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N° 9 - SETTEMBRE 2014 - ELUL 5774 • ANNO XLVII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
ISRAELE
EUROPA
ITALIA
LA GUERRA
DEI TUNNEL
PIACE IL FONDAMENTALISMO
ISLAMICO
UN’ESTATE
DI ANTISEMITISMO
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Voglia di dominare il mondo
CALIFFATO ISLAMICO
‫בס’’ד‬
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EDITORIALE
L'Occidente deve svegliarsi:
il Califfato minaccia il mondo
Non solo Israele obiettivo dell’integralismo
islamico ma anche l’Italia è nel mirino
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
CHI FERMERÀ L’AVANZATA
DEL NUOVO CALIFFO?
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JONATAN DELLA ROCCA
ISIS, SEMBRAVA IL FOLLE
PROGETTO DI UN FANATICO
GUERRIGLIERO
NICOLA ZECCHINI
ISRAELE
GAZA, TUTTO QUELLO CHE
AVREBBE POTUTO ESSERE
drammatica situazione, ma anche
semplicemente a comprendere che
effetti essa sarà in grado di produrre.
Se l’espansione del Califfato dovesse
infatti estendersi e minacciare anche
la conquista della Giordania (che
all'80% è popolata da palestinesi e
dove l'integralismo islamico è forte), le
conseguenze sarebbero assolutamente
drammatiche: Israele non potrebbe mai
accettare una simile minaccia a pochi
chilometri dai propri confini.
Una minaccia che di fatto si è
concretizzata a fine agosto con la
conquista, da parte degli uomini
dell’Isis, del valico sul Golan di Kuneitra,
tra Israele e la Siria.
Come insegna la guerra ad Hamas, con
il fanatismo islamico - e la disumana
violenza degli uomini del Califfato ne è la
prova - è semplicemente inimmaginabile
lo stesso concetto di pace, perché essi
ragionano esclusivamente nei termini
di un estremismo religioso che impone,
costi quel che costi, l'islamizzazione
dell'umanità bollando come nemici
dell'Islam gli ebrei, i cristiani, gli infedeli
e gli apostati. Chi crede nel dialogo
con questa gente è un ingenuo. Ed è
un illuso chi pensa che tale violenza
possa essere geograficamente relegata
a quella zona lontana del Medio Oriente.
Purtroppo i jihadisti, alcuni persino
europei, sono già fra noi. Sono nelle
città europee e in quelle italiane. Sono
scesi in piazza per accusare Israele di
genocidio, hanno urlato ‘a morte gli
ebrei’ e hanno chiesto l’applicazione
integrale della shaaria.
FIAMMA NIRENSTEIN
CINQUE STELLE, QUATTRO IN
CONDOTTA, ZERO IN STORIA
UGO VOLLI
VOLEVANO LA TERZA INTIFADA,
HANNO SCELTO LA GUERRA
PIERO DI NEPI
OBAMA, OVVERO IL NULLA
IN POLITICA ESTERA
DANIELE TOSCANO
LA GUERRA DI HAMAS
CONTRO I MEDIA
ARIEL DAVID
ALL’EUROPA PIACE IL
FONDAMENTALISMO ISLAMICO
GIORGIO ISRAEL
GUERRA A GAZA: OVVERO IL
TRIONFO DELLA DISINFORMAZIONE
ANGELO PEZZANA
AGOSTO 2014: CI RICORDEREMO
DI UN SILENZIO ASSORDANTE
CLELIA PIPERNO
LE LACRIME DI SHIMON,
IL ‘PACIFISTA’
DAVID MEGHNAGI
ISRAELIANI ALL’ESTERO,
COMPORTATEVI BENE!
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
NOA: LA MIA MUSICA
PER CURARE L’ANIMA
YAARIT RAHAMIM
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
C
ome ricordava Magdi Cristiano
Allam - in un articolo su Il
Giornale dello scorso 7 luglio
- la conquista di Roma e la
sua sottomissione all'Islam non sono
una minaccia lanciata (pochi giorni
prima), così tanto per scherzare, dal
nuovo auto proclamato califfo Abu Bakr
al-Baghdadi. La conquista di Roma,
ha spiegato Allam, è una ‘certezza’,
è un dovere islamico sulla base del
«Hadith Fath al Rum» (detto attribuito
a Maometto sulla conquista di Roma)
che recita: «Al Profeta fu chiesto:
quale città verrà conquistata per prima,
Costantinopoli o Roma? Ed egli rispose:
La città di Eraclio». Eraclio (575-641) era
l'imperatore bizantino. Tutti gli ulema, i
giureconsulti islamici, concordano sia sul
fatto che si tratta di un hadith «sahih»,
un detto «autentico» di Maometto, sia
sul fatto che Roma diventerà islamica.
Con la nascita del Califfato si tenta
di sconvolgere l'assetto dell’intero
Medio Oriente che è stato fondato
sull'accordo Sykes-Picot del 1916 e
che, sulle rovine dell'Impero Ottomano,
diede successivamente vita agli Stati
nazionali dell'Arabia Saudita, dell'Iraq,
della Siria, del Libano e della Giordania.
Ed è nel 1924 con Abdul Mejid II che
finì ufficialmente il Califfato islamico
ottomano per volere di Ataturk il
fondatore della Turchia repubblicana.
La cosa drammatica è che davanti allo
scardinamento degli Stati nazionali
in Medio Oriente (l'Iraq, la Siria e la
Libia hanno di fatto cessato di essere
Stati nazionali) e alla nascita di questo
sedicente «Stato islamico», l’Europa
e l’America sono completamente
impreparati non solo a gestire questa
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COPERTINA
Il califfato islamico è già grande come l'Italia
I suoi punti di forza: territorio, popolazione "purificata", risorse finanziarie
e militari, indipendenza dai media e soprattutto
una brutale e sconvolgente violenza
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
L’
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autoproclamatosi 'Califfato islamico' in Iraq e Siria,
e che vuole conquistare Roma, occupa già un'area
grande quanto quasi tutta l'Italia. Uno 'Stato' di ultra
islamici che ha punti di forza del tutto nuovi rispetto
alla tradizione guerrigliera di Al Qaeda. Un territorio, appunto
grande come tutta l'Italia ad eccezione della Sardegna; una popolazione di quasi 18 milioni di abitanti; un 'Califfo' carismatico
autoctono, e non 'straniero' come lo è stato nel passato; una popolazione 'purificata' da una decisa operazione di pulizia etnica
su basi identitarie; ingenti risorse finanziarie; salto qualitativo
dei mezzi militari. Ecco, punto per punto, le caratteristiche del
nuovo Stato islamico.
dodici volte più grande di Israele e per giunta con una popolazione stimata in 18 milioni di persone; oltre il doppio degli israeliani
che sono circa 8 milioni.
Con la grande offensiva lanciata in Iraq all'inizio di giugno, i miliziani fondamentalisti controllano già totalmente o in parte ben
quattro province sunnite: Al Anbar, Salhuddine, Ninive e Diyala
per un totale di quasi 10 milioni di persone. L'avanzata in Iraq
ha permesso al 'Califfato' di consolidare le sue posizioni anche in
Siria, arrivando a controllare la parte orientale della provincia di
Homs (centro), buona parte delle provincia di Aleppo e Hassakè
(Nord) e la totalità dei governatorati di Raqqa e Dier al Zur nella
parte orientale della del Paese.
TERRITORIO: UNO STATO-NAZIONE
Prima di tutto i confini del nuovo stato superano la vecchia concezione postcoloniale e si identificano con una tradizione storica
che rinvia all'antico 'Califfato Islamico' degli Omayyadi. Quindi c'è
una precisa coincidenza tra l'idea di stato e quella di nazione. Lo
'Stato' ha confini ben tracciati da est di Aleppo in Siria fino alla
provincia di Diyala in Iraq a nord est di Baghdad. Un territorio
con una continuità geografica, anche se in via di consolidamento,
con 100mila chilometri quadrati in Siria e 170mila in Iraq. Insomma quasi la metà dell'intera superficie della Siria e oltre il 40 per
cento di quella irachena. La superficie complessiva del territorio
controllato dai jihadisti guidati dal 'Califfo' Abu Omar al Baghdadi tra Iraq e Siria è di circa 270mila chilometri quadrati. Un'area
LEADER CARISMATICO: UNO DEL POSTO
Per garantirsi la lealtà della popolazione, gli ultra-islamici si sono
scelti, a differenza di un recente passato un leader del posto:
Abu Omar al Baghdadi è infatti un sunnita della città irachena
Samara e gode di maggiore credibilità rispetto ad uno 'straniero'
come lo fu in passato il giordano di origini palestinesi Abu Musab
al Zarqawi ucciso in un raid Usa nel giugno del 2006.
Aspetto da non sottovalutare, quello di scegliersi un capo autoctono, vista la diffidenza riservata dalle tribù sunnite locali alle
leggi imposte da 'stranieri' come sono la maggior parte dei combattenti del Califfato. Infatti, i combattenti sono in prevalenza
algerini, sauditi, libici, marocchini e persino ceceni che non sono
arabi.
FINANZE: LA NOVITÀ DELLE RISORSE PROPRIE
A differenza di altri movimenti integralisti, gli uomini del Califfato
beneficiano di una crescente autonomia finanziaria. Sempre ingente il sostegno che arriva dall'estero attraverso donazioni private,
in particolare dall'area dei Paesi del Golfo, ma oggi le cose stanno
cambiando. I jihadisti, possono contare su risorse inimmaginabili
fino ad ora: stanno incassando ingenti somme ricavate dalle vendite del petrolio dei giacimenti di greggio presi in Siria; dalle razzie di
antichità in Iraq ed in Siria. Infine, si sono impossessati delle considerevoli somme di denaro contante trovate nelle filiali della banca
centrale irachena nelle città espugnate come a Mosul e Tikrit.
Lo scorso 2 luglio le milizie jihadiste hanno preso il controllo del più
grande giacimento di petrolio della Siria, ad al Omar, nella provincia
orientale di Dier al Zur che fino ad allora era nelle mani del Fronte al
Nosra (milizia legata ad al Qaeda), senza sparare un colpo. Secondo
il Guardian, i jiahdisti hanno venduto parte del greggio estratto da
questo giacimento addirittura al regime del presidente Bashar al
Assad.
E poi ci sono le banche. Il ritrovamento di diversi file informatici da
parte delle autorità irachene a Mosul avrebbe permesso di scoprire, nel dettaglio, ogni aspetto finanziario dell'organizzazione. Prima
della caduta di Mosul, nelle casse del Califfato c'erano circa 875 milioni di dollari, saliti subito dopo a 2 miliardi con i soldi rubati dalle
banche. Una disponibilità finanziaria tale da permettere la distribuzione degli stipendi del mese di giugno agli impiegati pubblici nella
città di Mosul, capoluogo della provincia settentrionale di Ninive
sottratta al controllo del governo lo scorso 10 giugno. Alcuni degli
impiegati hanno riferito in forma anonima all'emittente 'al Arabiya',
che 'i miliziani dello Stato islamico hanno distribuito gli stipendi al
personale del comune dopo aver controllato i loro documenti d'identità ufficiali'.
MEZZI MILITARI: DAI CARRI ABRAHMS AGLI SCUD
Non più una banda di sgarrupati guerriglieri ma un esercito vero e
proprio, ben armato e organizzato. Elicotteri e missili a lunga gittata
(uno Scud esibito in parata a Raqqa in Siria), molto materiale di fabbricazione sovietica (come i carri armati T55 non proprio all'avanguardia), da aggiungere però ad armi Usa come i mezzi di ricognizioni 'Humawee', ed i moderni carri M1 Abrahms sottratti all'esercito iracheno a Mosul e subito ricomparsi in battaglia ad Aleppo. Con
un eventuale intervento delle milizie sciite gli ultra islamisti sunniti
non potranno probabilmente arrivare a Baghdad, cioè conquistare
tutto l'Iraq, ma intanto stanno consolidando la loro presenza là dove
già ci sono.
INDIPENDENZA DAI MEDIA: ALLAH SU FACEBOOK
La nuova generazione di jihadisti sa usare benissimo i social
network e le più innovative tecnologie informatiche e mediatiche.
'Grazie ad Allah esistono Facebook e Twitter', avevano postato alcuni islamisti per celebrare la loro liberazione dai mezzi d'informazioni
ufficiali come la stessa tv satellitare qatariota al Jazeera che non
ha mai lesinato informazioni, interviste e reportage sulla galassia
jihadista ai tempi di al Qaeda quando era ancora in vita il fondatore
Osama bin Laden. La Rete viene utilizzata dai jihadisti per diffondere il loro credo ma soprattutto per intimorire i nemici, attraverso
la diffusione di filmati di incredibile crudeltà con linciaggi, sgozzamenti, lapidazioni e altre violenze efferate.
Tutto ciò, come ricorda il Guardian, ha trasformato in breve tempo
un gruppo locale in una delle organizzazioni terroristiche più ricche
e organizzate, assimilabile ad una forza militare para-convenzionale. Un grande salto, che colloca di diritto lo Stato islamico tra le fazioni più influenti, con un raggio d'azione e controllo che si estende
dal bordo orientale di Aleppo, in Siria, fino una sessantina di chilometri dalla frontiera occidentale dell'Iran. E che proietta il suo
sguardo fino a Roma.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
OPERAZIONE DI PULIZIA IDENTITARIA:
FUORI TUTTI I NON SUNNITI
Per preservare 'la purezza' del loro territorio, lo Stato islamico ha
subito messo in atto una sistematica operazione di 'pulizia' su basi
identitarie dando la caccia ai potenziali oppositori e ai non-sunniti
(sciiti, curdi e cristiani). Lo hanno fatto, soprattutto durante la loro
offensiva in Iraq replicandola anche in territorio siriano con deportazioni di massa. E così per rafforzare il 'fronte interno' dello stato i
jihadisti hanno deportato circa 150 mila abitanti dalla provincia siriana di Dier al Zur come riportato lo scorso 23 giugno l'Osservatorio
siriano per i diritti dell'uomo. Ma, sovente, sono gli stessi abitanti a
lasciare le loro case e le loro città: sono oltre un milione le persone
fuggite in un mese dalle città cadute nelle mani dei jihadisti, quali
Mosul, Tikrit e altre; la stragrande maggioranza degli sfollati sono
sciiti, cristiani e curdi. 'Agli sciiti, se non potevano essere scambiati
con dei prigionieri, tagliavano direttamente la testa', ha detto Hassan, un curdo che è stato tenuto ostaggio per 16 giorni prima che
la famiglia pagasse un riscatto di 51.500 dollari. Bashar al Khiki, un
funzionario provinciale scappato da Mosul, ha raccontato che i jihadisti 'hanno raccolto informazioni sulle persone e hanno compilato
un database per individuare quanti lavorano per il governo o per le
forze di sicurezza', per poi aggiungere: 'Se questi non si pentono e
non giurano fedeltà al califfato vengono uccisi'.
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COPERTINA
Chi fermerà l’avanzata
del nuovo Califfo?
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Davanti alla violenza islamica diffusa, manca un gendarme
del mondo. Gli Usa tentennano, l’Onu non esiste e l’Europa
è bloccata da vecchi e obsoleti schemi politici e culturali
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I
l conflitto dello Stato d'Israele con l'organizzazione terroristica di Hamas e
la guerra interna in Iraq hanno presentato un quadro geopolitico totalmente mutato e in continuo dinamismo.
Le contrapposizioni prima vivevano sulla
guerra fredda, sul bipolarismo Usa-Urss
che con la loro influenza hanno determinato i destini dei Paesi mediorientali per
molti decenni. E in quelle circostanze il
blocco arabo compatto, sostenuto da Mo-
sca, si mostrava al mondo come una cortina di ferro invalicabile.
Dopo un periodo di transizione oggi assistiamo a quelle che - parafrasando il sociologo Zygmunt Baumann - sono le alleanze e le contrapposizioni "liquide".
Cioè, che non hanno una solidità duratura
nel tempo come era una volta, ma persistono sino a quando le circostanze che si
sono venute a creare, vedi le cosiddette
Primavere arabe e l'avanzata del movi-
mento Isil, motivano scelte tattiche delle
politiche estere di molti Stati coinvolti. In
questo senso si possono spiegare la vicinanza dell'Egitto, dell'Arabia Saudita e
degli Emirati Arabi alle ragioni di Israele,
e la politica estera della Casa Bianca che
sebbene decida di finanziare il progetto
dell'Iron Dome che ha evitato migliaia di
vittime in Israele, tiene stretta l’alleanza
con la Turchia sempre più autoritaria di
Erdogan e fa l'occhiolino all’Iran di Rouhani per combattere l’esercito di Abu Bakr
Al Baghdadi che punta all’instaurazione
del Califfato islamico.
Davanti a tutto ciò, è assordante il silenzio di un’Europa passiva, sempre più impaurita da un Islam che in Francia diviene
sempre più fondamentalista.
Così, emerge l'assenza di una vera leadership mondiale che sia garante del diritto internazionale, sia dal punto di vista
politico e sia come arbitro della sicurezza
mondiale. D’altronde l’Onu è quel che è,
e gli Stati Uniti si sono smarcati dal ruolo
di gendarme internazionale. E ciò rende
ancora incerti i destini della zona, dove
Israele è l'unico Paese democratico e civile, baluardo del diritto e ponte tra Europa
e Asia, minacciata perennemente dagli
attacchi missilistici potenziali che finora,
grazie all’Iron Dome sono stati neutralizzati.
Ma è una situazione divenuta insostenibile, come ha dichiarato lo scrittore israeliano Amos Oz che ha descritto con lucidità,
in una recente intervista al settimanale
L’Espresso, la drammaticità che si vive
quotidianamente: “Lei cosa fa quando il
suo dirimpettaio si mette seduto sul terrazzo con il proprio figlio sulle ginocchia,
tira fuori la mitragliatrice e comincia a
sparare verso la cameretta dei suoi figli?...
E, che cosa fa quando il suo vicino di casa
scava un tunnel che dalla cameretta dei
propri bambini porta alla cameretta dei
suoi per ammazzare o sequestrare la sua
famiglia? Lei in quei casi chiama la polizia. Ma qui non c'è polizia. Purtroppo la
polizia internazionale non esiste”.
Non consola nemmeno la reazione di
quella che dovrebbe essere l'intellighenzia mondiale. Il mondo della cultura latita
senza profferire.
Da parte degli opinion maker occidentali
spesso c’è un’analisi e una cronaca faziosa delle guerre mediorientali, che risentono dei ricatti imposti al mondo dell’informazione pena il sequestro e il rischio di
morte come nel caso di Gaza da parte di
Hamas.
Oppure si assiste con indifferenza all'avanzata del terrore islamico che miete
migliaia di vittime cristiane e punta su
un’Europa più abituata da decenni a far
salotto che a difendere a denti stretti le
conquiste civili dopo secoli di conflitti.
JONATAN DELLA ROCCA
ISIS, sembrava il folle progetto
di un fanatico guerrigliero
S
e Iddio vorrà, conquisteremo Roma
e il mondo intero. A tanto ammontano le mire espansionistiche e i
macabri progetti che il sedicente
califfo Abu Bakr al-Baghdadi ha in serbo
per medio-oriente, Europa e in breve, per
il genere umano. Se non fosse il mandante di persecuzioni e genocidi, il leader e
fondatore dell’Isil, l’auto proclamato Stato
islamico dell’Iraq e del Levante, farebbe
venire in mente l’antagonista di turno di
un supereroe della Marvel. Ma qui di finto
c’è poco, anzi niente. Da Aleppo in Siria
fino a Falluja, alle porte di Baghdad, e a
Tikrit, al confine con il Kurdistan iracheno si estende l'avanzata dei miliziani dello
Stato islamico, che si muovono compatti, ben addestrati e equipaggiati di armi
americane sottratte nei conflitti intestini
della polveriera mediorientale e di mezzi
blindati presi al fragile esercito iracheno,
in perenne dissoluzione. Un progetto di
espansione annunciato già nel luglio 2012
dal primo messaggio audio rilasciato da
al-Baghdadi, leader dell'Isis dall'aprile del
2010 dopo la morte del predecessore Abu
Omaral Baghdadi.
Un intento che, quattro anni fa, sembrava l’ennesimo proclama dell’ultimo folle
profeta guerrigliero in ordine di apparizione. Un progetto folle quanto lucida è
la strategia nel perseguirlo. La creazione
del “Califfato” risale al 29 giugno scorso
con l’annuncio di un regno tra Siria e Iraq,
compreso tra la provincia settentrionale
di Aleppo fino a quella orientale di Diyala, vicino all’Iran, che ad oggi è arrivato
sino alla provincia irachena occidentale
di al-Anbar con la presa della città curda
di Mosul. Con Stato islamico dell'Iraq e
del Levante (Sham), i miliziani intendono
i territori del Levante che formavano la
Grande Siria prima della caduta dell'Impero ottomano e della spartizione territoriale moderna, frutto dell'accordo segreto
Sykes-Picot del 1916, con cui i governi
di Regno Unito e Francia tracciarono le
rispettive sfere di influenza nel Medio
Oriente dopo la sconfitta dell'Impero Ottomano nella Grande Guerra. L'Isil promette
agli arabi di vendicare l’onta subita dalla potenze coloniali, riunendo il territorio
che fu del primo Califfato islamico degli
Omayyadi (661-750 d.C.) prima della dominazione ottomana e mongola. Parliamo
di 1400 anni fa. Come i Talebani con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, i terroristi dell’Isil distruggono ciò che ritengono sacrilego. Ultime in ordine di tempo la
distruzione della tomba del profeta Giona,
e quella di Seth che secondo Giudaismo,
Cristianesimo e lslam fu il terzo figlio di
Adamo ed Eva, fratello di Caino e Abele.
L’organizzazione persegue popoli e etnie, colpevoli di non convertirsi all’Islam.
Come gli yazhidi in Iraq, seguaci di una
dottrina Zoroastriana su cui si innestano
elementi differenti dei culti monoteisti,
come il battesimo cristiano. Donne rapite,
uomini giustiziati, bambini sepolti vivi.
Un genocidio. Questa è la legge del Califfato. Su croci improvvisate vengono appesi cristiani, musulmani sciiti e sunniti.
Una punizione che secondo un’originale
interpretazione del Corano va comminata
a coloro che non rispettano la legge. Ma
non è l’unico orrore che i militanti del Califfato nero si vantano di compiere diffondendo video e foto per fare propaganda.
Sono quotidiane le esecuzioni pubbliche
con taglio della gola dei “traditori del Profeta”. Sgozzamenti eseguiti senza pietà
su giovani e vecchi con coltellacci e scimitarre ripresi da un operatore che inquadra i volti delle vittime e il pubblico che
riprende con i telefonini.
Come Al-Qaeda l’Isil combatte gli infedeli e considera l’Occidente il male, ma
supera l’organizzazione di Bin Laden, la
rende più solida e meno dipendente da
sovvenzioni esterne. L’isil si autopromuove e sovvenziona attraverso la conquista
del territorio, muovendo guerra, prima
di ordire attentati. Con un ingente patrimonio e una buona fetta di territorio
conquistato, Abu Bakr al-Baghdadi, ha un
livello di risorse che al-Qaeda non è mai
riuscito ad avere sotto Osama Bin Laden.
Il denaro di Osama si basava principalmente su appoggi complici ma “esterni”
all’organizzazione. "L’Isil non si nasconde
nelle grotte o nei deserti dell’Afghanistan", dice Paul Sullivan, uno specialista
del Medio Oriente presso la Georgetown
University di Washington, che aggiunge,
"l’Isil sta conquistando gradualmente un
settore vitale per il mondo, come quello
del commercio di petrolio e di gas. Può
consolidarsi economicamente nello stesso tempo in cui combatte e conquista
altri territori". Al momento “il Califfato”
ha conquistato quindici città irachene,
pozzi e raffinerie di petrolio in Siria e Iraq.
Petrolio che l’Isil vende di contrabbando
grazie a mediatori turchi e armeni a prezzi stracciati ma arricchendo le casse del
proprio «stato islamico». Padroni ormai
di un territorio vasto come il nord d’Italia,
ricco di risorse naturali, i terroristi vedono
vicina la vittoria finale e la realizzazione
del sogno di territorio unificato che comprenda tutto il Medio Oriente. Uno Stato
che si fondi sulla sharia ma che non sia
condiviso né da Al Qaeda né dai religiosi
sunniti. Lo scontro tra i vertici di al-Qaeda e le formazioni siriane che a essa si
richiamano è profondo. Infatti in Siria,
favorendo così la resistenza del regime
di Assad, l’Isil combatte anche contro il
gruppo qaedista al-Nusra, mentre un’altra costola dell’organizzazione fondata da
Bin Laden, al-Qaeda nel Magreb Islamico,
si è affiliata all’Isil chiedendo all’attuale
n.1 di al-Qaeda, al Zawahiri di chiarire la
sua posizione e quella della miriade di affiliati nei confronti degli uomini dal vessillo nero. Tempi bui ci aspettano, come annunciava quel predicatore medievale nel
“Settimo Sigillo” di Bergman. Ma quello
era solo un film.
NICOLA ZECCHINI
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Le conquiste territoriali hanno una spiegazione religiosa che risale a 1400 anni fa
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COPERTINA
Abu Bakr al-Baghdadi,
terrorista globale
Sogna di dominare
il mondo
U
n fantasma si aggira per il medioriente. Ha tanti nomi
e una vita passata dietro le quinte del palcoscenico del
jihadismo internazionale. Abu Bakr al-Baghdadi, sembra un personaggio uscito dalla penna di uno sceneggiatore di Hollywood. Autoproclamato Califfo dell’Iraq, è insieme
miliziano sanguinario, stratega e predicatore. E’ nato a Samarra,
una città a maggioranza sunnita a nord di Baghdad, nel 1971, ed
ha conseguito una laurea in studi islamici all’Università islamica
di Baghdad. È così prudente, racconta un ufficiale dei servizi iracheni al giornale «Al Monitor», «che fino a poco tempo fa, nessuno, persino fra i suoi stretti collaboratori, l’ha mai incontrato a volto scoperto». È l’uomo che impersona il cambiamento di strategia
di al-Qaeda. Brutale sharia sì, ma con pragmatismo. Fa accordi
con le tribù locali. Fa giustiziare gli ufficiali sciiti dell’odiato governo di Nouri Al Maliki ma salva i soldati sunniti. È la rottura con
il leader storico di al-Qaeda, Ayman al Zawahiri. Poco importa. Al
Zawahiri è «in una grotta», fra Afghanistan e Pakistan. La sua figura, sia a livello di autorevolezza che a livello mediatico è in forte
discesa. Quella di al-Baghdadi è una rivoluzione prima che contro
l’Occidente o gli eretici, contro la cupola di al-Qaeda stessa. Vuoi
essere il re della famiglia... uccidi tuo padre. È la crisi siriana,
alla fine del 2011, ad offrire la grande occasione per le ambizioni
di Baghdadi. Il 9 aprile 2013 il nome del gruppo viene cambiato
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operiamo con successo
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SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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Tel. 0775.89881 - Fax 0775.8988211
ancora una volta da Islamic State of Iraq in Islamic State of Iraq
and Sham, sottolineando la volontà di integrare sotto la propria
giurisdizione anche paesi come Giordania, Israele, Palestina, Libano, e parte della Turchia. Un affronto e un guanto di sfida per
tutte le organizzazioni jihadiste che operavano in quell’area: l’Isil
sarebbe dovuto divenire l’unico attore jihadista in Siria come in
Iraq. Il leader di al-Nusra, ovvero Fronte della vittoria del popolo
di Siria, affiliato ad Al Qaeda, Abu M. al-Jawlani, rifiuta di fondere il suo gruppo con quello di al-Baghdadi e poco dopo arriva la
“scomunica” pubblica di Zawahiri nei confronti di al-Baghdadi,
nel febbraio 2014.
Dopo aver posto sotto il proprio controllo durante il 2013 la maggior parte della Siria nord-orientale, l’Isil concentra i propri sforzi in Iraq riuscendo a conquistare nel gennaio 2014 la città di
Falluja. Il 9 giugno, lancia un’imponente offensiva che sbriciola
le strutture difensive costruite nelle regioni sunnite dal governo di Baghdad e che frutta al gruppo il controllo della città di
Mosul e di cinque provincie del nord dell’Iraq, nonché qualcosa
come un miliardo di dollari saccheggiati dalle casse della Banca
Centrale di Mosul. In pochi giorni, la ritirata dell’esercito iracheno, lasciava dietro di sé munizioni, esplosivi, lanciagranate, mitragliatrici, missili terra-aria Stinger, missili Scud, carri armati,
veicoli corazzati Humvies, elicotteri Blackhawks, aerei cargo. Il
29 giugno arriva l’ultima fase del progetto di Baghdadi, la discesa sul proscenio mediatico internazionale: dal pulpito di una
moschea di Mosul si proclama nuovo Califfo dei musulmani sotto il nome di Ibrahim, facendosi riprendere dalle telecamere. Il
video fa il giro del mondo. Lo Stato Islamico che si configura si
estende da Aleppo, nel nord della Siria, fino a Diyala in Iraq. Un
vastissimo territorio sotto il pieno controllo della milizia jihadista
che include la seconda città dell’Iraq, Mosul, e l’enorme raffineria
petrolifera di Baiji, vicino Baghdad. Oggi l’Isil è militarmente e
finanziariamente il più potente gruppo jihadista ed esercito non
regolare nel mondo.
N.Z.
L'orologio del califfo
Abu Bakr al Baghdadi, autoproclamatosi 'califfo' dello
Stato islamico di Iraq e Siria,
e leader dell'Isis, nella sua
prima apparizione durante
una predica nella moschea
irachena di Mosul, è apparso
con tunica e turbante nero.
Ma dal polso destro è spuntato un orologio. Dalla foggia
nettamente occidentale. Secondo gli esperti, che hanno
visionato gli ingrandimenti, potrebbe trattarsi di un
Omega Seamaster, l'orologio
utilizzato da James Bond per
intenderci. Almeno dal 1995
in poi. Il costo si aggira sui 5
mila euro.
Petrolio jihadista: mezzo
milione di dollari al giorno
per pagare la guerra
Il nuovo Califfato vende l’oro nero
al suo peggiore nemico
e affamato di petrolio lo hanno. In uno dei
grandi paradossi medio orientali, segno di
cinismo ed i opportunismo tutti arabi, i jihadisti venderebbero il petrolio al loro peggiore nemico: il governo di Damasco, sostenuto dagli sciiti e contro il quale i sunniti come
l'Isil hanno proclamato una sorta di guerra
santa.
‘Pecunia non olet’, i soldi non puzzano, dicevano i latini. Lo stesso si potrebbe quindi
dire anche per il petrolio. Assad ha infatti
bisogno del carburante per riempire i serbatoi dei suoi carri armati e lanciarli contro
i ribelli. I suoi nemici jihadisti ne hanno bisogno per finanziare la loro guerra in Iraq e
il progetto del califfato. Ma l'Isil non vende
solo ai siriani. Greggio grezzo viene caricato
su camion cisterna e fatti transitare al confine con la Turchia, con un guadagno seppur
minore.
Il petrocaliffato rischia però di essere un
progetto di breve durata e poco più che
un mezzo di finanziamento estemporaneo.
Lo sfruttamento di un giacimento petrolifero è un'operazione tecnicamente e finanziariamente assai complessa. E, anche se
riuscisse a procurarsi i tecnici adatti, l'Isil
avrebbe, nel giro di qualche mese, bisogno
di macchinari per un verso, e mercati dall'altro che oggi appaiono difficili da ottenere.
Soprattutto avrebbe bisogno, come sanno le
compagnie petrolifere, di un flusso continuo
di investimenti per assicurare il fluire della
produzione. E oggi non esiste alcuna compagnia petrolifera disposta ad investire un
dollaro in giacimenti che potrebbero cadere
sotto il controllo dei jihadisti.
Il Califfato ha anche
un suo giornale
Si chiama ‘Dabiq’ e indica
i territori da conquistare,
fino a Giordania e Israele
I
l nome della testata, Dabiq, è quello
del luogo della mitica battaglia tra
musulmani e pagani prima del giorno
del giudizio. Ma è anche la nuova rivista, 50 pagine a colori in inglese e in arabo,
del "Califfato islamico".
Il periodico, per ora disponibile solo in
formato digitale PDF, è rivolto principalmente a potenziali jihadisti occidentali,
disposti a combattere nella Guerra santa,
contro i miscredenti. Tra messaggi inneggianti alla guerra, foto di nemici uccisi, e
proclami di vittoria, Dabiq pubblica una
carta geografica dell'area che il gruppo intende conquistare: Siria, Iraq, Giordania,
Territori palestinesi e Israele. Un giornale
di propaganda nel quale il califfo Baghdadi annuncia l'arrivo di "una nuova era per
l'Islam" e ribadisce l'invito ai musulmani di
tutto il mondo a sostenere la nuova entità
politica.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
P
iù che un Califfato si potrebbe chiamare un Petrocaliffato. E’ infatti
sullo sfruttamento dei giacimenti
di ‘oro nero’ che si regge l’economia dell'Isil (lo Stato Islamico dell'Iraq e del
Levante) fondato, tra massacri e carneficine, dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Nelle mani dei jihadisti è finito il giacimento siriano di Al Omar, il più importante del
paese. Vale 30 mila barili al giorno, ma gli
insorti non sembrano in grado di assicurare
una produzione superiore a 10 mila barili.
È, comunque, il primo mattone del petrocaliffato. Invendibili sul mercato legale, i 10
mila barili finiscono sul mercato nero dove
spuntano un prezzo pari, mediamente, alla
metà di quello ufficiale: 50 dollari a barile
invece di 100. E' il mezzo milione di dollari
che già arriva, quotidianamente, nelle casse dell'Isil. Destinato ad aumentare, perché
i jihadisti hanno assunto, anche il controllo
di Tanak e degli altri pozzi della regione.
In teoria, l'area siriana di Deir al-Zour può
produrre oltre 400 mila barili di greggio al
giorno, ma l'Isil non sembra avere le risorse
di tecnici e macchinari per reggere questi
ritmi di produzione e, soprattutto, il mercato nero non è in grado di assorbire volumi
così importanti di greggio.
Anche se i jihadisti sunniti, a quanto sostengono i servizi segreti, in particolare
francesi, un compratore solido, affidabile
9
Gaza, tutto quello che avrebbe potuto essere
Tante le occasioni sprecate dal popolo della Striscia. Invece di cercare
il benessere e lo sviluppo, Hamas ha voluto lo scontro militare
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
N
10
iente è stato mai più evidente, più trasparente della guerra Zuk Eitan, ovvero Margine di sicurezza, che
stenta a concludersi. Sia le due forze in campo che i motivi dello scontro non lasciano spazio a dubbi, la loro
natura e la loro dinamica sono evidenti, quindi tanto più dolorosa
è l'ondata di odio, di antisemitismo mai visto prima che ha invaso
l'Europa. Che una manifestazione a Berlino potesse inalberare cartelli con scritto "morte agli ebrei"
è una vera tragedia per l'Europa,
che mostra così di aver perduto
la memoria e l'onore.
Ho raccontato più volte nei dettagli come la guerra sia scoppiata il 7 luglio senza possibilità di scelta e con molta ritrosia
da parte di Israele e come non
abbia niente a che fare, come
invece è stato suggerito, con
un'eventuale "vendetta" per il
rapimento e l'uccisione dei tre
studenti. In quel caso, l'azione
di Israele è consistita in un doveroso rastrellamento del territorio intorno a Hevron, che non
ha niente a che fare con Gaza, e che si è fermato esattamente nel
momento in cui purtroppo sono stati trovati i corpi dei ragazzi.
Bisogna ricordare invece che da Gaza si sparavano già missili sulla
popolazione israeliana del sud durante quei giorni, e la loro frequenza si intensificava per mettere con sempre maggiore rilievo
l'accento sulla forza militare di Hamas, già esaltata dal rapimento,
allo scopo di collocare l'organizzazione islamista in prima fila nella
battaglia contro Israele in un momento molto delicato. Infatti si era
appena formato un governo di coalizione fra Fatah e Hamas: Hamas, possiamo dire, ha intensificato con l'aggressione a Israele la
sua escalation verso la conquista egemonica del mondo palestinese, prima nella West Bank con il rapimento e poi "in progress" con
le armi a sua disposizione, i missili, e i razzi a pioggia sulla popolazione civile. Solo un mese dopo Israele ha scoperto una grande
congiura armata di Hamas contro Fatah nella West Bank, davvero
una bella coalizione.
Che Israele non avesse scelta fuorché quella di difendersi, è del
tutto evidente: l'hanno ripetuto perfino Obama e l'Unione Europea, e sembra così strano che si debba affermare che se si spara
massicciamente sulla popolazione, sta alla base del patto sociale
che lo Stato debba affrontare il nemico e bloccarlo con tutte le sue
forze. Se poi il nemico usa la sua popolazione, peraltro schiava
come nel caso di Gaza, come scudi umani, ogni virgola del diritto
internazionale lo ritiene responsabile della loro sorte.
Ma di questo abbiamo parlato tante volte. C'è chi addirittura parla
di Gaza, totalmente sgomberata dal 2005, come di territorio occupato, sofferente, vittima dell'egoismo di Israele. Ma anche se
si va indietro nel tempo, Israele ha già tentato due volte di creare condizioni di normalità per Gaza e il risultato è stato passare
dai terroristi suicidi al bombardamento sistematico delle proprie
città. Ricordiamo che nel 1993, dopo gli accordi di Oslo, Israele
passò all'Autorità Palestinese il
controllo civile di Gaza. Lo fece
esattamente come lo aveva fatto nella West Bank, da dove ho
visto con i miei occhi i soldati
che se ne andavano tutti quanti
dalle città palestinesi, e Arafat
che arrivava con l'elicottero a
Betlemme, Gerico, Ramallah...
una ad una, di ritorno dalla Tunisia per volontà di Israele. Restò
nelle mani dello Stato Ebraico
la parte molto minore della Striscia dove si trovavano gli insediamenti. Nel '98 fu aperto un
aeroporto a Gaza, nell'estate del
2000 un moderno porto commerciale. Arafat si fece una gran bella villa a Gaza, la signora Clinton
vi andò a trovare sua moglie Suha. Nel '99 era stato creato un corridoio per auto, autobus e camion dall'Erez crossing fino alla West
Bank, una specie di prefigurazione dello Stato Palestinese, quando
sembrava vicino, e questo nonostante numerosissimi attentati. Poi
ci fu la Seconda Intifada, con più di mille morti israeliani nei caffè,
sugli autobus, per le strade di Gerusalemme. Israele bombardò il
porto e l'aeroporto e si difese dall'ingresso dei terroristi ma dopo
relativamente poco tempo avviò un altro speciale processo di pace
con Gaza. Nel 2005 Ariel Sharon decise di provare una soluzione
molto audace: un ritiro unilaterale fino all'ultimo soldati e abitante
ebreo della Striscia; l'itnatchtut ebbe luogo nella disperazione di
poco meno di diecimila persone, il valico di Erez fu tutto rinnovato. Shimon Peres parlò della novità come dell'inizio di una grande collaborazione scientifica e industriale, immaginò una ferrovia
che avrebbe connesso Gaza alla West Bank e uno sviluppo per
un nuovo Medio Oriente. Intanto compagnie europee e americane
interessate alla pace mandavano aiuti ai palestinesi perché il bel
sistema di serre ideato e operato dagli israeliani seguitasse a fornire fiori e pomodorini nelle mani della nuova operosa istituzione
autonoma di Gaza. Intanto consorzi internazionali progettavano
un nuovo aeroporto, il porto, ferrovie. Ma andò come andò: ho visto smembrare a pezzi le strutture agricole e industriali di Gaza,
picconare le sinagoghe, appiccare incendi. Ma più che altro fu il
La popolazione di Gaza nel corso di tutti questi anni è stata prigioniera di Hamas, ma una prigioniera volenterosa, spaventata, che
ha votato per i suoi aguzzini: sono pochissimi i segnali di ribellione nonostante l'uso spietato dei civili come scudi umani e la distruzione che si è abbattuta su Gaza a causa dell'insistente, reiterato,
ostinato uso dei missili il cui silenzio avrebbe in ogni momento
ricevuto come Netanayhu ha più volte ribadito (Shechet yaane be
schechet, al silenzio risponderà il silenzio) una risposta pacifica.
Hamas ha rovinato Gaza e intende continuare a farlo anche se
oggi si nasconde dietro l'affermazione che la sua è una richiesta
relativa all'apertura dei confini e che si impegna per il bene dei
cittadini: Hamas si impegna soltanto per perseguire la distruzione
di Israele, per potere ricostruire le gallerie, per avere i soldi per
rifocillare la sua riserva di missili. L'apertura dei confini c'è stata,
e anche molto di più, su Gaza come abbiamo spiegato è stata investita una speranza di pace che è stata distrutta, perché Hamas
mente quando parla di ricostruzione, apertura, libera circolazione
di fatto si ripropone senza vergogna come un'organizzazione barbarica religiosa, che ha in mente la distruzione non solo di Israele
ma di tutto ciò che ritiene di ostacolo all'imposizione sul mondo del
califfato mondiale. Hamas avrebbe potuto provare mille volte di
avere un comportamento razionale, teso al bene dei suoi cittadini,
e ha sempre reagito in senso opposto. La sua tendenza naturale è
quella tipica dell'Islam radicale in Irak, in Siria, in Pakistan, in Afghanistan, in Somalia e in Nigeria, le sue prime vittime sono i musulmani stessi, come si è visto nella guerra con Fatah, e il numero
delle vittime lungi dall'essere deterrente è per loro un incoraggiamento. Non c'è accordo con Hamas, solo la deterrenza può funzionare con i terroristi. Non è solo il contesto israelo-palestinese
che lo dimostra, ma quello mondiale. E' indispensabile risvegliare
chi vuole capire la necessità di un atteggiamento attivo, mai tanti
Hamas sono stati in movimento, tanti cristiani e tanti ebrei sono
stati in pericolo. La storia di queste organizzazioni è sempre la
prova che tregua, pace, accordo, sono parole senza senso per loro.
FIAMMA NIRENSTEIN
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
processo politico interno a distruggere ogni possibilità di salvezza
di quella tragica lingua di terra. Nel 2000, prima che Israele importasse da Gaza soprattutto terroristi con la cintura esplosiva, ogni
giorno mezzo milione di persone lasciava la Striscia e lavorava in
Israele. Nel 2005 il numero, scrive Tova Lazaroff sul Jerusalem
Post, era calato in maniera drammatica a 31424.
Nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni, poco dopo fu rapito Gilad Shalit, le restrizioni crearono una situazione sempre più drammatica per la popolazione. Nel 2007 lo scontro con Fatah divenne
una vera guerra, tutti ricordano come gli uomini di Hamas sparavano ai ginocchi dei nemici di Fatah, li uccidevano senza pietà
gettandoli dagli edifici più alti. E le restrizioni di conseguenza divennero sempre più serie per motivi di cogente sicurezza, i valichi di Karni, Sufa, Nahal Oz vennero chiusi, solo Kerem Shalom
rimase aperta per il traffico dei camion che portano merci dentro
Gaza. Ma anche qui il meccanismo è quello dell'autodistruzione,
o meglio la distruzione di qualsiasi rapporto che possa avere una
forma umana. Con i miei occhi ho visto che da Gaza anche durante
questa guerra, la terza da quando dal 2001 Israele è irrorata di
missili, una pioggia di fuoco ha impedito a Kerem Shalom di lasciare entrare i 140 camion carichi di beni che ogni giorno, anche
in tempo di guerra, portavano cibo e medicinali ai palestinesi. I
tunnel che nel tempo i palestinesi si sono costruiti sia per portare
attacchi terroristici che per portare beni vari dentro Gaza senza
dover passare dai valichi israeliano e egiziano, sono stati presi di
petto, prima che da Israele, dall'Egitto di Abdel Fattah al Sisi, il
nuovo presidente egiziano. Sisi dopo aver esautorato la Fratellanza Musulmana del precedente presidente Morsi, il suo nemico, ha
distrutto i tunnel e anche le case presso Rafah formando una zona
cuscinetto di tre chilometri. Hamas è parte della Fratellanza Musulmana, Sisi lo odia.
Gaza è declinata ulteriormente rispetto alla sua condizione sociale, al lavoro, alle condizioni della vita civile via via che Hamas invece incrementava il numero delle gallerie e la qualità dei missili
con l'aiuto del Qatar e dell'Iran.
11
ISRAELE
Cinque stelle,
quattro in condotta,
zero in storia
La faciloneria e il semplicismo
di chi non conosce il passato
e giudica i conflitti restandosene
comodamente al riparo
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
H
12
a fatto rumore, un paio di settimane fa, l'ennesima sparata del grillino di turno, in appoggio al terrorismo:
“Nell'era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola
arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma
è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è
un aereo telecomandato a distanza io ho una sola
strada per difendermi a parte le tecniche non violente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e
farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto
né giustificando né approvando, lungi da me. Sto
provando a capire. Per la sua natura di soggetto
che risponde ad un'azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma
elevandolo ad interlocutore”.
L'onorevole Di Battista (questo il nome dell'illuminato personaggio) non si riferiva per una volta al terrorismo contro Israele, ma all'Isis, quella
funebre formazione che si è proclamata califfato
(che per chi non lo sapesse, è un'istituzione religiosa: “khalifa”
significa successore, del profeta, naturalmente) e che pratica il genocidio di cristiani, yazidi e altri “infedeli”. Ciò nonostante le sue
dichiarazioni sono utili a capire la ragione per cui tanti “progressisti” politici e religiosi si schierano contro Israele e quindi vanno
considerate con attenzione.
Nell'anti-israelismo e nell'antisionismo c'è spesso una
base tradizionalmente antisemita, questo è chiaro. Israele non è solo lo Stato degli
ebrei, è l'ebreo degli Stati e
viene trattato come gli ebrei
venivano trattati durante l'esilio: ghettizzato, discriminato, boicottato, sospettato
di crimini ridicoli e spesso
infamanti, come “ammazzare bambini”. Grazie a un
millennio e mezzo e passa
di martellante antigiudaismo cristiano, gli ebrei sono
il gruppo che viene facile
odiare e il loro Stato, che non
doveva mai essere costituito
secondo la sensibilità cristiana (perché l'esilio dell'ebreo errante
faceva parte della punizione del “popolo deicida”) segue la stessa
sorte, unico fra gli stati del mondo.
Ma oltre a questa radice teologico-politica, nello schieramento
istintivo da parte di molta sinistra a favore del terrorismo arabo vi
è qualcosa di più generale, che si ripercuote anche contro Israele:
l'idea che bisogna schierarsi con loro, anche se usano metodi di
lotta atroci e inumani, perché sono i “più deboli”, “gli oppressi”, e
dunque i nuovi proletari, la “moltitudine” di cui parlava Toni Negri
nel suo best seller internazionale “Impero”. E' un atteggiamento
così diffuso e irriflesso che non si può non farci i conti. Ma bisogna
dire che esso è radicalmente sbagliato.
E' sbagliato sul piano etico, naturalmente. Il drone o l'aereo che
cerca di uccidere il terrorista può sbagliare naturalmente e coinvolgere persone che non c'entrano. In guerra è sempre successo,
purtroppo e questo è un buon motivo per cercare di evitare le
guerre, per tentare di risolvere le dispute sul piano pacifico. Ma il
colpo mira a un bersaglio preciso, a un combattente nemico. Il terrorista suicida che si fa saltare nella metropolitana o, come è successo spesso in Israele, negli autobus nei caffè nei supermercati
nei ristoranti non cerca neanche di distinguere, non si dà obiettivi
militari, se la prende con la gente qualunque dall'altra parte della
barricata. Lo stesso fanno i razzi di Hamas, le molotov e i sassi
sulle macchine, gli accoltellamenti casuali, le stragi di civili di altra religione, magari dopo aver marcato la loro casa con un segno
infamante come facevano i nazisti. C'è in questo modo di combattere l'idea, tipicamente razzista, che tutto l'altro
popolo sia non solo nemico, ma degno di morire
in massa, salvo che eventualmente si sottometta
e si converta. Questo modo di combattere senza
distinzione fra civili e militari è tipico dell'Islam,
è all'origine del genocidio armeno e assiro, della distruzione dei greci che abitavano e avevano
fondato le città della costa asiatica dell'Egeo che
oggi si dicono turche, delle conquiste islamiche
antiche della Spagna, dell'Africa del nord, della
Mesopotamia.
Ma in questo modo di vedere le cose vi sono anche degli errori di fatto. Non è vero che gli arabi
siano gli “umili”, i “deboli”. Loro non si vedono
affatto così. Storicamente hanno sempre pensato a se stessi come i signori e si battono per riconquistare questo ruolo, che considerano oggi provvisoriamente
usurpato. Sono stati storicamente i più grandi colonialisti: partiti
dalla penisola arabica deserta e spopolata, hanno conquistato e
arabizzato mezzo mondo, accumulando ricchezze gigantesche depredate ai popoli che conquistavano e opprimevano, distruggendo
la loro cultura e la loro economia. L'Africa del Nord era
il granaio dell'Impero Romano, abitata da popolazioni
berbere; la conquista araba
le ha reso spopolate, incolte
… e arabe; la Mesopotamia
era abitata dai babilonesi, la
Siria dagli assiri, che parlavano l'aramaico, ora virtualmente estinto. L'Africa nera
fu depredata dai mercanti
di schiavi arabi, che per un
certo periodo fornirono gli
inglesi di carne umana per
le colonie americane, ma
molto più a lungo servirono
il mercato domestico arabo.
Le regole del Corano sono
tipicamente coloniali: gli indigeni conquistati sono inferiori, se non si convertono devono riscattare la loro sopravvivenza con umiliazioni legali e fiscali senza
fine. Anche il territorio dell'antica Giudea e dell'attuale Israele è
stato sottoposto a queste pratiche di arabizzazione forzata e anche
di immigrazione islamica dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, perfino
dall'Anatolia e dal Caucaso. La “questione palestinese” in buona
parte deriva da queste pratiche coloniali. E' facile mostrare che la
“Nakbah” palestinese consiste esattamente in questa condizione
di non essere più i padroni coloniali del Medio Oriente. Quanto
un atto di decolonizzazione sia dagli occupanti britannici che dai
colonialisti arabi. Il benessere attuale di Israele è la dimostrazione che un territorio desertico e desolato può essere reso fruttuoso
col lavoro e che il fattore umano è
almeno altrettanto importante per
l'economia della ricchezza delle
materie prime. L'odio arabo per
Israele è in buona parte invidia,
volontà predonesca di prendersi i
beni che sono stati accumulati con
la fatica di generazioni – invece di
rimboccarsi le maniche e costruirli
a propria volta. Gli ebrei sono odiati dagli arabi perché erano oppressi
erano schiavi e si sono emancipati.
I progressisti dovrebbero stare dalla parte di una società di schiavi liberati (come già Israele fu all'uscita
dall'Egitto). Ma la miopia ideologica impedisce di vedere le radici storiche dei problemi e ne coglie
solo gli aspetti superficiali: i “poveri” palestinesi che rivendicano
una terra “loro” (cioè che una volta occupavano come colonialisti,
o piuttosto emanazione locale dei colonialisti turchi) e dato che
l'esercito israeliano ha il torto di impedire loro di ammazzare liberamente gli ebrei, si danno, poverini, al terrorismo.
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SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
alla miseria, essa è essenzialmente autoinflitta: non c'è regione al
mondo che abbia guadagnato tanto senza sforzo nell'ultimo secolo, quanto i paesi arabi del Medio Oriente col petrolio. Quel che
non ha funzionato è il meccanismo
di redistribuzione, di diversificazione, di investimento. I ceti dominanti arabi hanno usato questo denaro
per godere di un lusso illimitato e
non hanno pensato affatto a far vivere un'economia produttiva, a elevare la condizione di vita dei loro
ceti popolari. I poveri arabi sono
stati sfruttati, sì, ma dai loro capi,
non dall'Occidente o da Israele.
Con gli ebrei è accaduto l'opposto. Oppressi per secoli in terra di
Israele dai loro colonizzatori arabi,
trattati come gli ultimi, oppressi
spesso sterminati sia nel mondo
islamico che in quello cristiano, quando hanno potuto liberarsi
hanno cercato di arrivare in Israele. Ci sono riusciti finalmente in
massa a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, arrivando per
lo più poverissimi, armati solo delle loro braccia, della loro intelligenza e del loro amore per la terra, aiutati in parte da donazioni
degli ebrei europei più benestanti a comprare della terra che hanno sviluppato con straordinario successo. La creazione di Israele è
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13
ISRAELE
... e per fortuna
che c’è l’Iron Dome
Nonostante il lancio di migliaia di missili, il
numero delle vittime è stato modesto.
Non per l’incapacità di Hamas, ma per la
capacità tecnologica difensiva israeliana
L’
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
operazione “margine di protezione” è scaturita dall’intensificarsi del lancio di missili dalla Striscia di Gaza da
parte di Hamas, dopo che nei giorni precedenti il ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi rapiti – Eyal, Gilad
e Naftali – aveva acuito la tensione. Tuttavia, la minaccia proveniente dalla Striscia è stata incessante da quando Hamas ha preso
il potere nel 2007: gli interventi israeliani “Piombo fuso” nel 2009
e “Pilastro di difesa” del 2012, infatti, non sono stati risolutivi. Dal
cessate il fuoco del novembre 2012, gli attacchi sono proseguiti e
più volte Israele è stato sull’orlo di una reazione: il mese di aprile
del 2013 si era aperto con un lancio di missili su Sderot che aveva
danneggiato alcune abitazioni e impaurito la popolazione; gli aerei
da guerra israeliani avevano risposto colpendo obiettivi strategici.
È stata la prima violazione della tregua di 5
mesi prima, sebbene
dei proiettili fossero stati sparati già nelle settimane precedenti, senza
creare danni. Appena
pochi giorni dopo, due
missili provenienti dal
Sinai avevano raggiunto Eilat: altro attentato,
stavolta rivendicato da
militanti islamisti vicini
ad alqaeda. Alla fine di
aprile altri qassam sono
stati sparati nella zona
di Shaar Hanegev, proprio mentre si tentavano i negoziati mediati
dagli Stati Uniti.
La lista di date potrebbe proseguire ancora a lungo, con i missili
14
provenienti quasi sempre dalla Striscia di Gaza nel Sud di Israele, come a dicembre, mentre avveniva il rilascio di 26 prigionieri
palestinesi. La conclusione dell’anno non è stata differente, come
ha dimostrato, tra gli altri episodi, l’uccisione di un operaio israeliano da parte di un cecchino palestinese, attentato successivamente rivendicato dal
Comitato di Resistenza
Popolare (PRC).
Un’escalation che parte da lontano dunque,
a cui Israele ha potuto
far fronte grazie all’Iron Dome, la “cupola
di ferro”, lo scudo antimissile costruito negli
ultimi anni sulla spinta
data dal clima d’assedio creato da Hamas e
dagli Hezbollah libanesi al nord.
L’Iron Dome è un sistema di difesa missilistica in grado di proteggere da razzi di corta
o media gittata. Nel 2005 fu pubblicata dal Ministero della Difesa
una gara per proporre soluzioni di difesa dai missili: l’allora Ministro della Difesa Amir Peretz, a sistemi basati su raggi laser o su
cannoni antimissile, preferì proprio l’Iron Dome, il cui progetto è
stato così sviluppato dal 2007 ed è entrato in funzione nell’aprile
2011, con il primo razzo intercettato sui cieli di Ashkelon.
Oggi l’Iron Dome rappresenta una risorsa fondamentale per la sicurezza israeliana, nonché una novità strategica, che ha portato
l’IDF a investire molto anche sulla difesa.
L’Iron Dome è costituito da tre componenti: un radar che individua il razzo e la relativa traiettoria, un sistema che determina
dove il missile atterrerà e quale impatto potrà avere e, infine, tre
rampe di lancio con i missili destinati a distruggere gli obiettivi.
Questi ultimi sono i missili “tamir”, guidati e molto precisi. Il
radar vigila in continuazione l’area da cui provengono i missili
e quando ne capta uno nel raggio di 40 miglia ne controlla la
traiettoria. Non tutti i missili vengono intercettati, ma solo quelli
destinati a creare danni ingenti e a minacciare la popolazione.
Una straordinaria innovazione nella tecnologia militare quindi,
che presto potrebbe interessare anche ad altri Paesi. Tuttavia,
si tratta anche di uno strumento costoso, imperfetto e non infinito: il dibattito sugli investimenti per la Difesa resta aperto,
strettamente intrecciato con quello sulle strategie militari, discorsi più ampi dove l’Iron Dome rappresenta solo la punta di
un iceberg.
D.T.
Gli eroi di Israele:
"Haialim Bodedim"
Nessun soldato è mai veramente solo.
Ai funerali di questi giovani, decine di migliaia
di israeliani hanno voluto testimoniare
e onorare il loro coraggio
D
Oggi nel FDI (Forza di Difesa Israeliane) operano 5.800 "soldati
soli", "Haial Boded", di cui la metà effettivamente in corpi combattenti. Una parte di questi ragazzi arrivano dall'estero come
risultato dei progetti come "Taglit" e "Masa" dell'Agenzia Ebraica
(Hasochnut Haiehudit l'Eretz Israel), che incoraggiano i giovani
ebrei dal tutto il mondo ad andare in Israele; per alcuni di loro è
la prima volta.
Questi giovani "assaggiano" lo stile di vita, la cultura, il cibo, vengono a contatto con il "Kibbutz" ed a volte decidono di ritornare e
"fare l'Aliyah". Due di questi soldati sono caduti durante la guerra
contro Hamas a Gaza. Il sergente maggiore Nissim Sean Carmeli
aveva 21 anni, quando aveva 16 anni ha fatto l'Aliyah dal Texas,
raggiungendo le sue due sorelle che già vivevano in Israele. Ha
frequentato il liceo Ostrovsky a Raanana e dopo gli studi si è arruolato nella brigata "Golani". La notizia della sua morte il 13 luglio
scorso è arrivata alla squadra di "Maccabi Haifa" di cui era tifoso;
la squadra ne ha pubblicato la triste notizia sul social network e
sui giornali. La famiglia pensava che nessuno avrebbe partecipato
al funerale, ma con grande sorpresa e commozione ha visto arrivare 20.000 persone da tutta Israele a rendere omaggio e l'ultimo
saluto al giovane eroe.
Purtroppo non è stato l'unico eroe caduto; anche il sergente maggiore Max Steinberg era un "soldato solo" caduto nello stesso giorno a soli 24 anni. Nel 2012 aveva deciso di fare l'Aliyah, ha raggiunto i suoi fratelli tramite il progetto "Taglit" e si è arruolato nell’
IDF. Aveva lasciato i suoi studi a Los Angeles per seguire l'ideale
in cui credeva, mediante il programma "volontari dall’estero". Anche nel suo caso la notizia della morte, è stata diffusa via internet:
più di 30.000 persone hanno voluto dare l'ultimo saluto e far sentire ai suoi genitori la partecipazione ed il ringraziamento di tutto
il popolo. I genitori di Max hanno deciso di seppellirlo nel cimitero
sul monte "Herzl", che lui aveva visitato durante il progetto "Taglit",
dove riposano tutti gli eroi di Israele, come lui.
Sulla sua tomba fra le corone di fiori spicca una frase: "nessun soldato è solo in Israele". La massiccia partecipazione della popolazione ai funerali dei due giovani soldati, ha prodotto un'eco nel
resto del mondo. Nelle maggiori testate giornalistiche e nei media
si è parlato e scritto dei soldati soli e migliaia di persone, pur non
conoscendo i due eroi, hanno voluto ringraziarli e piangerli come
se fossero stati parte della loro famiglia.
YAARIT RAHAMIM
UNIONE DELLE COMUNITÀ EBRAICHE ITALIANE
DIPLOMA UNIVERSITARIO TRIENNALE
IN CULTURA EBRAICA 2014-2015 - 5775
Materie d’insegnamento: Ebraico I, Ebraico II, Ebraico III, Bibbia ed ermeneutica biblica, Talmud, Midrash e Aggadà, Pensiero, filosofia e mistica ebraica, Storia della filosofia ebraica,
Storia ebraica moderna, Letteratura ebraica.
Corpo docente: Ester Di
Segni, Roberto Colombo,
Benedetto Carucci, Amedeo Spagnoletto, Gianfranco Di Segni, Katrin
Tenenbaum, Piera Ferrara,
Myriam Silvera, Roberta
Ascarelli.
Esami in materie ebraiche
sostenuti in altre Università e Istituzioni possono essere riconosciuti come crediti formativi.
Il corso è fruibile anche con modalità on-line.
Costo dell’iscrizione: 1000 euro; entro il 15 settembre 850 euro.
Per informazioni: www.ucei.it/formazione/CollegioRabbinico/
Diploma Universitario Triennale in Cultura Ebraica
Myriam Silvera: [email protected]; tel. 339-1350072 (pomeriggio)
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
urante l'operazione "Barriera Solida", "Mivzà Tzuk Eitan",
abbiamo sentito parlare delle storie dei ragazzi che arrivano dall'estero per svolgere il servizio militare in Israele, come volontari. La loro è una storia particolare, in
quanto partono lasciando tutto: famiglia, amici, affetti, studio, e
vanno per un periodo in Israele, per servire il paese unicamente
per il senso di appartenenza che viene loro dal cuore.
15
ISRAELE
Volevano la terza Intifada, hanno scelto la guerra
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
D
16
Hamas ha voluto lo scontro militare sapendo che comunque avrebbe ‘vinto’.
Perché la distruzione delle infrastrutture e la morte dei civili
è in ogni caso un successo mediatico
urante i primi mesi del 2014 i
capi di Hamas avevano ripetutamente chiamato tutti i palestinesi alla mobilitazione contro
Israele. Hanno poi ricattato la leadership
moderata, nei fatti se non nelle parole, che
governa le zone sotto il controllo dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen. Infine,
invocavano una terza intifada che coinvolgesse non soltanto la popolazione dei
territori tuttora amministrati da Israele
ma anche gli stessi arabi con cittadinanza
e passaporto israeliani. Su questa strada
la loro gente non li ha seguiti. Gli anziani
sono stanchi di guerra, esattamente come
i loro vicini di Tel Aviv e di Haifa, mentre
i giovani sembrano meno affascinati dal
jihad. E comunque risultano forti e numerosi gli interessi in gioco che ormai legano i palestinesi allo Stato ebraico, a quel
tamente e definitivamente sconfitta in
quanto la situazione politica internazionale non consente ad Israele l’uso di tutta
la forza disponibile. Tanto più che Israele
resta quotidianamente vittima di un vero
e proprio “corto circuito” mediatico. La
storia dell’Occidente si è incaricata di trasformare in realtà sanguinosa il luogo comune dell’ebreo vittima e capro espiatorio
di tutto e di tutti. Se la vittima finalmente
si difende e impugna le armi, con tutte le
conseguenze del caso, questa sorta di sacra rappresentazione deraglia e spiazza lo
spettatore.
Inoltre, per Israele e per il quadro complessivo del Medio Oriente il problema di
Gaza non si è certo manifestato negli ultimi due decenni. Al contrario, è anch’esso
vecchio di quasi 70 anni (vedi box nella
pagina a fianco). Tuttavia ci sono state
crescente benessere distribuito dal dinamismo israeliano. Erano numerosi anche
i residenti di Gaza che lavoravano in Israele, dai quali i dirigenti di più alto rango
riscuotevano probabilmente una sorta di
“pizzo”, restandosene al sicuro presso i
paperoni del Qatar tra una comparsata e
l’altra sugli schermi di Al-Jazeera.
Ma se Hamas ha rivelato una pessima capacità tattica, dimostra invece - purtroppo - valide intuizioni strategiche. Dunque
ha scelto questa guerra di piena estate
nella consapevolezza del fatto che non ha
bisogno di una vittoria militare. La sproporzione delle forze in campo, normale
nelle guerre cosiddette asimmetriche,
garantisce infatti l’efficacia operativa di
ogni organizzazione armata di stampo
terroristico, che non può venire comple-
guerre che Israele ha perduto sul piano
politico dopo averle chiuse con successi
sostanziali su quello militare. Guerre nelle quali si rischia l’insuccesso per il fatto
stesso di averle dovute combattere. L’efficacia della tradizione militare israeliana si
basa sul dettato operativo più semplice:
en brerà, “non c’è scelta”. Visto il genere
di vicini che Israele ha avuto fino agli ultimi anni della guerra fredda, di alternative
non ce ne sono state.
Però già nel 1956, e sempre come reazione agli attacchi sul Negev provenienti da
Gaza, David Ben Gurion e Moshe Dayan
dovettero unirsi alla spedizione militare
anglo-francese per il recupero del Canale
di Suez espropriato dal presidente egiziano Nasser. Gli USA temevano il confronto totale con i sovietici, allora protettori
dell’Egitto, e imposero il ritiro. Risiedeva
alla Casa Bianca il Generale Dwight Eisenhower, l’uomo-simbolo dello sbarco
in Normandia. Coltivò, per l’intera durata
del suo secondo mandato, una cordiale
inimicizia per i governi di Gerusalemme.
Al tempo dei Sei Giorni di giugno 1967 e
del ritorno israeliano su Gaza, il Presidente
Lyndon B. Johnson si rivelò un amico affidabile. Sicuramente Hamas ricorda bene i
tre anni della guerra di attrito sul Canale
si Suez (risolta con gli accordi del 7 agosto
1970), una guerra che costò a Israele la vita
di quasi 2.000 soldati e un danno grave
nelle relazioni esterne. Poi, fino all’ottobre
fatale del 1973 lo Stato Maggiore israeliano ritenne la Linea Bar-Lev sul Canale e gli
sbarramenti del Golan insuperabili da un
esercito arabo. La Guerra di Kippur colse
tutti di sorpresa, anche perché Henry Kissinger e il suo Presidente Richard Nixon
ritenevano fosse necessaria una pressione militare per indurre Israele a negoziare
con l’Egitto il ritiro dal Sinai. L’Egitto aveva
cambiato alleati, passando da Mosca a Washington, ma gli USA si erano dimenticati
di avvertire Golda Meir. Così Anwar el-Sadat riprese il Sinai, ma di Gaza non ne volle
sapere.
Hamas punta oggi a tenere Israele sotto
pressione, in conto terzi e con la speranza
di infliggere danni più gravi. La testa del
serpente si trova a Teheran, forse anche
ad Ankara e in Qatar, e per ora nessuno
intende neutralizzarla. Comunque le alleanze sono mutate: Russia, India e Cina
hanno un conto aperto con l’estremismo
islamico armato, e prima o poi lo chiuderanno. L’isolamento di Israele, dovuto
anche al pregiudizio antiebraico, non è
cosa nuova. Come non è nuova l’ostilità
contro gli ebrei della Diaspora che vedono in Israele la propria garanzia d’emergenza. La situazione militare risulta oggi
non molto differente rispetto ai lunghi
mesi della guerra di attrito di 45 anni fa,
in termini generali. Ma dall’altra parte
c’era uno Stato, l’Egitto, mentre oggi c’è
una struttura in armi non riconosciuta
dalle diplomazie dei paesi più importanti.
Hamas non manca di appoggi e si finanzia in modi spesso oscuri. Si fa scudo di
una intera popolazione, solo in parte consenziente. Proprio come accadde nel ’73
con la Linea di Difesa Bar-Lev, anche Iron
Dome avrebbe dovuto servire da deterrente, scoraggiando gli attacchi e i lanci di
missili sempre più sofisticati. In entrambi
i casi ciò non è accaduto.
PIERO DI NEPI
La guerra dei tunnel
Una tecnica militare che risale ai tempi dei romani
M
olti israeliani di oggi resterebbero davvero sorpresi
scoprendo che durante la rivolta antiromana guidata da
Shimon bar-Kochbà tra il 132 e il 136 E.V.
i combattenti ebrei fecero largamente uso
della tecnica di scavare tunnel invisibili
ai legionari chiusi nei campi trincerati, in
modo da attaccarli di sorpresa, sbucando
dal terreno proprio di fronte al Praetorium
dove alloggiava il comandante. Le tribù
germaniche che bloccarono l’Impero sulle
rive del Reno utilizzavano spesso tecniche
analoghe. Lo Stato Maggiore della Difesa
di Israele conosce bene la storia del paese,
e nel 1947-1948 fu anche grazie al sistema
di tunnel degli antichi acquedotti che si
riuscì a salvare Gerusalemme ovest assediata dalla Legione Araba di John Glubb
“Pashà”. Durante l’estate del 1966 il Generale Moshe Dayan, vincitore della campagna del Sinai di dieci anni prima, trascorse
risolsero vittoriosamente non pochi assedi.
Nel 1706, durante la Guerra di Successione Spagnola, l’esercito del Re Sole Luigi
XIV tentò di strappare ai Savoia la capitale Torino. I reparti di scavatori lavoravano
notte e giorno tanto nelle gallerie di mina
che in quelle di “contromina”, necessarie
per neutralizzare i sotterranei del nemico.
E’ celebre l’atto di valore del soldato piemontese Pietro Micca che bloccò un intero
reparto francese facendo saltare a costo
della vita una galleria che penetrava nella
fortezza principale, nella notte tra il 29 e il
30 agosto del 1706. Due secoli più tardi in
Belgio, alle 3.10 del mattino del 7 giugno
1917, saltarono in aria simultaneamente 8
km di gallerie scavate dagli inglesi sotto le
trincee tedesche di Messines e poi riempiti
con 600 tonnellate di alto esplosivo. Morirono 10.000 soldati, dei feriti e dispersi gli
storici non conoscono il numero neppure
alcune settimane in Vietnam scrivendo
corrispondenze di guerra per un gruppo
di giornali inglesi e americani. Ma voleva
anche osservare da vicino le tattiche dei
Viet-Cong, i quali - come oggi i nordcoreani - erano in contatto con gli eserciti dei
nemici di Israele e con le organizzazioni
palestinesi. Dayan verificò di persona l’efficacia di un labirinto di tunnel (esteso per
oltre 250 km) costruito dai Viet-Cong nel
distretto di Cu Chi a nordovest di Saigon
(oggi Ho Chi Min City). Rangers e Marines,
insieme con gli alleati, perdevano centinaia di soldati nel tentativo di distruggerne
le gallerie. Inutile. Nel febbraio 1968, la
cosiddetta Offensiva del Tet attaccò la capitale utilizzando proprio quei tunnel come
base di partenza. Con l’avvento della polvere da sparo la guerra dei tunnel aveva
conosciuto un decisivo rinnovamento delle
tecniche, sempre più distruttive. Durante
la Guerra di Fiandra (1568-1648) le gallerie
1949, dopo l’Armistizio
di Rodi, l’Egitto decise
di utilizzare Gaza e i
suoi abitanti come spina nel fianco più spopolato ed esposto di
Israele. La gestione accettabile di Gaza, occupata dagli egiziani fino
al 1967, non fu considerata una priorità. La
priorità era consolidare
miseria, rabbia e collera per colpire Israele a
Sderot, a Nahal Oz, fino
a Beersheva se possibile.
Intanto l’UNRWA (United Nations Relief
and Works Agency for Palestine) si connotò soprattutto come agenzia di propaganda antisionista. Nella sostanza, è tale
anche oggi.
oggi. L’esplosione fu udita anche a Londra,
al di là della Manica. La memoria dei militari israeliani non si misura, fortunatamente,
sul breve termine. E’ tuttavia possibile che
negli ultimi due anni siano state in qualche
modo sottovalutate le capacità operative di
Hamas. Se non da una sorpresa strategica,
nei primi giorni di Protective Edge gli ufficiali dell’unità di elite Golani, incaricata
di neutralizzare la rete sotterranea, sono
stati forse disorientati dall’estensione,
dalla mimetizzazione e dalla blindatura,
dal numero (decine se non centinaia di
tunnel) e purtroppo anche dalle trappole
esplosive. Si deve inoltre sperare che la
stessa Israele non sia rimasta vittima della
dissennata propaganda che descrive come
impenetrabile il blocco delle importazioni
di certi materiali da costruzione, strumenti
ed esplosivi imposto a Gaza.
P.D.N.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Gaza una striscia nel fianco
Confina con Israele
per circa 51 km, ha una
larghezza media di 8,5
e si estende su 360 km
quadrati. Gli abitanti
sono 1.645.000. Per
gli Ebrei il problema
esiste fin dal tempo di
Sansone, Dalila e i Filistei. La storia recente però è di tutt’altro
genere, e costituisce
una delle più ciniche
operazioni organizzate dal mondo arabo e
dall’ONU ai danni dello
Stato Ebraico. Nel 1948 l’esercito egiziano
che avanzava verso il Negev bloccò nella
enclave di Gaza gli arabi che cercavano di
sottrarsi alle operazioni militari. Vi sarebbero rimasti a tempo indeterminato. Nel
17
ISRAELE
Obama, ovvero il nulla
in politica estera
Il disimpegno degli USA nell’area medio orientale
ha favorito la nascita del Califfato
L
a crescita di tensione in Medio Oriente può essere letta
anche come un fallimento americano. Una precisa impostazione, data da Obama sin dall’inizio del suo mandato,
era proprio quella di effettuare un progressivo disimpegno da quest’area: un po’ per eliminare il fardello delle missioni in
Iraq ed in Afghanistan ereditate dall’amministrazione Bush, che
ha avuto per gli Stati Uniti costi umani ed economici notevolmente al disopra delle aspettative; un po’ perché, in una fase di crisi
economica e in un contesto geopolitico in cui l’unipolarismo con il
ruolo predominante degli USA era seriamente messo in discussione, appariva necessario dosare le forze e concentrare le energie in
zone potenzialmente più rilevanti. Da questi presupposti è partito
l’atteggiamento di fiducia nei confronti dell’Islam moderato ed una
serie di tentativi volti a normalizzare le relazioni con vecchi nemici, come dimostrato dall’accordo con l’Iran sul nucleare. Parallelamente, l’attenzione è stata rivolta altrove, in particolare all’estremo oriente e all’Oceano Pacifico, in modo tale da contenere l’influenza cinese in un’area non così distante dagli stessi Stati Uniti.
Non si può leggere come un caso, ad esempio, che il 17 novembre
2012, Obama, fresco di rielezione, nel bel mezzo dell’Operazione
Pillar of Defense (iniziata il 14 dello stesso mese) fosse in procinto di partire per un viaggio che lo avrebbe portato in Thailandia,
Cambogia e Birmania; proprio nello Stato di Aung San Suu Kyi si
trovava pochi giorni dopo Hillary Clinton, alle sue ultime missioni
da Segretario di Stato, mentre la mediazione tra Israele ed Hamas
veniva condotta dal Presidente egiziano Morsi.
Una scelta, quella di Obama, certamente razionale, ma che nei fatti
si è rivelata disastrosa: gli effetti delle primavere arabe hanno accentuato le tensioni e le divisioni in tutti i Paesi dove si sono verificate queste rivolte; il mancato intervento in Siria ha provocato una
crescita delle forze più estremiste, le quali si sono giovate anche
della fragilità e della corruzione delle istituzioni in Iraq e in Afghanistan, fino all’ascesa del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi e dell’ISIS.
Nei rapporti con Israele, la nuova politica estera statunitense ha significato un raffreddamento, con punte di tensione che hanno portato alcuni analisti a mettere in dubbio la solidità dell’alleanza tra i
due Paesi. Nel marzo 2010, l’ambasciatore israeliano a Washington
Michael Oren parlò della “peggiore crisi degli ultimi 35 anni” fra i
due paesi, mentre l’edizione europea del The Wall Street Journal
titolava “La svolta di Obama contro Israele”. Nel maggio 2011, era
lo stesso Presidente americano a parlare di divergenze, dopo che nel
suo discorso al Congresso Netanyahu aveva replicato al riferimento
ai confini del ’67 definendolo come la mancata comprensione della
realtà israeliana. Le diverse opinioni sull’atteggiamento da tenere
nei confronti dell’Iran sono poi state un motivo ricorrente di discussione degli ultimi mesi. Non si è giunti al punto di un divorzio, come
ha voluto sottolineare lo stesso Obama nel suo viaggio in Israele nel
marzo 2013. Nuovi interessi si sono fatti però prevalenti. Ciononostante, Obama ha affidato a Kerry il compito di effettuare durante lo
scorso inverno una delicata opera di mediazione tra il governo israeliano e l’ANP, senza però riuscire ad ottenere alcun risultato: da parte israeliana non si riteneva sufficiente il piano sulla sicurezza. Le
recenti tensioni e la guerra della scorsa estate possono considerarsi
la dimostrazione di come questo approccio sia stato fallimentare.
Una nuova impostazione della politica estera americana è forse
inevitabile, ma è necessaria un’azione più incisiva se Washington
non vuole perdere un ruolo di rilievo in Medio Oriente e se intende
evitare che i nuovi equilibri, che si stanno creando, degenerino
fino a minacciare anche il mondo occidentale.
DANIELE TOSCANO
L’Onu risolve i problemi
di Israele, o è il problema
di Israele?
“La questione che voglio trattare
maggiormente è che noi ci troviamo in una situazione tale per
cui i Paesi che ci supportano si
sentono obbligati a votare con i
Paesi islamici in quanto hanno
altri interessi”, aggiunge Roet.
“Questo non è solo un problema
di Israele, ma diventa un problema più generale, relativo all’uso
delle risorse di un Parlamento
mondiale: invece di trattare le
vere questioni, dov’è l’ONU? È la
domanda posta in tutte le maggiori tragedie degli ultimi decenni,
come il genocidio in Ruanda del 1994 o negli ultimi anni in Siria,
simbolo recente della latitanza delle Nazioni Unite”.
Nonostante questi problemi, Roet è fiducioso e conta di poter regalare al suo Paese un ruolo propositivo nell’organizzazione, con il
sogno di un seggio come membro non permanente nel Consiglio di
Sicurezza nei prossimi anni. “Noi rifiutiamo di essere considerati
un Paese di seconda classe, ma crediamo che Israele con la sua
conoscenza, la sua esperienza, il suo popolo saprebbe ricoprire
adeguatamente il ruolo di membro del Consiglio. Noi crediamo di
poter realizzare questa nostra aspirazione, ma sarà molto difficile
perché anche altri Paesi partono con questa possibilità, mentre
noi dovremo superare il blocco dei Paesi arabi. Lavoreremo molto
duramente per riuscirci, in quanto riteniamo che sia un obiettivo
complicato ma realizzabile”.
D. T.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
I
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Intervista esclusiva a David Roet,
Vice Rappresentante Permanente
di Israele alle Nazioni Unite
l rapporto tra Israele e l’ONU è sempre stato molto complesso, non senza momenti di tensione. Pur non scendendo nei
particolari, l’Ambasciatore David Roet, Vice Rappresentante
Permanente di Israele alle Nazioni Unite, ha spiegato a Shalom le principali difficoltà e le ambizioni che Gerusalemme nutre
in questo ambito.
“La relazione tra ONU e Israele è veramente difficile. I Paesi arabi
e musulmani, infatti, sono numerosi e sempre pronti a criticare
Israele in blocco”, afferma Roet. La forza economica e strategica
di questi Paesi condiziona spesso anche molti Stati occidentali. Il
risultato è che vengono trascurate alcune gravi questioni, come
quella della Siria, dove più di 170mila persone sono morte, mentre
“ci sono ventuno risoluzioni contro Israele. Senza contare il Consiglio dei diritti umani, dove il 25% dell’attività è contro Israele: così
si ha un’idea di quale sia il pregiudizio dell’ONU”. Il Consiglio per i
Diritti Umani, infatti, oltre a essersi distinto per la scarsa incisività
ed effettività della sua attività, è stato caratterizzato da uno squilibrio diplomatico al suo interno (basti pensare al ruolo di primo
piano svolto dalla Libia di Gheddafi prima della caduta del rais).
La guerra di Hamas contro i media
gni volta che il conflitto tra israeliani e palestinesi s'infiamma, i media diventano un campo di battaglia d'importanza quasi pari a quello reale, con entrambe le parti
coinvolte in sforzi per mostrare le proprie ragioni e dipingersi in veste di vittima.
L'ultima guerra tra Israele e Hamas non fa eccezione. Sugli schermi televisivi, sui giornali e sui social network si sono susseguite
immagini di case bombardate e civili palestinesi morti, seguite
dalla risposta israeliana che denuncia l'uso da parte dei terroristi
di Hamas di scudi umani e di infrastrutture civili per immagazzinare e lanciare razzi contro la popolazione dello Stato ebraico.
Entrambe le parti sono convinte che i media parteggino per l'altro:
manifestanti filo-palestinesi protestano a Londra contro la BBC,
mentre chi sta dalla parte d'Israele lamenta che l'attenzione dei
media si concentra sulla risposta militare israeliana e non sulle
azioni terroristiche di Hamas, che hanno scatenato il conflitto. Ma
chi ha ragione? Da che parte stanno i media internazionali?
Sicuramente israeliani e palestinesi hanno entrambi una folta tifoseria e ci sono giornalisti, analisti e opinionisti che hanno scelto
ideologicamente di stare da una parte o dall'altra.
Vi sono però almeno due elementi che pesano su tutti i media, anche sui più benintenzionati e votati all'imparzialità, e che inevitabilmente influenzano la copertura della guerra a Gaza. Questi due
elementi rovesciano la tradizionale idea della sproporzione tra le
forze in campo, spesso invocata a sostegno delle tesi palestinesi, e
mostrano che, almeno nella guerra
mediatica, il disequilibrio è tutto a
sfavore d'Israele.
Il primo punto riguarda la natura
del lavoro giornalistico e delle fonti
d'informazione. Nell'epoca dell'informazione immediata, ventiquattro ore su ventiquattro, i media
devono scegliere se pubblicare subito una notizia, magari non verificata, o rischiare di essere battuti
sul tempo dalla concorrenza. Non
c'è tempo per un approfondimento
o un controllo, e la pressione è resa
ancor più insostenibile dai tanti tagli al personale operati da giornali
e televisioni che attraversano un momento di forte crisi. Questo clima favorisce quei giornalisti che non mettono in dubbio le proprie
fonti, anche quando si tratta d'informazioni provenienti da Hamas,
e che non resistono alla tentazione di pubblicare immediatamente
nuove immagini e notizie di morte e distruzione. Così, ad esempio,
fonti palestinesi hanno potuto diffondere nel mondo la notizia che,
durante l'offensiva su Gaza, dieci bambini erano stati uccisi da un
raid israeliano mentre giocavano in un campo profughi. Quando,
dopo lunghe verifiche, le più attente fonti dell'esercito israeliano
hanno dichiarato che si era trattato invece di un missile difettoso
di Hamas caduto all'interno della Striscia, era ormai troppo tardi:
la notizia era già stata diffusa e i media erano già alla ricerca della
prossima storia.
A questa rapidità e spregiudicatezza nell'utilizzare la sete di notizie dei media, si aggiunge un secondo elemento che mina alla
base l'attendibilità di quasi tutti i reportage provenienti dalla striscia di Gaza. È un segreto di Pulcinella che gli operatori dei media
conoscono, ma che non rivelano quasi mai al proprio pubblico.
Questo segreto è che Hamas, come ogni regime totalitario, mantiene un controllo totale sulle informazioni che escono dalla stri-
scia, utilizzando intimidazioni e violenze per filtrare le notizie
sfavorevoli. Solitamente i media sono restii a denunciare pubblicamente queste pressioni per il timore di troncare i rapporti con
fonti importanti e soprattutto per paura di ritorsioni contro i propri
corrispondenti e contro lo staff locale che continuerà a vivere e
lavorare nella Striscia anche quando le acque si saranno calmate.
Nel caso del conflitto di Gaza, qualcosa si è mosso. Alcuni giornalisti, una volta usciti da Gaza, hanno denunciato di aver subito minacce da parte di uomini di Hamas per aver filmato il lancio di razzi
dalle vicinanze di edifici abitati da civili. Il Washington Post ha
sfidato la censura per raccontare come i sotterranei dell'ospedale
Shifa, il principale della città, siano
stati trasformati nel quartier generale di Hamas. Un giornalista franco-palestinese, Radjaa Abou Dagga
ha dichiarato al giornale Libération
di essere stato arrestato, interrogato e infine espulso da Gaza. L'articolo che racconta la sua storia è
stato poi rimosso dal quotidiano
francese su richiesta dello stesso
Dagga, che ha famiglia a Gaza.
Anche la portavoce del Ministero
dell'Informazione di Hamas, Isra
al-Mudallal, ha inavvertitamente
ammesso in un'intervista con la TV
libanese al-Mayadeen che i militanti dell'organizzazione hanno tenuto "sotto sorveglianza" diversi
giornalisti scomodi, deportandoli da Gaza o "convincendoli a cambiare il loro messaggio in un modo o in un altro".
Di fronte al moltiplicarsi di episodi simili, l'Associazione della
stampa estera, che raccoglie i giornalisti stranieri che lavorano in
Israele e nei territori palestinesi, ha protestato in un comunicato
contro gli "evidenti, incessanti, violenti e inusuali" metodi messi in
campo da Hamas contro la stampa.
Israele, dove l'informazione è libera e non risparmia critiche ai governanti, non può competere con le pressioni e le manipolazioni
messe in campo di Hamas. L'unica risposta possibile è spingere il
mondo dell'informazione a denunciare la guerra silenziosa che a
Gaza si combatte contro la libertà di stampa.
Purtroppo, le proteste come quella della stampa estera sono ancora poche, e la maggior parte dei lettori e spettatori dei media internazionali rimane ancora all'oscuro del fatto che quella proveniente
da Gaza sia un'informazione attentamente controllata, pilotata, se
non in molti casi direttamente orchestrata, dagli esperti propagandisti di Hamas.
ARIEL DAVID
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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Intimidazioni, minacce e violenze: come il movimento islamico
ha usato il terrore per vincere la guerra mediatica
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EUROPA
Una follia che non si riesce
a comprendere: all’Europa
piace il fondamentalismo
islamico
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
D
20
alil Boubaker, rettore della Moschea di Parigi, ha rilasciato un’intervista a Il Mattino, il 21 luglio 2014, che
avrebbe dovuto ricevere maggiore attenzione sia per il
prestigio di chi l’ha rilasciata sia per il suo contenuto.
Richiesto di commentare il contributo delle comunità religiose
europee nella presente critica situazione – l’esplicito riferimento
era alle violente manifestazioni di importanti fasce della comunità
musulmana francese contro l’intervento militare israeliano a Gaza
intrise di accenti antiebraici e anche di atti di violenza contro sinagoghe e persone – Boubaker ha ricordato che le comunità religiose
debbono essere «organi di uno spirito di fraternità e di compassione», mentre accade che «ognuno è
troppo preso dai problemi del proprio
culto, e si occupa troppo poco degli altri». Boubaker ha dichiarato il suo pessimismo perché le «religioni sono senza
più dialogo» e, di conseguenza, «anche
l’Europa sarà coinvolta». E all’intervistatore che ha osservato: «Pessimista e
quasi in collera. È così?», ha risposto:
«Sì, perché la religione che vogliamo,
quella che è la mia, per cui mi sono
battuto, una religione di spiritualità e
di fraternità, è oggi soprattutto una religione di fondamentalisti».
Sarebbe importante se ognuno facesse
la sua parte combattendo ogni sorta di
fondamentalismo religioso e quindi tentando di prosciugare questa sorgente
di intolleranza che rischia di trascinare
le nostre società in conflitti di imprevedibile drammaticità; anche se, sarebbe
ipocrita non dirlo, la parte che spetta al
mondo islamico, in questa fase storica,
è quella decisiva. Proprio per questo,
dichiarazioni come quella di Boubaker
sono importanti ed è grave che non abbiano l’eco dovuta. Boubaker, per il suo
ruolo, dovrebbe rappresentare l’opinione dominante nella comunità musulmana francese; purtroppo,
troppi sintomi indicano che le cose non stanno in questi termini
e che una componente rilevante vada invece nella direzione del
fondamentalismo, alimentando così una faglia della società francese che rischia di trascinarla sull’orlo di una vera e propria guerra
civile. Sarebbe irresponsabile far uso di un termine tanto pesante
se l’adesione al fondamentalismo fosse soltanto una questione interna alle comunità musulmane presenti sul suolo europeo, il che
sarebbe già assai grave tenendo conto dell’entità numerica che
queste hanno assunto in diversi paesi, e che va rapidamente crescendo con le recenti ondate di immigrazione.
Il problema è che il fondamentalismo, malgrado i suoi aspetti più
efferati, tra cui il violento antisemitismo, non soltanto non provoca
un generale rigetto nell’insieme delle società europee, ma trova
anzi tolleranza e persino consensi. Il buon senso lascerebbe credere che la coscienza morale debba prima o poi sollevarsi di fronte
a stragi inaudite. E invece prevale la più ottusa ideologia, per cui
migliaia e migliaia di vittime in Siria non bastano neppure a sollevare un sopracciglio, mentre l’attenzione è riservata esclusiva-
mente ai “crimini” perpetrati dagli “occupanti” israeliani a Gaza.
Ci si chiede: «Ma come è possibile restare inerti di fronte a decine
di migliaia di cristiani costretti a
fuggire o a morire se non accettano di essere convertiti all’islam, a
centinaia di donne schiavizzate e
sottoposte a violenza?». Ebbene è
possibile. I telegiornali mostrano combattenti del califfato islamico
che, agitando i mitragliatori, promettono alle televisioni occidentali: «Stiamo arrivando da voi». E un sacerdote cattolico intervistato
conferma che la vera intenzione, la più profonda ambizione è di
venire a Parigi, Roma e Londra – un’intenzione che riecheggia nei
proclami degli imam londinesi che promettono di sgozzare a Trafalgar Square chiunque non accetterà il primato della sharia.
Qualche anno fa si poteva cavarsela ridendo di fronte a queste
rodomontate. Ma ora è difficile considerarle tali, solo se si guardi all’estensione fisica di un integralismo che si radica in territori
sempre più vasti, che vanno dall’Iraq al Mediterraneo e coinvolgono diverse nazioni africane. A questo
punto riderci sopra è da imbecilli. Ma
il guaio è che in Occidente, e in Europa in particolare, c’è chi non soltanto
non ride, ma anzi manifesta simpatia
per le bandiere nere sulla base dell’inesausta mitologia della rivoluzione
dei poveri che, evidentemente, non
solo si è fatto ben poco per sradicare,
ma che è stata alimentata in correnti
neanche tanto sotterranee. Solo così
si può capire che un rappresentante
di un movimento che ha raccolto un
terzo dei voti in Italia abbia potuto
aprire una “riflessione” sull’Isis e
l’avanzata dello stato islamico, arrivando a dire che oggi il terrorismo è
l’unica arma rimasta a chi si ribella.
Né consola che vi sia stata un’ondata
di reazioni scandalizzate, e non solo
perché questa ondata non si è manifestata in quel movimento, ma anche
perché da altre parti politiche c’è chi
se l’è cavata dicendo che «il terrorista è altrettanto disumano quanto i
droni» e non ha evitato la solita giaculatoria contro i crimini dell’imperialismo e dell’occidente. In epoca di
rottamazione troppi hanno dimenticato il vecchio slogan «né con
lo Stato né con le Brigate Rosse» e forse non riescono neppure a
vedere come l’unica cosa che non venga rottamata è la continuità
nell’alimentare l’odio di sé delle società occidentali, il disprezzo
per la democrazia e la pulsione all’autodistruzione.
Di che stupirsi se una città come Livorno, un tempo considerata un
baluardo della sinistra democratica, sia finita in mano a un sindaco
che ha recalcitrato di fronte alle proteste per uno striscione intriso
di simpatia nei confronti dei movimenti terroristi, espressione di
quella ipocrisia morale che identifica nel sionismo tutti i mali del
mondo? Il rettore Boubaker ha fatto la sua parte e si è espresso con coraggio, ma il lavoro da fare per non sprofondare nella
catastrofe dovrebbe mobilitare ben altre forze “laiche” che sono
invece attente a diseducare nelle forme più irresponsabili le giovani generazioni. Quando in televisione vediamo un capitano curdo
dirci «dateci le armi, combatteremo anche per voi», è difficile non
provare vergogna e sconforto.
GIORGIO ISRAEL
Nella foto in alto: Dalil Boubaker
Un’estate segnata
dall’antisemitismo
A
ssalto alle sinagoghe, vetrine di negozi in frantumi,
cortei di persone che inneggiano all’odio razziale e addirittura locali che vietano l’ingresso a persone ebree.
Persecuzioni razziali del ‘38? No, Europa del 2014.
Già all’inizio di quest’anno si era assistito a molteplici manifestazioni di antisemitismo in concomitanza della Giornata della Memoria (dagli insulti verniciati sulle serrande dei commercianti ebrei,
alle teste di maiale recapitate davanti al Tempio Maggiore), fino a
raggiungere, ad oggi, livelli incomparabili dal dopoguerra. In altre
parole, sembra che la situazione, oltre che a degenerare, stia diventando sempre più incontrollabile.
A seguito dell’operazione militare israeliana “Margine protettivo”, l’Europa è diventata teatro di pregiudizio e intolleranza
razziale. Sicuramente le manovre dell’esercito, da alcuni definite
sproporzionate, hanno dato il via ad una propaganda anti-israeliana confusa e sfociata nell’antisemitismo. In realtà sarebbe più
corretto sostenere che, proprio quest’antisemitismo, che non ha
mai smesso di serpeggiare in Europa, si sia palesato camuffandosi subdolamente da antisionismo. Il primo
paese ad aprire il sipario sulla scena di tali
dimostrazioni è stata la Francia che, lo scorso 13 luglio ha assistito ad un vero e proprio
assalto ad una sinagoga di Parigi, con tanto
di ebreo accoltellato, a seguito di una manifestazione pro-palestinese che inneggiava
testualmente “Juifs à la mort!”, “Morte agli
ebrei!”.
Il secondo grave scontro avvenuto nella
capitale francese, si è verificato a meno di
dieci giorni di distanza; centinaia di persone che hanno preso parte a un corteo, dopo
aver incendiato alcune automobili alla periferia di Parigi si sono scontrate con le forze
dell’ordine. In questo contesto è stato assalito nuovamente un tempio da alcuni facinorosi che hanno anche distrutto e incendiato le attività commerciali di alcuni ebrei.
Successivamente a quanto accaduto, il ministro dell’Interno, Bernarde Cazeneuve, ha
dichiarato che chiunque inneggi alla morte
degli ebrei nel corso dei cortei a favore del
popolo palestinese è accusabile penalmente. Altro attacco ad una
sinagoga si è verificato in Germania, a Berlino, il 29 luglio. Senza
recare feriti né danni alla struttura, la sinagoga è stata colpita da
diverse molotov. Tale atto, accompagnato dalle minacce a diverse istituzioni ebraiche, tra cui quelle al rabbino di Francoforte, ha
portato i membri delle comunità ebraiche della Germania a consigliare ai propri iscritti di non farsi identificare o riconoscere come
ebrei in quanto potenziali bersagli per attentati.
Anche l’Italia non ha tardato a tirar fuori il suo lato peggiore, a
cominciare dallo striscione che riportava la scritta “Stop bombing
Gaza, Israele assassini, free Palestine”, appeso ai cancelli della
sinagoga di Vercelli, la notte del 18 luglio, impedendo l’indomani
l’ingresso ai fedeli. Analogamente, a Livorno, durante una festa
estiva, è stato appeso su un palazzo del centro cittadino, uno striscione che riportava la scritta “Fermare il genocidio a Gaza, Israele vero terrorista”. A poco sono servite l’indignazione della comunità ebraica locale e la lettera di protesta inviata dall’ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, tanto che, a quattordici giorni
dall’affissione, lo striscione è rimasto a sventolare sul muro di quel
palazzo. Ad aggiungersi a questi deplorevoli gesti sono state le dichiarazioni radiofoniche su Radio 24 dell’ex parlamentare europeo
Gianni Vattimo, che dopo aver vomitato insulti e ingiurie su Israele, l’ha paragonata ad Hitler, se non peggio. A queste offese si
sono sommate anche quelle di Lanfranco Lancione, ex consigliere
di Rifondazione comunista a Teramo, che, sul suo profilo Facebook
ha lanciato una proposta: “Riaprire i campi di sterminio, subito!”
e, per rendere l’idea più chiara ha affiancato a quanto scritto la
foto del cancello del campo di Aushwitz Birkenau.
Come se tutto ciò non fosse abbastanza vergognoso per l’Italia, la
mattina del 28 luglio, Roma si è svegliata con i muri tra Via Appia
e Via Cola di Rienzo imbrattati di svastiche e scritte antisemite tra
cui “ Giudei la vostra fine è vicina”. Le oltre settanta scritte sono
state rimosse la mattina stessa.
L’ultimo episodio di odio razziale e di antisemitismo conclamato risale ai giorni a cavallo tra luglio e agosto, in cui, durante il sermone
recitato in un venerdì di preghiera davanti a centinaia di fedeli tra
cui bambini, l’imam di San Donà di Piave, in
Veneto, invoca Allah affinché uccida tutti gli
ebrei “fino all’ultimo, senza risparmiare uno
solo di loro”.
L’appello è stato reso noto da una videoregistrazione postata sui siti di propaganda
islamista e resa nota dal sito del Memri
(Middle East Media Research Institute) al
fine di far presente quanto accade in Italia
in certi luoghi di culto islamici. Conseguenza di tali dichiarazione è stata l’espulsione
dal territorio nazionale dell’imam da parte
del Ministro dell’Interno, Angelino Alfano,
che ha ritenuto il comportamento del sacerdote islamico inaccettabile. Nel frattempo a Istanbul è stato attaccato il consolato
israeliano da centinaia di manifestanti e ad
Anversa un medico si è rifiutato di curare
un’anziana signora perché ebrea. Tutti questi eventi sono stati accompagnati da richiami e da invocazioni, sempre più indegne,
alla Shoà e alle campagne di boicottaggio
contro Israele ormai attecchite in ogni paese. Sembrerebbe che all’Europa, la “Culla della civiltà”, di civile,
sia rimasto ben poco.
YAEL DI CONSIGLIO
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Cronaca di un odio antiebraico
riapparso in molte città europee
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EUROPA
Guerra a Gaza: ovvero il trionfo della disinformazione
In un momento così drammatico per il destino di Israele, le critiche sproporzionate
allo Stato ebraico e al suo diritto a difendersi, hanno un solo nome: antisemitismo
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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due mesi e più dall’Operazione “Tsuk Eitan”, o Margine di Sicurezza, abbiamo assistito, sui nostri media
al solito carosello di appiattimenti sulle posizioni palestiniste più estreme, quelle di Hamas, in una guerra
che anche un digiuno di storia mediorientale avrebbe capito chi a
buona ragione si difendeva e chi invece attaccava. Non sto quindi a riassumere gli avvenimenti ai quali ho assistito essendo stato in Israele mentre accadevano. I lettori di Shalom li conoscono
bene. Mi interessa invece capire come sia stato possibile leggere
analisi, commenti e cronache partoriti dai tasti di giornalisti già ben
conosciuti come nemici dello Stato
ebraico, ma non fino a questi livelli.
Era già difficile accettare l’equidistanza tra la democrazia israeliana
e l’autoritario regime di Abu Mazen, ma in nome di un improbabile
ravvedimento ce l’abbiamo sempre
messa tutta per non togliergli quel
minimo di credito indispensabile
per averlo come partner nei cosiddetti colloqui da pace, ma mai
avremmo immaginato di assistere
alla più farabutta comprensione
verso un movimento che persino la
schieratissima Unione Europea e il
più che sbilanciato Onu avevano
classificato come terrorista. Eppure è quanto è avvenuto, anche se il
biglietto da visita di questi signori
e signore iniziava sempre con una condanna dell’antisemitismo,
come se fosse ancora una moneta spendibile. Purtroppo dobbiamo ammetterlo, spendibile lo è ancora, di questo dobbiamo prendere atto. Israele può essere cancellato dalla faccia della terra,
l’importante è inventare colpe che lo inchiodino sul banco degli
accusati, menzogne dopo menzogne, basta ripeterle, ripeterle,
come diceva Goebbels, uno che se ne intendeva, diventeranno
verità.
Ma c’è una novità, infilatasi in mezzo a “Tsuk Eitan”, che avrebbe dovuto far crollare il castello di bugie diffuse a piene pagine dai nostri media (non da tutti, s’intende, ci sono giornalisti
ai quali stringere la mano per la correttezza dei loro servizi, ma
la maggioranza, Tv e giornali, anche online, è rimasta quella di
sempre, anzi, peggiorata). La novità è l’arrivo del califfato sulla
scena mondiale del terrorismo, con stragi di cristiani che avrebbero dovuto far ricredere quanti l’avevano finora ignorato o sottovaluto.
Quando nel lontano 1985 Bat Ye’or iniziò a scrivere con profonda
conoscenza quella che era l’essenza stessa dell’islam, di tutto
l’islam, facendoci conoscere parole quali eurabia, dhimmitudine,
califfato, i cosiddetti esperti nostrani, tutti, fecero finta di niente,
lo ignorarono, niente recensioni, anche se i suoi libri più importanti sono usciti in italiano. Ci sarà stata sicuramente dell’invidia, ma non solo, le idee di Bat Ye’or non vennero giudicate credibili, per cui i suoi libri non meritavano neppure di essere criticati.
Andavano ignorati e basta. Eppure contenevano, raccontata nei
particolari, l’avanzata del califfato, e con esso il destino dell’Europa prossima alla islamizzazione. Tutto si sta puntualmente verificando, adesso gli esperti del giorno dopo tessono inutili analisi dell’Isil, il nome dell’esercito terrorista che è riuscito persino
a impaurire quell’addormentato di Obama grazie ai massacri di
cristiani, oltre che di musulmani, compiuti senza alcuna intenzione di nasconderli, lo dicono apertamente, nessun piede non
islamico deve camminare sulle terre dell’islam. Di israeliani non
sono ancora riusciti a farne fuori nessuno, ma il merito non è loro,
è di Israele che saprebbe difendersi, non certo a colpi di comunicati o invocazioni alla pace.
Nel loro mirino c’è Israele, ci sono gli ebrei, anche se la manodopera di cui si servono per raggiungere il loro obiettivo spazia
un po’ ovunque, convertiti europei all’islam, musulmani che non
aspettano altro che il martirio,
imam che invitano ad uccidere gli ebrei, come è successo
in Veneto, estremisti della
destra neo-nazi che invitano,
per ora è ancora solo un invito, a non comprare nei negozi
degli ebrei, come è successo a Roma, ma l’obiettivo è
una nuova notte dei cristalli.
“Kauf nicht bei Juden”, chi
avrebbe mai immaginato che
l’orrenda scritta sarebbe riapparsa di nuovo?
Eppure è successo, sta succedendo. Mentre gli organi
stampa più prestigiosi, come
Le Monde, scrivono che “la
tregua
Israelo-palestinese
regge malgrado le violazioni
da entrambe le parti”, riportando le richieste di Hamas ma non le motivazioni di Israele che
le rifiuta, i morti sono stati 2000 fra i palestinesi, facendoli apparire tutti come civili, e solo 67, tra i quali 64 soldati, fra gli israeliani, ecco la dimostrazione della mancanza di proporzionalità
che dovrebbe condurre Israele sul banco del tribunale internazionale, e poi il fotografo italiano ucciso dallo scoppio di un missile
israeliano, senza dire che lo stavano disinnescando senza prendere nessuna precauzione, tutte queste perle di disinformazione
le ho prese da Le Monde del 15 agosto a pag.3, ma le abbiamo
lette tali e quali su molte testate italiane.
Perché allora stupirsi se Israele, dico Israele, non i falchi, che
pure ci saranno, ma la maggioranze dei cittadini che si avvicina quasi al 90% è d’accordo su come il governo ha gestito Tsuk
Eitan? Perché è così che funziona una democrazia, ma ai nostri
esperti del giorno dopo questo non basta, Israele deve avere torto comunque. Guai se li chiamiamo antisemiti, si offendono, querelano, respingono al mittente l’accusa, mentre dovrebbero solo
prenderne atto e gettare finalmente la maschera.
Gli ebrei vi sono sempre stati sui cosiddetti, e adesso potete scriverlo convinti di farla franca. Certo, qualche ebreo vi può anche
piacere, quelli che sanno stare al loro posto, quelli fiduciosi che
l’Europa e l’America non permetteranno più bla, bla bla… quelli
vanno bene, criticano Israele mentre è in guerra, suscitando persino i rimproveri di A.B.Yehoshua e Amos Oz, ma non ci fanno
caso, il repertorio dei pacifisti israeliani, come in tutte le democrazie che si rispettano, è lì pronto per essere sfogliato, di altri
nomi se ne trovano sempre.
Intanto cominciamo noi a non concedergli più nessun alibi. Se
non stai con Israele e il suo diritto a difendersi sei un antisemita.
Basta con gli sconti, la stagione è finita, torna il prezzo pieno.
ANGELO PEZZANA
Agosto 2014: ci ricorderemo
di un silenzio assordante
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I CORSI DEL PITIGLIANI 5775
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G. Ciccarone, A. Goldman, A. Tedeschi, C. Terracina
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di 4 anni perché non sono bastati 15 secondi per portare i suoi
fratelli e lui nel rifugio.
Il silenzio nasce da tanti diversi fattori e gioca su molte componenti, nasce dalla mancanza di solidarietà o addirittura dalla
cecità di persone con cui si sono condivise parti di vita e che
non riescono a decidere di vedere, perché per vedere c’è bisogno
anche di mettere in discussione il proprio pensiero e smuovere le
montagne alcune volte può sembrare meno faticoso.
Il silenzio di chi non ha più parole perché la Storia dovrebbe avere insegnato a tutti che il razzismo e le sue perversioni non colpiscono solo da un lato, ma si abbattono a 360°, dobbiamo forse
ricordare tutti i giorni che nei campi di concentramento i colori
della discriminazione erano anche altri oltre il giallo.
L’estate ha mandato in ferie lo sdegno l’indignazione la possibilità di lanciare una dimostrazione incisiva di cosa pensi l’Europa
su quello che accade oltre il Mediterraneo, e non solo nella striscia di Gaza.
Non c’è stato il silenzio della riflessione e questo mi fa paura.
Quando il 30 agosto ci sarà il nuovo vertice UE verranno nominati
i ministri europei uomini e donne di cui ignoriamo i programmi.
Di nuovo silenzio.
La politica è una cosa troppo importante per poter consentire
che venga svolta senza coinvolgere i cittadini, il timore è che
tagliare il silenzio possa essere pericoloso. Per chi? Perché? Domande dalle risposte troppo articolate o responsabilità che non
si vogliono assumere?
La definizione perfetta della situazione attuale che ha dato Papa
Francesco è straziante: siamo di fronte alla terza guerra mondiale a puntate, e fra una puntata e l’altra sembra che vada in
onda solo la pubblicità. La nostra piccola comunità è stata capace di essere vicina ad Israele nei giorni più difficili, come nella
quotidianità, condividendo anche la terribile trasformazione della quotidianità dei nostri fratelli, per cui se in un giorno cadono
solo dieci missili è andata bene, ma in tutti noi c’è la coscienza
che non è così. Ognuno ha cercato di dimostrare l’essenza stessa
della propria identità ebraica nelle maniere più diverse ma tutte
ugualmente valide ed efficaci, ma tutti abbiamo percepito il silenzio di una grossa parte della classe politica di questo paese e
la difficoltà dei suoi pronunciamenti a favore di Israele.
Del resto dov’è il problema, Hamas lancia i missili, ma Iron Dome
li distrugge, quindi non si capisce il motivo di tutto questo rumore. Certo dobbiamo lasciare tutti in pace, in silenzio, ma noi che
amiamo i nostri figli sappiamo che la vita spezza il silenzio.
CLELIA PIPERNO
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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uando nei prossimi giorni dovessi cercare la cifra di
questa estate 2014, la troverei nel silenzio.
Il silenzio della trepidazione intorno a ciascuno prima
delle telefonate o dei collegamenti skype con Israele
durante il conflitto, il silenzio del dolore dei familiari per i figli che
non torneranno, il silenzio assordante dei politici che difficilmente decidono di prendere posizioni su un terreno come quello del
conflitto in Medio Oriente, sui tunnel, che ancora oggi qualcuno
pensa siano fuori dai luoghi abitati. Il silenzio sulle diverse ONG
che decidono di supportare i terroristi nascondendo le loro armi
negli strumenti di pace e dialogo di prima linea come dovrebbero
essere le scuole.
Il silenzio sulle donne vendute per 12 dollari a Mosul.
Il silenzio come risposta ad una situazione geopoliticamente molto complessa e con interessi talmente confliggenti tra di loro da
risultare difficili da spiegare anche per gli esperti.
Il silenzio nel cuore di una madre cui è stato strappato un figlio
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ITALIA
Un cinguettio minaccioso
Analisi statistica della parola “ebreo”
su Twitter nei giorni della guerra
P
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
oche, pochissime soprese e
tante, tantissime conferme a
quanto da tempo si andava
ripetendo. Agli italiani l’ebreo
sembra proprio non piacere e, se proprio si deve, piace quando prende le distanze dai trend dominanti all’interno
delle nostre comunità, oppure quando
chiede perdono, oppure quando si presta come oggetto di scherno in qualche
battuta o barzelletta di terz’ordine.
Questa, in estrema sintesi, il risultato
dell’analisi dei tweet contenente i termini “ebreo” o “ebrei” condotta dalla
Quality & Managemente Engineering
nel corso del mese di luglio-agosto
Limitandoci al solo mondo di Twitter,
nei giorni normali il numero complessivo dei tweet contenenti uno dei due termini ebreo o ebrei si attesta
intorno ai 30-40 messaggi con contenuti sostanzialmente eterogenei. Di norma c’è un po’ di politica e un po’ di storia che vanno ad
affiancarsi a cultura e religione.
È bastato il solo avvio dell’operazione Protective Edge da parte di
Israele per veder letteralmente schizzare il numero di messaggini
di massimo 140 caratteri su medie giornaliere superiori di almeno
15-20 volte. E la stessa misura si è osservata sugli altri ambienti social, primo tra tutti Facebook. La percezione era quella di una netta
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radicalizzazione dei contenuti dei messaggi ma per poterne avere
conferma e valutarne la portata era necessario approfondire. Di qui
l’idea di applicare le stesse nostre metodologie di analisi che tradizionalmente utilizziamo per valutare il gradimento di imprese e
prodotti con lo scopo di capire non solo il sentimento prevalente degli italiani su ebrei e mondo ebraico ma
anche per valutare principali contenuti
e modalità delle discussioni.
L’esame condotto dalla Quality & Mangement Engineering si è sostanziato
nell’analisi e classificazione rigorosa dei
quasi 4000 messaggi (in gergo tweets o
“cinguettii”) transitati nella settimana
tra l’8 ed il 15 luglio, successivamente
ripetuta secondo un analogo protocollo
sugli oltre 3000 messaggi scambiati in
quella compresa tra il 28 luglio ed il 3
agosto ed ha evidenziato in entrambe
i casi un “sentiment” nei confronti del
mondo ebraico nettamente negativo. In
corrispondenza della prima settimana
analizzata i messaggi di tenore negativo o molto negativo si sono attestati su
oltre il 65% e bilanciati in misura contenuta dal 23% di tweets contenenti attestazioni positive o molto
positive per il mondo ebraico.
Per memoria si ricorda che la settimana fosse stata caratterizzata
non solo dal fitto lancio di missili su tutta Israele e dalle operazioni
mirate alla distruzione dei tunnel scavati da Hamas ma anche dallo
svolgimento di semifinali e finali dei mondiali di calcio. E con una
Germania in grande spolvero l’occasione è stata ghiotta per qualcuno per tirare fuori dal cassetto barzellette di pessimo gusto ed
antichi stereotipi.
Sentimento a parte, ciò che ci ha realmente colpito nei tweet di questa prima settimana è stata l’enfasi attribuita dagli utenti di Twitter
alle prese di distanza quali quelle di Moni Ovadia o di Gad Lerner,
subito assunti dalla rete quale simbolo dell’ebreo che piace da contrapporre a quello che governa il mondo e che si vorrebbe animato
da sensi di vendetta per bilanciare il torto dello sterminio subito per
mano nazista. Non è un caso riscontrare in questa settimana l’uso
distorto della memoria di Primo Levi. Nel contempo non ci aspettavamo nel 2014 di dover essere ancora protagonisti di barzellette
stupide e abominevoli che, invece, abbiamo trovato non solo citate
ma persino ripetutamente ritwittate.
Almeno in termini di “sentiment” i risultati della prima rilevazione
hanno trovato conferma anche a distanza di due settimane nonostante il meritorio sforzo intrapreso dal Progetto Dreyfus per riportare i termini del confronto entro confini di correttezza e veridicità. Va
ricordato che proprio nel corso di questa seconda settimana si sono
verificati i primi segnali di minaccia testimoniati dalla comparsa di
svastiche e scritte su serrande di negozi.
Rispetto alla rilevazione di due settimane prima, nonostante una
diminuzione di circa il 25% dei tweet, quelli contenenti minacce
sono risultati addirittura triplicati. E ci ha lasciato esterrefatti vedere ancora alcuni utenti utilizzare Internet come uno spazio al di fuori
delle regole in cui poter dare libero sfogo a qualsivoglia idea, anche
quando in aperta contraddizione rispetto al codice penale.
In analisi di questo genere è importante il confronto tra più ambienti social e la ripetizione delle valutazioni dopo un certo margine di
tempo. Contano infatti sia i valori assoluti dei risultati ma anche, e
soprattutto, le differenze.
Il mondo di Facebook poco si presta per analisi di questo tipo. La
sostanziale assenza di vincoli per i messaggi Facebook consente di
poter affermare tutto ed il contrario di tutto all’interno di un medesimo post. Di converso, la possibilità di poter replicare virtualmente a
tutti nel rispetto del vincolo dei 140 caratteri spinge l’utente Twitter
a esprimere in maniera più netta il proprio umore, senza alchimie.
ROBERTO E BRUNO DI GIOACCHINO
CATENA
DI COLLEGAMENTO
If I were a rich man, Ya ha deedle deedle, bubba bubba deedle
deedle dum. È l'inizio della concatenazione di pensieri di Topol, il celebre violinista sul tetto.
Cosa si potrebbe fare avendo una somma a disposizione, un
pò per sé, ma anche per gli altri?
Agli ebrei da sempre non manca la fantasia, l'altruismo, e la
volontà storica di lasciare una traccia del proprio passaggio
su questa terra. Questo è anche lo spirito del Keren Hayesod,
i cui progetti di Lasciti, Donazioni e Fondi nascono per dare
pieno valore alle storie personali e collettive. Sostenendo tra
l’altro progetti per Anziani e sopravvissuti alla Shoah, Sostegno negli ospedali, Sviluppo di energie alternative,Futuro dei
giovani, Sicurezza e soccorso, e Restauro del patrimonio nazionale.
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una
storia millenaria
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti
Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia
vi potrà dare maggiori informazioni
in assoluta riservatezza
KEREN HAYESOD
Milano, Corso Vercelli, 9 - Tel. 02.4802 1691/1027
Roma, C.so Vittorio Emanuele 173, - Tel. 06.6868564
Napoli, Via Cappella Vecchia 31 - Tel. 081.7643480
[email protected]
ISRAELE
Le lacrime di Shimon,
il ‘pacifista’
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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Peres è stato l’interprete di una rivoluzione
del pensiero e di una visione del futuro
profondamente ottimista nei rapporti
con il mondo arabo
li ultimi giorni della sua presidenza, Ahimon Peres li ha trascorsi visitando le famiglie dei
caduti, abbracciando le madri
dei soldati, partecipando personalmente al lutto, seduto accanto ai genitori, in
stanze “disadorne”, come prescrive il rituale ebraico della Shibbah. In un paese
dove ogni persona che abbia un minimo di
dignità, anche se critico, o contrario, alla
politica del governo, compie il servizio militare, e oltre i quaranta è richiamato per
quaranta giorni a compiere il suo dovere,
i soldati sono i figli più cari, spesso i migliori, che compiono il loro dovere anche
quando potrebbero evitarlo, sacrificando la
loro vita per gli altri.
A differenza che in molti altri Stati, anche
democratici, in Israele non si finisce di
fronte a una corte marziale, per non avere
indossato la divisa. La possibilità di evitare
il servizio militare, è molto ampia. Al punto che di recente si è posto il problema di
come introdurre degli obblighi, anche per
chi in nome di ragioni di ordine religioso,
fruisce di un privilegio che lascia ad altri il
sacrificio più grande.
Visitare le famiglie dei caduti non è solo un
atto politico. È un atto morale dovuto, frutto di un sentire comune, in un paese tragico dove i genitori convivono con l’angoscia
di dover essere loro a dare sepoltura ai
figli e non viceversa, come dovrebbe essere invece in un mondo normale. Il segreto
dell’amore che i genitori hanno per i figli
in Israele, della loro dedizione assoluta ha
come sfondo questo spaventoso pensiero.
In Israele i bambini hanno tutto dai loro
genitori. C’è qualcosa di commovente nel
modo in cui le madri e i padri si svenano
per i bisogni dei loro figli. Sanno che dopo
quella breve parentesi, i figli dovranno indossare la divisa rischiando la morte per
salvare la vita dei loro genitori e garantire
che la zolla di terra strappata al deserto
non ridiventerà tale.
Il gesto di Peres che abbraccia una madre
in pianto e piange con lei per il figlio caERRATA CORRIGE
L’inchiesta sull’influenza della cultura
ebraica nella musica contemporanea, pubblicata lo scorso numero, è stata redatta
con l’aiuto insostituibile di Miriam Brindisi.
Per un errore il suo nome era stato omesso.
Ce ne scusiamo con l’autrice.
duto, non ha nulla di retorico. E’ anche il
pianto di “un nonno” della nazione, piegato come noi tutti dal dolore, che vede
allontanarsi l’idea in cui ha maggiormente creduto e per cui lottato negli ultimi tre
decenni, aprendo un varco nel cuore della
nazione araba in nome di una visione del
futuro improntata al riconoscimento reciproco, alla composizione dei conflitti e alla
elaborazione del dolore e dei lutti.
Ideatore degli accordi di Oslo, tragicamente falliti, Peres non è di certo un politico
ingenuo. È anche colui, che più di ogni altro, ha fatto per lo sviluppo dell’industria
israeliana degli armamenti e per la creazione del reattore nucleare di Dimona. All’Università Luiss, dove negli anni Novanta,
gli fu consegnata la laurea honoris causa,
invece di diffondersi sulle ragioni storiche
del conflitto mediorientale e sul processo
di pace allora in atto, preferì paradossalmente parlare di rivoluzione informatica e
di bit d’informazione.
Aprendo il suo intervento con un riferimento a Freud, si dilungò su temi apparentemente estranei al suo ruolo politico e alle
ragioni per cui era stato premiato. Con l’animo rivolto agli scenari nuovi che si erano
aperti con la globalizzazione e alle nuove
sfide che ponevano al mondo intero e al futuro di Israele, concentrò il suo intervento
su una grande rivoluzione tecnologica.
Per quanto importante la profondità di un
territorio, non era più sufficiente a garantire la sicurezza del paese. Peres non lo disse in modo esplicito, ma il senso di quelle
parole era chiaro, anche se in molti non
capirono e focalizzarono poi la loro critica
in privato al fatto che in Israele la profondità si riduceva, come in un’antica canzone
degli ebrei di Libia, a “un fazzoletto di terra”. Un po’ come se i confini della Francia
all’epoca della Grande guerra passassero
per il quartiere latino e quelli dell’Italia
nella guerra con l’Austria per il quartiere
di Trastevere. Per chi sapesse leggere tra
le parole il messaggio era chiaro. Tanto
se si pensa agli scud irakeni, piovuti sul
territorio israeliano in una guerra in cui
gli israeliani, per “non mettere in crisi” la
coalizione internazionale di stati per la liberazione del Kuwait, erano obbligati a subire gli attacchi contro le loro città, senza
poter rispondere. I missili furono “pochi”,
i danni “limitati” e la minaccia delle tesate
chimiche, con le immagini delle case con
una stanza ermeticamente chiusa, che
facevano il giro del mondo, “rimase” per
fortuna solo una minaccia. Ma il trauma fu
grande. Per la prima volta, dalla guerra del
’48-49, quando gli eserciti arabi invasero
il territorio israeliano per gettare a mare i
suoi abitanti, gli israeliani sperimentavano un pericolo nuovo, legato allo sviluppo
delle nuove tecnologie, che in un futuro
prossimo avrebbe obbligato gli israeliani a
ripensare la difesa militare del paese, nei
suoi rapporti con la politica, con l’etica, con
la cultura e con l’uso del diritto nell’arena
internazionale.
Per chi avesse saputo leggere il senso di
quell’intervento era chiaro. Era il richiamo implicito alla necessità di una rivoluzione nel pensiero. Nella dottrina militare
israeliana l’idea cardine era di impedire a
qualunque costo al nemico di portare la
guerra dentro confini di Israele. Israele è
uno stato piccolo, dove i confini passano
per la capitale. Israele non ha un fiume o
un mare che separi. Non ci sono montagne
in cui rifugiarsi. Dal Golan e dal Giordano
si plana rapidamente sino ai luoghi più
bassi del pianeta. Una situazione al limite
dell’impossibile, che non poteva in nessun
modo essere trascurata, indipendentemente dall’esito di accordi, condannati in
partenza per il fatto che le decisioni più importanti erano state rimandate a un futuro
incerto, legate ai progressi dell’intero processo. Come poi è tragicamente accaduto,
con i sanguinosi attentati contro i civili e
gli autobus che saltavano per aria.
Rappresentante di una generazione che ha
contribuito in modo decisivo alla nascita
dello Stato, Peres incarna col pensiero e
con l’azione una complessità irrisolta che
nonostante le impossibilità cumulative, cui
è andata incontro la società israeliana, non
colpa” in più. Poco importa se Hamas usa
in modo programmatico i civili palestinesi come scudi umani, minaccia e scheda i
giornalisti che non si adeguano ad una falsa narrazione degli eventi bellici e nel suo
statuto dichiaratamente antisemita, afferma che l’obiettivo è la distruzione di Israele. Nella tragica conta dei morti, abilmente
manipolata da una stampa compiacente,
le vittime di ieri, diventano i “carnefici” di
oggi.
La falsa equazione delle vittime che si trasformano in “carnefici” non è solo un’infame menzogna. Esprime in realtà un desiderio degli antisemiti europei e islamici.
Se Israele fosse colpevole, come viene fol-
lemente e falsamente descritto dalla nuova accusa antisemita, i conti col passato
sarebbero per tutti “pareggiati”. In questa
logica, le colpe del passato non sono più
tali. “Confessando” le colpe del passato,
presentandosi come schierati dalla parte
dei più “deboli”, gli europei sarebbero “liberati” delle colpe passate per il genocidio
e per il colonialismo. La falsa rappresentazione di Israele come Stato occidentale ed
europeo, mediante il quale l’Europa ha scaricato su altri le proprie colpe, è un tassello
importante di questa costruzione. Israele
diventa il capro espiatorio di tutto ciò che
non funziona nei rapporti tra le due sponde
del Mediterraneo. In realtà israeliani e palestinesi hanno terribilmente bisogno l’uno dell’altro per costruire un futuro diverso
per i figli. Non perdere questa capacità di
visione del futuro è per Israele essenziale
per aprirsi un varco nel cuore della nazione araba. Per giungere alla pace non basta purtroppo avere siglato accordi che
definiscano i confini presenti e futuri. Ci
vuole una visione condivisa
del presente e del futuro che
faccia da sfondo per il recupero del passato. Altrimenti
l’accordo rischia di essere
solo una hudna coranica,
una “tregua” per attaccare
poi da posizioni più vantaggiose, come teorizzò Arafat
all’indomani della firma di
Oslo in una moschea a Sidney. Per utilizzare un’immagine di Amos Oz, israeliani e
palestinesi sono condannati
come divorziati a dividersi i
pochi spazi a disposizione.
Tocca alla cultura preparare
il terreno, ma è la politica a
doverne fissare i termini. Quanto allo Shalom biblico, cui aneliamo, è un’altra cosa.
Non appartiene alla politica. E’ in primo
luogo una categoria interiore dello spirito,
qualcosa che ha a che vedere con l’utopia
messianica e non con la realtà della storia
e della politica.
DAVID MEGHNAGI
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
ha mai cessato di interrogarsi su un futuro
possibile misurandosi con le sfide più difficili. Il “pacifismo” di Peres è la ricerca di
un compromesso politico sostenibile, che
apra orizzonti nuovi in un’area del mondo
segnata da un secolo di guerre. Dove tutti i
problemi lasciati aperti dalla Prima guerra
sono rimasti aperti: la questione dell’acqua e dei rapporti fra popoli e culture religiose, la questione dei kurdi sparpagliati
in quattro diversi stati, il conflitto storico
fra sunniti e sciiti, la tutela delle minoranze religiose, il problema dell’uguaglianza
tra persone di fedi diverse. Per non parlare
degli assetti di potere autoritari e che oggi
esplodono spaventosamente. Molto più di
quanto Peres immaginasse
allora, nel suo intervento alla
Luiss, occorreva allora come
oggi, una rivoluzione del pensiero che assumesse in pieno
le sfide del futuro sul piano
culturale, politico e diremmo
oggi giuridico, e non solo militare.
In molti, guardarono illusoriamente al ritiro israeliano
dal Libano, come al ritorno di
una condizione che avrebbe
restituito a Israele un diritto
pienamente riconosciuto di
reagire in caso di attacco. Le
cose si sono poi rivelate molto
più complesse e difficili. Nonostante il diritto a reagire, nello scontro
con Hizbullah prima, e con Hamas oggi, gli
israeliani si sono ritrovati sul banco degli
accusati, nonostante abbiano fatto di tutto per evitare di colpire i civili utilizzati
programmaticamente come scudi. Il fatto
che Israele riesca a impedire la strage dei
suoi cittadini diventa perversamente “una
27
ISRAELE
La cultura è il vero biglietto
da visita di Israele
Lo spiega Ofra Farhi, che dopo cinque anni
di grande impegno, termina il suo mandato
diplomatico presso l’Ambasciata israeliana
a Roma
“N
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
on chiediamo alla gente di venire da noi, ma andiamo noi dalla gente”. Con queste parole Ofra
Farhi ha descritto il lavoro svolto nel corso del
suo mandato di addetta culturale presso l’Ambasciata d’Israele in Italia, in scadenza proprio in questo mese
di settembre. Giunta a Roma alla fine del 2009, ha basato il suo
lavoro sulla ricerca di relazioni stabili con istituzioni ed enti italiani, al fine di far comprendere le risorse culturali di cui dispone
Israele. “Avrei potuto organizzare eventi tramite l’Ambasciata”,
ha dichiarato intervistata da Shalom, “ma sarebbero rimaste iniziative isolate, senza continuità, senza un seguito. I miei sforzi
sono stati investiti nel creare rapporti duraturi con direttori artistici, organizzatori e curatori di mostre”.
Un lavoro intenso, finalizzato a dare risultati nel lungo periodo.
La diffusione in Italia della cultura israeliana in ogni sua forma
è però la dimostrazione di come sia stato un percorso vincente.
La strategia di Farhi è partita dalla necessità di far conoscere e
apprezzare lo Stato di Israele: da qui l’organizzazione di viaggi
in Israele per direttori di musei e organizzatori di eventi, dove
è nata una curiosità presto trasformatasi in interesse concreto.
Per scegliere su quali ambiti investire maggiormente, Ofra Farhi
ha varato una duplice impostazione: da un lato sono state proposte quelle discipline dove gli israeliani eccellono, come la dan-
28
za contemporanea o la musica
classica e il jazz; dall’altro lato,
sono stati consolidati quei
campi di cui le abilità israeliani
erano già note, come la letteratura. Le iniziative si sono così
via via moltiplicate.
Ballerini e coreografi israeliani
hanno presto conquistato la
scena, dal festival Romaeuropa
a Torinodanza, che ha già accordi per la partecipazione di
artisti israeliani nei prossimi
anni. Le tre grandi compagnie,
Batsheva, Kibbutzit e Vertigo
hanno così affascinato anche il
pubblico italiano.
Un’altra sfida vinta è stata
nell’arte contemporanea. La
collaborazione con curatori molto interessati ha portato a risultati importanti. Uno degli esempi di cui Ofra può dirsi orgogliosa
è il rapporto instaurato con la Galleria Marie-Laure Fleisch, dove
nell’anno 2012 sono state ospitate ben 4 mostre di 7 artisti israeliani, poi raccolte in un catalogo oggi disponibile al Macro, il
Museo di Arte Contemporanea di Roma. Ma non è stato questo
l’unico successo: basti pensare alla mostra di gennaio 2013 di
altri 24 artisti israeliani, tenutasi proprio al Macro, o alla recente
esposizione che ha raccolto le opere di Tsibi Geva, invitato anche
alla prossima biennale di Venezia.
Un settore che in Italia non aveva bisogno di presentazioni era
la letteratura: “I libri di Oz, Grossman e Yehoshua sono sempre
tradotti in italiano e sono presenti ad ogni festival di letteratura
in Italia”, ha ricordato Farhi. In questo campo si è proposta così
una sfida diversa, quella di promuovere scrittori meno famosi,
giovani e donne: da qui la scelta di puntare su autori come Lizzie
Doron o Etgar Keret, oggi noti al grande pubblico.
Dal Festival di Venezia all’Isola del cinema, passando per il Pitigliani Kolnoa Festival, anche il cinema israeliano è stato protagonista in Italia. Senza dimenticare la musica: oggi cantanti come
Asaf Avidan, Noa, Sarit Hadad o Idan Raichel sono estremamente popolari, ma il contributo israeliano è visibile in molti generi,
come dimostra ad esempio il jazzista Daniel Zamir.
Far conoscere Israele in ogni sua sfaccettatura è un modo alternativo di fare diplomazia: chi conosce la cultura israeliana sa che
la realtà è più ampia e più complessa di quanto passa attraverso
i tradizionali mezzi di comunicazione. È un lavoro continuo, una
coltivazione profonda per far conoscere un mondo poco noto a cui
la gente spesso non è abituata.
“Israele si trova continuamente ad affrontare sfide”, conclude
Farhi “e da queste sfide nascono invenzioni”. La cultura fa parte
della vitalità di Israele: non si può scindere dalla vita quotidiana
e rappresenta uno dei migliori strumenti per promuovere l’immagine dello Stato ebraico all’estero.
D. T.
Nella foto in basso, da sin: Tsibi Geva e Ofra Farhi
Cambio alla guida dell’Ufficio
Nazionale del Turismo israeliano
Dopo nove anni Tzvi Lotan lascia l’incarico.
Gli succede Avital Kotzer Adari
D
al prossimo mese di agosto, l’ufficio nazionale israeliano
del turismo in Italia avrà un nuovo Direttore: Avital Kotzer Adari, giovane ma già esperta di Italia e di turismo.
Avital raccoglie l’eredità di Tzvi Lotan, predecessore illustre per il complesso lavoro svolto e per gli ottimi risultati ottenuti.
L’avvicendamento è stato presentato ufficialmente sulla terrazza
di un hotel del centro di Roma, in cui Lotan si è congedato da amici
e colleghi avuti in questi anni di Italia e Kotzer è stata presentata
ad operatori e media. “Sono un israeliano nato a Buenos Aires e
vissuto in Italia”, ha affermato Lotan nel suo discorso: nove sono
stati infatti gli anni passati nel nostro Paese, dal 2000 al 2004 e poi
di nuovo dal 2009. Sfide non semplici quelle che ha affrontato: il
turismo in Israele allo scoppio della seconda Intifada, infatti, era
stato messo a dura prova; il 28 agosto 2000, quando iniziò il suo
primo mandato, pochi mesi dopo la prima visita “reale” di un Papa
in Israele si poteva contare su dodici voli settimanali di pellegrini
diretti in Israele. L’Intifada, iniziata alla fine di settembre, rese la
sua strada una salita faticosa, ma i 175mila italiani che nel 2013
hanno visitato lo Stato ebraico rappresentano oggi la sua rivincita.
La Kotzer promette di seguire il percorso già avviato da Lotan:
inizialmente l’obiettivo sarà quello di un incremento di circa il 5%,
dedicandosi alla conoscenza dei meccanismi specifici del settore;
per il 2015 sono previsti i progetti più ambiziosi, con l’auspicio
di raggiungere i 200mila visitatori. La nuova direttrice dell’Ente
si presenta con una preparazione particolarmente valida: è reduce dal corso di formazione per i Cadetti organizzato dal ministero
del Turismo israeliano, presso il quale ha anche lavorato per due
anni come diretta assistente del direttore generale; all’interno del
dipartimento di marketing, nella divisione esteri dello stesso ministero, è stata anche responsabile del desk Europa Occidentale.
L’esperienza non le manca, così come è forte già di un’ottima conoscenza dell’Italia e dell’italiano, grazie ai sei anni trascorsi qua.
“Sono arrivata nel 2004”, racconta a Shalom “e per sei anni ho
lavorato nell’ente del Turismo a Milano, dove è nata la passione
per il turismo. Di questo Paese mi sono innamorata dal primo momento in cui sono arrivata: la gente, il cibo, la cultura, l’architettura. Per me è una seconda casa”. Avital è pronta a rimboccarsi le
maniche: “devo studiare la materia perché il mercato è cambiato
in questi anni”, continua nella sua intervista, “poi il mio sogno è
portare più italiani in Israele e ciò è possibile. Ognuno può trovare
qualcosa in Israele: il mercato già offre tanto, spero che troveremo
anche nuovi aspetti di Israele poco noti in Italia, in grado di attirare ancor più turisti, puntando soprattutto ai giovani”. Non resta
quindi che fare i migliori auguri ad Avital Kotzer per questa sua
nuova avventura.
DANIELE TOSCANO
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SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
È PIÙ DI UNA COMPAGNIA AEREA, È ISRAELE
29
ISRAELE
Vivere a 15 secondi
da Gaza
L’esperienza degli israeliani
che vivono a ridosso del confine
con la Striscia
U
na giornata nel Sud di Israele, nei pressi del confine
con la Striscia di Gaza e con l’Egitto, per comprendere
le sfide che quotidianamente, tanto in tempo di guerra
quanto in pace, gli abitanti di queste zone si trovano a
fronteggiare. È stata una delle iniziative del Jewish Media Summit, proposte dagli organizzatori in collaborazione con il KKL, ai
giornalisti presenti, provenienti da venticinque Paesi diversi.
“Hamas è un’organizzazione terrorista che controlla le vite di
quasi due milioni di persone residenti nella Striscia di Gaza”, ha
spiegato ai giornalisti un ufficiale dell’Israel Defense Force mostrando il confine. Per Israele questa situazione genera tensioni
continue, visto che chi vive in queste aree non può condurre una
vita normale. Ciononostante, il governo israeliano si impegna a
sostenere la popolazione della Striscia: il 60% dell’elettricità e
oltre la metà dell’acqua provengono proprio da Israele, oltre ai
medicinali e agli aiuti umanitari. C’è infatti una netta distinzione
masa.pdf
15/11/2013 16:24:44
tra la 1popolazione
palestinese e Hamas: quest’ultimo è il vero nemico, un’organizzazione terrorista che ha legami con l’Iran, con
Hezbollah e con altri movimenti jihadisti.
masa.pdf 1estremamente
14/11/2013 11:15:53 critiche in cui si trova a vivere la
Le condizioni
popolazione nella parte meridionale di Israele sono state espo-
ste anche nelle tappe successive. La scuola di Shaar Hanegev si
trova a meno di dieci km dal centro di Gaza. In caso di allarme,
in 15 secondi bisogna correre nei rifugi. Nel descrivere al pubblico le difficili condizioni in cui conduce il suo lavoro, una delle
insegnanti afferma con orgoglio che i ragazzi pensano anche ai
loro coetanei palestinesi, per i quali molti studenti israeliani si
sono detti preoccupati e dispiaciuti. È Irit Tarasula, una ragazza
di appena 16 anni, a spiegare a Shalom la quotidianità di questi
ragazzi: “Abbiamo paura ogni volta che suona l’allarme e siamo
costretti a correre nei rifugi. È terrificante. Appena si verifica,
bisogna saltare di corsa in un luogo sicuro. La nostra scuola per
fortuna è protetta con i suoi rifugi. Tuttavia, questa situazione
può danneggiare il nostro studio: nonostante le precauzioni della
nostra scuola, non è semplice portare avanti i propri progetti col
rischio di dover fuggire da un momento all’altro”. Irit vive in un
moshav a venti minuti dalla scuola, anche qui con le sirene che
suonano in continuazione. La parte più pericolosa della vita di
Irit è però quando compie il tragitto tra i due luoghi principali,
sul bus, dove la possibilità di ripararsi dagli attacchi si riduce.
Avvicinandosi al confine con la Striscia, si giunge nei nuovi sviluppi residenziali dove si sono stabiliti gli abitanti di Gush Katif,
l’insediamento più a Sud nella Striscia di Gaza prima del ritiro
ordinato da Sharon nel 2005. Qui racconta la sua storia il rabbino Eli Adler, nel 2005 costretto ad abbandonare la sua casa ad
Atzmona: “un’esperienza traumatica: noi diventammo una comunità senza casa”. Tuttavia, Adler e gli altri hanno continuato
a credere nel loro sogno, fondando nuovamente la comunità qui
nel Negev e affrontando la sfida del clima e i rischi connessi al
tema della sicurezza. “Una decisione non semplice”, ha spiegato
a Shalom, “ma che alla fine si è rivelata un miracolo” visto che,
nonostante le numerose difficoltà, la vita della comunità si svolge
regolarmente.
Anche nel Sud di Israele vi sono attività economiche, culturali,
agricole. Ma con una difficoltà in più, visto che dal 2007 vi è la
costante minaccia dei missili di Hamas: una giornata in questi
luoghi può aiutare a far capire come vive, lavora e studia la popolazione stanziata in quest’area.
D. T.
C
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
M
Y
CM
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Israeliani all’estero, comportatevi bene!
‘Shagririm shel ratzon tov’ è una associazione che insegna ai turisti
che la responsabilità personale è anche collettiva
il giusto comportamento di un turista e la necessità israeliana
di questo giusto comportamento, brevi film esplicativi durante il
volo, seminari in collaborazione con il Ministero dell’Educazione
(sic!)… cartelloni pubblicitari e manifesti che invitano tutti a comportarsi bene… do good, come recita in inglese lo slogan dell’associazione. Do good Israel. Chiaro è che l’esistenza di un'organizzazione del genere che ha il sostegno del Ministero dell’Educazione, del Ministero degli Esteri, di molti movimenti giovanili,
di tutte le compagnie aeree nazionali, esprime più necessità e
manifesta verità incontestabili. Il turista israeliano spesso costituisce un problema anche per la stessa società israeliana a cominciare dalla fila per il check in. Questa realtà problematica non
aiuta la nostra immagine all’estero in un momento storico nel
quale la mistificazione mediatica non aiuta la nostra immagine
come paese in lotta per la propria sicurezza. Un israeliano che
rappresenta degnamente Israele probabilmente non cambierà i
codici di questa mistificazione ma farà in modo che
la società israeliana non
paghi anche il prezzo della propria maleducazione,
ipotetica o reale che sia.
Comportatevi bene voi 4
milioni di turisti israeliani che in media ogni anno
andate all’estero. Comportatevi bene perché siamo un paese che
non può permettersi di avere cittadini maleducati. Ricordatevi
che all’estero voi siete Israele. Ricordatevi che i riflettori del mondo possono illuminare il peggio o il meglio di noi e ricordatevi
che kol israel arevim ze la ze. Ogni israeli(ta) è responsabile per
l’altro. Quando viaggia, quando è turista, quando cammina per
strada, quando si corica e quando si alza in un albergo, quando
nuota in una piscina pubblica, quando prende il sole al mare,
quando si lega un pareo e quando si sistema gli occhiali da sole
tra gli occhi.
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
Prof. Silvestro Lucchese
Chirurgo specialista
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SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
I
l conflitto tra Israele e Hamas che ha riempito molti titoli
dei giorni estivi ha anche scoperchiato come fosse un vaso
di Pandora l’antisemitismo e l’antisionismo (spesso difficile distinguere i due!) di gran parte del mondo Occidentale. Accanto a questi drammatici aspetti della cultura moderna
e contemporanea troviamo però un’insofferenza, una profonda
antipatia verso lo Stato di Israele e verso gli israeliani in genere cosa che comincia a preoccupare gli stessi israeliani. Al di là
delle dure scelte politiche e militari dei governi di Israele che
devono preservare la sicurezza dei propri cittadini e solo dopo
possono rilevare le eventuali impopolarità globali delle loro azioni, gli israeliani sembrano non essere turisti ben accetti e sempre
più strutture turistiche ed operatori del settore indicano la loro
presenza come un fattore con basso, bassissimo gradimento da
parte di albergatori, ristoratori, animatori di villaggi turistici e
simili.
Un medio israeliano laico
vi racconterà che la colpa
è dei turisti religiosi e citerà ad esempio le centinaia di migliaia di dollari
di danni che causano ogni
anno i turisti chassidim
“Breslav” quando vanno per Rosh Hashanà in
Ucraina a visitare la tomba di Rabbi Nachman, loro antico rebbe,
nel giorno della sua dipartita.
Il medio israeliano religioso addosserà tutta la colpa al mondo
laico che non avendo nemmeno timore di Dio e delle mitzvot, non
è in possesso nemmeno di quella educazione basilare necessaria
al vivere civile. L’immagine di un paese passa anche tra i passaporti dei propri turisti e che lo si voglia accettare o meno Israele
ha bisogno di avere un'immagine internazionale positiva, accogliente, che esprima il meglio della società israeliana, un'immagine di inclusività, modernità, tradizionalismo ed innovazione. A
nulla valgono le folli ipotesi politiche di un paese forte ed isolato
come un leone ritirato a vivere sulla sommità di una roccia. I leoni
vivono in branco così come le nazioni devono avere relazioni con
le altre nazioni e nel mondo, come ben sappiamo, non esistono
rocce isolate. Ma come si può insegnare all’israeliano ad essere
un buon rappresentante del proprio paese? Come si può inculcare in ogni cittadino di Israele quel senso di responsabilità che lo
trasformi in un rappresentante del paese, ovunque e comunque?
L’organizzazione “Ambasciatori di buona volontà” (Shagririm
shel ratzon tov) ha fatto proprie queste domande cercando di
intervenire sui punti critici dell’essere dei buoni rappresentanti
per Israele. Si tratta di un'organizzazione senza scopo di lucro
che ha come unico scopo quello di migliorare il comportamento
dei turisti israeliani all’estero (come se poi in casa possano invece continuare a peggiorare) e quello di insegnare loro una semplice equazione: “Voi siete gli ambasciatori di Israele.” Tutti voi,
cittadini di Israele che andate verso “fuori”, chul come si dice in
ebraico, “chutz laAretz” fuori da Israele dovete rappresentarci
con onore. L’organizzazione si rivolge a chiunque e chiede l’aiuto di chiunque: uomini di affari, studenti, educatori, artisti, tutti
gli uomini di “buona volontà” che possano influenzare il proprio
comportamento e quello degli altri quando sono turisti all’estero
(perché ripeto per questa organizzazione se un israeliano va invece ad Eilat può non migliorare il proprio comportamento). Gli
spazi, educativi e fisici, scelti dall’Organizzazione sono molteplici e significativi: depliant in aeroporto che invitano e spiegano
31
MUSICA
Incontro con Noa.
La mia musica
per curare l’anima
Il suo ultimo album, “Love Medicine”, è
stato prodotto attraverso il sito internet
“Headstart”, che consente
il finanziamento di un’opera artistica
tramite il suo acquisto prima
della pubblicazione
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
H
32
o intervistato con enorme piacere Achinoam Nini, in
arte Noa, poco dopo la presentazione e l'inizio del tour
in Italia del suo ultimo album "Love Medicine". Il primo
concerto del 2014 nel "Bel paese" ha avuto luogo ad
Ischia il 13 Luglio; il tour è proseguito in varie città del sud e continuerà risalendo le stivale, facendo tappa a Roma il 21 ottobre, per
terminare il 30 ottobre a Trieste.
Noa è un'artista eclettica, dalle mille sfaccettature, sia come musicista che cantautrice. Nata in Israele e cresciuta negli USA, ritorna
in Israele all'età di 17 anni e decide di rimanervi. Ha conosciuto
Gil Dor, partner musicale, nella scuola d'arte "Rimon" e da quel momento non si sono più separati. E' stata nominata ambasciatrice
della FAO e ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui un premio
artista per la pace nel 2001. L'Italia è per Noa molto cose: il film
premio Oscar "La vita è bella" di Roberto Benigni, di cui
ha cantato la colona sonora;
Napoli e il suo dialetto; i
concerti in presenza di Giovanni Paolo II e non da meno
il pubblico italiano.
Il suo ultimo album "Love
Medicine" è un progetto che
si è avvalso di numerose
collaborazioni ma anche di
un grande lavoro "indipendente": è stato pubblicato
in modo non convenzionale
come "Headstart", grazie alla
sovvenzione del pubblico.
Nell’ultimo lavoro la sua è
voce come una carezza, e
come nella canzone "Don't
be afraid", induce un senso
di serenità.
Hai un rapporto molto speciale con l'Italia e con il pubblico italiano: com'è salire sul palcoscenico in questo Paese?
Ho un contatto veramente stretto con il pubblico italiano, fin dall'inizio della mia carriera, 24 anni fa. Tutto ha avuto inizio ad un
festival in Francia: un impresario a cui ero piaciuta aveva messo in
rete il mio nome dicendo di aver scoperto una nuova artista. La notizia è arrivata alle orecchie di un manager catanese; ricordo ancora quando mi chiamò; non conoscevo neanche quella città ma così
è iniziata la mia storia d'amore con l'Italia. In quegli anni ho cantato in Vaticano, poi la collaborazione con Nicola Piovani e Roberto
Benigni per "La vita è bella"; nel 2006 e nel 2011 ho pubblicato 2
CD di canzoni napoletane del titolo "Napoli-Tel Aviv" e "Noapolis".
Ho portato le mie canzoni in giro per l'Italia non solo nelle grandi
città ma anche nei paesini meno conosciuti arrivando fino al cuore
della gente, ho capito che gli italiani sono persone calde e mi sono
innamorata di loro. L'Italia mi ha dato inoltre la grande opportuni-
tà di cantare per la pace, cosa che sta molto a cuore agli italiani,
come una soluzione pacifica per conflitto Israelo-Palestinese. Qui
ho avuto l'occasione di collaborare con artisti palestinesi residenti
in Italia, esperienza importante per entrambi.
Nel tuo ultimo progetto con Gil Dor, "Love Medicine", hanno partecipato vari artisti, e quindi le canzoni risultano molto varie; quale
è il motivo di questa scelta?
Quest'ultimo album è il risultato di un lungo processo che ha unito
la composizione delle canzoni alla curiosità. Gil Dor ed io abbiamo
sperimentato come bambini che "plasmano il pongo"; le canzoni
hanno preso forma dal nulla. In realtà abbiamo collaborato con
persone che ammiriamo e stimiamo. Ci siamo ispirati ad artisti
come Joao Bosco, con cui ho avuto l'onore di cantare, per esempio
nella scrittura del testo di "Happy song", e come Bobby Mcferrin,
con cui ho fatto un concerto
a Tel Aviv, e che mi ha dato
il privilegio di poter cantare
un meraviglioso brano, rimasto per lungo tempo da
parte e che forse aspettava
proprio a me. Un altro grande artista è Pat Metheny,
il quale ha aperto i confini
internazionali alla mia musica nel 1994. Uno dei pezzi
di questo album, "You", nato
dall'incontro con Joaquin
Sabina, artista dal quale
sono rimasta colpita per la
sua storia, anima e grande
creatività (dipinge meravigliosamente); abbiamo cantato insieme al debutto di
"Love Medicine" a Tel Aviv,
e mi ha invitato a cantare con lui in Argentina. Gil Dor e io abbiamo cominciato la registrazione dell'ultimo album nel mio studio a
casa, grazie alla fiducia del mio pubblico, utilizzando una modalità
internet "Headstart", sito che consente il finanziamento di un'opera
artistica tramite il suo acquisto prima della pubblicazione.
Nella canzone "You", duetti con Joaquin Sabina uno dei musicisti
più amati in Spagna e in America Latina. Che cosa provi sapendo
che tanti artisti vengono in Israele per incontrarti?
Joaquin è una delle persone speciali che ho avuto la fortuna di
incontrare nella mia carriera ed venuto anche a trovarmi in Israele.
Anche altre persone, come Pep Guardiola ex-allenatore del Barcellona, città in cui sono molto famosa, sono venuti in Israele e grazie
alla nostra amicizia gli ho potuto mostrare il mio paese; mi riempie di gioia sapere che migliaia di ammiratori, persone comuni e
personaggi pubblici che mai avrebbero visitato Israele, imparano
a conoscerlo perché sono curiosi di capire da dove vengo. Posso affermare ciò perché loro stessi me lo scrivono, lo faccio con il cuore
che ho voluto omaggiare per il grande affetto
con il quale mi segue da anni ma è anche un
ringraziamento a tutto ciò che offre questo
paese, in termini di paesaggi naturali, cultura e molto altro.
Nella tua carriera hai avuto la fortuna di cantare di fronte a presidenti, grandi personaggi
del nostro tempo e persino davanti al Papa.
C'è un evento fra questi che ricordi in modo
particolare?
L'evento più importante in cui mi sono esibita è stato alla manifestazione di pace prima
dell'uccisione di Itzhak Rabin, perché sento di aver fatto parte di
un momento storico. La speranza di pace è come un raggio di luce
nelle tenebre. Ci sono stati cantanti che non hanno voluto partecipare per non schierarsi politicamente e da una parte posso capirli,
ma alla fine tutti paghiamo il silenzio. Sono orgogliosa di me e di
Gil Dor per aver partecipato. Dal momento della morte di Itzhak
Rabin, la mia vita e quella di tutto il paese è cambiata; la mia lotta
è tenace come la visione della pace.
Sul palco sei pronta alla lotta, coerente con le tue idee, senza paura, ma nelle tue canzoni traspare un atmosfera d'amore e serenità.
Come spieghi questo contrasto?
Pago per quello che dico, e mi dispiace che nel mondo un artista
debba pagare e non essere premiato per il suo coraggio. Le mie
idee politiche tradotte in parole, escono dal lato umano, onesto
e sincero, lo stesso lato dal quale nasce la mia creatività. La mia
creatività non può essere limitata o chiusa in una scatola; quando scrivo non lo faccio in funzione di creare una "hit" radiofonica;
scrivo ciò che sento e credo in ciò che dico, e lo faccio affinché la
mia famiglia e la mia comunità possano vivere in un mondo di alti
valori umani: "ama il prossimo come te stesso"
Progetti per il futuro?
Continuare a fare musica nel migliore modo possibile. Gil Dor e io
abbiamo fondato una "start up" per scoprire nuovi talenti. Magari
vorrei anche studiare all'università. Ma la cosa più importante e
crescere i miei bambini nella serenità. Naturalmente continuare
il mio impegno politico perché esprimere le proprie idee ed ispirare gli altri con esse è come accendere una candela nel buio. Ho
sempre avuto un sogno: cantare in occasione dell'accordo di pace
fra noi e i nostri vicini. Sarà mai possibile? Non lo so, ma rimango
sempre aggrappata a questo sogno.
A CURA DI YAARIT RAHAMIM
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
e sono felice di averne il merito. Tutta la mia
attività in favore della pace viene dall'amore
per il mio paese.
Perché hai deciso di dare il titolo "Love Medicine" al tuo album?
Perche la musica è la terapia dell'anima.
Nella tua vita artistica, c’è stata una persona che ti ha influenzata ed ispirato in modo
particolare?
Pat Metheny, molto, perché è una grande
artista. La sua musica mi ha sempre influenzata ed in generale le musica degli anni
‘60 come quella di John Mitchell, Paul Simon e Leonard Cohen, i
tre che amo di più. Mi piacciano molto i "sing and song writers",
cantautori, persone che creano e compongono musica profonda e
intensa come io la ricerco. Ma c'è anche una cantante alla quale
vengo spesso paragonata, Joan Baez, in quanto entrambe cantanti
di temi politici, e ne sono onorata perché ha una voce meravigliosa
e una formidabile dote di scrittrice. Erano anni in cui c'era più spazio per i cantautori impegnati e la società capiva che il loro ruolo
era anche quello di trasmettere un'ideologia, proprio come cerco
di fare oggi.
Hai lavorato con artisti al vertice del mondo musicale internazionale; c'è ancora qualcuno con cui vorresti collaborare?
Ce ne sono tanti, mi piacerebbe lavorare con i miei miti, ma ciò
che mi interessa di più oggi è usare la musica per aprire i cuori
e rompere le barriere; il successo materiale aiuta a vivere, ma la
motivazione non viene dai soldi. Se potessi scegliere fra far ballare
uno stadio intero e toccare i cuori di poche persone, sceglierei la
seconda.
Hai inciso diversi album da solista in cui hai anche cantato in lingue e dialetti diversi, ad esempio napoletano. Come nasce questa
combinazione di musica, parole e in diverse lingue, e sei legata ad
un album in particolare?
Mi diverte il processo di creazione, ma ciò che preferisco è stare
sul palco. Sono "un animale da palcoscenico", quello è il mio posto.
Mentre Gil Dor ama stare ore ed ore in studio a curare i minimi
dettagli; io sono impulsiva e passionale, mentre lui è più profondo
e razionale, una combinazione perfetta. Il risultato che conoscete
è il frutto di ore e anni di lavoro profondo, di conversazioni e di
musica, la curiosità ci porta alla fine ad ottenere una creazione
di alto livello. Ogni album è un mondo a sé. Come ad esempio
"Noapolis", un progetto che nasce dal legame con il popolo italiano
33
LIBRI
Il fascio a Stelle e Strisce
Il giornalista Ennio Caretto indaga sui rapporti,
le simpatie e le alleanze che l’America
ebbe con Mussolini e con il fascismo
S
pesso ci si chiede, come nel caso ultimo dell’Iran, come
possano i grandi Stati democratici continuare ad intrattenere rapporti economici e diplomatici con i regimi dispotici
e tirannici, a dispetto delle loro politiche irrispettose dei
diritti civili. Ennio Caretto ce ne dà un esempio nel libro “Quando
l’America si innamorò di Mussolini”, edito da Editori Internazionali Riuniti.
E’ un testo che va letto proprio perché oltre a rappresentare una
testimonianza storica è anche di stretta attualità. Grazie alla lunga esperienza professionale dell’autore che, ricordiamo, è stato
corrispondente dagli USA dei principali quotidiani italiani per più
di trent’anni, ci viene offerta una ricerca ricca di documentazione
storica, politica e diplomatica.
Dalle trecentocinquanta pagine del libro emerge che fino alle leggi
razziali tra il Duce e la superpotenza americana si stabilì per quasi
un ventennio, a cominciare dalla Marcia su Roma del 1922, un forte legame capace di resistere anche alle numerose intemperanze
e violazioni del diritto internazionale da parte del governo italiano. Le tesi di Caretto, si incentrano su alcuni fattori che agli Stati
Uniti stavano più a cuore: primo, che l’Italia potesse costituire un
baluardo contro il potenziale bolscevismo in Europa, che allora era
vissuto come il principale spauracchio delle diplomazie occidentali; secondo, di ragione economica, poiché la stabilità e l’ordine
garantiti dal fascismo proteggevano il capitale e assicuravano lo
sviluppo degli investimenti e dei commerci statunitensi in Italia.
Grazie a ciò, Mussolini riuscì a strappare condizioni vantaggiose
per un prestito dalle banche americane per rimettere in sesto i
bilanci disastrati del Bel Paese e riuscì, nel 1926, a superare il momento più drammatico dell’economia italiana del regime. In nome
delle due ragioni, l’America chiudeva più di un occhio alle violenze
dello squadrismo e alla repressione delle libertà civili. Giocarono
un ruolo di primo piano anche motivi di politica interna americana. Le comunità italoamericane e quelle cattoliche simpatizzavano
con il regime fascista e costituivano un bacino elettorale rilevante
per i politici americani. A ciò si aggiunse il potere di Wall Street,
che in quegli anni visse il crollo della Borsa, e vedeva come il fumo
negli occhi un’alternativa al regime.
La trasvolata atlantica di Italo Balbo del 1933 suggellò questo rapporto, al quale credeva nei primi anni anche il presidente Roosevelt, nella speranza che “il fascismo sarebbe riuscito a contenere
la Germania nazista come aveva contenuto l’Urss, e così disarmare
e pacificare definitivamente l’Europa”.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Socialdemocrazia: un movimento,
con radici anche ebraiche
34
È
stato presentato, alla sede nazionale della UIL, il libro di
Giuseppe Averardi (parlamentare in pensione già autore
di vari saggi di storia contemporanea) "Socialdemocrazia
- L'altra voce dell'Europa".
Una carrellata su centocinquanta anni di storia delle socialdemocrazie europee, con grande attenzione ai risultati dei loro lunghi periodi di governo; dal Regno Unito, con la grande svolta del
"New Labour" di Blair, alla Svezia; dall' Austria alla Germania,
dove centrale resta, nella storia del SPD e di tutta la democrazia
europea, la storica "resa dei conti" col marxismo fatta a Bad Godesberg nel 1959.
Averardi focalizza quello che, nei fatti, è stato il forte contributo
dell’ebraismo alla socialdemocrazia moderna: variamente d’origine ebraica, infatti, erano tante sue figure di primo piano, come
Diverse pagine del libro vengono dedicate anche a come
il mondo ebraico americano
visse questo lungo idillio. Addirittura come ci dice Caretto:
“Nella prima metà degli anni
Trenta, tale è la fiducia della
maggioranza degli ebrei americani nel fascismo che essi
si appellano al Duce contro il
Fuhrer e che gli perdonano
l’invasione dell’Etiopia. Nel
1934, Nahum Goldmann sollecita a Mussolini la protezione
degli ebrei della Saar, che sta
per unirsi alla Germania nazista”.
L’autore non manca di sottolineare quanto fosse diffuso negli Stati Uniti il razzismo nei piani alti
del potere, che fu uno dei fattori predominanti nel sostegno non
solo al fascismo ma anche al nazismo. Ciò allarga gli orizzonti del
testo che offre una verità incontrovertibile: è vero che l’America
ha liberato l’Europa dal nazifascismo ma è altrettanto documentato il ruolo svolto nella costruzione della macchina di sterminio
del terzo Reich. Così vengono annoverati tra i principali fautori e
sostenitori dell’impianto hitleriano persone di primo piano dell’establishment politico, economico e mediatico, che si spesero con
fervore con posizioni dichiaratamente antisemite, di cui Caretto
ci racconta dettagliatamente. Come la figura di Corder Hull, segretario di Stato USA a cavallo tra gli anni ’30 e ‘40, che “nel 1939
respingerà una nave con 936 fuggiaschi ebrei a bordo, la St Louis,
e molti di loro periranno nell’Olocausto”; o come il re dei media
Randolph Hearst artefice della comunicazione oltreoceano di Mussolini, come anche il rettore della Columbia University Nicholas
Butler grande ammiratore del Duce e filohitleriano.
Anche nel mondo economico, si evidenziarono per il loro appoggio a Berlino i massimi vertici della Ibm e della General Motors
e delle massime industrie statunitensi. Tra questi una figura di
rilievo fu l’industriale automobilistico Henry Ford che “aveva idee
altrettanto chiare (e sbagliate) sui ‘giudei’ a cui attribuiva tutti i
mali del mondo”, tanto che “spronata dalla comunità ebraica, parte dell’America incominciò a boicottare le vetture Ford. Si prodigò
negli anni Trenta per sostenere Hitler nella campagna antisemita, mentre crescevano i suoi massicci investimenti in Germania, e
Caretto scrive che “non pensò minimamente che potesse sfociare
nell’Olocausto, e che quando ne venne a conoscenza ne rimase
traumatizzato. Nel 1942 Ford chiese perdono all’America per i propri trascorsi, e probabilmente fu sincero”.
JONATAN DELLA ROCCA
il padre del revisionismo marxista Eduard Bernstein, e gli austriaci Otto Bauer, Viktor e Max
Adler, Bruno Kreisky (cancelliere
degli anni ’70 del ‘900). Mentre
il programma tracciato da Bauer
nel libro del 1907 “La questione
della nazionalità e la socialdemocrazia”, ricorda l’Autore, viene
adottato da vari altri movimenti
d’ispirazione socialista e nazionale, tra cui l’ Unione generale
dei Lavoratori ebrei e i sionisti
di sinistra, come HaShomer Hatzair.
FABRIZIO FEDERICI
G. AVERARDI, “Socialdemocrazia l’altra voce dell’Europa - Un’uscita di sicurezza per l’Italia” (Data News, 2014, pp. 327, €. 20,00)
Gli italiani non sanno nulla della religione.
Lo rivela l’ultimo libro di Alberto Melloni
G
iunge opportuna nelle librerie la pubblicazione “Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia” curata da
Alberto Melloni con il contributo di diversi docenti e del
mondo dei media, editore Il Mulino, che fa il punto sulle
problematiche della poca conoscenza nel Paese del tema teologico. Sebbene l’Italia ostenti la forte caratterizzazione cattolica, con
tutto l’indotto derivato e un'influenza significativa nella vita sociale in ogni risvolto della vita quotidiana, si fanno i conti con un impressionante deficit di conoscenza religiosa, segnando un punto a
sfavore nell’istruzione degli italiani.
Diversi fattori potevano far pensare ad un’inversione di tendenza
negli ultimi tempi: dal costante flusso di notizie di carattere religioso sui media, alla forte ondata comunicativa sulle attività della
Chiesa, sino ai crescenti flussi migratori nel Paese di extracomunitari di altre fedi, o il moltiplicato interesse verso altre confessioni,
come l’ebraismo. Ma questi fenomeni toccano il tema dell’informazione superficiale e non della formazione. Cosicché rimane
gravoso il perdurare di un’assenza di approfondimento e di
interesse sui temi importanti
delle fedi e sulle strutture cognitive portanti su cui poggiano. Per rendersi conto di questa
grosso “buco” culturale, basta
fare qualche numero, riportando alcuni dati statistici frutto
di una ricerca presenti nel volume: leggiamo che sebbene
“la Bibbia sia posseduta dal
70% degli italiani, al possesso
non corrisponde la lettura, dal
momento che la percentuale di
coloro a cui capita di leggere il
libro sacro “da solo” si attesta al 29,3%, mentre il comandamento
più conosciuto è: "Non rubare”. “Coloro che sono in grado di mettere nell’esatto ordine cronologico Noè, Abramo, Mosè e Gesù si
attestano al 31%. Alla domanda su chi siano gli autori dei Vangeli
solo il 30,1 % li sa citare tutti e quattro”. Sono dati preoccupanti
che testimoniano un'ignoranza in materia che non accenna a diminuire. Cosicché da questo allarme vengono tracciati tre punti
fondamentali per recuperare, dopo che Melloni denuncia che un
colpo fatale è avvenuto grazie al “frutto del perverso concerto fra
un laicismo sciocco e un clericalismo cieco” che ha portato alla
soppressione della facoltà di Teologia.
Le soluzioni avanzate possono riassumersi nelle seguenti proposte: una riforma del sistema didattico religioso scolastico, rivisitazione legislativa delle libertà religiose e implementazione nella ricerca e nella docenza universitaria e scientifica tale da aumentare
“il bagaglio culturale dei tanti funzionari delle fedi e delle chiese
che con mansioni educative e sindacali, caritative, formano l’opinione pubblica”. La ricerca, che dedica diverse pagine anche allo
studio interreligioso e delle altre confessioni, oltre ad essere meritoria per la scientificità con cui affronta l’argomento, è un ottimo
spunto per gli addetti ai lavori, soprattutto del mondo dell’istruzione, per costruire un programma educativo di formazione per le
prossime generazioni. E’ provato che causa primaria dell’intolleranza sia proprio l’ignoranza di questi temi. Urge una riflessione e
una conseguente attività di recupero perché il razzismo incalzante, la globalizzazione e un'Europa popolata sempre più di islamici
impongono tempi rapidi di azione.
J. D. R.
Un soldato che servì la Patria
ma che non fu amato
“Il Generale Roberto Segre”,
di Antonino Zarcone, ripercorre le vicende
del più alto Ufficiale di religione ebraica
del Regio Esercito
A
ntonino Zarcone, Capo dell’Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell’Esercito, è autore di una interessante opera che ripercorre in 400 pagine, fitte di documenti inediti,
arricchite da centinaia di
accuratissime schede biografiche,
la vicenda umana e militare del più
alto Ufficiale di religione ebraica del
Regio Esercito, combattente della
Prima Guerra Mondiale. Il Generale
Segre, già Ufficiale di Artiglieria, nel
corso della sua attività operativa, si
pose in evidenza per il suo impegno
nel perfezionamento tecnico e tattico dell’artiglieria con la conseguente e più utile realizzazione di grandi
masse di fuoco. In particolar modo si
dedicò, per primo, allo studio e all’esecuzione della contropreparazione
preventiva (cioè l’inizio dell’azione
di fuoco difensiva, prima dello scatenarsi dell’offesa avversaria).
Impegnato prima nella Guerra di Libia e successivamente nella
Prima Guerra mondiale, fu, tra l’altro, sottocapo di Stato maggiore
alla 3^ armata (Duca d’Aosta) per l’impiego dell’artiglieria. Capo di
Stato maggiore di un corpo d’armata sul Pasubio, poi del comando
truppe dell’altipiano d’Asiago, comandò (marzo-novembre 1918)
l’artiglieria della 6^ armata sullo stesso altipiano.
Diresse lo spiegamento delle artiglierie nelle battaglie di Gorizia
(agosto 1916), Valbella (gennaio 1918) e – nel settore montano – del
Piave (giugno 1918).
Il Comando Supremo italiano lo inviò a Vienna come capo della missione militare italiana per l’armistizio. In tale ruolo agì con grande
autonomia dai vertici per tutelare quelli che a suo giudizio erano
gli interessi italiani, esigendo dagli austriaci il rispetto delle clausole dell’armistizio del 4 novembre, incluse la restituzione dei prigionieri, il sequestro di materiale ferroviario e il ritorno delle opere
d’arte italiane. Parallelamente si prodigava per portare aiuto alla
popolazione austriaca, duramente colpita dagli esiti del conflitto,
facendo giungere derrate alimentari dall’Italia per distribuirle alle
mense popolari, agli ospedali e agli orfanotrofi. Al rientro in Patria
fu coinvolto in un’inchiesta per illeciti amministrativi che venne
usata contro di lui a fini politici. Le indagini condotte dal Tribunale Militare appurarono la sua totale estraneità alle accuse. Ufficiale
molto apprezzato da molti per le sue idee innovative scontò, purtroppo, l’ostilità di alcuni ambienti militari che facevano riferimento
ai marescialli Giardino e Badoglio. Segre vivrà gli ultimi anni della
sua vita cercando di riscattare il suo onore.
L’indagine documentale condotta dall’autore ha il merito di percorrere aspetti inediti della storia italiana a cavallo dell’Armistizio e
riesce a coinvolgere il lettore con una scrittura accattivante e ricca
di spunti, ma cerca anche di rispondere ad una domanda ricorrente
nella vita di ognuno: il merito è davvero rispettato o a volte prevalgono intrighi politici o pure e semplici invidie?
Edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito
(pp. 400, € 20), acquistabile su: http://www.esercito.difesa.it/Storia/UfficioStoricoSME/ProduzioneeVendita,
oppure telefonando a Ufficio Pubblicazioni Militari:
tel. 06.809925068, oppure Ufficio Storico dello SME:
tel. 06 47358555 / 06 47358536 / 3351884130.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
La Bibbia, il libro meno letto
35
CINEMA
Quando Tel Aviv
prende il posto di Hollywood
L’israeliano Gideon Raff è l’autore di alcune
serie televisive di grande successo,
come Homeland, Tyrant e Dig
Q
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
uesto mese va in onda negli
Stati Uniti e in contemporanea
in Italia sui canali Fox di Sky la
quarta stagione di Homeland
che nel nostro paese ha come sottotitolo
Caccia alla spia. Tra la fine del 2014 e i primi mesi del prossimo anno seguiranno
altre due serie legate al cosiddetto genere political drama: Tyrant e Dig.
Denominatore comune di questi tre titoli che hanno fatto e faranno parlare
ancora la critica e soprattutto il pubblico è uno dei loro autori e produttori esecutivi: l’israeliano Gideon ‘Gidi’
Raff, nato a Gerusalemme nel 1973.
Regista cinematografico e televisivo
cresciuto tra Washington e Tel Aviv
(suo padre era consigliere economico
dell’ambasciata di Israele prima di diventare presidente della Bank Leumi),
Raff ha servito per tre anni nei paracadutisti prima di diplomarsi in cinema in
Israele per poi tornare a studiare negli
Stati Uniti. Il suo lavoro ha conquistato
la notorietà mondiale grazie alla serie
Hatufim che ha girato il mondo con il titolo di Prisoner of War. Il racconto della
storia di un soldato israeliano a lungo
prigioniero che – al suo ritorno a casa –
nasconde di essersi convertito all’Islam
ha talmente colpito l’immaginario dell’industria cinematografica internazionale da
destare l’attenzione di Howard Gordon e
Alex Gansa, autori e produttori della celebrata serie 24 insieme a Joel Surnow, che
hanno chiesto a Raff di lavorare insieme a
loro al remake americano che ha per prota-
36
gonista l’ex Giulietta del Romeo and Juliet
di Baz Luhrmann, Claire Danes.
Il risultato è stato un altro grande successo che ha definitivamente aperto le porte
di Hollywood a questo intelligente autore
che adesso propone altre due serie molto
interessanti: Tyrant e Dig emblema di quel
political drama che ha caratterizzato le
ultime stagioni televisive con serie legate
alla riflessione sul potere come House of
Cards, I Borgia e l’italiana in arrivo in autunno, 1992.
Proprio mentre il pubblico saprà il 5 otto-
bre se il soldato interpretato da Damian
Lewis è realmente morto in Iran come
tutto il mondo ha visto nell’episodio finale
della terza stagione di Homeland, Tyrant
andrà a concludere la sua prima stagione che racconta il difficile ritorno a casa
di un medico mediorientale figlio del
tiranno di uno stato immaginario che
diventa l’emblema di tutte le contraddizioni e complessità del mondo arabo,
viste dallo sguardo lucido e attento di
uno scrittore lungimirante come Raff.
“Amo raccontare storie e sono stato
molto fortunato dall’avere l’opportunità
di farlo” ha spiegato il quarantunenne
scrittore al mensile Forbes “Sono nato
e cresciuto a Gerusalemme e mi piace
potere raccontare cosa significa vivere nella mia città e che cosa è in gioco
quando sei parte di un paese che ha
una vita così difficile. Credo che sia interessante potere esplorare narrazioni
che appartengono alla tua terra e che,
poi, scopri riguardano tutto il mondo.
Hatufim era stato venduto già in venti paesi prima di Homeland e questo è
affascinante. Sapere di poter raggiungere tutto il mondo attraverso il tuo
lavoro.” Raff adora girare in Israele.
Purtroppo a causa del recente conflitto
con Hamas la produzione di Tyrant ha dovuto spostarsi altrove seguendo il destino
di un po’ tutta l’industria audiovisiva israeliana per la prima volta davvero messa in
crisi dalle drammatiche conseguenze della
guerra. Lo stesso è accaduto al terzo show
creato da Raff, questa volta insieme all’ideatore della serie Heroes Tim Kring: la miniserie in sei episodi di argomento thriller
archeologico Dig racconta le indagini di un
agente dell’FBI interpretato dall’attore Jason Isaacs riguardo l’omicidio di una scienziata presso uno scavo a Gerusalemme: la
produzione, dopo la realizzazione dell’episodio pilota, ha dovuto spostarsi in Nuovo
Messico pur mantenendo l’ambientazione
mediorientale.
“Avere meno soldi non significa fare le
cose meno bene.” Conclude Raff rispondendo a chi gli chiede quali siano le differente tra lavorare a casa e negli Stati
Uniti: “In Israele i nostri competitor sono
le serie americane ed europee e quindi ci
sforziamo di fare sempre tutto al meglio,
conquistando l’attenzione del pubblico.
Nei piccoli mercati possono nascere degli
autori, mentre negli USA tutto si basa sulla
collaborazione.”
MARCO SPAGNOLI
Il grande cuore
degli ebrei romani
La generosità di tante persone
ha consentito di accogliere i ragazzi
israeliani per una vacanza spensierata
lontano dalla guerra di Gaza
Turismo con autista, ed ha rappresentato la spesa più onerosa, ma
assolutamente indispensabile.
Ci hanno riferito che spesso, quando le assistenti sociali incaricate
dalle municipalità telefonavano nelle famiglie israeliane per chiedere se volevano fare una vacanza in Italia, molti rispondevano
“davvero o è un sogno?”
Ed infatti questi ragazzi un po’ timidi il primo giorno, ma sempre
più sicuri nei giorni successivi, man mano che acquisivano confidenza con noi e con il luogo, hanno realizzato un sogno, e molti di
loro, anzi tutti, ci hanno riferito e promesso che non lo dimenticheranno per tutta la vita.
La prima settimana del primo gruppo, dal 23 al 31 luglio, coincideva con l’ultima settimana del Centro estivo a Shirat HaYam e pensavamo di inserire i ragazzi israeliani nelle attività del centro che
prevedono prevalentemente mare la mattina e attività ludiche in
sede nel pomeriggio: ci siamo accorti però che loro, giustamente,
volevano visitare Roma, vedere i monumenti, conoscere.
Sempre con l’obiettivo di rendere la loro permanenza allegra, leggera, lontana da ogni pensiero, man mano abbiamo “calibrato”
il programma a seconda dei gusti dei ragazzi e dei suggerimenti
degli accompagnatori: visite a luoghi di divertimento, a parchi tematici, giornate all’aria aperta e sport, visite a Roma e nei luoghi
ebraici, shopping.
Per quanto riguarda poi la cucina, Alberto "Gufo", il nostro coordinatore delle attività, si è improvvisato anche “master chef” preparando delle fantastiche colazioni a base di uova, insalate, pane
caldo e caffè, definite da un’accompagnatrice come all’Hilton di
Tel Aviv!
E’ stato anche importante avere una struttura propria: Shirat
HaYam dispone di una cucina attrezzata, dove anche le accompagnatrici israeliane a volte hanno voluto cucinare, per far avere
ai ragazzi esattamente quello di cui avevano bisogno o semplicemente desiderio: penso che quando si cucina assieme, ci si sente
famiglia e noi in questo mese e mezzo, ci siamo sentiti davvero
una grande bellissima famiglia!
La sera infatti quasi sempre si mangiava a Shirat HaYam, e dopo
si ballava in allegria, balli di gruppo italiani (insegnati da noi) o
israeliani, o Karaoke.
Abbiamo portato i ragazzi alle Terme di Saturnia e a Tivoli. Sono
rimasti incantati da Zoomarine, MagicLand di Valmontone ed il
nuovo Cinecittà world. Anche l’ingresso ai parchi ha rappresentato una spesa significativa, anche questa indispensabile e sicuramente ben ripagata dal sorriso di soddisfazione dei nostri ospiti
al ritorno.
Poi le visite a Roma: Tempio Maggiore, Ghetto e Museo, il tradizionale giro Colosseo, Arco di Tito, Mosè di Michelangelo, piazza
Venezia, via del Corso, fontana di Trevi, Gianicolo, Pincio… Sono
rimasti tutti meravigliati, stupiti dall’acqua delle fontane e dei nasoni romani! Ad un gruppo è stato offerto un giro sulle botticelle.
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
“S
ai sono giorni che non dormiamo per via delle sirene!”. Queste sono state le prime parole di Tael appena scesa dall’aereo, una delle tante ragazze che
convivono nella loro quotidianità di ragazzi adolescenti con la dura realtà dei lanci di missili.
È per questo che la Comunità Ebraica di Roma, poggiandosi sulla
struttura organizzativa e di coordinamento dei madrihim di Shirat
HaYam, Centro Estivo e Tempio di Ostia, ha dato via al progetto
“Vacanze in Italia”!
L’obiettivo principale del progetto è stato appunto quello di togliere questi ragazzi dall’incubo dei missili regalando loro una vacanza estiva spensierata, fatta di serenità e svago, una vacanza di
gruppo e di amicizia come tutti i ragazzi adolescenti dovrebbero
avere. Ci sono tanti modi per aiutare Israele, ed anche a Roma si
sono aperte spesso discussioni su quale fosse il modo migliore,
ma gli accompagnatori dei ragazzi ci hanno fatto riflettere sul fatto
che sostenendo e aiutando i ragazzi, indirettamente abbiamo aiutato famiglie che stavano affrontando il difficile periodo di guerra.
Alla domanda, “preferisci che io dia una mano a te o a tuo figlio?”
ogni genitore risponderebbe senza la minima esitazione.
Dal 23 luglio al 29 agosto sono arrivati, con destinazione diverse
località italiane - Roma Ostia Lido e Fregene, Livorno, Trieste - circa 180 di ragazzi, divisi in 6 gruppi, dai 10 ai 17 anni, provenienti
dalle città israeliane più bersagliate dai razzi di Hamas, Sderot e
Ashdod.
Siamo riusciti ad accogliere un così elevato numero di ragazzi grazie alla generosità delle tante persone che hanno contribuito con
offerte in denaro o con beni e servizi: abbiamo ricevuto 140 offerte, per un totale di circa 110.000 euro provenienti sia da persone
sia da società commerciali, da gruppi di amici e da istituzioni, di
importi diversissimi, dai 30 ai 30.000 euro, a dimostrazione della
grande partecipazione a tutti i livelli. Hanno partecipato persone
di Roma, ma anche di altre città italiane; anche l’El Al ha contribuito al progetto donando 50 biglietti.
Ci ripromettiamo di organizzare al più presto una serata per condividere con tutti i benefattori i momenti più significativi e commoventi di questa esperienza.
Anche il nostro sforzo organizzativo è stato elevato: abbiamo sistemato 28 letti nella nostra sede, e ci siamo fatti prestare dall’Associazione Pensionati della Polizia di Stato, la cui sede è limitrofa
alla nostra, anche una grande camerata dove sono stati posizionati
altri 24 letti. Abbiamo montato 4 nuove docce, potenziato la rete
wifi per permettere ai ragazzi di collegarsi ad internet con i loro
telefoni per parlare con casa, organizzate le attività della cucina
per permettere tre pasti, colazione pranzo e cena, predisposta l’accoglienza e le prime attività, stampato le magliette, fatto la spesa,
tutto in due giorni.
La maggiore difficoltà organizzativa è stata la gestione di due
gruppi contemporanei (in un giorno addirittura tre), con conseguente aggravio per tutti: 70-80 pasti per la cucina, appuntamenti,
il servizio di sicurezza su più sedi.
Per motivi di sicurezza non ci è stato possibile utilizzare mezzi di
linea, così abbiamo noleggiato pulman che erano a nostra disposizione per l’intera giornata: si tratta di 48 giorni di pulman Gran
37
ROMA EBRAICA
Erano anche incuriositi ed
interessati ai centri commerciali, li abbiamo portati
a vari centri e outlet, ma
si sono davvero divertiti la
domenica a Porta Portese!
Approfittiamo per ringraziare, e far notare, come i
nostri volontari della sicurezza siano stati davvero
angeli custodi; si sono organizzati sempre per accontentare i desideri dei
ragazzi, anche in situazioni
difficili come un affollato
mercato cittadino. Ancora
una cosa che a loro è piaciuta tantissimo è stato
mangiare il gelato personalizzato al “Magnum pleasure store”.
Ci fa piacere raccontare, a dimostrazione dell’affetto di moltissime persone della nostra comunità e della partecipazione affettiva,
che durante una passeggiata a via dei Giubbonari alcuni negozianti, commossi sapendo che venivano da Sderoth, hanno regalato pasta, offerto coca cola e regalato braccialetti con il nome.
Altri negozianti del centro hanno regalato dei bellissimi costumi
da bagno, magliette, camice di marca.
Per quanto riguarda il mangiare, spesso i ragazzi hanno mangiato
nei ristoranti di Portico d’Ottavia assaggiando specialità romane,
hamburger, pizza.
Ancora una piccola descrizione sulla composizione dei gruppi,
vi erano infatti ragazzi fra
loro molto diversi, per origini e caratteristiche famigliari: ebrei religiosi e non,
un ragazzo cristiano, alcuni
di origine russa, marocchini, libanesi, yemeniti, etiopi. Abbiamo accolto anche
una ragazza con problemi
deambulatori.
Mi raccontava un ragazzo
ospite di 10 anni, a Shirat
HaYam durante una gita
a Roma: “Sai, prima della
partenza ero molto preoccupato perché non ero mai
stato fuori Israele, all’estero”. Ed io: “Di cosa eri preoccupato?” “Ma non so! Mi
vergognavo!”. “Di cosa ti vergognavi?”. “Mah, non so, anzi adesso so che venire in Italia è davvero facile!”
Ed un altro ragazzo al quale, dopo qualche giorno di vacanza a
Ostia, veniva detto di andare a letto, che rispondeva: “Sono tanti
giorni che non ho dormito in Israele, ora che mi sto divertendo,
proprio non ci voglio andare!”
Speriamo che il ponte ed il legame che si è stabilito fra queste
comunità di Sderoth e Ashdod con quella Roma rimanga saldo,
per continuare ad avere fra noi questi piccoli ambasciatori, portatori di grande vitalità ebraica: abbiamo bisogno l’uno dell’altro.
Ci siamo salutati con tutti, blì neder, di vederci il prossimo anno.
LORETTA KAJON E DAVID LIMENTANI
Il Museo della Shoah di Roma
aprirà all’Eur il 27 gennaio 2015
D’accordo sul trasferimento da villa Torlonia
anche i sopravvissuti Sami Modiano
e Piero Terracina
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
"F
38
inalmente prima di morire vedrò anche io la realizzazione di questo importantissimo progetto, per Roma
ma anche per l'Italia intera". Non usa mezze parole
Sami Modiano, ebreo di Rodi ma da moltissimi anni
trasferito a Roma, sopravvissuto ad Auschwitz, nel commentare la
notizia (apparsa sulla stampa) della realizzazione del Museo della
Shoah, non più nella sede originariamente scelta di villa Torlonia,
ma in un grande edificio già esistente all'Eur. Una decisione, presa
insieme dagli enti sostenitori del progetto (Regione, Comune, Comunità ebraica), per accelerare i tempi di realizzazione del Museo
e dare ai pochi sopravvissuti alla Shoah la grande soddisfazione
di poter vedere con i loro occhi un progetto in cui, dice lo stesso
Modiano, "abbiamo sperato e creduto".
L'obiettivo condiviso è quello di inaugurare il nuovo Museo il 27
gennaio 2015, una data di straordinario significato simbolico, poiché oltre ad essere il Giorno della Memoria, coincide con il 70mo
anniversario dell'apertura dei cancelli di Auschwitz.
"Sono senza altro d'accordo - ha spiegato Piero Terracina, anche
lui reduce da Auschwitz - visto che io stesso avevo proposto con
una lettera al sindaco e al governatore della Regione, di aprire una
sede provvisoria che accogliesse il tanto materiale già raccolto,
rendendo operativo il Museo il prima possibile. Non credo infatti
- spiega sempre Terracina - che il Museo a villa Torlonia si possa realizzare, come molti hanno detto tra cui l'architetto Zevi, in
soli due anni. Bisogna aprire 24 buste e ci può essere sempre la
possibilità di imprese non aggiudicatarie di presentare ricorsi, con
l'inevitabile allungamento dei tempi".
"Mi dedico alla testimonianza e alla trasmissione del ricordo di
cosa sia stata la Shoah - precisa Piero Terracina - ma ho 86 anni.
Per quanto tempo lo potrò fare? Quindi una sede, anche provvisoria, aperta il prima possibile, prima che tutti i sopravvissuti
scompaiano, era urgente e vedo quindi come una cosa positiva il
Museo della Shoah all'Eur. Se poi il progetto di villa Torlonia andrà
avanti, tanto di guadagnato, ma la struttura dell'Eur deve essere
inaugurata".
Proprio per l'importanza del progetto, che renderà il Museo un
luogo centrale nella formazione culturale delle nuove generazioni, "sento il bisogno - spiega Sami Modiamo - di ringraziare tutti
coloro che si sono impegnati in questo progetto e in particolare
il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici, la prof.ssa
Elvira di Cave responsabile dei temi della Memoria per la Comunità ebraica, il sindaco di Roma Marino, il presidente della Regione
Nicola Zingaretti, Walter Veltroni che dette avvio al progetto, oltre
allo staff del Museo nelle persone del prof. Marcello Pezzetti e del
presidente della Fondazione Paserman".
Nella foto, da sinistra Piero Terracina e Sami Modiano ad Auschwitz
R
oberto Bonfil, professore di storia all’Università Ebraica di
Gerusalemme, ha pubblicato nel quadro delle monografie
storiche della rivista Italia, il Pinkas Casale, ovvero il libro
dei verbali della comunità di Casale Monferrato tra gli
anni 1589 e 1658. L’idea originale di una pubblicazione scientifica
del Pinkas Casale era nata oltre trent’anni fa a Shemuel Kurinsky,
amante di storia e fondatore della Hebrew History Federation di
New York che aveva già pubblicato opere di storia ebraica, quali
The Glassmakers, The Eighth Day e Creativity of the Jews, e tutta
una serie di articoli ancora disponibili sul sito della Hebrew History
Federation (www.hebrewhistory.info).
Dopo la morte di Kurinsky, il professor Bonfil ottenne dalla famiglia
la concessione dei diritti di pubblicazione, che è stata curata
da Isaac Yudlov. Il libro, in ebraico, è stampato in modo chiaro e
facile da leggere e le note a piè di pagina forniscono indispensabili
spiegazioni e traduzioni dei termini arcaici al lettore.
Fin dall’inizio si notano i cognomi dei maggiorenti della comunità
come Jona, Rapa, Padova, Luria, Verona, Segre, Bassan, Ascoli e
Finzi, solo per citarne alcuni. Già nel 1589, l’anno in cui fu iniziata la
stesura dei verbali, una delle decisioni della comunità era di proibire
l’eccessivo lusso nel vestire. I maggiorenti della comunità erano
in genere persone benestanti che avevano ricevuto la licenza di
operare come banchieri in città e non era prudente fare ostentazione
di lusso per le strade. Un’interessante decisione della comunità era
che gli stranieri che passavano in città venissero ospitati tirando a
sorte dei biglietti sui quali erano scritti i nomi dei Ba’ale’ Batim. Altre
decisioni riguardano l’assegnazione dei posti al Bet Hakenesset, gli
stipendi da pagare al Rav, ai shochetim, al chazan e agli insegnanti
del Talmud Torà. Nel complesso questo libro è un tesoro di notizie
sulla vita di questa antica comunità che servirà a molti amanti di
storia per approfondire la conoscenza della vita degli ebrei in Italia.
DONATO GROSSER
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
KIRYAT SEFER
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EBREI CONTRO ISRAELE
di G.Meotti, ed. Belforte
PECCATI D’ESTATE
di A.Einhar, ed. Giuntina
GHETTI E GIUDECCHE
di A.Foa, ed. Il Mulino
SOPRAVVIVERE AL GHETTO
di S.Di Nepi, ed. Viella
NOSTRO FIGLIO
di A.Altaras, ed. Atmosphere
I MIDDLESTEIN
di J.Attenberg, ed. Giuntina
CHE SIA CANCELLATO IL SUO NOME
di A.Markovits, ed. Mondadori
L’UFFICIALE E LA SPIA
di R,Harris, ed. Mondadori
IL VANGELO DEI BUGIARDI
di N.Alderman, ed. Nottetempo
RESPONSABILITA’ SOCIALE ED ETICA EBRAICA
di G.Cannarutto, ed. Egea
Per una politica che aiuti
gli immigrati
Un Paese accogliente e non discriminatorio
proposto nel libro “Accogliamoli tutti”,
di Luigi Manconi e Valentina Brinis
C
he cosa succede agli immigrati una volta entrati in un
paese che non è il loro? Quanto sono importanti nella
nostra società? Cosa possono fare per ottenere un lavoro che non sia quello di cameriere o donna delle pulizie?
Il nostro paese può fare qualcosa per loro?
Queste sono alcune delle domande che Luigi Manconi e Valentina Brinis si sono posti nel loro libro “Accogliamoli tutti”, una
raccolta di documenti e statistiche che vedono le dure condizioni
di vita degli immigrati in Italia, vittime di xenofobia e spesso di
razzismo.
Il titolo del libro è il risultato di queste analisi, come spiega la coautrice, è la proposta
ad accogliere nel paese tutti gli immigrati
con una regolare politica sull’immigrazione,
e rinnovo del permesso
di soggiorno per mantenere il proprio, seppur umile, lavoro. Politica che oggi manca.
La presentazione del
libro, avvenuta nel
suggestivo Tempio di
Adriano, ha visto protagonisti non solo i
due autori, ma anche
due ospiti d’eccezione:
Romano Prodi e Sandro
Gozi.
Dopo l’introduzione di
Saul Meghnagi, i due
politici sono stati intervistati da Tobia Zevi riguardo la situazione degli immigrati in relazione anche alle tematiche del libro.
“Vedendo quello che succede nel mondo - ha spiegato Prodi credo che la contaminazione sia un fattore produttivo. Ogni venti
anni la popolazione raddoppia, perché quando le condizioni di
vita di altri paesi diventano insostenibili le persone scappano;
ci sono inoltre lavori che gli italiani non sono disposti a fare e
che invece gli immigrati accettano per sfamare le loro famiglie.
Ecco dunque che gli immigrati diventano un fattore necessario
nel nostro paese”.
Perché l’Italia non è in grado di accogliere un’emigrazione di
qualità? “Perché il nostro è un paese molto chiuso dal punto di
vista psicologico e anche in calo economico; esiste la convinzione che il paese possa fare qualcosa, ma non utilizza le proprie
risorse: la Spagna ad esempio è in una situazione economica
peggiore rispetto alla nostra, eppure la simpatia delle persone e
la vitalità del paese attira turisti. All’Italia manca quella vitalità
per riemergere”.
“Questo libro è una boccata d’aria fresca” aggiunge Gozi: “il nostro paese è davvero chiuso e xenofobo. Accogliamo gente che
fugge dalla miseria, ma il tema della solidarietà è del tutto scomparso; ecco dunque che il paese contraddice se stesso, perché in
ogni trattato europeo compare la parola solidarietà”.
GIORGIA CALÒ
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Il libro dei verbali della comunità
di Casale Monferrato
39
ROMA EBRAICA
Alla ricerca di un sapere nuovo
Il pensiero ebraico a fondamento
del metodo rivoluzionario introdotto
da Reuven Feuerstein
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
N
40
ell’estate del 1999 avevo da poco iniziato il mio dottorato e andavo cercando modelli teorici capaci di integrare
approcci molto distanti tra loro come: il lifelong learning
il successo formativo, l’educazione interculturale e i riferimenti all’educazione ebraica. Trovare qualcosa che riuscisse a
tenere insieme tutti questi aspetti della mia ricerca stava diventando un’impresa piuttosto ardua. L’occasione per fare ordine nella
mia mente sovraccarica di idee mi venne offerta partecipando al
seminario sull’intercultura condotto dal Prof. Reuven Feuerstein a
Shoresh, in Israele. Il punto di partenza per districare i nodi problematici che riguardano la condizione degli immigrati e la convivenza pacifica tra culture diverse, fu introdotto da Feuerstein con
le parole della parashah di Lech Lechà. Per il relatore bisognava
comprendere quella esperienza e quel sentire per capire le storie di
uomini e di donne che lasciano la casa ed i luoghi delle origini, alla
ricerca di un posto dove vivere meglio, realizzare se stessi e dare
sicurezza alla propria famiglia. In pochi momenti capii che i problemi riguardanti la convivenza tra le diverse culture avevano bisogno di essere studiati con analisi e prospettive che andavano oltre
i temi dell’accoglienza e dell’integrazione. Quel seminario fu per
me l’inizio di un sorprendente viaggio dentro i luoghi di un sapere
pedagogico capace di rispondere in modo originale alle questioni
poste dalle dinamiche selvagge dell’era della globalizzazione, dal
diffuso uso di un apprendimento a distanza, dalla necessità di dare
qualità e democrazia all’educazione interculturale.
Grazie a Jael Kopciowki, con la quale ho condiviso negli anni lo studio delle fonti ebraiche nell’approccio di Feuerstein, ho poi iniziato
il percorso formativo sugli strumenti applicativi (il PAS Standard). Il
lungo e affascinante viaggio alla scoperta dei significati della mediazione e degli strumenti preparati con illuminante genialità da
Feuerstein mi ha chiarito come l’educazione cognitiva possa migliorare le capacità e le competenze di qualsiasi persona, indipendentemente dalla condizione in cui si trova, e favorire un adattamento
attivo e creativo nelle società in continua trasformazione.
Nel corso di questi anni ogni mio viaggio in Israele aveva un appuntamento inderogabile: andare a Gerusalemme per incontrare
il Prof. Feuerstein a casa o all’istituto. Le nostre conversazioni si
focalizzavano sull’importanza dell’approccio per formare i futuri
educatori, su quali aspetti del metodo stavo sviluppando per la
mia ricerca sull’educazione alla pace e di quali aspetti della cultura ebraica avevo collegato con i suoi scritti. Feuerstein mi chiedeva spesso che cosa pensavano gli studenti del suo sistema educativo. E per me era una grande soddisfazione riportare ciò che
gli studenti mi dicevano e mi dicono sempre a fine corso: “come
mai nessuno ci aveva mai parlato di questo pedagogista e del suo
metodo così formidabile e interessante?”.
Più volte abbiamo condiviso l’idea di progettare un centro per lo
sviluppo della cultura di pace e il dialogo interculturale e interreligioso. L’esperienza di apprendimento mediato e gli strumenti per lo
sviluppo delle strutture cognitive, come ha già introdotto su queste
pagine da David Meghnagi, sono un fondamentale contributo per
costruire con consapevolezza l’educazione alla convivenza pacifica.
Un riconoscimento, questo, che ha attraversato i confini culturali,
scientifici, politici e religiosi dei continenti, e che si è formalizzato
nella sua candidatura a Premio Nobel per la Pace nel 2012.
In uno dei nostri incontri della scorsa estate, Feuerstein voleva
condividere con me la preparazione degli strumenti per educare
alla non violenza e alla mediazione dei conflitti. Erano strumenti in
progress con le immagini e le scritte che richiedevano ancora correzioni e precisazioni. Ma anche se non completati, gli strumenti ave-
vano, come quelli del Programma di Arricchimento Strumentale,
già ben esplicitate e definite le potenzialità e le versatilità necessarie per essere sperimentati e utilizzati in differenti contesti educativi. Feuerstein, per la sua speciale e intuitiva capacità di conoscere
le persone nel profondo, sapeva bene quanto io avessi bisogno di
riflettere con lui su queste tematiche. Così ci trovammo a progettare su come tradurre tutto ciò per sperimentarlo con gli studenti dei
miei corsi accademici. Stavamo quindi vedendo come organizzare
le cose al meglio quando, con un gesto rapido come era solito fare
quando decideva una cosa importante e risolutiva, telefonò al figlio
Daniel esperto di mediazione familiare e civile. Feuerstein voleva
che ci si incontrasse per integrare le nostre competenze, approfondire le conoscenze dei nuovi strumenti e programmare di tradurli
per iniziare la sperimentazione in Italia.
Un invito speciale
L’incontro con Daniel, in un beit caffè di Ramat Gan, è stato la scoperta di un mondo di condivisioni e di interessi comuni. Per spiegare cosa pensassi della filosofia del metodo ho cominciato a raccontare a Daniel come inserisco il sistema nei miei corsi universitari
per la formazione di educatori e insegnanti e come l’avvicinamento
a questo studio coinvolga e appassioni gli studenti. Ma non potevo
trattenermi dallo spiegare la mia attrazione per gli aspetti della cultura ebraica che sono impliciti nel metodo. A dire la verità Daniel
rimase un po’ stupito, non aveva mai riflettuto abbastanza su quei
collegamenti. Ma il massimo dello stupore l’ho visto passare sul suo
volto quando ho cominciato a descrivere come avevo interpretato il
rapporto tra i parametri della mediazione, i significati della festa di
Pesach e la celebrazione del Seder. Devo essere stata abbastanza
incisiva e dettagliata, da spingere Daniel a propormi di partecipare
al Seder successivo in casa Feuerstein dicendomi: “come fai a sapere tutte queste cose? Quello che stai dicendo è esattamente quello
che facciamo durante i nostri Sedarim. Devi assolutamente venire e
celebrare con noi il Seder”.
La vita mi stava regalando un bellissimo dono, mi sentii presa da
un'emozione sconfinata, ma anche dalla sensazione che tutto questo fosse qualcosa di troppo grande per me. Una circostanza così
unica mi sembrava impossibile. Così per mesi, racchiuso in una piccola bolla magica, ho custodito nel mio cuore questo invito speciale.
A marzo, mentre ero in Israele come visiting professor, ho nuovamente incontrato Daniel. Ero sicura che l’invito si fosse perso
dentro una conversazione estiva in un beit caffè di Ramat Gan.
Niente affatto. Daniel aveva deciso e, in accordo con il fratello Rafi
che era già pronto ad aggiungere un posto a tavola, mi confermava
l’invito al Seder in casa Feuerstein.
Il prof. Feuerstein rimase sorpreso, meravigliato, ma felice di vedermi a casa del figlio dopo che gli avevano raccontato che nel giro di
una settimana ero andata e tornata dall’Italia per celebrare il Seder
con lui e con tutta la sua numerosa famiglia. Ero emozionatissima,
osservavo ogni gesto ed ogni movimento. Nella sala da pranzo della casa di Rafi a Gerusalemme c’erano tantissime persone. Forse
più di 40. Cercavo di capire chi era parente, amico, conoscente. Chi
erano i bambini, come si chiamavano, quanti anni avevano. Avrei
voluto filmare ogni istante, trascrivere ogni frase, riportare le scene
che vedevo, le espressioni di ogni bambino e di ogni adulto quando
partecipavano con le loro domande, le risposte, i gesti, i canti e i balli alla lettura dell’Hagadah. Avrei voluto dipingere ogni scena dello
spettacolo fatto dai bambini che, divisi per età, presentavano agli
adulti le quattro frasi del Ma Nishtanah. E la profonda dolcezza con
la quale il prof. Feuerstein recitava il kiddush, cantava le berachot
L’attualità del pensiero di Feuerstein
Oggi sembra che le giovani generazioni stiano perdendo la capacità
di rapportarsi e relazionarsi in modo creativo e costruttivo con le
categorie del tempo e dello spazio. Sono proprio queste categorie,
filosoficamente così importanti, che Feuerstein considerava fondamentali per lo sviluppo del pensare dinamico e produttivo. In un
sistema di educazione della mente, motivato dalla completa fiducia
nella educabilità dell’intelligenza, Feuerstein sottolineava quale importanza fondamentale avesse l’educatore nell’attivare i processi di
modificabilità cognitiva strutturale. È infatti vero che per quanto gli
stimoli socio-culturali e i fattori biologici siano delle ricchezze e/o
degli ostacoli per l’apprendimento, la qualità e l’intenzionalità della
interazione educativa dell’educatore (genitore, insegnante, parente
prossimo ecc.) sono quelle che generano la modificabilità della mente e lo sviluppo della propensione al cambiamento.
Feuerstein, nella necessità di fare chiarezza su ciò che caratterizzano la diversità e la deprivazione culturale, precisava la necessità
di non confondere queste due condizioni. Mentre la prima rimanda
ad una appartenenza ai sistemi culturali, fatti di contenuti, codici,
comportamenti, valori, strumenti, manufatti e regole, la seconda
ha origini nella mancata possibilità dell’essere umano di conoscere, attraverso l’esperienza di apprendimento mediato (mediazione)
i significati, i simboli, i processi, le relazioni che sono proprie del
tessuto culturale e sociale dentro il quale cresce, apprende e tra-
sforma la realtà. Coloro che nella propria cultura sono stati privati
dell’esperienza di apprendimento mediato, mostrano un mancato
sviluppo del potenziale di apprendimento e di conseguenza una difficoltà a relazionarsi, comprendere ed interagire in contesti culturali
differenti dal proprio. Da qui il richiamo che Feuerstein faceva alle
società ricche che rischiano di fare diventare gli oggetti di consumo
dei “sostituti genitoriali”. La presenza di deprivazioni culturali è
molto forte anche nelle società che si dichiarano ricche e tecnologicamente avanzate. Un ambiente ricco di stimoli non genera di per
sé mediazione, l’apprendimento è, invece, qualitativamente valido
quando gli adulti sono presenti con progetti e azioni intenzionalmente dirette a modificare e migliorare le strutture cognitive e la
propensione all’apprendimento delle persone.
L’importanza data alla qualità della relazione educativa che, partendo da un contesto affettivamente caldo e positivo, permette il
miglioramento e il successo di ogni essere umano è il meraviglioso
insegnamento che Feuerstein ci ha donato per continuare insieme
l’opera della creazione.
SILVIA GUETTA
Università degli Studi di Firenze - Università Ca’ Foscari
Università Roma Tre
Convegno Internazionale
REUVEN FEUERSTEIN: IL FUTURO
Metodologie, strumenti di applicazione e pratiche educative
Aula Magna Università degli Studi di Firenze
23 ottobre 2014 h 10-18
Con la partecipazione di Ricercatori e Responsabili de
The Feuerstein Institute di Gerusalemme
della Feuerstein Heritage Foundation
Relazioni: Silvia Guetta, Umberto Margiotta, David Meghnagi
Workshop con formatori: Jael Kopciowski, Nicoletta Lastella,
Sandra Damnotti
Il Convegno, è rivolto a Insegnanti, Educatori,
Formatori, Mediatori e Studenti.
Iscrizioni entro il 15 ottobre, verrà rilasciato un attestato con
i Crediti Formativi utili per l’aggiornamento e la formazione al PAS.
La quota di partecipazione di 20€ sarà devoluta
alla Feuerstein Heritage Foundation.
Informazioni: Prof.ssa Silvia Guetta
mail [email protected] tel. 0552756090
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SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
e, preso dal gioco e dallo scherzo, cercava di nascondere l’Afikomen sotto il suo inseparabile e caratteristico basco. Ero affascinata
da tutto, come mi aveva preavvisato Daniel, potevo concretamente
vedere come veniva stimolata la partecipazione dei bambini tanto
che, presi dal gioco e dai cioccolatini che arrivavano tutte le volte
che riuscivano a dare una risposta giusta, alle 2 di notte erano ancora tutti belli, arzilli e pronti a continuare a divertirsi. Tutto era
pensato e svolto in funzione dei bambini. Era fondamentale avere la
loro attenzione, assicurarsi che tutto venisse capito.
Ogni fase della lettura e ogni azione era la mediazione di strumenti
utili per aiutare a comprendere e sentire il passato, il presente e
futuro. Una mediazione fondamentale che nella nostra mente può
essere attivata grazie ad un processo educativo intenzionale capace di attivare la modificabilità cognitiva. La celebrazione di tutta la
festa di Pesach è una chiara espressione, per il calore umano della
famiglia, per i suoi simboli, i suoi gesti e i suoi rituali, di profonda
intenzionalità educativa.
41
ROMA EBRAICA
L
Museo Ebraico,
cosa ne pensano i turisti
a penultima domenica di luglio,
nonostante le strade romane fossero deserte per il caldo, il Museo
Ebraico di Roma era gremito di
turisti di ogni età e nazionalità. Le guide
continuavano ad uscire dall'uscita principale del museo con al seguito folti gruppi
di turisti per guidarli nelle strade del ghetto e per raccontargli con grande professionalità la storia della Comunità ebraica di
Roma, dopo aver mostrato l'affascinante
collezione di tessuti, di argenti e di altri
oggetti che rendono così famoso internazionalmente il museo ebraico di Roma.
Dopo la fine della visita ho fermato numerosi visitatori curiosa di scoprire cosa li
avesse colpiti di più.
La maggior parte degli intervistati era a
conoscenza della fama del Museo e della
sua preziosa raccolta di oggettistica ebraica mentre pochi, soprattutto i più giovani,
mi hanno detto di essere rimasti profondamente colpiti della visita nonostante avessero scoperto il museo solo camminando
verso il Tempio Maggiore oppure mentre si
stavano dirigendo verso uno dei numerosi
ristoranti kosher del Ghetto.
Cosa vi è ha colpito di più della visita? C'è
un oggetto del museo che vi è particolarmente piaciuto?
Una coppia di coniugi messicani in viaggio
di nozze ha sottolineato la bellezza dei tessuti e delle vetrate di Eva Fischer. Sono vetrate colorate finemente decorate (la vetrata di Gerusalemme, la vetrata di Hebron,
di Safed e la vetrata di Tiberiade). Queste
sono state realizzate rispettivamente gra-
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
L’“Associazione Daniela Di Castro
Amici del Museo Ebraico di Roma”
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
è nata per aiutare il Museo Ebraico
42
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
[email protected]
Tel. 334 8265285
I bambini
prima di tutto
L’ADEI-WIZO schierata in prima
linea nella difesa dei bambini
L’
zie alle offerte di Nella e Salvatore Fornari
in memoria della figlia Vittoria, di Celeste
Terracina e di Alberto e Vittoria Fornari in
memoria di Raffaele Fornari, di Marcello e
Carlo Sestieri in memoria dei genitori e di
Sergio Tagliacozzo in memoria di Marcella
Ajò.
Una giovane ragazza ebrea di Pescara mi
ha parlato con grande entusiasmo dell'elemosiniere settecentesco con colonnine tortili che imitano le colonne del baldacchino
di San Pietro (realizzate dal Bernini nella
prima metà del Seicento utilizzando come
modello le colonne del Tempio di Gerusalemme). Una signora newyorkese appena
uscita dal Museo con la sua guida privata,
mi ha raccontato che frequenta regolarmente la Central Synagogue di New York.
Era a conoscenza della bellezza del Museo
Ebraico di Roma ed era curiosa di approfondire la storia della Comunità ebraica
romana. In seguito alla visita era profondamente commossa per il reparto del museo dedicato all'olocausto (diversi membri
della sua famiglia originariamente europea
erano stati nei campi di concentramento
nazisti). Subito dopo la signora è uscito dal
museo un gruppo di quattro amici sempre
americani sui vent’anni. Quasi non mi avevano sentito mentre cercavo di fermarli
perché troppo intenti discutere sull'attentato al Tempio di Roma del 1982 in cui ha
perso la vita Stefano Gaj Taché a soli due
anni. All'unanimità erano tutti very moved
(molto commossi) dal libro di preghiere con
i segni di proiettili grazie al quale si è salvato proteggendosi Nereo Musante.
Nonostante le diverse nazionalità, le diverse età, i diversi interessi e le diverse religioni, la visita ha certamente lasciato qualcosa
a tutti coloro che sfidando il caldo di un'estate romana hanno deciso di fermarsi incuriositi al Museo Ebraico di Roma per scoprire
qualcosa in più sulla storia della Comunità
ebraica di Roma, la più antica comunità
ebraica europea.
SARAH TAGLIACOZZO
impegno a proteggere i bambini ha sempre caratterizzato
l’attività dell’ADEI-WIZO e
mai come in questo periodo
il suo lavoro è stato fondamentale ed urgente. L’ADEI di Roma ha moltiplicato gli
sforzi per raccogliere fondi da inviare in
Israele per questo scopo. Dal 2005 vengono lanciati da Gaza razzi sullo Stato israeliano, quasi sempre intercettati dall’antiaerea, il cui impatto psicologico lascia
pesanti tracce nella mente dei bambini.
Adesso che il governo di Israele ha deciso di distruggere i tunnel che portavano
ingenti quantità di armi a Gaza, le istituzioni WIZO si sono occupate principalmente degli abitanti del sud di Israele,
fornendo assistenza materiale e psicologica a bambini ed adulti ed anche ai soldati impegnati nella missione “Protective
Edge”.
I bambini che hanno mostrato maggiormente i segni della pressione psicologica
a causa del lancio dei razzi palestinesi,
sono stati spostati in strutture a distanza
di sicurezza ed hanno riacquistato lentamente l’equilibrio perduto. Il personale
WIZO affianca i piccoli ospiti durante tutto il giorno, in particolare durante la sera,
parlando con loro e cercando di riportare
lo stress a livelli accettabili; inoltre, tramite l’aiuto di finanziatori privati, cerca di
distrarli fornendo loro giocattoli e cibi a
loro particolarmente graditi, come la pizza. E’ stata approntata anche una linea
telefonica per aiutare adulti e bambini a
gestire questo periodo di forte pressione.
Spesso sono gli stessi genitori a telefonare per chiedere consigli su come poter
spiegare ai propri figli la situazione attuale senza creare maggiore stress.
La WIZO è sempre stata attiva anche in
ambito culturale, promuovendo la cultura
israeliana attraverso concerti, opere teatrali, mostre. Recentemente l’ADEI-WIZO
di Milano è stata costretta, per motivi
finanziari, ad annullare il concerto della
cantante Noa, il cui agente ha protestato
affermando che la cancellazione era dovuta a motivi di carattere politico. Si segnala che, purtroppo, non è il primo caso
di manifestazioni ebraiche programmate
nei prossimi mesi ed annullate per il ritiro
dei finanziatori a causa della situazione
attuale di tensione tra israeliani e palestinesi; è anche da sottolineare che Noa recentemente ha manifestato la propria critica contro il governo israeliano in modo
molto duro e fazioso.
SILVIA HAIA ANTONUCCI
Io ebreo, io libico, io italiano: la storia di David Gerbi
ta, ma venne ritrovata nel 2003 e, dopo innumerevoli vicissitudini per permetterle il trasferimento,
le venne permesso di riunirsi con la sua famiglia
“romana”. Il secondo miracolo è la fine del coma
della Zia, ricoverata a Tripoli, e il terzo è il primo
visto di Ebreo Libico con cui David poté fare visita
a quest’ultima. L’abbattimento del muro costruito
per sigillare la Sinagoga di Tripoli, o il fatto stesso
che David sia stato vivo abbastanza a lungo da poterlo raccontare, sono solo due degli ulteriori miracoli che vengono presentati come la base di questa
grande fede che lo avvolge sin da piccolo. Alla fine
della rappresentazione, il regista Tonino Tosto ha
spiegato la difficoltà di raccontare una storia autobiografica attraverso il teatro; perché non scegliere
una conferenza? O uno spettacolo messo in scena da più attori?
Semplicemente per fare arrivare il messaggio in maniera più diretta, sicuramente più leggero di una conferenza e più adatto ad
un pubblico giovane. Uno spettacolo, quello di Gerbi, istruttivo,
meritevole di ulteriori spazi all’interno dei teatri Italiani e di tutto
il mondo. Insomma un grazie a tutti i collaboratori e alle collaboratrici per questo toccante pezzo di storia delle Comunità Ebraiche
di Libia e di Roma, e un forte e sentito grazie a David Gerbi, per
non essersi mai arreso di fronte alle difficoltà e per non aver mai
perso fiducia né nell’identità di Libico, né nella fede Ebraica.
REBECCA MIELI
Quando la danza
non è solo un gioco
lità, c'è una presa di conoscenza delle parti del proprio corpo, si
imparano terminologie e articolazioni delle quali loro ignorano
la funzionalità. “Basta pensare alla flessione e all'estensione – ci
conferma Alessia - Bisogna ricordare ai genitori che muoversi nel
tempo senza farsi male è fondamentale e questo potrebbe essere
un buon esercizio!”.
Tra i molti obiettivi che si prefigge il gioco danza, ce n'è uno che
riguarda l'aspetto relazionale e sociale del bambino: il lavoro di
gruppo, la presa di coscienza del compagno (ovvero imparare che
lì vicino c'è un altro bambino), sapersi muovere in uno spazio condiviso anche attraverso degli attrezzi e sapere dove stare senza
occupare il posto di un altro bambino. “Vengono messi a disposizione dei bambini degli strumenti che permettono di creare dei
percorsi come, ad esempio, il saltare dentro e fuori dal cerchio e
tornare indietro perché oltre all'approccio ludico, i bambini devono
imparare a lavorare con il corpo. - ci spiega - Nella fascia 4/5 anni
ci si concentra sugli addominali poiché fisiologicamente i bimbi
hanno la pancia leggermente protuberante e la schiena lievemente inarcata. Far rientrare gli addominali permetterà in futuro di
avere una giusta postura per la schiena”. Questi esercizi vengono visti dal bambino come un gioco e come una sua libera scelta,
senza forzature. A quanto pare il gioco danza è l'attività migliore
per l'età prescolare. Stiamo parlando di un percorso formativo nel
quale sono introdotti tanti elementi che fanno parte di tutto quello
che è il complesso di crescita del bambino.
MIRIAM SPIZZICHINO
La musica, il movimento, il ritmo e le relazioni
con gli altri sono tutte esperienze che rafforzano
il bambino attraverso il ballo
O
gni anno ci divertiamo a guardare, nella palestra dell'asilo ebraico, le coreografie dei bambini alle prese con il
famoso “saggio di danza”.
Alessia Di Castro, coreografa e direttrice della scuola
“Amici della Danza”, spiega che dietro quel balletto, che per molti
può sembrare semplice, in realtà c'è un duro lavoro di educazione
al movimento. Il gioco danza corrisponde alla danza educativa e
avviene in età prescolare (dai 4 ai 5/6 anni). “Si pensa che il gioco danza sia solo per le femmine, invece ho riscontrato che molti
bambini maschi con un'ottima capacità di coordinazione, grazie a
questi esercizi, arrivano a migliorarla e svilupparla maggiormente”, afferma Alessia.
Il gioco danza è importante perché, attraverso la musica, i bambini
imparano a gestire il proprio corpo seguendo un ritmo musicale.
In questi esercizi non è importante solo la coordinazione, ma l'esecuzione di un movimento in un determinato intervallo di tempo
dato dal ritmo (camminata lenta o veloce). Si lavora sulla spazia-
ADEI WIZO ROMA
“CHE BELLO SONO IN CRISI!”
Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare le
stesse cose. La crisi può essere una grande BENEDIZIONE per le
persone e le nazioni, perché porta progressi (A. Einstein)
Corso di formazione settimanale (aperto a tutti) condotto dal dott.
David Gerbi, psicologo–psicoterapeuta-psicoanalista junghiano
Info: Stefania 3286131823 - Rossella 3483013997
Mara 3492961425
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
D
al 22 al 25 Giugno al Teatro “Sala Umberto” è stato presentato lo spettacolo “I LOVE
LIBYA”. La rappresentazione è stata scritta
ed interpretata da David Gerbi, il quale non
solo si è cimentato in questo “one man show” raccontando una storia davvero drammatica e profonda, ma
a conti fatti ha rappresentato la storia della sua vita,
quindi con duplice difficoltà interpretativa.
Lo spettacolo è stato dedicato, in occasione della giornata mondiale dei rifugiati, proprio a questi ultimi,
costretti a lasciare il proprio paese a causa delle persecuzioni. David parla della sua infanzia passata tra i
quartieri di Tripoli, giorni trascorsi osservando il mondo da una terrazza, tra il brusio dei pettegolezzi e gli
schiamazzi delle clienti di sua madre. Dopo la Guerra
dei sei giorni e le proteste in seguito alla vittoria dello stato d’Israele, la Comunità Ebraica di Tripoli ha dovuto passare giorni interi nascosta nelle proprie case, quando i cittadini che fino a pochi
giorni prima consideravano fratelli, hanno iniziato ad incendiare i
negozi e a distruggere il quartiere. Nel giugno del ‘67 il Re Idris
I, per far sfuggire gli ebrei ai veri e propri pogrom che si stavano
svolgendo, li aiutò ad uscire dal paese, scortando anche le famiglie
più agiate al porto e all’aeroporto di Tripoli. La Comunità esiliata si
trasferì in parte in Israele e in parte in Italia, specialmente a Roma,
dove furono accolti con lo status di rifugiati. David rimase a Roma
per tutta l’adolescenza, si integrò perfettamente nella comunità commovente il racconto del suo Bar Mitzva, quando i suoi amici gli
regalarono il motorino per farlo sentire davvero parte del gruppo
- e studiò per diventare psichiatra. Nonostante il trascorrere degli
anni non perse mai il legame con la madrepatria, partecipando
anche alle manifestazioni della “Primavera Araba” del 2011.
Gerbi racconta la sua storia mostrando una grandiosa forza interiore e una fede che forse in pochi, dopo tragiche vicende come
questa, sarebbe rimasta intatta. Alla fine dello spettacolo, accendendo nove lumini, elenca tutti i grandi miracoli della sua vita:
il primo è il miracolo del ritrovamento della zia, Rina Debach,
ultima Ebrea ancora residente in Libia. Tutti la ritenevano mor-
43
ROMA EBRAICA
Quando Maccabi vuol dire sport
Dal calcio alla pallanuoto molte le discipline
per fare attività sportiva
I
l movimento sportivo Maccabi nasce alla fine del XIX secolo
da una intuizione di Max Nordau, medico, filosofo, scrittore
in ordine al pensiero di un "ebraismo muscolare" nell'ambito
di un ideale sionistico che si basasse non solo su una forza
intelletuale, ma anche su una forza fisica ed agonistica.
Il Maccabi, il cui motto è "Hazak Veemaz", "Forza e Coraggio", è
l'istituzione sportiva con maggiore presenza nel mondo, infatti in
ogni nazione dove il Maccabi è attivo è presente una Federazione
nazionale che fa parte del Maccabi mondiale, che promuove ed
alimenta le attività periferiche dei vari circoli Maccabi ubicati nelle
città con una presenza comunitaria ebraica. L'Italia non fa eccezione; è presente la F.I.M. Federazione Italiana Maccabi, presidente
Vittorio Pavoncello, che organizza le spedizioni per le quadriennali
sia per le Maccabiadi in Israele, sia per gli European Maccabi Games in una nazione europea prescelta.
Il Maccabi di Roma - diretto da Fabrizio Della Rocca, ex-calciatore
e con il figlio Angelo, capitano della pallanuoto - svolge la sua attività negli sport del Calcio a 5 dai bambini agli adulti, calcio a 11
per gli adulti, volley femminili per tornei femminili adulti, tennis,
karate e pallanuoto che milita in serie C.
“Le piccole soddisfazioni sono le più grandi”, spiega Della Rocca,
che però ricorda come una ‘missione impossibile’ quella di essere
riusciti nel 2007 ad organizzare a Roma le Maccabiadi europee,
“grazie allo sforzo congiunto di tutti, anche del Comune, della Provincia e della Regione”.
Sono molti i successi che il Maccabi Roma può annoverare. “Nel
calcio - sottolinea Della Rocca - abbiamo avuto sempre soddisfazioni sia con le categorie ragazzi che con gli adulti di open. Abbiamo vinto al livello regionale il campionato del CSI (Centro Sportivo
Italiano) con la squadra open. Il CSI è una delle organizzazioni più
grandi del calcio a cinque. Anche i ragazzi hanno dato soddisfazioni sia nel campionato regionale CSI calcio a cinque, sia nel campionato FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) 2013/2014. La
squadra under 16 di calcio a cinque è stata medaglia di bronzo
alle ultime Maccabiadi. Gli under 14 hanno vinto con grande soddisfazione un torneo a Madrid. Quello che è un po' mancato sono
i tornei della pallavolo femminile ed in particolare il campionato
federale. Vedremo quest'anno se è possibile riportare queste ra-
Corso di autodifesa per donne
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
I
44
Il Krav Maga per uscire la sera
un po’ più tranquille
l Krav Maga è una "tecnica di combattimento" semplice e pratica, è un sistema di combattimento ravvicinato e di autodifesa di origine israeliana. La parola krav maga, in ebraico moderno, significa letteralmente "combattimento con contatto/
combattimento a corta distanza".
Il krav maga risponde a criteri di tipo militare quali l'efficacia e la
rapidità con cui si arriva al risultato desiderato, che è la neutralizzazione definitiva dell'avversario e per giungere a questo risultato
si punta a colpire prevalentemente zone vitali del corpo quali: genitali, carotide, occhi etc, (zone intoccabili negli sport di contatto,
e pertanto non può essere praticato in forma sportiva come per
tutti gli sport da combattimento).
Le tecniche di krav maga trovano oggi particolare riscontro ed applicazione nel campo degli operatori della sicurezza, forze armate
e dei corpi di polizia. Oltre che in Israele, esso è ormai diffuso in
tutti paesi del mondo, dando vita a numerose scuole.
Da alcuni anni il krav maga è divenuto una realtà anche per i semplici cittadini nell'ambito della difesa personale, poiché si adatta
gazze a giocare a pallavolo, anche in campionato”.
Il Maccabi è una grande famiglia, ognuno ha un ruolo e tutti devono sentirsi importanti, come lo era il massaggiatore Giulio Morelli,
recentemente scomparso. “Era il massaggiatore della squadra di
calcio, e non era ebreo - ricorda Della Rocca - però se uno spettatore diceva qualcosa contro gli ebrei lui era il primo a difenderli. E’
stata una figura paterna per tutti gli atleti”.
Adesso l’impegno del Maccabi è non solo rafforzare il movimento, ma preparare la ‘spedizione’ per Berlino luglio 2015: “tutte le
squadre inizieranno gli allenamenti e i tornei da Settembre”, spiega Della Rocca. Quindi in bocca al lupo.
YAARIT RACHAMIM
ad ogni individuo, di qualsiasi corporatura (donne, uomini e ragazzi), che si prestano all'autodifesa in qualsiasi luogo e situazione (a
piedi, in auto, in ambienti chiusi o aperti, etc...).
Fabio Di Nepi ha dato vita alla A.S.D. Scuola Krav Maga Roma, di
cui è il direttore tecnico, che cura non solo la formazione atletica,
ma anche l’aspetto mentale e psicologico della difesa personale,
attraverso le lezioni settimanali con l’ausilio di psicologi, avvocati
ed appartenenti alle forze dell’ordine.
Quest’anno Di Nepi ha organizzato la terza edizione del Corso
“DONNA SICURA”, un corso specifico per sole donne di qualsiasi età. Verranno effettuate simulazioni e dati consigli su come
comportarsi in auto, in treno, a piedi. Si impareranno ad utilizzare le "armi occasionali" e gli strumenti difensivi che si possono
avere sempre a disposizione (chiavi, spazzole, penne sfera, pepper-spray). Verrà data grande importanza ai "confini personali” e
al linguaggio del corpo, insegnando a sviluppare una mentalità
difensiva che si porterà per tutto il resto della vita.
Per info: www.scuolakravmagaroma.it oppure [email protected] Il corso Krav Maga si svolge presso la palestra
“Golden Power” il Martedì e il Giovedì dalle 19:00 alle 20:30 in Via
Scarperia, 42 Roma (Tel. 06.55.26.86.26) - Palestra Milleluci Sporting Center il Martedì e il Giovedì dalle 21:30 alle 23:00 in Via Aldo
Quarantotti, 50 Fiumicino (Tel.06.65.22.632)
Cronaca semiseria di una vacanza
in Israele sotto attacco missilistico
D
a tempo avevo deciso di passare le vacanze in Israele. La
guerra iniziata a luglio non aveva fermato i miei propositi.
Anzi ritenevo che fosse doveroso andare per mostrare un
po' di conforto e solidarietà.
Avevo tentato di convincere mia moglie a venire con me, ma lei desiderava andare dai miei figli. Io ritenevo invece che fosse importante
andare in Israele per tanti motivi, prima di tutto per studiare l'ebraico.
Così abbiamo deciso di passare le vacanze separate, ognuno con i
propri desideri e obiettivi da seguire.
Come l'anno scorso volevo seguire un corso di Ulpan, il mio ebraico
doveva migliorare e, dopo i verbi passati, era giunto il momento di
studiare il tempo futuro.
Per fortuna, proprio il giorno prima della partenza è scattato il cessate
fuoco e immaginavo una vacanza serena e rilassata.
Difatti, sopratutto nel mese di luglio, dopo il solito intenso periodo
lavorativo, mi era venuto un po' di reflusso gastroesofageo. Quindi:
dieta, studio e sport sarebbero stati i miei mantra estivi.
Il giorno dopo l'atterraggio a Tel Aviv mi presento subito all'Ulpan e
subisco un esame che sembrava più che altro un interrogatorio di una
poliziotta che aveva davanti un capo di Hamas. Voleva capire in quale
classe avrei potuto seguire il corso. Alla fine mi dice: tu sei alef plus
plus. Ho subito provato a spiegare che pure l'anno scorso avevo lo
stesso risultato e che avrei gradito andare nella classe Bet a studiare
il futuro. Mentre parlavo la tizia, senza nemmeno guardarmi in viso,
scriveva su un foglietto di presentarmi il giorno dopo alla stanza 22,
secondo piano. Poi, poiché insistevo, mi spiega che siccome avevo
sbagliato tutti i verbi passati non potevo andare alla classe "Bet".
Il giorno dopo mi sono presentato alla scuola. Subito 16 ragazze, tutte
dai 25 a 30 anni, tutte bionde e con occhi celesti o verdi o grigio chiaro
(siamo daltonici da generazioni) mi fissano stupite. Ho subito richiuso
la porta chiedendo scusa e dicendo che avevo sbagliato classe. Un
gesto istintivo, che ancora non mi spiego: quei 32 occhi di donne
ucraine, moldave, lituane e russe, mi avevano intimorito. Ricontrollo
fuori la porta il bigliettino e la classe. Purtroppo coincidevano. Dovevo
rientrare.
L'insegnante mi fa cenno di sedermi al primo banco libero, vicino ad
una che sicuramente aveva vinto il Guinness dell'altezza. Mi siedo
al suo fianco e la punta della mia testa arrivava precisamente al suo
avambraccio. L'insegnante fissa la mia vicina e le dice qualcosa, che
non faccio in tempo a percepire. Le chiede sicuramente di farmi una
domanda. La domanda arriva subito. Il suo non era ebraico. Era ucraino, con dialetto russo e forse con qualche cenno della lingua dei nostri
Padri. Non capisco quello che dice ma collegando alcune parole e basandomi sull'esperienza passata, ipotizzo che l'insegnante volesse farle chiedere come mi chiamavo. Rispondo con velocità: Claudio Coen
mi (da) Roma. Senza usare alcun tipo di verbo, né passato né futuro.
Una risata mi fa capire che la domanda era tutt'altra: dovevo dire da
quando ero arrivato, usando il tempo passato.
La settimana con loro è stata difficilissima: più passavano i giorni e
più la lingua russa mi diventava familiare, acquisivo il loro accento
nelle discussioni di gruppo.
Dopo una settimana di lezione, lo stomaco non stava meglio, anzi lo
stress delle interrogazioni, con le domande russo - ebraiche mi rendevano la vita difficile.
Una sera decido quindi di andare dal giapponese sulla Dizengoff: volevo mangiare leggero. Mi siedo e una cameriera biondina, molto carina. sui 20 anni, mi chiede cosa desiderassi. Mi ero preparato la frase
in ebraico e, prontamente, recito a memoria ordinando esattamente
cosa avevo studiato. Lei mi guarda fisso e mi risponde in russo. Mi
stranisco e in inglese le dico: I am i-t-a-l-i-a-n. Le chiedo perché mi
avesse risposto in russo. Lei candidamente mi risponde che pensava
fossi russo. La conversazione riprende in ebraico, ma in quel momento decido di lasciar perdere l'Ulpan per studiare da solo.
Dopo pochi giorni e con lo stomaco sempre più in subbuglio scopro
che nel centro commerciale vicino a dove abitavo vendevano cibi precotti. Mi presento e compro subito la mafruma, un insieme di patate,
carne macinata e spezie varie.. Aveva un aspetