preventivo
dalla riforma della legge fallimentare consiste nella possibilità di raggruppare i creditori in classi, contraddistinte da omogeneità giuridica e di interessi economici. Nei
confronti dei creditori appartenenti a classi differenti è consentito offrire trattamenti
differenziati.
A tal proposito vi è una tesi che ritiene che il debitore, nel piano di concordato, sia
libero di decidere di suddividere i creditori in classi. La legge, infatti, non impone espressamente al debitore di formare tali classi e la scelta del debitore costituisce espressione dell’autonomia contrattuale.
Una diversa tesi ritiene, invece, obbligatoria la formazione delle classi, almeno nei
casi in cui c’è una forte disomogeneità tra i creditori, e ciò soprattutto a tutela dei creditori deboli.
La ragion d’essere dell’ istituzione delle classi risiede nella volontà del legislatore di
incentivare l’approvazione della proposta di concordato e nasce dalla constatazione della diversità di interessi che normalmente sussiste nell’ambito del ceto creditorio (JORIO).
Quando il debitore decide di suddividere i creditori in classi, la suddivisione deve
avvenire sulla base:
— della loro posizione giuridica. Si può fare riferimento, in tal caso, alle tradizionali categorie dei creditori: prededucibili, privilegiati speciali, privilegiati generali, chi-
Tema n. 22: Classificazione dei creditori nel concordato preventivo
421
rografari e postergati. Si possono anche creare classi di creditori privilegiati a seconda della classe di privilegio di appartenenza;
— di interessi economici omogenei. È quindi possibile creare classi sulla base della
particolare relazione tra il debitore e i diversi creditori, istituendo, ad esempio, la
classe dei lavoratori dipendenti, dei fornitori, delle banche, dei clienti. È anche possibile valutare altri fattori quali, ad esempio, l’entità del credito, la posizione del creditore nel piano di recupero, la sicurezza del credito, la certezza del credito.
Le classi devono essere di numero dispari, dal momento che per l’approvazione della proposta di concordato la legge richiede che la maggioranza sia raggiunta anche nel
maggior numero di classi.
C^>Una delle questioni più rilevanti sorte fin dall’entrata in vigore della prima riforma della legge fallimentare riguardava la possibilità di suddivideere in classi anche i
creditori muniti di diritti di prelazione e, conseguentemente, di riservare ad essi
trattamenti differenziati, anche attraverso soddisfacimenti non integrali delle loro pretese creditorie.
A seguito dell’intervento del decreto correttivo (D.Lgs. 169/2007), la questione relativa al trattamento economico dei creditori privilegiati può ritenersi risolta, in quanto
è possibile, entro determinati limiti, un loro soddisfacimento non integrale.
Il comma 2 dell’art. 160 L.F. prevede che il piano di concordato può prevedere che
i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca possano essere soddisfatti parzialmente alle seguenti condizioni:
— il creditore privilegiato pagato parzialmente deve essere soddisfatto in misura pari
o superiore rispetto a ciò che potrebbe ottenere dal ricavato sulla liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato dei beni o diritti sui quali sussiste la causa
di prelazione; tale previsione si ritiene applicabile sia ai creditori con privilegio speciale, sia a quelli con privilegio generale;
— un professionista deve redigere una relazione giurata da cui risulta il valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.
Si è così voluto incentivare ulteriormente il ricorso allo strumento del concordato
preventivo ed eliminare un’illogica diversità di disciplina rispetto al concordato fallimentare.
Se poi il piano prevede la suddivisione dei creditori in classi, il debitore deve rispettare la regola secondo cui il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle clausole legittime di prelazione. Secondo l’interpretazione preferibile di tale disposizione, il debitore deve garantire che i titolari di
credito di grado più alto ricevano un trattamento migliore di quello riservato ai creditori privilegiati di grado inferiore, senza che tuttavia ciò imponga l’integrale soddisfacimento dei primi.
Anche questa soluzione non differisce da quella indicata per il concordato fallimentare: il trattamento in percentuale dei creditori assistiti da privilegio generale sui mobili si prospetta fattibile o nell’ipotesi in cui il patrimonio del fallito non consenta alcuna distribuzione ai creditori chirografari, essendo completamente assorbito dal soddisfacimento, parziale, dei creditori privilegiati (ipotesi che renderebbe problematica l’accettazione della proposta da parte dei creditori chirografari) oppure nel caso in cui la
proposta sia assistita dall’apporto finanziario di terzi, e quindi da un contributo quali-
422
Tomo Secondo: Materie giuridiche ficabile come esterno rispetto al patrimonio del debitore e destinato espressamente al
soddisfacimento dei creditori chirografari. Non si verificherebbe, in tal caso, alterazione dell’ordine dei privilegi nella soddisfazione sul patrimonio del debitore, in quanto
con l’alternativa fallimentare i creditori chirografari non avrebbero potuto ottenere alcunché e ciò che ottengono dal concordato proviene da un terzo che mette a disposizione le risorse ad essi destinate solo ai fini del concordato.
Secondo la tesi prevalente, la possibilità di essere soddisfatti parzialmente riguarda
tutti i creditori assistiti da privilegio, sia esso speciale (casi in cui il privilegio insiste su
beni o diritti specificamente individuati) che generale (la cui prelazione insiste sull’intero patrimonio del debitore). Se, infatti, si limitasse la soddisfazione parziale ai creditori con privilegio speciale, ciò significherebbe escludere l’applicazione della norma alla
maggior parte dei concordati, dal momento che il ceto creditorio assistito da privilegio
generale è in primo luogo l’Erario.
Una diversa tesi, invece, esclude che i creditori investiti di privilegio generale possano essere soddisfatti parzialmente.
D^>La proposta prevede il pagamento al 100% dei crediti dei lavoratori dipendenti
(ai sensi dell’art. 2751bis c.c.) e il pagamento in percentuale dei restanti creditori per i
quali è prevista la suddivisione in 5 classi (per la quarta è prevista una transazione fiscale):
1) professionisti (assistiti da privilegio generale ai sensi dell’art. 2751bis, n. 2, c.c.): pagamento al 25%;
2) cooperative (assistiti da privilegio generale ai sensi dell’art. 2751bis, n. 5, c.c.): pagamento al 20%;
3) enti previdenziali ed assistenziali (assistiti da privilegio generale ai sensi dell’art. 2753
c.c.): pagamento al 14%;
4) creditori privilegiati tra i quali l’Erario, aventi privilegio generale o speciale pari o inferiore al XIX grado: pagamento al 12, 5%;
5) tutti i creditori chirografari (in cui sono ricompresi i crediti declassati al chirografo
per effetto del pagamento parziale): pagamento al 10%.
E^>I creditori chirografari possono essere soddisfatti anche parzialmente. Non sono
posti limiti minimi dalla legge, per cui si ritiene che la soglia minima sotto la quale il
pagamento non può scendere debba essere calcolata avendo riguardo alla collocazione
del credito rispetto al valore di liquidazione dell’impresa.
Nel caso in cui vi siano dei soci che abbiano finanziato la società, in qualsiasi forma, in un momento in cui risultava un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto
al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un aumento di capitale (art. 2467 c.c.), la legge prevede che il rimborso di tali finanziamenti sia postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.
Secondo la Cassazione, tali soci finanziatori, in quanto creditori postergati, non possono essere ricompresi nella stessa categoria dei creditori chirografari, in quanto tale
collocazione violerebbe il criterio dell’omogeneità degli interessi economici che deve
ispirare la formazione delle classi (Cass., 4-2-2009, n. 2706).
In seguito all’intervento del D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010, il nuovo art. 182quater L.F. attribuisce carattere prededucibile, nel fallimento che segue al concordato
preventivo, ai crediti derivanti da: finanziamenti effettuati da banche e intermediari in
funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura; finanzia-
Tema n. 22: Classificazione dei creditori nel concordato preventivo
423
menti erogati da banche e intermediari finanziari in esecuzione del concordato; finanziamenti effettuati dai soci in esecuzione del concordato. Tali modifiche sono finalizzate a favorire l’accesso al credito alle imprese in stato di crisi che iniziano un procedimento di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione, riconoscendo la
prededucibilità ai finanziamenti che possono derivare sia da mezzi di terzi (sistema bancario) sia da mezzi propri (finanziamenti dei soci), che non assumono la veste di capitale di rischio e che possono, in caso di insuccesso del risanamento e quindi
di dichiarazione di fallimento, essere totalmente (finanziamenti bancari) o parzialmente (finanziamenti dei soci, che sono prededucibili fino a concorrenza dell’80 % del loro
ammontare, in deroga alla disciplina della postergazione dei finanziamenti dei soci di
cui agli articoli 2467 e 249quinquies c.c.) recuperati, beneficiando della prededuzione.
F^>Il tribunale, in sede di ammissione del concordato, deve verificare la correttezza
dei criteri di formazione delle diverse classi (art. 163 L.F.).
Una questione importante è, appunto, quella relativa ai limiti del potere del giudice
in sede di ammissione del debitore alla procedura, con riferimento alla verifica dei presupposti per l’accesso al concordato. Ci si chiede, in particolare, se il tribunale debba
valutare, oltre alla chiarezza e logicità del piano, la sua fattibilità.
Si tratta di verificare se è consentito al giudice un sindacato di merito sulla proposta
di concordato con riferimento alla fattibilità del piano.
È opportuno ricordare che la proposta di concordato deve essere accompagnata, ai
sensi dell’articolo 161 L.F., da una relazione di un professionista il quale attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
Nel valutare la sussistenza dei presupposti per l’ammissione, il tribunale ha pertanto a disposizione, oltre alla proposta e alla documentazione depositate dal debitore, anche la valutazione dell’esperto in ordine alla fattibilità del piano, alle quali possono essere aggiunti le eventuali integrazioni e gli ulteriori documenti apportati dal debitore
nei 15 giorni successivi concessi dal tribunale.
A fronte di questa documentazione, pretendere che la verifica debba ridursi a mero
controllo formale di legittimità (il che significherebbe, ad esempio, limitarsi a verificare l’esistenza di un qualsiasi piano e di una qualsiasi relazione di un esperto), sembrerebbe contrario al senso logico della norma. Ma occorre prendere atto anche che la legge non menziona il sindacato sul merito della domanda. La soluzione più ragionevole,
quindi, sembrerebbe quella che assegna al tribunale il compito di accertare che la documentazione prodotta dal debitore sia idonea a rappresentare in modo esaustivo la
condizione economica, patrimoniale e finanziaria del debitore, che il piano proposto
sia chiaro ed abbia un suo logico sviluppo, che la relazione dell’esperto in ordine alla
fattibilità del piano si fondi su dati plausibili, sia sufficientemente articolata e manifesti un percorso logico ed approfondito. Ciò al fin di consentire ai creditori di esprimere un giudizio sufficientemente meditato sulla proposta di concordato, anche con l’ausilio della successiva relazione del commissario giudiziale, la quale ha lo scopo di verificare la verità e correttezza dei dati esposti dal debitore, nonché la realizzabilità degli
obiettivi illustrati nel piano.
Per cui si può concludere dicendo che nella fase di apertura, la valutazione del tribunale riguarda la chiarezza, l’esaustività espositiva e la logicità del piano. Nel corso della procedura il commissario giudiziale può, ai sensi dell’art. 173 L.F., rappresentare al tribunale la propria valutazione sulla fattibilità del piano, in base agli elementi
acquisiti o sopravvenuti, consentendo quindi l’emanazione del provvedimento di inter-
424
Tomo Secondo: Materie giuridiche ruzione della procedura. In sede di omologazione il tribunale, valutate le opposizioni
e tenuto conto del motivato parere del commissario giudiziale, può pronunciarsi sulla
fattibilità del piano (JORIO).
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 21, Tomo II - Concordato preventivo e transazione fiscale
• Tema 25, Tomo II - Concordato preventivo
Tema n. 23
Il candidato, premessa una breve esposizione sulle cause di chiusura del fallimento, si soffermi sul concordato fallimentare, ne illustri gli aspetti tributari e presenti un caso pratico di ammissione alla procedura da parte di un imprenditore individuale. Dica, infine, sinteticamente della riapertura del fallimento
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 118-123, 124, 134, 137, 140 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
Art. 74bis D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633
Art. 88 e 183 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917
Artt. 5 e 8 D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
L. 18 giugno 2009, n. 69
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Chiusura della procedura fallimentare: cause e modalità.
B.Abolizione del registro dei falliti a seguito della riforma attuata dal D.Lgs.
5/2006.
C.Concordato fallimentare: fasi di svolgimento.
D.Effetti del concordato.
E.Riapertura del fallimento.
F.Aspetti tributari della procedura di concordato fallimentare.
G.Esempio di ammissione alla procedura di concordato fallimentare.
A^>Il fallimento si chiude quando si verificano determinati fatti, individuati dalla
legge, che ne rendono inutile la prosecuzione, o perché gli scopi della procedura sono
stati raggiunti o perché il loro perseguimento non è più possibile.
A parte il concordato fallimentare, i casi di chiusura del fallimento, indicati dall’art.
118 L.F., sono i seguenti:
— quando nel termine stabilito nella sentenza dichiarativa di fallimento non sono state proposte domande di ammissione al passivo;
— quando tutto il passivo accertato a carico del patrimonio fallimentare è stato estinto;
— quando tutto l’attivo fallimentare (composto dal patrimonio del fallito o della società e delle altre attività fallimentari apprese dagli organi del fallimento) è stato ripartito tra i creditori insinuati (creditori della massa e creditori concorrenti);
— quando non sono possibili ripartizioni o pagamenti di crediti prededucibili per insufficienza di attivo.
Così come l’apertura del procedimento fallimentare, anche la chiusura deve assumere un carattere formale: occorre accertare l’esistenza delle condizioni perché abbia luo-
426
Tomo Secondo: Materie giuridiche go la cessazione e questa va dichiarata con decreto motivato del Tribunale su istanza del curatore (è l’ipotesi più ricorrente), del fallito o d’ufficio da parte del Tribunale
fallimentare. Il decreto deve essere poi pubblicato nelle stesse forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento ed è reclamabile, entro quindici giorni, dinanzi alla
Corte di Appello ai sensi dell’art. 26 L.F. (art. 119 L.F.). La riforma delle procedure concorsuali (D.Lgs. 5/2006), in vigore per i fallimenti iniziati dopo il 16 luglio 2006, è intervenuta sull’impugnabilità del provvedimento del Tribunale, prevedendo la reclamabilità sia del decreto di chiusura che di quello di rigetto della relativa domanda: essa ha
così recepito la sentenza della Corte Costituzionale del 28 novembre 2002, n. 492, la
quale aveva dichiarato l’illegittimità dell’articolo nella parte in cui escludeva il reclamo
avverso il decreto che respingeva l’istanza di chiusura.
Come ha precisato il decreto correttivo del 2007, il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo senza che questo sia stato proposto,
oppure quando il reclamo è stato rigettato in modo definitivo (vale a dire non è più ricorribile in Cassazione o quest’ultima ha confermato il rigetto).
Con la chiusura del fallimento ne cessano gli effetti e decadono gli organi preposti alla
procedura (Tribunale fallimentare, giudice delegato, curatore e comitato dei creditori).
Il fallito riacquista la disponibilità del suo patrimonio, sul quale possono soddisfarsi anche i creditori intervenuti nel fallimento per la parte non soddisfatta dei loro crediti. I creditori, infine, riacquistano l’esercizio delle loro azioni esecutive individuali e
ricominciano a decorrere gli interessi sui crediti fruttiferi.
B^>Per quanto riguarda le incapacità personali del fallito, la riforma, nell’ottica dell’eliminazione delle sanzioni personali a carico del fallito, ha abrogato, a partire dal 16 gennaio
2006, il registro dei falliti, sopprimendo quindi le limitazioni personali che colpivano il
fallito in seguito alla dichiarazione di fallimento (ad esempio, la perdita del diritto all’elettorato attivo). Nella disciplina precedente, infatti, la chiusura del fallimento non faceva cessare
tali incapacità, le quali permanevano finchè il fallito tornato in bonis non avesse richiesto la
riabilitazione, con cui otteneva la cancellazione dal suddetto registro. In coordinamento con
tali interventi, è stato soppresso dalla riforma anche l’istituto della riabilitazione.
Il decreto correttivo ha modificato il 1° comma dell’art. 120 L.F. (effetti della chiusura), prevedendo espressamente che la chiusura del fallimento fa cessare sia gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito, che le incapacità personali del fallito scaturite dal fallimento, qualunque sia la fonte normativa che le preveda.
C^>Il fallimento può cessare, oltre che nei casi di chiusura previsti dall’art. 118 L.F.,
anche a causa del concordato fallimentare.
A differenza del concordato preventivo, che ha la funzione di evitare la dichiarazione di fallimento, il concordato fallimentare chiude la procedura.
Tale istituto è stato radicalmente modificato dalla riforma del 2006, la quale ha cercato di semplificarne ed accelerarne la procedura permettendo una più ampia applicabilità del concordato grazie ad una maggiore attenzione all’esigenza dei creditori.
Le disposizioni sul concordato sono state oggetto di numerose modificazioni ad opera del decreto correttivo del 2007. Esse si applicano alle sole procedure di concordato
aperte successivamente al 1° gennaio 2008.
La procedura di concordato fallimentare si articola in tre fasi essenziali: la proposta; l’approvazione della maggioranza dei creditori; l’omologazione da parte del Tribunale. Esaminiamole distintamente.
Tema n. 23: Concordato fallimentare e aspetti tributari
427
A norma dell’art. 124 L.F., la proposta di concordato può essere presentata:
— da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo
stato passivo, purché i dati contabili e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre
all’approvazione del giudice delegato. Il decreto correttivo ha inoltre inserito un
ulteriore importante requisito: il debitore fallito deve avere tenuto fino a quel momento la contabilità, dalla quale possano dunque emergere in modo chiaro ed univoco i
dati e le notizie necessarie per la predisposizione del suddetto elenco;
— dal fallito (o da società cui egli partecipi come socio illimitatamente responsabile o
sottoposte a comune controllo), solo dopo un anno dalla dichiarazione di fallimento (termine così elevato dal decreto correttivo in luogo dei precedenti 6 mesi previsti dalla riforma del 2006) e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo.
La proposta di concordato deve essere presentata al giudice delegato, il quale chiede
il parere del curatore con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e delle garanzie offerte nella proposta stessa.
Il giudice delegato, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori e valutata la ritualità della proposta, ordina che la proposta venga comunicata ai creditori,
mediante lettera raccomandata in cui è fissato il termine, non inferiore a venti nè superiore a trenta giorni, entro il quale gli stessi possono far pervenire le loro dichiarazioni di dissenso in Cancelleria. Il provvedimento del giudice delelgato è reclamabile,
ex art. 26 L.F.
Il decreto correttivo è intervenuto solo parzialmente sulla norma in esame, precisando che la valutazione di merito della proposta spetta al comitato dei creditori, mentre al giudice delegato compete una delibazione di mera legittimità sulla ritualità della
proposta, in coerenza con il nuovo assetto dei rapporti fra gli organi preposti al fallimento.
Ai sensi dell’art. 125 L.F., qualora la proposta contenga condizioni differenziate per
singole classi di creditori, essa deve essere sottoposta, con i pareri così acquisiti, al giudizio del tribunale, il quale verifica il corretto utilizzo dei criteri impiegati per la suddivisione in classi e per la diversificazioni dei trattamenti. Il tribunale deve altresì considerare la relazione di stima dei beni o dei crediti oggetto della garanzia offerta dai
creditori muniti di diritto di prelazione.
La seconda fase del procedimento è costituita dall’approvazione del concordato da
parte dei creditori, i quali, valutata l’opportunità delle condizioni in essa contenute ed
esaminati i pareri formulati dagli organi fallimentari, dovranno decidere se approvare
o meno il concordato.
Con la L. 69/2009, il legislatore è intervenuto sugli articoli 125 e 128 L.F., definendo
l’iter procedurale in caso di presentazione di più proposte di concordato o di sopravvenienza di una nuova proposta. È il comitato dei creditori che sceglie la proposta da sottoporre all’approvazione dei creditori e, qualora il curatore lo ritenga conveniente, può
suggerire al giudice delegato di comunicare ai creditori la proposta, o le altre proposte,
non scelte dal comitato.
La norma, inoltre, richiama l’art. 41, 4° comma, L.F., per indicare ancora il ruolo
suppletivo del giudice delegato, chiamato a provvedere, altresì, sulla pluralità di proposte in caso di inerzia o di impossibilità di funzionamento del comitato dei creditori
ovvero di urgenza.
428
Tomo Secondo: Materie giuridiche L’art. 128 L.F. prevede che la proposta sia approvata quando ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Se sono
previste diverse classi di creditori, è necessario che tale maggioranza sia raggiunta anche nel maggior numero di classi.
Infine, in seguito alle modifiche introdotte dalla L. 69/2009 all’art. 128 L.F., quando
il giudice delegato dispone il voto su più proposte di concordato, si considera approvata quella che ha conseguito il maggior numero di consensi e, in caso di parità, la proposta presentata per prima.
Decorso il termine stabilito per le votazioni, si apre la terza fase del procedimento:
il giudizio di omologazione.
La disciplina del giudizio di omologazione del concordato, prevista dall’art. 129 L.F.,
è stata radicalmente modificata e semplificata dal decreto di riforma, in considerazione della possibilità della proposta di prevedere la suddivisione dei creditori in classi
con trattamenti differenziati. Tale regolamentazione è stata poi in parte ritoccata dal
decreto correttivo.
Decorso il termine stabilito per le votazioni, il curatore presenta al giudice delegato una relazione sul loro esito e, se i creditori hanno approvato la proposta, il giudice delegato dispone che ne sia data immediata comunicazione al proponente, affinché ne richieda l’omologazione al fallito e ai creditori dissenzienti. Con decreto da pubblicarsi
ai sensi dell’art. 17 L.F. (come ha stabilito il decreto correttivo) fissa un termine, non
inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta, per la proposizione di eventuali opposizioni, anche da parte di qualsiasi altro soggetto che sia interessato alla prosecuzione del fallimento e per il deposito della relazione motivata con il parere conclusivo del
comitato dei creditori (e non del curatore, come prevedeva il testo originario della riforma, modificato in questo senso dal decreto correttivo); se il comitato non vi provvede nel termine, la relazione deve essere redatta dal curatore e depositata nei 7 giorni
successivi.
L’opposizione e la richiesta di omologazione si propongono con ricorso al tribunale a norma dell’art. 26 L.F.
A questo punto la disciplina, fortemente modificata dal decreto correttivo, prevede
due distinti procedimenti di omologazione.
Il primo si ha nel caso i cui non siano state proposte opposizioni nel termine fissato:
il tribunale si limita a verificare la regolarità della procedura e l’esito della votazione
(controllo di legittimità), ed omologa quindi il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame.
Il secondo procedimento si applica invece ai casi in cui:
— siano state proposte opposizioni da parte dei creditori: il tribunale assume i mezzi
istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio;
— oppure, nell’ipotesi di concordato con suddivisione in classi, un creditore appartenente ad una classe dissenziente abbia contestato la convenienza della proposta. In
tal caso, il tribunale può procedere all’omologazione del concordato, qualora ritenga, previa valutazione, che il creditore appartenente alla classe dissenziente possa
essere soddisfatto nel concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative
concretamente praticabili in sede fallimentare. Si tratta dell’unico caso in cui il tribunale può esercitare un vero e proprio sindacato di merito sulla proposta di concordato.
Tema n. 23: Concordato fallimentare e aspetti tributari
429
Il tribunale provvede ad omologare o meno il concordato con decreto motivato.
Se il concordato è omologato, la procedura fallimentare si intende chiusa quando
diventa definitivo e non più impugnabile il decreto di omologazione. Gli organi della procedura non decadono, in quanto restano in funzione per sorvegliare l’adempimento del concordato stesso, secondo le modalità stabilite nel decreto di omologazione.
D^>Già dal momento in cui scadono i termini per opporsi all’omologazione, o da
quando si esauriscono le richieste di omologazione previste dall’art. 129 L.F., la proposta di concordato acquista piena efficacia (art. 130, 1° comma, L.F.), producendo immediatamente due effetti fondamentali:
a) vincola il fallito e il terzo garante o assuntore all’adempimento degli obblighi assunti nella proposta di concordato omologato, secondo le scadenze in essa indicate;
b) rende obbligatorio il concordato per tutti i creditori anteriori all’apertura del fallimento, compresi quelli che non abbiano presentato domanda di ammissione al passivo (anche per mancata conoscenza del fallimento), salvo patto contrario contenuto nella proposta di concordato presentata dal terzo assuntore con cui egli ha limitato i suoi obblighi concordatari ai soli creditori ammessi al passivo (art. 124, ultimo comma, L.F.). In questo caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il
fallito, salvi gli effetti dell’esdebitazione.
Quando il decreto di omologazione diventa definitivo, cioè quando sono terminati i
giudizi di reclamo o sono spirati i termini per proporli, il curatore rende il conto della
gestione ai sensi dell’art. 116 L.F. ed il tribunale dichiara chiuso il fallimento (art. 131,
2° comma, L.F.).
Esaminiamo gli effetti prodotti dalla chiusura:
a) Quanto al fallito:
— ritornano allo stesso i beni non trasferiti all’assuntore o vincolati al concordato,
con il riacquistato pieno potere di disporne;
— cessa ogni compressione della legittimazione processuale attiva e passiva;
— egli è definitivamente liberato per la parte differenziale tra l’ammontare dei crediti dei suoi creditori e la percentuale pattuita con il concordato.
b) Quanto ai creditori:
— salvo patto contrario contenuto nella proposta presentata dal terzo assuntore, il
concordato è, come detto, obbligatorio per tutti i creditori anteriori all’apertura
del fallimento, compresi quelli che non hanno presentato domanda di insinuazione al passivo (Cass., Sez. Unite, 26 luglio 1990, n. 7562);
— le garanzie offerte, però, non si estendono ai creditori che non hanno ancora presentato domande di ammissione (art. 135, 1° comma, L.F.);
— i creditori (anche quelli che non hanno approvato il concordato) conservano le
loro azioni per il residuo credito non soddisfatto contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso; ma non possono più agire, contro
il fallito (né contro il terzo assuntore), per la parte non soddisfatta del loro credito (permane però in vita, per il residuo, una obbligazione naturale a carico del
fallito, per cui se egli paga spontaneamente, non può più chiedere la restituzione) (art. 135, 2° comma, L.F.).
430
Tomo Secondo: Materie giuridiche E^>Il concordato può essere risolto o annullato:
a) è risolto, se le garanzie promesse non vengono date, ovvero se gli obblighi assunti
con esso non sono adempiuti. La domanda di risoluzione può essere proposta con
ricorso da uno dei creditori (art. 137 L.F.). Il decreto correttivo ha infatti riservato ai soli creditori la legittimazione a chiedere la risoluzione del concordato, sopprimendo la precedente iniziativa concessa al curatore, al comitato dei creditori e al
giudice d’ufficio. Non possono, inoltre, proporre istanza di risoluzione i creditori del
fallito verso cui il terzo non abbia assunto responsabilità per effetto del concordato, ex art. 124, ultimo comma, L.F. (precisazione introdotta dalla riforma), nonché
i creditori che non abbiano presentato domanda di ammissione al passivo (TEDESCHI);
b) è annullato, se si scopre che è stato dolosamente esagerato il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante di attivo.
L’annullamento è pronunciato con sentenza del tribunale su domanda del curatore o di un creditore (anche se non ammesso al passivo), in contraddittorio delle
parti (art. 138 L.F.): il debitore, infatti, è contraddittore necessario nel relativo giudizio.
Annullato o revocato il concordato, si riapre la procedura fallimentare e di conseguenza:
— il curatore può riproporre (non si parla di proseguire) le azioni revocatorie interrotte in conseguenza del concordato;
— i creditori conservano le garanzie avute dal concordato e trattengono le somme riscosse a causa di esso; quindi concorrono nel fallimento per il residuo credito;
— reso esecutivo il nuovo stato passivo, il proponente può avanzare una nuova domanda di concordato, la cui omologazione è però subordinata al deposito di tutte le somme occorrenti per il suo integrale adempimento o alla prestazione di garanzie equivalenti (art. 141 L.F.).
F^>Gli aspetti tributari della procedura di concordato fallimentare vanno esaminati sotto il profilo delle diverse imposte previste.
Quando diviene definitivo il decreto di omologazione del concordato fallimentare
la procedura concorsuale deve considerarsi conclusa per cui, con decorrenza da tale
data, il curatore dovrà provvedere alla denuncia di variazione dati IVA (con la quale
viene comunicata all’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate o all’Ufficio del registro
delle imprese competente la variazione di status della società o dell’imprenditore),
mentre la dichiarazione annuale finale IVA sarà presentata a cura dell’imprenditore
tornato in bonis.
Con il ritorno in bonis del fallito non competono al curatore gli adempimenti IVA derivanti dall’attività di cessione di beni e di prestazione di servizi compiuta dal debitore, il quale torna a ricoprire il ruolo di soggetto di imposta riacquistando la titolarità
di tutti i rapporti fiscali attivi e passivi.
Nell’ipotesi di concordato con «terzo assuntore», il trasferimento dei beni a seguito
della omologazione del concordato fallimentare è attuato dagli organi del fallimento
ancora in carica.
Per il principio di alternatività IVA - imposta di registro, il trasferimento, che riguarda il complesso aziendale nella sua globalità, è soggetto solo all’imposta di registro in
misura proporzionale.
Tema n. 23: Concordato fallimentare e aspetti tributari
431
Il decreto di omologazione del concordato fallimentare va inoltre assoggettato all’imposta di registro in misura proporzionale o fissa, a seconda che siano offerte garanzie
reali e personali o, al contrario, siano ceduti beni.
Nella prima ipotesi, il valore tassabile è costituito dal quantum rappresentativo della somma necessaria per garantire il concordato fallimentare (evidentemente nella misura percentuale offerta ai creditori chirografari).
Per l’ICI, l’art. 10 del D.Lgs. 504/1992 prevede che l’imposta è dovuta per anni solari proporzionalmente alla quota ed ai mesi dell’anno nei quali si è protratto il possesso ed è prelevata, nel suo complessivo ammontare, dal prezzo ricavato dalla vendita; l’articolo dispone inoltre che per gli immobili compresi nel fallimento, il curatore
o il commissario liquidatore, entro 90 giorni dalla loro nomina, devono presentare al
Comune di ubicazione degli immobili una dichiarazione attestante l’avvio della procedura.
Detti soggetti sono altresì tenuti al versamento dell’imposta dovuta per il periodo di
durata dell’intera procedura concorsuale entro il termine di 3 mesi dalla data del decreto di trasferimento degli immobili.
Quanto alle imposte sui redditi, l’art. 183 del TUIR stabilisce che la frazione d’esercizio compresa tra l’inizio dell’esercizio e la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce un autonomo periodo d’imposta: il relativo reddito sarà determinato secondo le regole generali in materia di imposte sui redditi, in base ad apposito bilancio redatto dal
curatore.
La stessa disposizione stabilisce, poi, che il reddito imponibile del periodo successivo, compreso tra la sentenza dichiarativa di fallimento e il decreto di omologazione
del concordato (che decreta la chiusura della procedura fallimentare), è costituito dalla differenza tra il residuo attivo (valore dei beni che, al termine del fallimento, vengono restituiti all’imprenditore od ai soci) e il patrimonio netto dell’impresa all’apertura
del fallimento.
Il reddito d’impresa che emerge al termine della procedura fallimentare rappresenta
un risultato che non si ricollega ai comuni criteri dei costi e ricavi d’impresa, bensì al residuo attivo detratto il patrimonio netto dell’impresa all’inizio del fallimento determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti. Tale residuo viene considerato una plusvalenza derivante dalla cessione del patrimonio aziendale che il debitore fallito tornato in
bonis provvederà a dichiarare secondo le regole ordinarie ma in neutralità fiscale, ai
sensi dell’art. 88, comma 4, del TUIR, delle sopravvenienze derivanti dalla riduzione
dei debiti di imposta per effetto dalla falcidia concordataria.
L’art. 5, comma 4, del D.P.R. 322/1998, come modificato da ultimo dal D.L. 207/2008,
conv. in L. 14/2009, dispone che il curatore deve presentare la dichiarazione dei redditi relativa al periodo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data della sentenza dichiarativa di fallimento e quella relativa al periodo compreso tra quest’ultima data
e la chiusura della procedura rispettivamente entro l’ultimo giorno del nono mese successivo a quello di nomina del curatore stesso e a quello di chiusura del fallimento avvalendosi delle modalità telematiche di presentazione, per il tramite del servizio Entratel.
Ai sensi della medesima disposizione, in caso di fallimento con esercizio provvisorio, il curatore è tenuto alla presentazione della dichiarazione IRAP secondo le medesime modalità.
432
Tomo Secondo: Materie giuridiche G^>Caso pratico
Proposta di concordato fallimentare
Tribunale di Lucca
Sezione fallimenti
Fallimento della ditta ………… Sentenza n. …… - Giudice delegato Dott. …………
Curatore Dott. ……………
Al Giudice delegato
Il sottoscritto …………………, residente in Lucca, titolare dell’omonima ditta corrente in Lucca, dichiarata fallita in data ……………, propone con il presente atto un
concordato ai creditori ai sensi degli artt. 124 e segg. legge fallimentare.
Premesso che:
Lo stato passivo definito del fallimento è stato dichiarato esecutivo il …………… e
risultano ammessi al passivo creditori privilegiati per euro ……… e creditori chirografari per euro ……….
L’attivo accertato ammonta a …… euro.
La presente proposta di concordato prevede la divisione dei creditori in due classi
di posizioni giuridiche ed interessi economici omogenei, per i quali, ai sensi dell’art.
124 L.F., sono previsti trattamenti economici differenziati:
A) Creditori aventi diritto di prelazione, divisi a loro volta in due sottoclassi:
A1) creditori aventi diritto di ipoteca;
A2) creditori garantiti da pegno e privilegiati.
B) Creditori chirografari, a loro volta divisi in due sottoclassi:
B1) creditori per forniture di beni e servizi;
B2) creditori per compensi inerenti ad attività di consulenza.
Ciò premesso, il sottoscritto propone ai creditori la seguente proposta:
1) pagamento integrale delle spese di procedura e del compenso al curatore;
2) pagamento integrale dei creditori di cui alla classe A1) entro 30 giorni dalla data di
omologazione del concordato e per le rate a scadere previste nei piani di ammortamento già definiti;
3) pagamento in misura pari al 70% dei creditori di cui alla classe A2) entro 6 mesi dalla data di omologazione del concordato;
4) pagamento in misura pari al 50% dei creditori di cui alla classe B1) entro 6 mesi dalla data di omologazione, in un’unica soluzione;
5) pagamento del 5% dei creditori di cui alla classe B2) entro 6 mesi dalla data di omologazione.
Il sig. …………… accetta di garantire il concordato in qualità di assuntore a condizione che gli vengano cedute tutte le attività del fallito nessuna esclusa ed inoltre le
azioni di pertinenza della massa specificatamente indicate nell’allegato e già autorizzate dal giudice delegato, con liberazione immediata del fallito.
Luogo e data
L’assuntore
Il fallito
Tema n. 23: Concordato fallimentare e aspetti tributari
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
• Tema 26, Tomo II - Chiusura e riapertura del fallimento
433
Tema n. 24
Il candidato, premessa una breve esposizione dei presupposti della dichiarazione di fallimento e dell’iter procedimentale dello stesso, si soffermi sulla figura del
curatore, in particolare trattando degli adempimenti fiscali cui è tenuto. Il candidato presenti altresì un caso pratico di accettazione dell’incarico da parte del curatore
Riferimenti normativi
Artt. 1-159 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
Artt. 2195, 2221, 2497 c.c.
Art. 74bis D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633
Artt. 88 e 183 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917
Artt. 10 D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504
Artt. 5 e 8 D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in L. 133/2008
Schema di svolgimento
A.Nozione di fallimento e presupposti.
B.La procedura fallimentare alla luce della normativa contenuta nel D.Lgs.
5/2006 e nel D.Lgs. 169/2007.
C.Iter procedimentale del fallimento.
D.Funzioni, poteri e doveri del curatore.
E.Adempimenti fiscali del curatore.
F.Il curatore sostituto d’imposta.
G.Esempio di accettazione dell’incarico da parte del curatore.
A^>Il fallimento è una procedura giudiziale mediante la quale viene sottoposto ad
esecuzione il patrimonio di un imprenditore commerciale quando questi non sia più
in grado di far fronte puntualmente alle proprie obbligazioni nei confronti dei creditori. La natura giuridica del fallimento è tutt’ora oggetto di contrastanti teorie: da un lato
lo si riconduce alla figura del processo di esecuzione (FERRARA, PROVINCIALI, PAJARDI), dall’altro lo si avvicina ad un procedimento di volontaria giurisdizione (FAZZALARI, CARNELUTTI). Probabilmente, data la sua atipicità ed originalità, il fallimento è una fattispecie complessa, a sé stante, dotata di caratteri propri.
I presupposti affinché si possa procedere alla sentenza dichiarativa di fallimento
sono principalmente due: innanzi tutto, l’imprenditore debitore deve essere un imprenditore commerciale ai sensi dell’art. 2195 c.c.; inoltre, il medesimo deve trovarsi in sta-
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Tomo Secondo: Materie giuridiche to di insolvenza (art. 5 L.F.). Per quanto concerne il primo presupposto, ne discende che
sono esclusi dalla procedura fallimentare gli enti pubblici e gli imprenditori commerciali, qualora siano in possesso dei requisiti dimensionali di non fallibilità elencati
all’art. 1 della L.F., come modificato dal D.Lgs. 169/2007.
Secondo la nuova formulazione dell’art. 1 della L.F., non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale che dimostrino il possesso congiunto dei seguenti tre requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento
o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 300.000;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 200.000;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro 500.000.
Viene quindi ribadito il concetto del fallimento del solo imprenditore commerciale
con l’esclusione dell’imprenditore agricolo e non viene fatta più la distinzione tra attività esercitata in forma individuale o collettiva: una qualificazione del tutto ininfluente ai fini dei parametri dimensionali e dell’individuazione dei soggetti fallibili.
Il legislatore ha voluto eliminare, inoltre, il termine “piccolo imprenditore”, causa
di interpretazioni disparate e divergenti, ma ha confermato la sua volontà di esentare
dal fallimento l’imprenditore di piccole dimensioni, la cui esclusione dalla normativa
fallimentare viene d’ora in poi subordinata al possesso congiunto dei tre requisiti sopra elencati, con prova della loro sussistenza posta a carico dell’imprenditore medesimo.
Per quanto riguarda l’imprenditore artigiano, la sua assoggettabilità al fallimento è
stato un problema ampiamente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, dato che l’art.
1 L.F., nella formulazione anteriore alla riforma del 2006, non considerava tale figura,
sebbene l’art. 2083 c.c. lo comprenda tra i piccoli imprenditori.
Il decreto correttivo, invece, ha individuato un’area di non fattibilità prescindendo
dalla nozione di piccolo imprenditore, semplicemente ancorandola alla sussistenza di
requisiti dimensionali e di indebitamento, indipendentemente dalla definizione codicistica di piccolo imprenditore o di artigiano.
Per cui, il problema dell’assoggettabilità al fallimento delle società artigiane, che
aveva suscitato numerosi contrasti nella disciplina anteriore alla riforma per il loro difficile inquadramento nella nozione di piccolo imprenditore, è stato superato sia dalla
riforma del 2006, che ha eliminato l’assoggettabilità al fallimento delle società di modeste dimensioni, sia dal decreto correttivo del 2007, che ha eliminato la definizione di
piccolo imprenditore dall’art. 1 L.F.
Il secondo presupposto esige che lo stato di insolvenza sia manifestato attraverso
reiterati inadempimenti, in virtù dei quali l’imprenditore riveli l’incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte poiché non dispone più di mezzi patrimoniali
per fronteggiare i pagamenti, né è in grado di procuraseli. Anche la perdita del credito
cui consegua l’assenza di attività sufficienti per fronteggiare lo stato passivo è un’altra
manifestazione dello stato di insolvenza. Infine, espressioni delle difficoltà finanziarie
dell’imprenditore, previste dalla stessa legge fallimentare, sono la sua fuga, l’irreperibilità o latitanza, la chiusura dei propri locali, il trafugamento, la sostituzione o la diminuzione fraudolenta dell’attivo (art. 7 L.F.). La giurisprudenza e la dottrina hanno
Tema n. 24: Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
437
inoltre considerato manifestazioni dell’insolvenza il rifiuto da parte delle banche di intrattenere rapporti di credito o commerciali con l’impresa; l’andamento scoperto del
conto corrente bancario; la pluralità di procedimenti esecutivi avviati dai creditori; i
pignoramenti negativi; la chiusura della sede aziendale. Di notevole importanza in merito alla portata e alla rilevanza dello stato insolvenza è la novità introdotta dalla riforma del 2006 nell’art. 15, ult. comma, L.F., il quale prevede che il fallimento non si possa dichiarare quando «l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti
dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a 25.000 euro». Questo limite di 25.000 euro, soglia al di sotto del quale non si procede alla dichiarazione di fallimento, è stato elevato a 30.000 euro dal decreto correttivo del 2007. Accanto a questi
presupposti positivi devono sussistere anche delle condizioni negative a cui deve soggiacere lo stesso imprenditore: egli non deve essere già sottoposto ad una procedura di
liquidazione coatta amministrativa, né deve aver fatto domanda di concordato preventivo; l’impresa non deve essere in possesso di quei requisiti che la rendono assoggettabile alla procedura di amministrazione straordinaria.
B^>La procedura fallimentare ha inizio con l’accoglimento, da parte del Tribunale
del luogo dove è ubicata la sede principale dell’impresa, del ricorso presentato da uno
o più creditori o dell’istanza di fallimento proposta dal Pubblico Ministero. Anche lo
stesso debitore può richiedere il proprio fallimento. La riforma del 2006 ha invece
soppresso la dichiarazione di fallimento per iniziativa d’ufficio, prevista nella disciplina
previgente, alla luce dei numerosi interventi della Corte Costituzionale. Tuttavia il P.M.
è obbligato a proporre istanza di fallimento quando l’insolvenza risulti nel corso di un
procedimento penale o dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata
nel corso di un procedimento civile (art. 7 L.F.).
La sentenza dichiarativa di fallimento ha un contenuto complesso: nomina gli organi della procedura, il giudice delegato ed il curatore; ordina al fallito di depositare
entro tre giorni il bilancio e le scritture contabili e fiscali obbligatorie, nonché l’elenco
dei creditori; fissa la prima udienza di verifica dello stato passivo, che deve avvenire entro 120 giorni dal deposito della sentenza o entra 180 giorni in caso di particolare complessità della procedura; fissa un termine non superiore ai trenta giorni prima di tale
udienza entro cui i creditori possono presentare domanda di ammissione al passivo
(art. 16 L.F.).
C^>A seguito della sentenza dichiarativa si snoda l’iter della procedura fallimentare, che si articola in cinque fasi fondamentali: la conservazione del patrimonio del
fallito (artt. 84-91 L.F.), l’accertamento dello stato passivo (artt. 92-103 L.F.) e quello
dell’attivo, l’amministrazione del patrimonio fallimentare (artt. 104-106 L.F.), la liquidazione dell’attivo (artt. 107-109 L.F.) ed il riparto di quest’ultimo fra i creditori (artt. 110-117
L.F.).
La prima fase è finalizzata al compimento di tutti quegli atti volti all’apprensione e
alla custodia del patrimonio del fallito, quali l’apposizione dei sigilli sui beni dell’imprenditore e la redazione dell’inventario.
La fase dell’accertamento del passivo ha, invece, lo scopo di individuare i creditori
ammessi al concorso con i relativi privilegi verificando anche l’esistenza di domande di
rivendicazione. Per evitare la perdita o il deterioramento dei beni, o per non danneggiare l’impresa, può essere necessario ricorrere all’esercizio provvisorio dell’attività
d’impresa, o all’affitto dell’azienda del fallito, o ancora alla sua vendita. Lo stato attivo
438
Tomo Secondo: Materie giuridiche del fallimento, costituito da tutti i beni del fallito, viene liquidato attraverso vendite attuate mediante procedure competitive.
La novità più rilevante introdotta dal D.Lgs. 5/2006, successivamente modificato nel
punto in esame dal D.Lgs. 169/2007, consiste nel fatto che l’attività di liquidazione deve
avvenire non più con operazioni diversificate, non coordinate e non rientranti in una
strategia unitaria, bensì all’interno di un razionale programma di liquidazione, predisposto dal curatore ed approvato dal comitato dei creditori.
La formazione di tale piano deve avvenire entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario.
L’ultima fase della procedura fallimentare è volta alla soddisfazione dei creditori: le
somme vengono ripartite secondo l’ordine di distribuzione stabilito dall’art. 111 L.F.
Nella pratica, però, può accadere che non sia possibile attuare il procedimento di riparto a causa dell’insussistenza dell’attivo.
L’iter della procedura fallimentare normalmente si chiude e gli organi preposti al
fallimento decadono con il decreto del Tribunale (artt. 118-123 L.F.).
Però può verificarsi che il fallimento si chiuda, invece, con un accordo concluso tra
il fallito ed i creditori: il concordato fallimentare. Con tale accordo le parti prevedono
un piano di ristrutturazione dei debiti del fallito e di pagamento dei crediti, il quale può
essere realizzato mediante qualsiasi forma, anche tramite cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie.
D^>Il curatore è l’organo della procedura fallimentare cui spetta l’amministrazione
dei beni del fallito sotto la direzione del giudice delegato (art. 31 L.F.). La riforma del
2006 ha notevolmente rafforzato i poteri di iniziativa del curatore, attribuendogli funzioni
di propulsione e di gestione della procedura, pur restando il suo operato sotto il controllo
e la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Al curatore sono infatti
attribuiti numerosi compiti di gestione, tra cui il più importante è la predisposizione del
programma di liquidazione dei beni del fallimento, contenente anche le decisioni sull’esercizio provvisorio dell’impresa, sulla proposizione delle azioni revocatorie e recuperatorie,
sulla valutazione delle proposte di concordato. Egli assume così un ruolo determinate
nelle decisioni di convenienza della procedura fallimentare. Secondo la prevalente giurisprudenza che si è pronunciata sulla natura delle funzioni del curatore, questi, quando
agisce come rappresentante o sostituto del fallito, vantando nei confronti di terzi un diritto del debitore, è da considerarsi avente causa del fallito; è invece un soggetto terzo
quando le sue attività sono riconducibili esclusivamente all’incarico istituzionale che
ricopre, come ad esempio la rimozione di atti pregiudizievoli o la reintegrazione del
patrimonio. In ogni caso il curatore, accettando l’incarico, assume la qualifica di pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (art. 30 L.F.). Per quanto riguarda i requisiti
necessari per la sua nomina, la riforma del 2006 ha previsto che egli può essere scelto tra:
a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti;
b) studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali suddetti;
c) coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché negli ultimi dieci anni non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento.
Di contro, non può essere nominato curatore l’interdetto, l’inabilitato, il fallito o colui che è stato condannato a pena che comporta l’interdizione anche temporanea dai
Tema n. 24: Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
439
pubblici uffici. Mentre, la circostanza che il curatore sia coniuge, parente, affine entro
il quarto grado del fallito o suo creditore oppure che abbia prestato attività professionale a favore di quest’ultimo, costituisce una causa di incompatibilità dalla quale deriva la possibilità di revoca da parte del Tribunale.
Infine la riforma del 2006 ha attribuito ai creditori la possibilità di sostituire il curatore.
L’art. 37bis della L.F., come modificato dal decreto correttivo del 2007, sancisce che
conclusa l’adunanza per l’esame dello stato passivo e prima della dichiarazione di esecutività dello stesso, i creditori presenti che rappresentano la maggioranza dei crediti
ammessi, possono chiedere la sostituzione del curatore indicando al Tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo.
Non possono aversi più curatori, contemporaneamente, nello stesso fallimento, perciò le sue funzioni sono intrasmissibili; ma il curatore può essere autorizzato dal comitato dei creditori a nominare due coadiutori: il delegato, che sostituisce il curatore
nello svolgimento di singole operazioni, ed il coadiutore, che è un collaboratore in senso tecnico (art. 32 L.F.).
Il curatore, assumendo l’incarico, diviene custode di tutte le attività relative al patrimonio del fallito e, quindi, titolare dei poteri di amministrazione e di liquidazione
collegati. Relativamente al compimento degli atti di ordinaria amministrazione, il curatore ha pieni poteri. Per gli atti di straordinaria amministrazione e per quelli specificatamente elencati dall’art. 35 L.F. (riduzioni di crediti, transazioni, compromessi, rinunzie alle liti, accettazioni di eredità, ecc.) è invece necessaria l’autorizzazione del comitato dei creditori.
Il decreto correttivo del 2007 ha aggiunto un nuovo comma all’art. 35 L.F. prevedendo che l’istanza, con la quale il curatore si rivolge al comitato dei creditori per l’autorizzazione al compimento dell’atto di straordinaria amministrazione, debba contenere
le sue valutazioni conclusive sulla convenienza o meno della proposta stessa.
Se tali atti superano poi i 50.000 euro, e per le transazioni di qualsiasi importo, occorre, oltre alla suddetta autorizzazione del comitato, anche l’informazione preventiva
del giudice delegato, salvo che tali atti non siano già stati autorizzati in seno al programma di liquidazione. Tra i poteri del curatore rientra anche quello di stare in giudizio nelle controversie che riguardano il debitore fallito, previa autorizzazione del giudice delegato che deve essere data per ogni stato e grado del giudizio; il curatore può
conferire la procura al difensore.
I doveri del curatore sono molteplici e si dispiegano lungo tutto l’iter della procedura fallimentare: inizialmente, assiste all’apposizione dei sigilli nella sede principale
dell’impresa fallita e redige vari atti, quali: l’inventario dei beni del fallito, la prima relazione informativa sulle cause del dissesto, il bilancio dell’ultimo esercizio se l’imprenditore fallito abbia omesso di farlo e relazioni periodiche per tenere informato il giudice delegato sull’amministrazione dei beni del fallito.
Nella fase di predisposizione dello stato passivo, secondo la nuova disciplina introdotta dalla riforma che ha visto sostanzialmente valorizzate le sue attribuzioni, il curatore deve esaminare le domande di ammissione al passivo, predisporre elenchi
separati dei creditori e dei titolari di diritti reali o personali sui beni del fallito e rassegnare le sue conclusioni. In tale fase egli può eccepire i fatti estintivi o modificativi del
diritto fatto valere dal creditore o dal terzo, nonché l’inefficacia del titolo o della prelazione. Deve infine depositare il progetto di stato passivo in cancelleria. All’udienza
di verifica, in cui è rimessa al giudice delegato la decisione sull’accoglimento o meno
440
Tomo Secondo: Materie giuridiche delle domande, il curatore deve presenziare e può presentare le sue eccezioni. Sempre
nell’ambito della fase di accertamento del passivo, egli esamina le domande di ammissione al passivo presentate tardivamente e, con ricorso, promuove la revocazione contro il decreto o la sentenza del giudice delegato che abbia accolto un credito dimostratosi ammesso per effetto di falsità, dolo, errore di fatto o perché emergono documenti
decisivi prima ignorati.
È soprattutto nella fase di liquidazione che le funzioni del curatore sono diventate
incisive e determinanti, in quanto gli consentono di assumere un ruolo di iniziativa e
propulsione nel procedimento fallimentare, assumendo le scelte più importanti per la
convenienza della procedura. A lui è infatti rimessa la formazione del programma di
liquidazione, che deve avvenire entro i 60 giorni successivi alla redazione dell’inventario, in modo da garantire il prima possibile l’inizio delle operazioni di vendita dei beni
del fallimento, anche prima della fase di accertamento del passivo, programma da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori. Il programma di liquidazione deve
contenere:
a) l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa o di singoli rami di azienda, o di autorizzarne l’affitto a terzi, o di cederla come complesso unitario;
b) l’esistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto;
c) le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare;
d) la possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti
giuridici individuabili in blocco;
e) le condizioni di vendita dei singoli cespiti.
Il curatore può altresì decidere di non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare
uno o più beni, se l’attività di liquidazione non risulti conveniente.
Anche prima dell’approvazione del programma, e solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all’interesse dei creditori, il curatore può procedere alla liquidazione
dei beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se
già nominato.
Il decreto correttivo del 2007 ha aggiunto un ulteriore comma all’art. 104ter che prevede che il programma approvato è comunicato al giudice delegato che autorizza l’esecuzione degli atti a esso conformi.
Effettuata la liquidazione, il curatore deposita il ricavato sul conto corrente intestato all’ufficio fallimentare: conto corrente di cui deve presentare ogni quattro mesi (non
più due come previsto nella precedente regolamentazione) un prospetto delle somme
disponibili assieme ad un progetto di riparto delle stesse fra i creditori. Prima di procedere al riparto finale, il curatore deve presentare un rendiconto particolareggiato ed
analitico della sua gestione.
E^>Il curatore è tenuto, con qualche eccezione, ad effettuare tutti gli adempimenti
previsti dalla normativa sull’Iva, praticamente sostituendosi al soggetto passivo
dell’imposta.
Come primo adempimento ai fini IVA il curatore deve effettuare la variazione dati
presso qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle entrate, a prescindere dal domicilio fiscale
dell’impresa fallita. La denuncia di variazione deve essere effettuata entro 30 giorni dalla data di accettazione della carica da parte del curatore.
Il curatore, inoltre, entro 4 mesi dalla nomina, deve presentare il modello denominato «IVA 74 bis» in cui devono essere incluse tutte le operazioni svolte dall’impresa
Tema n. 24: Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
441
fallita dal 1° gennaio dell’anno in cui è stato dichiarato il fallimento alla data del fallimento stesso. La presentazione può avvenire solo in via telematica. Ciò al fine di consentire all’Ufficio competente di conoscere l’eventuale debito IVA del periodo prefallimentare ed al fine, quindi, di poter proporre insinuazione allo stato passivo.
Il curatore, nel periodo compreso tra il 1° febbraio e il 30 settembre dell’anno in cui
si è aperta la procedura, deve presentare la dichiarazione annuale Iva, sempre che i relativi termini non siano già scaduti.
Il termine si sposta a 4 mesi dalla nomina del curatore se questa avviene successivamente alla scadenza del termine ordinario.
Se invece all’apertura della procedura sono scaduti i termini per la presentazione
della dichiarazione, non è richiesto alcun adempimento relativo alla dichiarazione annuale.
La dichiarazione può essere presentata esclusivamente in via telematica.
Il D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008 ha soppresso l’obbligo di presentare l’elenco
di clienti e fornitori relativo all’anno precedente l’apertura del fallimento.
Per quanto riguarda l’attività di fatturazione, il curatore, entro 4 mesi dalla nomina,
deve sostituirsi al soggetto fallito ed emettere eventuali fatture non emesse in relazione a cessioni di beni e prestazioni di servizi compiute dall’impresa prima del fallimento. Entro lo stesso termine deve registrare eventuali fatture di vendita e di acquisto non
ancora annotate dall’impresa fallita nei registri Iva. Tutto ciò sempre che, alla data di
apertura della procedura concorsuale, i termini di emissione e di registrazione delle
fatture non siano già scaduti.
Nel settore delle imposte dirette, il fallimento si presenta come un periodo d’imposta unitario: il curatore deve presentare la dichiarazione dei redditi del fallito, concernente il solo reddito d’impresa, relativa alla frazione di anno che precede l’apertura della procedura concorsuale. Successivamente, entro l’ultimo giorno del nono mese successivo a quello della chiusura del fallimento, il curatore ha l’obbligo di presentare la
dichiarazione finale dei redditi conseguiti dall’impresa fallita relativa all’intera procedura.
Ai fini dell’IRAP, il curatore deve osservare le disposizioni previste per le imposte dirette ad esclusione delle dichiarazioni periodiche e di quella finale. Nel caso non sia stato disposto l’esercizio provvisorio, essa non deve essere corrisposta e il curatore deve
presentare soltanto la dichiarazione concernente il tempo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data di apertura della procedura concorsuale.
Anche la curatela fallimentare è soggetta alla disciplina relativa all’ICI: ai sensi del
sesto comma dell’art. 10 del D.Lgs. 504/1992, come modificato dalla L. 296/2006, il curatore fallimentare deve presentare al Comune di ubicazione degli immobili, entro 90
giorni dalla nomina, una dichiarazione attestante l’avvio della procedura.
Inoltre, egli è tenuto a versare l’imposta relativa all’intero periodo di durata della
procedura concorsuale entro 3 mesi dalla data del decreto di trasferimento degli immobili.
F^>Il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248, ha attribuito al
curatore (e al commissario liquidatore) la qualifica di sostituto d’imposta, aggiungendolo all’elenco tassativo dei soggetti indicati all’art. 23 del D.P.R. 600/1973. Tale qualifica
in capo al curatore era stata negata dalla Cassazione anche nel caso in cui vi fosse stata durante il fallimento la continuazione temporanea dell’impresa o l’esercizio provvisorio della stessa.
442
Tomo Secondo: Materie giuridiche Il sistema delle ritenute alla fonte, da effettuarsi da parte del soggetto che ha la qualifica di sostituto d’imposta, riguarda i redditi di lavoro dipendente e assimilati, i redditi
di lavoro autonomo, le ritenute sulle provvigioni e le ritenute sugli interessi e sui redditi
di capitale (artt. 23-26 D.P.R. 600/1973). Gli altri soggetti qualificati sostituti d’imposta
sono: gli imprenditori individuali o collettivi che esercitano imprese commerciali o agricole, le persone fisiche che esercitano arti o professioni, il condominio.
Il curatore quindi deve:
— operare le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente o assimilati, di lavoro
autonomo, di provvigioni e di capitale corrisposti durante la procedura;
— provvedere ai versamenti nelle scadenze di legge (che possono essere effettuati non
solo in via telematica ma anche nella modalità tradizionale a mezzo banca con il
Mod. F24);
— rilasciare le certificazioni relative ai sostituiti;
— presentare la dichiarazione annuale (Mod. 770).
Le somme su cui operare la ritenuta devono essere state erogate nel corso della procedura: o per i compensi dovuti per la gestione della procedura stessa (spese di procedura), o per i riparti eseguiti a favore di creditori insinuati al passivo.
G^>Caso pratico
Accettazione dell’incarico da parte del curatore (art. 29)
Al Tribunale di ……………
Fallimento di Tizio n. ………
G.D.: dott. Caio
Ill.mo sig. Giudice Delegato,
il sottoscritto Mevio, nominato curatore del fallimento in epigrafe, premesso che non
sussistono cause di incompatibilità ai sensi dell’art. 28 L.F. e di essere regolarmente
iscritto all’albo degli avvocati presso il tribunale di Roma, a far corso dal ……
dichiara
di accettare l’incarico e ringrazia per la fiducia concessagli.
Con osservanza.
Luogo e data
Il curatore
Mevio
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 23, Tomo II - Concordato fallimentare e aspetti tributari
• Tema 26, Tomo II - Chiusura e riapertura del fallimento
Tema n. 25
Il candidato tratti delle finalità del concordato preventivo illustrando altresì quale debba essere il contenuto della relazione prevista all’art. 161, 3° comma, L.F.
(Traccia estratta all’Università degli studi di Brescia – II sessione 2008)
Riferimenti normativi
Artt. 160-186 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 80/2005
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in L. 122/2010
Schema di svolgimento
A.Nozione e natura del concordato preventivo.
B.Requisiti per l’ammissione alla procedura.
C.Domanda al Tribunale.
D.Relazione del professionista.
E.Esame della domanda da parte del Tribunale.
F.Approvazione dei creditori.
G.Omologazione.
H.Prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo.
A^>Il concordato preventivo è una procedura concorsuale a cui può ricorrere l’impresa per superare un periodo di crisi ed evitare il fallimento.
Esso consiste in un accordo stipulato tra l’imprenditore insolvente ed i propri creditori circa le modalità con le quali dovranno essere estinte tutte le obbligazioni. Per
poter accedere a tale beneficio, l’impresa deve proporre ai propri creditori un piano di
risanamento le cui caratteristiche sono lasciate alla sua libera determinazione; esso
può, ad esempio, prevedere una ristrutturazione dei debiti e una soddisfazione parziale dei creditori, oppure una cessione dei beni ai creditori o, ancora, una suddivisione
dei creditori in classi e un loro pagamento totale o parziale.
B^>Il debitore (persona fisica, società, associazione o ente) può chiedere l’ammissione alla procedura di concordato preventivo se ricorrono tre requisiti: deve esercitare
un’attività commerciale; deve superare le soglie di fallibilità indicate all’art. 1 della
legge fallimentare e deve versare in uno stato di crisi.
Non possono accedere alla procedura, per espresso divieto di legge, le imprese agricole e gli enti pubblici.
Il decreto legge sulla competitività (D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005) ha apportato
importanti modificazioni e semplificazioni in materia di concordato preventivo, con il
444
Tomo Secondo: Materie giuridiche preminente obiettivo di facilitare il ricorso a tale strumento di risanamento e riservare la procedura fallimentare alla gestione delle situazioni di dissesto più gravi.
Il legislatore del 2005 non aveva offerto, però, una definizione precisa di «stato di
crisi», per cui in dottrina e giurisprudenza si era posto il problema se in presenza della più grave situazione di insolvenza l’imprenditore potesse ancora essere ammesso al
concordato preventivo o se tale procedura fosse a lui preclusa. Al fine di dirimere i dubbi interpretativi creatisi, il legislatore è nuovamente intervenuto precisando che, ai soli
fini dell’ammissione al concordato preventivo, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza (art. 160, comma 3, L.F.), permettendo pertanto l’accesso al concordato preventivo anche agli imprenditori per i quali sia già manifesta la situazione più grave dell’insolvenza.
Lo stato di crisi è, quindi, un concetto vasto che comprende in generale tutte le situazioni difficili in cui può versare l’impresa, tra le quali anche l’insolvenza, ossia l’ipotesi in cui l’impresa è in uno stato di manifesta incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni.
Sotto il profilo oggettivo è necessario che l’imprenditore proponga ai creditori un
piano di risanamento della propria esposizione debitoria. La regola generale è quella
della libertà di contenuto del piano; tuttavia, la legge disciplina possibili soluzioni che
l’impresa può scegliere, da sole o congiuntamente, come proposte di concordato. Si
tratta in particolare:
— della ristrutturazione dei debiti e del soddisfacimento dei crediti attraverso qualsiasi
forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie,
compresa l’attribuzione ai creditori di azioni, quote, obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito;
— dell’attribuzione delle attività dell’impresa ad un assuntore. Possono costituirsi come
assuntori anche gli stessi creditori.
Se il debitore intende proporre il pagamento parziale dei debiti tributari deve chiedere di accedere ad una transazione fiscale (art. 182ter L.F.).
Nel piano di risanamento il debitore può prevedere la suddivisione dei creditori in
classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei e, conseguentemente, trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
Per le procedure aperte dal 1° gennaio 2008, inoltre, il piano può prevedere che i
crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca, possano essere soddisfatti parzialmente
alle seguenti condizioni:
a) il debitore deve assicurare nel piano che il creditore privilegiato, seppur pagato parzialmente, sia soddisfatto in misura pari o superiore rispetto a ciò che potrebbe ottenere dalla liquidazione del bene o del diritto sul quale sussiste la causa di prelazione;
b) il debitore deve nominare un professionista, affinché questi rediga una relazione
giurata da cui risulti il «valore di mercato» attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, per assicurare che la soddisfazione del creditore privilegiato avvenga nella misura sopra specificata;
c) nel prevedere il pagamento parziale il debitore deve rispettare la regola secondo cui
il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
Tema n. 25: Concordato preventivo
445
C^>La procedura di concordato preventivo si articola in più fasi: 1) la domanda del
debitore; 2) l’ammissione alla procedura; 3) l’approvazione dei creditori; 4) l’omologazione da parte del Tribunale.
Dopo aver elaborato il piano di concordato, l’impresa deve domandare al Tribunale, mediante un ricorso, di essere ammessa alla procedura.
La domanda si propone con riscorso, il quale deve essere sottoscritto:
— per l’impresa individuale, dall’imprenditore o dal suo curatore speciale; se l’imprenditore è morto, la domanda è sottoscritta dai suoi eredi;
— per le società, dai legali rappresentanti.
Alla domanda devono essere allegati i seguenti documenti:
a) una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria
dell’impresa;
b) uno stato analitico ed estimativo delle attività;
c) l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; esso consente di fornire un quadro della consistenza e della composizione del ceto creditorio;
d) l’elenco dei titolari dei diritti reali e personali su beni di proprietà o in possesso del
debitore;
e) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili: ciò consente ai creditori sociali di confrontare la convenienza del concordato rispetto al fallimento della società e dei suoi soci per estensione;
f) la relazione di un professionista relativa alla veridicità dei dati aziendali e alla fattibilità del piano.
D^>Novità assoluta nella disciplina del concordato preventivo è rappresentata dalla
relazione del professionista che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità
del piano proposto dal debitore. Il professionista incaricato della relazione, oltre che
essere iscritto nel registro dei revisori legali dei conti, deve possedere anche i seguenti
requisiti professionali:
— per la persona fisica: può essere avvocato, dottore commercialista, ragioniere o ragioniere commercialista;
— in caso di studio professionale associato o società tra professionisti, i soci devono avere i requisiti professionali di cui sopra. In tal caso, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura.
Per quanto riguarda il contenuto della relazione, in primo luogo il professionista
deve riscontrare la veridicità dei dati esposti dall’impresa nella domanda e negli allegati. La relazione, quindi, deve certificare che i dati contenuti nel ricorso introduttivo
corrispondano al vero, anche se non è necessario che venga effettuata una valutazione
di merito sulla correttezza della gestione pregressa. Il professionista, quindi, dovrà accertare che i beni evidenziati nella situazione patrimoniale esistano e siano valutati a
valore attualizzato di liquidazione e che i debiti indicati nella stessa situazione patrimoniale esistano, siano correttamente valutati, tenuto conto anche delle passività potenziali.
Nell’attestazione della veridicità dei dati aziendali, il professionista non deve però
limitarsi a fornire una «fotografia» iniziale della situazione patrimoniale, economica e
finanziaria dell’impresa, ma deve altresì attestare la veridicità di tutti gli elementi as-
446
Tomo Secondo: Materie giuridiche sunti dall’imprenditore per la predisposizione del piano di ristrutturazione (MANDRIOLI). Inoltre, l’attestazione di veridicità non potrà prescindere dai dati necessari per l’elaborazione del piano e degli eventuali documenti in esso contenuti; al professionista
spetterà, pertanto, valutare la serietà e la veridicità di una proposta d’acquisto e dell’eventuale garanzia offerta, l’esistenza e la serietà di contratti (di affitto o di cessione) determinanti per la riuscita del piano, l’esistenza di passività potenziali o rischi futuri che
possano compromettere il buon fine del piano stesso.
La seconda attestazione richiesta alla relazione del professionista, ai sensi dell’art.
161, comma 3, L.F. riguarda la fattibilità del piano proposto dal debitore: il professionista deve a tal fine comprendere la tipologia di crisi e i relativi fattori causali, per verificare se le strategie proposte nel piano siano tali da lasciar prevedere una regressione della crisi o, comunque, se siano coerenti rispetto agli obiettivi prefissati.
In particolare, nell’ipotesi di un piano di ristrutturazione aziendale, al professionista viene chiesto di esprimere la sua valutazione sugli elementi su cui il processo di ristrutturazione si fonda, vale a dire le scelte strategiche che l’impresa dovrà adottare, i
cambiamenti eventuali da apportare al management, i beni strumentali che l’azienda
intende dimettere, ecc. (MANDRIOLI).
Occorre tener presente che la relazione del professionista è il solo documento non
proveniente dal debitore che il tribunale ha a disposizione per decidere circa l’ammissibilità della proposta. Pertanto, relazioni generiche, approssimative, immotivate o meramente ripetitive delle previsioni del piano proposto dal debitore, senza alcuna valutazione critica e ragionata dello stesso, non possono superare il vaglio di completezza
e di regolarità rimesso al tribunale (Trib. Milano, 7 novembre 2005).
E^>Per le procedure aperte dal 1° gennaio 2008, la domanda di concordato deve
essere sempre comunicata al P.M. che viene messo nella condizione di intervenire e,
quindi, di esercitare, ove lo ritenga, tutti i poteri che la legge gli consente. Egli può,
dunque, proporre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti.
La disciplina relativa alla prima fase di ammissione alla procedura di concordato
preventivo è stata oggetto di due modifiche da parte del legislatore: la prima, avvenuta
con il D.L. 35/2005 e la seconda, più significativa, effettuata dal decreto correttivo alla
riforma.
Nella disciplina previgente al decreto correttivo era previsto che il tribunale, ricevuta la domanda, procedesse alla valutazione della sua ammissibilità, sentito il P.M.; verificata quindi la completezza e la regolarità della documentazione, accoglieva la domanda e, con decreto non soggetto a reclamo, dichiarava aperta la procedura di concordato.
Se, invece, il tribunale avesse accertato l’insussistenza delle condizioni di legge, respingeva con decreto la proposta e dichiarava, con separata sentenza, il fallimento.
Il legislatore, con il D.Lgs. 169/2007 ha provveduto ad una totale riformulazione del
contenuto dell’art. 162 L.F.
Il decreto prevede la possibilità del tribunale, qualora accerti qualche problema nella redazione del piano in ordine alla sussistenza dei requisiti di ammissibilità, di concedere al debitore un termine, non superiore a quindici giorni, per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti. Se all’esito di tale procedimento verifica che
non ricorrono i presupposti di cui al primo ed al secondo comma dell’art. 160 L.F. e che
il ricorso non ha i requisiti di cui all’art. 161 L.F., sentito il debitore in camera di con-
Tema n. 25: Concordato preventivo
447
siglio, dichiara inammissibile la proposta di concordato con decreto non soggetto a reclamo.
In tali casi il tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del P.M. deve accertare l’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, cioè la presenza dello
stato di insolvenza e le condizioni soggettive dimensionali di cui all’art. 1 L.F. e, solo
qualora ne determini la sussistenza, dichiara il fallimento del debitore.
Se, invece, l’indagine ha esito positivo, il tribunale ammette con decreto il debitore
alla procedura di concordato, nomina il giudice delegato, ordina la convocazione dei
creditori entro trenta giorni, designa il commissario giudiziale e stabilisce il termine
entro cui il debitore deve depositare in cancelleria la somma che, secondo quanto previsto dal decreto correttivo, deve essere almeno pari al 50% delle spese che si presumono necessarie per l’intera procedura, o alla minor somma, non inferiore al 20% di esse,
determinata dal giudice delegato (art. 163 L.F.).
A differenza di quanto avviene con la sentenza dichiarativa di fallimento, il debitore ammesso alla procedura di concordato preventivo conserva l’amministrazione dei
suoi beni e continua l’esercizio dell’impresa (egli, cioè, non viene spossessato dall’amministrazione e disponibilità del suo patrimonio), salvo i limiti previsti dalla legge per
gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
La sua attività, comunque, è svolta sotto il controllo del commissario giudiziale (art.
167 L.F.).
È richiesta l’autorizzazione del giudice delegato per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (ad esempio: mutui, compromessi, transazioni, concessioni di pegni o
ipoteche, restituzioni di pegni o cancellazioni di ipoteche, accettazioni di eredità e donazioni, alienazione di immobili etc.).
F^>Dopo l’emissione del decreto con il quale viene dichiarata aperta la procedura,
si apre una fase in cui il commissario giudiziale, una volta accettato l’incarico, deve
preparare l’adunanza dei creditori chiamata a votare per l’approvazione del piano
presentato dall’impresa in crisi.
All’adunanza hanno diritto di intervenire tutti i creditori le cui situazioni giuridiche
trovino titolo e causa anteriori alla data del decreto di ammissione del debitore alla procedura, secondo l’elenco presentato dal debitore e verificato dal commissario, compresi anche quei creditori il cui credito sia contestato.
La proposta è approvata se ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto.
Ove siano previste diverse classi di creditori, è necessario operare una distinzione.
Infatti, prima dell’intervento del decreto correttivo alla riforma, era previsto che il
concordato fosse approvato se riportava il voto favorevole dei creditori che rappresentassero la maggioranza dei crediti ammessi al voto nella classe medesima.
Il tribunale, però, riscontrato in ogni caso il raggiungimento della maggioranza prevista, poteva approvare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi avesse approvato la proposta di concordato e qualora ritenesse che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti potessero risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente
praticabili.
Il decreto correttivo ha sottratto al tribunale il potere di valutazione dapprima concessogli ed ha equiparato l’ammissione al concordato preventivo a quanto previsto nel
448
Tomo Secondo: Materie giuridiche concordato fallimentare: infatti, per i procedimenti iniziati dopo il 1° gennaio 2008,
stabilisce che, ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato sia approvato quando siano presenti entrambe le seguenti condizioni:
— la proposta riporti il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto;
— tale maggioranza si verifichi, inoltre, nel maggior numero delle classi (art. 177, comma 2, L.F.).
G^>Approvata la proposta di concordato si apre il giudizio di omologazione che ha
inizio con la fissazione da parte del tribunale di un’udienza in camera di consiglio per
la comparizione del debitore e del commissario giudiziale.
Il provvedimento di fissazione viene pubblicato ai sensi dell’art. 17 L.F. e notificato,
a cura del debitore, al commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti (art.
180 L.F.).
Almeno dieci giorni prima dell’udienza così fissata, il commissario giudiziale deve
depositare il suo parere motivato sull’opportunità dell’omologazione (art. 180, comma
2, L.F.).
Il debitore, il commissario giudiziale, gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi
interessato devono costituirsi almeno dieci giornis prima dell’udienza fissata.
Il tribunale, in assenza di opposizioni, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione (controllo di mera legittimità) approva il concordato con decreto
motivato non reclamabile, senza effettuare alcuna indagine istruttoria.
Se, invece, sono state proposte opposizioni, il tribunale assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti di ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio. Non può tuttavia procedere ad indagini istruttorie di particolare complessità, in
quanto il procedimento è improntato ad esigenze di speditezza e di operatività ricollegabili ad un principio di prove di immediata acquisizione.
Il decreto è comunicato al debitore e al commissario giudiziale, che provvede a darne notizia ai creditori, ed è soggetto alla stessa pubblicità prevista per la sentenza dichiarativa di fallimento.
Se il tribunale ritiene che non sussistono tutti i requisiti anzidetti, emette sentenza
di fallimento (a meno che manchi un presupposto sostanziale per la dichiarazione di
fallimento).
Il decreto correttivo è intervenuto prevedendo, all’ultimo comma dell’art. 180 L.F.,
che il tribunale, se respinge il concordato, dichiari il fallimento del debitore alle seguenti condizioni:
— vi sia l’istanza di uno o più creditori o la richiesta del P.M.;
— siano accertati i presupposti per la dichiarazione di fallimento.
Il fallimento è dichiarato con separata sentenza, emessa contestualmente al decreto che rigetta il concordato. La sentenza è reclamabile alla Corte d’Appello, secondo le
nuove regole introdotte dal decreto correttivo in merito all’impugnazione della dichiarazione di fallimento.
H^>Il D.L. 78/2010, conv. in L. 122/2010 ha introdotto nella legge fallimentare l’art.
182quater, rubricato «Disposizioni in tema di prededucibilità dei crediti nel concordato
preventivo, negli accordi di ristrutturazione dei debiti» che consente, a chi intende avere
Tema n. 25: Concordato preventivo
449
fiducia ed aiutare un’impresa in difficoltà, di erogare finanziamenti con la sicurezza
che non saranno travolti dal fallimento, mantenendo ferma la possibilità che i finanziatori rientrino in possesso degli importi versati (considerati prededucibili).
È stato così previsto che i crediti, riferibili a prestiti e/o finanziamenti ottenuti dall’impresa da banche o da intermediari finanziari, in esecuzione di un concordato preventivo o di accordi sulla ristrutturazione dei debiti, siano prededucibili in caso di successivo fallimento ai sensi dell’art. 111 L.F.
Anche i soci possono finanziare l’impresa, contando sul recupero dei loro esborsi in
prededuzione in caso di fallimento, ma ciò è possibile solo fino all’80% dell’ammontare dei loro finanziamenti.
Tali modifiche, quindi, sono finalizzate a favorire l’accesso al credito alle imprese in stato di crisi che iniziano un procedimento di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione, riconoscendo la prededucibilità ai finanziamenti che possono derivare sia da mezzi di terzi (sistema bancario) sia da mezzi propri (finanziamenti dei
soci), che non assumono la veste di capitale di rischio e che possono, in caso di insuccesso del risanamento e quindi di dichiarazione di fallimento, essere totalmente (finanziamenti bancari) o parzialmente (finanziamenti dei soci) recuperati, beneficiando della prededuzione.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 19, Tomo II - L’azione revocatoria fallimentare e ordinaria
• Tema 21, Tomo II - Concordato preventivo e transazione fiscale
• Tema 22, Tomo II - Classificazione dei creditori nel concordato preventivo
• Tema 23, Tomo II - Concordato fallimentare e aspetti tributari
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
Tema n. 26
Tratti, il candidato, le modalità di chiusura e di eventuale riapertura della procedura fallimentare
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 118-123 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Ipotesi di chiusura del fallimento.
B.Effetti della chiusura.
C.Esdebitazione del fallito.
D.Presupposti per l’ammissione all’istituto.
E.Effetti dell’esdebitazione.
F.La riapertura del fallimento.
A^>La chiusura del fallimento è dichiarata dal Tribunale con decreto motivato,
su ricorso del curatore o del fallito ovvero d’ufficio (ipotesi invero rara), allorché
si verifichino determinati fatti individuati dalla legge. In particolare, la legge fallimentare, all’art. 118, stabilisce che venga disposta la chiusura del fallimento:
quando i creditori non propongono domande di ammissione al passivo nel termine
stabilito dalla sentenza dichiarativa; quando tutto il passivo accertato a carico del
patrimonio fallimentare è stato saldato; quando tutto il patrimonio del fallito è
stato ripartito; ed infine quando non sono possibili ripartizioni per insufficienza
dell’attivo.
Le altre due ipotesi particolari di chiusura (ossia concordato fallimentare e revoca
del fallimento) dipendono, invece, da fattori esterni alla procedura.
La procedura fallimentare non può, invece, estinguersi per inattività delle parti, come
nel processo ordinario.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, è evidente che la mancanza di domande di ammissione al passivo fa venir meno la ragion d’essere della procedura fallimentare.
Si discute se la presentazione di una sola domanda di ammissione allo stato passivo possa evitare la chiusura del fallimento.
Secondo parte della dottrina (PROVINCIALI), nell’ipotesi in cui si sia insinuato un
solo creditore, va ugualmente disposta la chiusura del fallimento, in quanto viene a mancare uno dei presupposti per la continuazione della procedura concorsuale, e cioè la
pluralità dei creditori: il singolo creditore potrà avvalersi delle azioni esecutive individuali previste dal codice di procedura civile per tentare il recupero del proprio credito,
anziché insistere nel fallimento.
452
Tomo Secondo: Materie giuridiche Altri autori (ANDIOLI, DE SEMO) invece, propendono per la tesi contraria, sostenendo che la presenza dell’unico creditore insinuatosi tempestivamente rende ammissibili eventuali domande tardive di altri.
Altri ancora (RAMELLA, TOMAIOLI), e parte della giurisprudenza, affermano che
il difetto di pluralità di creditori costituirebbe motivo di revoca della sentenza dichiarativa e non già causa di cessazione del fallimento.
La seconda ipotesi prevista dall’art. 118 L.F. è quella relativa alla totale soddisfazione dei creditori. Tale ipotesi, che può verificarsi alla fine della procedura o nel corso di
essa per effetto delle ripartizioni parziali, richiede necessariamente che tutti i creditori siano stati soddisfatti, ed implica anche l’integrale pagamento dei cd. crediti della
massa (ovvero compenso del curatore e spese della procedura).
La terza ipotesi di chiusura interviene quando tutto l’attivo fallimentare (patrimonio del fallito e le altre attività fallimentari apprese dagli organi della procedura) sia
stato esaurito, per cui non vi sono più attività attuali nel patrimonio del fallito.
Tale ipotesi è sostanzialmente diversa dalla precedente: mentre lì infatti ci si riferiva al caso di soddisfazione totale dei crediti, qui al contrario ci si riferisce al caso di riparto pro quota dell’attivo tra i creditori senza che questi ultimi debbano necessariamente essere integralmente soddisfatti.
L’ultimo caso in cui si verifica la chiusura del fallimento è quello della mancanza di
attivo. Esso ricorre quando si rivela inutile per i creditori portare avanti la procedura,
in quanto le spese da sole superano l’attivo esistente nel patrimonio del fallito.
Allorché si verifica una delle ipotesi previste, la procedura fallimentare, qualunque
sia la fase in cui essa si trova, si arresta e si modifica nel senso che deve tendere all’emanazione, da parte del tribunale, del provvedimento di chiusura, che formalmente assume la veste del decreto.
La chiusura avviene di regola ad iniziativa del curatore, ma in caso di inerzia di
quest’ultimo, può attivarsi anche il fallito o il tribunale, d’ufficio o a seguito di sollecitazione del giudice delegato o degli stessi creditori.
La domanda di chiusura ha la forma di una semplice richiesta al tribunale, in cui
deve essere specificato il motivo per il quale si vuole chiudere il fallimento.
Ad essa devono essere allegati i documenti relativi alla procedura.
Come ha precisato il decreto correttivo, il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo senza che questo sia stato proposto, oppure quando il reclamo è stato rigettato in modo definitivo (vale a dire non è più ricorribile in
Cassazione o quest’ultima ha confermato il rigetto).
B^>Con la chiusura del fallimento cessano gli organi della procedura nonché gli
effetti della stessa sul patrimonio del fallito e sulle sue incapacità personali: quest’ultimo,
pertanto, riacquista la disponibilità e l’amministrazione dei propri beni e la legittimazione processuale attiva e passiva.
Tuttavia, fanno eccezione alcune attività che devono continuare ad essere svolte dagli organi della procedura anche dopo la chiusura del fallimento.
Ad esempio, il curatore: consegna all’ex fallito i beni residui e le scritture contabili
in suo possesso, ed esegue le formalità relative a tale passaggio; riscuote gli eventuali
crediti della massa residui; adempie a determinate formalità fiscali.
Prima dell’abrogazione del registro dei falliti (avvenuta con la riforma ed immediatamente operativa dal 16 gennaio 2006) non cessavano con la chiusura le incapacità personali che colpivano il fallito, le quali potevano essere rimosse solo con la riabilitazione.
Tema n. 26: Chiusura e riapertura del fallimento
453
Con il decreto di chiusura sono impartite le disposizioni esecutive volte ad attuare
gli effetti della decisione (annotazione del decreto nei registri immobiliari, richiesta di
variazione della partita IVA etc.).
I creditori riacquistano tutti i loro diritti nei confronti del debitore e possono liberamente esercitare azioni individuali per ottenere l’eventuale parte dei propri crediti
non soddisfatti per intero (compresi gli interessi), salvi gli effetti della eventuale esdebitazione richiesta dal fallito.
Matura nuovamente la decorrenza degli interessi e la prescrizione, interrotta dalla domanda di ammissione al passivo, riprende a decorrere dal giorno in cui cessano gli effetti del fallimento. La riforma ha precisato che il decreto o la sentenza con cui il credito è
stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per l’ammissibilità del ricorso per decreto ingiuntivo (ai sensi dell’art. 634 c.p.c.), che il creditore potrà esperire nei confronti del fallito in bonis per la parte di credito non soddisfatta (art. 120, 3° comma, L.F.).
Il debitore riacquisterà l’amministrazione e la disponibilità dei soli beni residuati
alle vicende della liquidazione, nonché di tutta la documentazione relativa ai diritti su
di essi. Le azioni esperite dal curatore per l’esercizio dei diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite. Di conseguenza, le eventuali revocatorie fallimentari
in corso potranno essere proseguite dal singolo creditore soltanto se a favore di questo
ricorrano le condizioni della revocatoria ordinaria. Possono invece essere proseguite
dall’ex fallito tutte le azioni relative a diritti sui crediti che aveva iniziato il curatore e
che avrebbero potuto essere esercitate dal fallito anche prima della dichiarazione di fallimento, in quanto indipendenti dalla procedura fallimentare. Il fallito deve però accertare gli atti ritualmente compiuti dal curatore, per cui deve accettare il processo nello
stato in cui si trova al momento della chiusura del fallimento.
Sopravvivono alla chiusura del fallimento le eventuali opposizioni a provvedimenti
di esclusione del credito dal passivo: il relativo giudizio, però, dovrà interrompersi per
consentire al creditore escluso di riassumerlo nei confronti del debitore (ANDRIOLI)
e proseguirà poi secondo le norme ordinarie, non potendo più trovare applicazione
quelle che suppongono la procedura fallimentare (FERRARA).
Non sopravvivono, invece, alla chiusura le eventuali impugnazioni di crediti ammessi, in quanto queste presuppongono il concorso dei creditori.
Nessun ostacolo incontra la prosecuzione del giudizio di opposizione alla sentenza
dichiarativa del fallimento, in cui persiste la legittimazione processuale del curatore.
C^>La riforma del 2006 ha introdotto ex novo nella legge fallimentare l’istituto
dell’esdebitazione del fallito, dedicandogli un apposito Capo (il nono) e prevedendone le condizioni e la procedura in tre articoli (dal 142 al 144).
L’esdebitazione consiste nella liberazione del fallito, una volta chiusa la procedura
senza l’integrale pagamento di tutti i creditori, dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti per intero, a condizione che egli sia considerato «meritevole».
Il decreto correttivo (D.Lgs. 169/2007) è intervenuto solo marginalmente sulla disciplina in esame. L’innovazione di maggior valore riguarda l’applicazione dell’istituto
dell’esdebitazione: essa è, infatti, stata estesa non solo alle procedure di fallimento iniziate dopo il 16 luglio 2006, bensì anche a quelle pendenti a tale data, ponendo fine
al contrasto dottrinale, sorto in seguito all’entrata in vigore della riforma del 2006, in
cui aveva prevalso l’orientamento secondo cui non avrebbero potuto beneficiare dell’esdebitazione i falliti delle procedure pendenti a tale data. In tal modo, il beneficio dell’esde-
454
Tomo Secondo: Materie giuridiche bitazione potrà essere accordato a tutti i falliti, indipendentemente dalla data di apertura della procedura fallimentare.
Per le procedure di fallimento pendenti al 16 luglio 2006 e già chiuse al 1° gennaio 2008
(data di entrata in vigore del decreto correttivo), è stato infine previsto il termine di un
anno (decorrente dal 1° gennaio 2008) entro il quale può essere presentata la domanda
di esdebitazione.
Può beneficiare dell’esdebitazione solo il fallito persona fisica, essendo pertanto escluse dall’istituto le società dichiarate fallite (art. 142 L.F.).
D^>Presupposto oggettivo negativo di ammissione all’istituto è che non siano stati
soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali. Non sarà cioè possibile richiedere
l’esdebitazione quando il fallimento si è chiuso per insufficienza di attivo che non abbia
consentito di pagare nemmeno parzialmente i creditori concorsuali. È invece possibile
qualora vi siano stati riparti parziali e finali che abbiano portato al pagamento in percentuale, seppur esigua, dei creditori. Non è prevista una percentuale minima di pagamento.
Il fallito può richiedere l’esdebitazione solamente qualora sia in possesso dei seguenti requisiti soggettivi positivi:
1) abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la
documentazione utile all’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo
svolgimento delle operazioni;
2) non abbia ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura;
3) non abbia violato le disposizioni di cui all’art. 48 L.F., riguardante l’obbligo di consegna al curatore della corrispondenza inerente i rapporti compresi nel fallimento;
4) non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei 10 anni precedenti la richiesta;
5) non si sia reso autore di una delle seguenti attività fraudolente:
— distrazione dell’attivo;
— esposizione di passività insussistenti;
— causazione o aggravamento del dissesto, che abbia reso gravemente difficoltosa la
ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari;
— ricorso abusivo al credito;
6) non sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per il reato di bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, salvo che
per tali reati sia intervenuta la riabilitazione.
Possono formare oggetto di esdebitazione sia i debiti residui relativi ai creditori ammessi allo stato passivo ma non soddisfatti integralmente sia quelli relativi ai creditori concorsuali non concorrenti.
L’esdebitazione produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori all’apertura del fallimento che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo. In
tal caso l’esdebitazione opera per la sola eccedenza rispetto alla percentuale attribuita
nel concorso ai creditori di pari grado.
Il beneficio dell’esdebitazione può essere concesso dal tribunale, su ricorso presentato dal debitore, in due momenti:
— nel decreto con cui è dichiarata la chiusura del fallimento;
— oppure successivamente, purché entro un anno dalla chiusura.
Tema n. 26: Chiusura e riapertura del fallimento
455
Il tribunale decide con decreto, dopo aver verificato l’esistenza delle condizioni richieste dall’art. 142 L.F., e tenuto conto dei comportamenti collaborativi del fallito. Devono essere previamente assunti i pareri (obbligatori ma non vincolanti) del curatore e
del comitato dei creditori.
Con il decreto di esdebitazione, il tribunale dichiara inesigibili nei confronti del fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente.
Contro il decreto di accoglimento o di rigetto del ricorso, possono proporre reclamo
alla Corte d’appello, entro 10 giorni, il debitore, i creditori non integralmente soddisfatti, il P.M e qualunque interessato, secondo le regole previste dall’art. 26 L.F.
E^>Il decreto del tribunale che accoglie la richiesta di esdebitazione produce i seguenti effetti nei confronti dei creditori:
a) i creditori che hanno partecipato al fallimento (concorsuali), in quanto avevano presentato domanda di insinuazione al passivo dello stesso ed hanno partecipato alle
ripartizioni, perdono ogni diritto di agire individualmente nei confronti del fallito
per la parte di credito rimasta insoddisfatta. Essi, pertanto, non avranno più alcuna azione esperibile nei suoi confronti. Tuttavia, essi conservano il diritto di agire
per la parte residua dei loro crediti nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso del fallito (art. 142, ult. comma, L.F.);
b) i creditori del fallito che, pur vantando un credito anteriore alla procedura di fallimento, non hanno partecipato allo stesso, non avendo presentato domanda di insinuazione, potranno agire individualmente nei confronti del fallito per la sola parte
che sarebbe loro spettata qualora avessero partecipato al fallimento.
Anche qualora il fallito sia stato ammesso all’esdebitazione, alcuni debiti da lui contratti prima dell’apertura del fallimento, ma non inerenti al rischio di impresa, sono
esclusi integralmente dal beneficio, per cui nei confronti di tali creditori il fallito rimane obbligato per l’intero. Essi sono (art. 142, 3° comma, L.F.):
a) gli obblighi di mantenimento e alimentari ed, in generale, le obbligazioni derivanti
da rapporti «estranei all’esercizio dell’impresa»: il decreto correttivo ha con questa espressione sostitui­to la precedente, la quale faceva riferimento ai rapporti «non
compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46 L.F.»;
b) i debiti per il risarcimento dei danni derivanti da fatto illecito extracontrattuale;
c) le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.
F^>Quando la procedura fallimentare è stata chiusa per ripartizione finale dell’attivo
(che non abbia portato alla integrale soddisfazione dei creditori ammessi), o per mancanza di attivo, la legge consente che il fallimento stesso si «riapra» (art. 121 L.F.),
allorché:
— non siano ancora trascorsi cinque anni dal decreto di chiusura;
— nel patrimonio del fallito esistano attività tali da rendere utile il provvedimento, oppure il fallito offra garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e
nuovi;
— vi sia espressa domanda del debitore stesso o di uno dei creditori.
L’istituto della riapertura è applicabile anche alle società: non opera, infatti, il principio dell’estinzione dell’ente determinata dalla chiusura, poiché — come già si è detto —
tale principio opera solo quando siano stati definiti tutti i rapporti attivi patrimoniali.
456
Tomo Secondo: Materie giuridiche Quando ricorrono le tre condizioni suindicate, il tribunale ordina, con sentenza, la
riapertura del fallimento, richiamando il curatore e il giudice delegato, o nominandone di nuovi.
Dal fatto che presupposto della riapertura è la richiesta del debitore stesso, o dei creditori (vecchi o nuovi), deriva che il nuovo fallimento non può essere dichiarato d’ufficio dal tribunale.
La sentenza di riapertura, in particolare, va deliberata in camera di consiglio e, a
norma dell’art. 121 L.F., come novellato dal decreto di riforma, può essere reclamata ai
sensi dell’art. 18 L.F. (che riguarda l’impugnazione avanti alla Corte d’appello della sentenza di fallimento). La proposizione del reclamo non sospende gli effetti della sentenza impugnata.
Con la riapertura comincia daccapo la procedura fallimentare: i termini, però, possono essere ridotti non oltre la metà. Parte della dottrina ritiene che si ha una continuazione del precedente concorso, con la sola differenza che ad esso partecipano anche i creditori nuovi, cioè quelli le cui ragioni di credito siano sorte dopo la chiusura
del fallimento.
I nuovi creditori, cioè coloro che si trovino a vantare uno o più crediti dopo la chiusura della precedente procedura, sono perciò soggetti alle regole ordinarie del fallimento con l’unica eccezione dei termini ridotti.
I vecchi creditori (cioè quelli concorrenti prima della chiusura), invece, non sono tenuti a presentare nuova domanda di insinuazione al passivo, in quanto per essi sono
immodificabili i provvedimenti di ammissione già pronunciati (così Cass., 22 novembre
1974, n. 3769) con le cause di prelazione riconosciute: vanno detratte, invece, le somme già percepite in sede di riparto (art. 122 L.F.). Essi, quindi, come precisato dalla riforma, dovranno semplicemente chiedere la conferma del provvedimento di ammissione.
Tali creditori, comunque (anche qualora siano stati interamente soddisfatti), devono presentare apposita domanda di ammissione per crediti che non abbiano fatto valere o per il pagamento degli interessi il cui corso sia rimasto sospeso in pendenza della procedura fallimentare e per quelli maturati dopo la sua cessazione (art. 121, 2° comma, L.F.).
A norma dell’art. 122, 2° comma, L.F., sono altresì immodificabili i provvedimenti
di esclusione dal passivo pronunciati prima della chiusura del fallimento.
A norma dell’art. 123, 2° comma, L.F., poi, sono privi di effetto, nei confronti dei creditori, gli atti a titolo gratuito e gli atti compiuti tra coniugi (onerosi o gratuiti) posteriori alla chiusura e anteriori alla riapertura del fallimento: tale previsione è più severa rispetto a quella dell’art. 64 L.F., sia per la più ampia estensione temporale sia perché
non recepisce le eccezioni ivi consentite.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 19, Tomo II - L’azione revocatoria fallimentare e ordinaria
• Tema 23, Tomo II - Concordato fallimentare e aspetti tributari
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
Tema n. 27
Delinei, il candidato, la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza alla luce della disciplina introdotta dalla L.
270/1999 e alla luce della normativa speciale di cui alla L. 39/2004 e alla L.
166/2008
Riferimenti normativi
L. 3 aprile 1979, n. 95
D.Lgs. 30 luglio 1998, n. 274
D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270
L. 18 febbraio 2004, n. 39
L. 5 luglio 2004, n. 166
L. 28 gennaio 2005, n. 6
L. 24 dicembre 2007, n. 244
D.L. 28 agosto 2008, n. 134, conv. in L. 166/2008
Schema di svolgimento
A.Nozione di amministrazione straordinaria.
B.Requisiti per l’accesso alla procedura.
C.Soggetti, organi e procedimento.
D.L’amministrazione straordinaria accelerata introdotta dalla L. 39/2004 e
la ristrutturazione aziendale di grandi imprese in crisi.
E.Disciplina applicabile alle imprese operanti nel settore dei servizi pubblici
essenziali.
A^>L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza
è una procedura concorsuale finalizzata a conciliare l’esigenza di tutelare i diritti dei
creditori attraverso il soddisfacimento integrale delle loro pretese, con la necessità di
recuperare complessi produttivi di particolare consistenza e mantenere quanto più
possibile stabili i livelli occupazionali.
Le imprese assoggettabili a tale procedura, infatti, per le loro dimensioni rilevanti, partecipano all’economia nazionale e concorrono al mantenimento di determinati livelli occupazionali. Di conseguenza, in presenza di prospettive di recupero economico e finanziario, esse non sono soggette al fallimento, ma sono sottoposte a questo tipo di procedura, finalizzata al loro salvataggio. L’obiettivo della continuazione è perseguito secondo le modalità e i limiti temporali stabiliti dalla legge, decorsi i quali, in mancanza di una effettiva e concreta possibilità di recupero e
di soddisfacimento delle proprie obbligazioni, la procedura è convertita in fallimento. Il fallimento è dichiarato anche quando l’obiettivo di risanamento risulta fin
dall’inizio irraggiungibile o quando ciò sia accertato nel corso dell’esecuzione del
programma.
458
Tomo Secondo: Materie giuridiche Introdotta nel nostro ordinamento con il D.L. 26/1979, convertito in L. 95/1979, la
disciplina dell’amministrazione straordinaria è stata interamente riscritta dal D.Lgs.
270/1999.
In effetti, la precedente normativa, più nota come legge Prodi dal nome del suo promotore, ha avuto risultati al di sotto delle attese, solo se si pensi che all’inizio del 1998
nessuna procedura avviata era stata interamente conclusa, se non quelle relative a singole società controllate da gruppi in crisi. In più si consideri che l’Italia aveva necessità di sottrarsi ad un procedimento d’infrazione della normativa comunitaria avviato
dalla Commissione CE per pretesi effetti distorsivi della concorrenza che la L. 95/1979
avrebbe a vario titolo consentito, permettendo l’artificiosa permanenza sul mercato di
imprese in crisi altrimenti destinate alla chiusura.
Il difetto principale della legge del 1979 era da rinvenirsi nella mancanza di un serio criterio di accertamento preventivo sulle concrete possibilità di risanamento aziendale: spesso, dunque, negli anni addietro si era ricorsi a tale procedura solo per differire l’ormai inevitabile dichiarazione di fallimento trasferendo sui creditori anteriori
dell’azienda in crisi il rischio, altamente probabile, di un aggravamento della situazione e sottoponendoli alla concorrenza dei sopravvenuti debiti di massa.
B^>L’istituto si applica nei confronti delle imprese, anche individuali, soggette alle
disposizioni sul fallimento (art. 2, D.Lgs. 270/1999).
Per accedere ai benefici della procedura, l’impresa deve soddisfare i requisiti imposti dalla legge. In particolare è necessario che le imprese abbiano un numero di dipendenti pari o superiore a 200 unità (in luogo delle 300 richieste dalla previgente normativa); che abbiano un’esposizione debitoria pari almeno ai due terzi dell’attivo patrimoniale e dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell’ultimo esercizio; che per esse
sia accertata, da parte del commissario giudiziale, sentito il Ministro dello sviluppo economico, la sussistenza di concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico.
La L. 244/2007 ha aggiunto il comma 1bis all’art. 2 del D.Lgs. 270/1999, in cui è stabilito che le imprese confiscate ai sensi della L. 575/1965 (legge antimafia), possono essere ammesse all’amministrazione straordinaria, alle condizioni e nelle forme previste
dal presente decreto, anche in mancanza dei suddetti requisiti.
Sempre nella vigenza della precedente disciplina era stata ampiamente discussa l’assoggettabilità alla procedura di amministrazione straordinaria delle società di persone, delle cooperative e degli imprenditori individuali. L’art. 2 del D.Lgs. 270/1999 risolve tale controversia estendendo espressamente il beneficio di tale procedura agli imprenditori individuali e a tutte le imprese societarie soggette alla dichiarazione di fallimento.
L’impresa, inoltre, pur versando in uno stato di insolvenza intesa come incapacità di
far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni, deve comunque presentare condizioni tali che rendano presumibile un recupero della capacità di adempimento in futuro.
C^>La procedura si articola in due fasi. Nella prima fase si accerta lo stato di insolvenza e si effettua un’indagine esplorativa delle condizioni dell’impresa e delle sue
potenzialità di risanamento per poi elaborare un programma di salvataggio.
Se si accertano delle effettive possibilità di risanamento, si apre la seconda fase, che
consiste nell’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, nel corso della quale viene attuato il programma predisposto dai commissari e approvato dal tribunale e dall’autorità amministrativa.
Tema n. 27: Amministrazione straordinaria delle grandi imprese
459
Il Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sede principale dispone l’apertura della
procedura, su ricorso dell’imprenditore, di uno o più creditori, del pubblico ministero
ovvero d’ufficio; con sentenza, dichiara lo stato di insolvenza (e non più un generico
stato di crisi); nomina uno o, nei casi di particolare complessità, tre commissari giudiziali, su indicazione del Ministero dello sviluppo economico o, in caso di inerzia, di propria iniziativa; nomina il giudice delegato; ordina all’imprenditore di depositare entro
due giorni in cancelleria le scritture contabili e i bilanci; assegna ai creditori e ai terzi
che vantano diritti reali mobiliari su beni in possesso dell’imprenditore un termine non
inferiore a 90 giorni e non superiore a 120 giorni dalla data dell’affissione della sentenza per la presentazione in cancelleria delle domande di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione delle cose mobili; stabilisce la data per l’udienza di verifica dello stato passivo. Il Tribunale che ha dichiarato lo stato di insolvenza è
competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore,
fatta eccezione per le azioni reali immobiliari, per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza.
Il commissario giudiziale, che per quanto attiene alle sue funzioni è considerato
pubblico ufficiale, predispone, nel termine di 30 giorni, la relazione sulle cause del dissesto e sull’esistenza delle condizioni per il recupero aziendale e la presenta al Tribunale.
I creditori, l’imprenditore insolvente e ogni altro interessato hanno la facoltà di prendere visione della relazione del commissario giudiziale e di estrarne copia. Essi possono depositare in cancelleria osservazioni scritte nel termine di 10 giorni dall’affissione
dell’avviso di deposito.
Nei successivi 30 giorni, il tribunale, alla luce della relazione del commissario, delle osservazioni del Ministro e degli altri interessati, nonché degli ulteriori accertamenti eventualmente eseguiti, dispone l’apertura della procedura quando ritiene perseguibile il risanamento; in caso contrario, dichiara il fallimento dell’impresa.
Il decreto è comunicato a cura del cancelliere al debitore e ai creditori istanti a norma dell’art. 136 c.p.c.; un estratto deve essere pubblicato secondo le modalità già previste dalla legge fallimentare (art. 17 L.F.). Di essi è data altresì comunicazione alla regione e al comune in cui l’impresa ha la sede principale.
A tal proposito è particolarmente interessante la disposizione dell’art. 94, D.Lgs.
270/1999, che stabilisce che in tutte le ipotesi di affissione di atti e provvedimenti, estratti o avvisi, questa è effettuata mediante il loro inserimento in una rete informatica accessibile al pubblico, secondo le modalità da stabilire con regolamento del Ministero
dello sviluppo economico. Fino alla data di entrata in vigore di tale regolamento la pubblicità è eseguita mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
La procedura di amministrazione straordinaria può attuarsi attraverso meccanismi
alternativi: un programma di cessione dei complessi aziendali con finalità liquidatorie, della durata massima di un anno; un programma di ristrutturazione aziendale, con finalità conservative e rinnovative, della durata massima di due anni; un programma di cessione dei complessi di beni e contratti, della durata massima di un
anno, per le società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali. Questa ultima
opzione è stata introdotta dal D.L. 134/2008 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grande imprese in crisi), convertito in L. 166/2008.
Durante tale periodo, di uno o due anni come abbiamo detto, la continuazione delle attività si svolge sotto la vigilanza di uno o tre commissari straordinari nominati dal
Ministero dello sviluppo economico, che hanno la gestione dell’impresa e l’amministrazione dei beni dell’impresa insolvente e predispongono il programma di attuazione del-
460
Tomo Secondo: Materie giuridiche la procedura, e di un comitato di sorveglianza, sempre di nomina ministeriale, con funzioni consultive.
Anche sul piano della gestione amministrativa si assiste ad una drastica semplificazione: in particolare, il controllo preventivo sugli atti dei commissari riguarda ora gli atti
di maggiore rilevanza (alienazione ed affitto di aziende o di loro rami, di qualsiasi importo) e quelli di valore superiore a 206.582,76 euro laddove, vigente la legge Prodi, tale
controllo riguardava tutti gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione di valore superiore a soli tre milioni di lire. È evidente, dunque, il tentativo da parte del legislatore di
favorire una conduzione manageriale della procedura, improntata a criteri di rapidità
ed efficacia dell’azione dei commissari senza eccessive burocratizzazioni.
In caso di esito negativo della procedura, al termine del periodo prestabilito, ovvero in qualsiasi momento nel corso di essa, qualora risulta che la stessa non possa essere utilmente proseguita, il Tribunale dispone con decreto la conversione dell’amministrazione in fallimento, su richiesta del commissario straordinario o d’ufficio. Il decreto di conversione è comunicato e affisso dalla cancelleria con le stesse modalità previste per l’ammissione all’amministrazione straordinaria. In caso invece di esito positivo, il Tribunale con decreto motivato dichiara la chiusura della procedura.
D^>La procedura di amministrazione straordinaria contemplata dal D.Lgs. 270/1999,
quale risulta dalla esposizione che di essa si è fatta, è stata tuttavia ritenuta dal legislatore inadeguata a gestire lo stato di insolvenza di società o gruppi che rivestano una
particolare rilevanza sotto il profilo economico e sociale, e ciò sia per la complessità
delle fasi ivi contemplate, sia per la caratterizzazione prevalentemente «liquidatoria»
della suddetta procedura.
L’occasione determinata dalla recente crisi di un colosso imprenditoriale come la
«Parmalat» ha creato il presupposto, per il legislatore, per un intervento di emergenza,
attraverso la previsione di una procedura di amministrazione straordinaria accelerata che, nella sostanza, rimane comunque la stessa procedura già contemplata dal
D.Lgs. 270/1999, dalla quale si discosta solo per taluni aspetti, attinenti essenzialmente ai requisiti di ammissione, ad una maggiore rapidità e flessibilità, ad un rafforzamento dei poteri dell’autorità amministrativa e delle competenze del commissario straordinario.
Pertanto, con L. 39/2004 è stata introdotta una normativa speciale diretta a disciplinare le conseguenze dello stato di insolvenza di grandi imprese, in ipotesi di situazioni di crisi particolarmente rilevanti, garantendo, attraverso la conservazione dell’avviamento e della posizione di mercato dell’impresa insolvente, l’immediato avvio della procedura di amministrazione straordinaria e lo svolgimento accelerato della stessa, in
funzione dell’interesse dei creditori e della successiva ristrutturazione aziendale.
Tale provvedimento è stato di recente modificato dal cd. Decreto Alitalia (D.L.
134/2008, conv. in L. 166/2008).
I requisiti prescritti dalla L. 39/2004 (come da ultimo modificata per effetto della L.
166/2008), in deroga alla normativa del 1999, consentono la partecipazione alle forme
accelerate dell’amministrazione straordinaria a quelle sole imprese che abbiano, congiuntamente: lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, in numero non inferiore a cinquecento da almeno un anno; debiti,
inclusi quelli derivanti da garanzie rilasciate, per un ammontare complessivo non inferiore a trecento milioni di euro.
Tema n. 27: Amministrazione straordinaria delle grandi imprese
461
Per poter fruire della procedura speciale, l’impresa deve dimostrare le concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività entro i seguenti limiti temporali, proponendo alternativamente:
— un programma di cessione dei complessi aziendali, di durata non superiore ad un
anno;
— un programma di ristrutturazione economica o finanziaria, di durata non superiore
a due anni.
Inoltre, mentre fino al 28 agosto 2008, il ricorso ad un programma di cessione dei
complessi aziendali poteva avvenire esclusivamente dopo aver tentato il risanamento
dell’impresa tramite un piano di ristrutturazione, con le modifiche introdotte dal decreto Alitalia (D.L. 134/2008, conv. in L. 166/2008), la possibilità di procedere con un
programma di dismissione del complesso aziendale è concesso fin dalle prime fasi della procedura.
Ricorrendo i descritti requisiti, le imprese interessate dovranno presentare apposita istanza al Ministro dello sviluppo economico il quale, valutata la sussistenza dei requisiti dimensionali e le motivazioni della richiesta, provvede, con proprio decreto,
all’ammissione immediata dell’impresa alla procedura di amministrazione straordinaria ed alla nomina del commissario straordinario.
Contestualmente alla istanza di ammissione alla procedura concorsuale, l’impresa dovrà presentare un vero e proprio ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza al Tribunale del luogo in cui essa ha la sede principale. Qualora il Tribunale accerti la
insussistenza dello stato di insolvenza ovvero di uno dei requisiti dimensionali prescritti, è disposta la cessazione degli effetti del decreto di ammissione immediata all’ammissione straordinaria. Viceversa, qualora sia accertato lo stato di insolvenza, questo dovrà essere deliberato, sentito il commissario straordinario, con sentenza da pubblicarsi entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto di cui all’art. 2, comma 2, della L. n. 39/2004.
Infine, entro centottanta giorni dalla nomina, il commissario deve presentare al Ministro dello sviluppo economico il programma di ristrutturazione finanziaria ed economica dell’impresa; se questo non dovesse essere autorizzato dall’autorità amministrativa e non fosse possibile adottare un programma di cessione dei complessi aziendali, il Tribunale, su richiesta del commissario straordinario, dovrà disporre la conversione della procedura di amministrazione straordinaria in fallimento, con ciò confermandosi il principio di fondo in base al quale solo le imprese che risultino idonee ad una
effettiva ripresa economica e finanziaria riescono ad evitare la procedura fallimentare.
E^>L’occasione determinata dalla crisi di Alitalia ha prodotto l’emanazione del D.L.
134/2008, recante disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in
crisi, convertito in L. 166/2008. Tale provvedimento, modificando il decreto Marzano
(D.L. 347/2003), ha permesso l’estensione dei benefici previsti dalla procedura in oggetto anche a quelle imprese che intendono adottare un programma di cessione dei
complessi aziendali, anziché un piano di ristrutturazione. In sostanza, il legislatore
nel sottolineare l’importanza della finalità di recupero dell’equilibrio economico sottesa alla procedura, ha lasciato libera la scelta della specifica modalità (programma di
cessione dei beni aziendali o piano di ristrutturazione) attraverso la quale raggiungere
tale obiettivo.
Infatti, mentre precedentemente il ricorso ad un programma di cessione dei complessi aziendali poteva avvenire esclusivamente dopo aver tentato il risanamento dell’im-
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Tomo Secondo: Materie giuridiche presa tramite un piano di ristrutturazione, con le modifiche introdotte dal decreto Alitalia la possibilità di procedere con un programma di dismissione del complesso aziendale è concessa fino dalle prime fasi della procedura.
Inoltre, per le imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali (è il
caso dell’Alitalia) è stato previsto un ampliamento della legittimazione a disporre l’apertura della procedura.
La procedura speciale, infatti, può essere disposta in via alternativa sia dal Presidente del Consiglio dei Ministri sia dal Ministro dello Sviluppo Economico; con il decreto
di apertura della procedura i medesimi soggetti procedono alla nomina del commissario straordinario, alla determinazione del suo compenso nonché, in via facoltativa, alla
prescrizione degli atti necessari al conseguimento delle finalità della procedura.
I poteri attribuiti al commissario straordinario nella gestione della procedura sono
più ampi rispetto all’ipotesi di imprese che non operano nel settore dei servizi pubblici essenziali: egli infatti può procedere, tramite trattativa privata, all’alienazione di beni
aziendali nonché dell’azienda stessa a soggetti che siano in grado di garantire la continuità del servizio nel medio periodo, la rapidità dell’intervento nonché il rispetto dei
requisiti previsti dalla normativa nazionale e comunitaria.
Il prezzo di cessione pattuito dal commissario con l’acquirente non può essere inferiore al valore di mercato stabilito tramite perizia redatta da un esperto indipendente
individuato con decreto del Ministro dello Sviluppo economico; inoltre, è previsto che
nessuna responsabilità gravi sull’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute sorti prima del trasferimento.
In tema di normativa antitrust, le operazioni di concentrazione connesse, contestuali e comunque previste dal piano di risanamento, essendo finalizzate a tutelare preminenti interessi generali, non sono sottoposte alle autorizzazioni previste dalle norme
per la tutela della concorrenza e del mercato. Le parti sono comunque tenute a notificare preventivamente le suddette operazioni all’Autorità garante della concorrenza e
del mercato, unitamente alla proposta di misure comportamentali idonee a prevenire
il rischio di imposizione di prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustamente gravose per i consumatori in conseguenza dell’operazione.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
• Tema 28, Tomo II - Liquidazione coatta amministrativa
Tema n. 28
Il candidato, premessa una breve esposizione dei presupposti e delle condizioni
di ammissione alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, si soffermi
sullo svolgimento della stessa
Riferimenti normativi
Artt. 2, 194-214 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare)
D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5
D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
A.Nozione di liquidazione coatta amministrativa e rapporto con il fallimento.
B.Presupposti della liquidazione coatta amministrativa.
C.Procedimento di liquidazione coatta amministrativa.
D.Lo stato di insolvenza a seguito delle modifiche intervenute col D.Lgs.
5/2006.
E.Accertamento del passivo e liquidazione dell’attivo.
F.Effetti.
G.Concordato di liquidazione coatta e concordato fallimentare.
A^>La liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale di natura
amministrativa volta alla liquidazione del patrimonio di determinate imprese considerate di particolare interesse perché pubbliche o per la loro rilevante importanza socioeconomica, il cui dissesto economico presenta notevoli ripercussioni di portata generale.
Dal fallimento si differenzia principalmente perché lo stato di insolvenza non si pone
come unico presupposto oggettivo necessario della procedura, dovendo ricorrere ulteriori presupposti di volta in volta individuati dalle leggi speciali vigenti in materia. Le
imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al fallimento, salvo che la legge diversamente disponga: in questo caso, concorrendo le due procedure, si applica il criterio della prevenzione (art. 196 L.F.): l’apertura della liquidazione coatta preclude la dichiarazione di fallimento e viceversa.
Un’ulteriore differenza tra le due procedure concorsuali risiede proprio nella natura amministrativa del procedimento di liquidazione coatta: l’imprenditore viene sostituito nell’esercizio del potere di disposizione e di amministrazione del proprio patrimonio da un ufficio pubblico amministrativo anziché giudiziario come invece avviene
nel fallimento. L’Autorità amministrativa ha competenza esclusiva nell’ordinare la liquidazione e nell’emanare i relativi provvedimenti, sia nei casi di irregolarità sia di insolvenza. In quest’ultima circostanza è però consentito ai creditori di far accertare tale
stato dall’autorità giudiziaria, con l’adozione degli opportuni provvedimenti cautelari,
464
Tomo Secondo: Materie giuridiche per determinare la messa in liquidazione amministrativa da parte dell’autorità competente.
La Cassazione (Sez. Un. 23-7-1969, n. 2781) ha evidenziato che la liquidazione coatta amministrativa è un procedimento forzoso concorsuale, del tutto analogo a quello fallimentare, che investe e liquida l’intero patrimonio dell’ente con lo scopo di soddisfare egualmente la totalità dei creditori.
B^>Presupposto soggettivo per la sottoposizione di un’impresa alla liquidazione
coatta amministrativa è l’appartenenza ad una delle categorie previste dalle leggi speciali, quali, ad esempio: le imprese di assicurazione, le banche, le società cooperative,
i consorzi agrari ed industriali, le società fiduciarie e di revisione e le società di intermediazione mobiliare.
Le ipotesi attualmente previste non costituiscono un numero chiuso, potendo il legislatore di volta in volta individuare nuove categorie di imprese assoggettate alla procedura.
I presupposti oggettivi sono previsti dalle leggi speciali vigenti in materia: oltre
allo stato di insolvenza, assumono rilievo altre circostanze come la violazione di norme o di atti amministrativi che comportano un irregolare funzionamento dell’impresa,
o motivi di pubblico interesse che a giudizio della Pubblica Amministrazione impongono la soppressione dell’ente; è sufficiente la sussistenza di una sola delle situazioni
contemplate per avviare il procedimento di liquidazione coatta amministrativa.
C^>Affinché si apra il procedimento di liquidazione coatta amministrativa, l’impresa deve trovarsi in una delle condizioni soggettive ed oggettive che la rendono assoggettabile a tale procedura. L’iter procedimentale si articola in quattro diverse fasi:
l’emanazione del provvedimento di liquidazione, l’accertamento del passivo, la liquidazione dell’attivo ed il riparto finale del ricavato.
La liquidazione coatta amministrativa è disposta dalla Pubblica Amministrazione
con decreto che deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale entro dieci giorni dalla
sua emanazione e comunicato per l’iscrizione all’Ufficio del Registro delle imprese. Con
il medesimo provvedimento o con altro successivo, la Pubblica Amministrazione provvede alla nomina del commissario liquidatore e del comitato di sorveglianza. Il commissario liquidatore è un organo individuale o collettivo investito della qualità di pubblico ufficiale che agisce sotto le direttive ed il controllo dell’autorità amministrativa di
vigilanza. Ad esso si trasferiscono la disponibilità e l’amministrazione dei beni dell’impresa e gli spetta l’attività di liquidazione. Il comitato di sorveglianza, altro soggetto
della procedura, è un organo collettivo i cui membri sono scelti tra persone esperte nel
ramo di attività esercitato dall’impresa ed assolve funzioni consultive.
A differenza degli effetti prodotti con la dichiarazione di fallimento, il provvedimento di liquidazione non determina alcuna limitazione delle capacità personali dell’imprenditore sottoposto alla procedura, come avviene invece ai sensi degli artt. 48 e 49
L.F. in relazione alla corrispondenza del fallito e all’obbligo di residenza, limitazioni
tuttavia sensibilmente ridimensionate dalla riforma delle procedure concorsuali (D.Lgs.
5/2006). Non era prevista, inoltre, anche prima della sua soppressione ad opera della
riforma, l’iscrizione dell’imprenditore nel pubblico registro dei falliti.
D^>Lo stato di insolvenza di cui agli artt. 195-202 L.F. si identifica con quello che
caratterizza la dichiarazione di fallimento, in quanto consiste nella medesima incapa-
Tema n. 28: Liquidazione coatta amministrativa
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cità dell’imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni e, quindi, di soddisfare i
creditori. A tal fine, la legge fallimentare prevede che, su ricorso di uno o più creditori
venga accertato giudizialmente lo stato di insolvenza dell’impresa dal Tribunale del
luogo ove l’impresa ha la sede principale. La riforma delle procedure concorsuali del
2006, che è intervenuta nella liquidazione coatta solo in relazione all’art. 195 L.F., ha
previsto, per le procedure iniziate dopo il 16 luglio 2006, che la domanda di accertamento possa essere presentata anche dall’autorità che ha la vigilanza sull’impresa o
dall’impresa stessa. Se tale accertamento è anteriore al provvedimento di liquidazione, la sentenza deve essere comunicata entro tre giorni all’autorità amministrativa
competente a disporre la liquidazione. L’accertamento anteriore è però escluso nei
confronti di quei soggetti sottoponibili sia alla liquidazione coatta amministrativa sia
al fallimento: in tal caso il Tribunale respinge la domanda e, se l’insolvenza sussiste,
dichiara d’ufficio il fallimento. Se, invece, l’accertamento giudiziale è successivo al
provvedimento di liquidazione e lo stato d’insolvenza sussisteva al tempo in cui è stata
ordinata la liquidazione senza che sia stato dichiarato l’accertamento ex art. 195 L.F.,
su ricorso del commissario liquidatore o del Pubblico Ministero, il Tribunale accerta
tale stato con sentenza.
L’accertamento successivo (a differenza di quello preventivo) è ammissibile nei confronti degli imprenditori dei quali poteva dichiararsi il fallimento, che invece, in concreto, sia stato prevenuto dalla liquidazione coatta.
E^>A seguito della sua nomina, il commissario liquidatore, sulla base delle scritture
contabili e dei documenti dell’impresa, provvede all’accertamento del passivo, senza
necessità di una domanda di ammissione al concorso da parte dei creditori.
A norma del 2° comma dell’art. 209 L.F., le impugnazioni, le domande tardive di crediti e le domande di rivendica e di restituzione, sono disciplinate dagli articoli 98, 99,
101 e 103, sostituiti al giudice delegato il giudice istruttore ed al curatore il commissario liquidatore.
Questa norma è stata modificata dal decreto correttivo del 2007, allo scopo di richiamare le novellate norme sull’accertamento dello stato passivo, art. 98 (impugnazioni),
art. 99 (procedimento), art. 101 (domande tardive di crediti) e art. 103 (procedimenti
relativi a domande di rivendica e restituzione).
Anche la liquidazione dell’attivo compete al commissario liquidatore: alle vendite
non si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile, quindi esse possono
avvenire anche per trattativa privata, come è stato introdotto dalla riforma delle procedure concorsuali anche per il fallimento. Ma, per procedere alla vendita dei beni immobili o di quelli mobili in blocco, è comunque necessaria l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza ed il parere favorevole del comitato di sorveglianza.
A seguito della liquidazione dell’attivo, il commissario liquidatore deve sottoporre
il bilancio finale di liquidazione ed il piano di riparto, corredati da una relazione del
comitato di sorveglianza, all’autorità di vigilanza la quale ne autorizza il deposito in
cancelleria e liquida il compenso al commissario liquidatore. Dell’avvenuto deposito
deve darsi notizia mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Effettuato il riparto finale, la procedura cessa e, se l’impresa era costituita in società, ne viene ordinata
la cancellazione dal Registro delle imprese.
F^>La liquidazione coatta amministrativa fa cessare l’attività dell’impresa coinvolta
la quale, al termine della procedura, nella maggior parte dei casi, si estingue.
466
Tomo Secondo: Materie giuridiche Per la giurisprudenza, l’avviso della procedura concorsuale non determina il sicuro
e certo dissolvimento dell’azienda in quanto il fine di soddisfare i creditori non deve necessariamente essere raggiunto con la disgregazione della stessa (Cass., 20 giugno 2008,
n. 16818).
La liquidazione coatta amministrativa determina lo spossessamento dei beni dell’impresa, che vengono acquisiti dal commissario liquidatore quale rappresentante dei creditori. Lo spossessamento è finalizzato, come nel fallimento, al soddisfacimento dei creditori concorsuali.
Salvo il caso di concordato, il decreto di liquidazione coatta amministrativa fa automaticamente cessare le funzioni dell’organo amministrativo, di quello di controllo e
dell’assemblea.
La liquidazione coatta amministrativa non si estende ai soci illimitatamente responsabili mentre, nei confronti dei creditori, sono prodotti effetti analoghi a quelli del fallimento, la cui disciplina è infatti direttamente richiamata dalla legge (art. 201 L.F.).
G^>La liquidazione coatta amministrativa può chiudersi anche con un concordato
(art. 214 L.F.).
Sul punto è intervenuto il decreto correttivo alla riforma, il quale ha uniformato,
per quanto possibile, la disciplina del concordato della liquidazione coatta alla nuova
disciplina del concordato fallimentare e rendendola più rispettosa delle garanzie della
difesa e del contraddittorio.
Mentre precedentemente a tale intervento non era prevista in alcun modo la partecipazione dei creditori, il legislatore ha stabilito ex novo la legittimazione alla presentazione della proposta anche ai creditori o ad un terzo ed ha richiamato espressamente le norme del concordato fallimentare in merito al contenuto della proposta (art. 124
L.F.), al giudizio di omologazione e agli effetti del decreto (artt. 129-130 L.F.), alla disciplina del reclamo ad esso (art. 131 L.F.) ed agli effetti del concordato su tutti i creditori anteriori all’apertura della procedura, anche non ammessi al passivo (art. 135
L.F.).
La presentazione della proposta deve essere autorizzata dall’autorità di vigilanza,
con il parere del commissario e sentito il comitato di sorveglianza. Non è prevista una
fase di approvazione del concordato da parte dei creditori, i quali possono solo presentare opposizioni ad essa.
Il tribunale, infine, previo parere dell’autorità di vigilanza, decide sulle opposizioni
ed accoglie o meno la proposta di concordato con decreto, reclamabile alla Corte d’appello.
Con l’approvazione del concordato restano in funzione gli organi della liquidazione, che ne sorvegliano l’adempimento.
Collegamenti e approfondimenti
• Tema 23, Tomo II - Concordato fallimentare e aspetti tributari
• Tema 24, Tomo II - Il fallimento e gli adempimenti fiscali del curatore
• Tema 27, Tomo II - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese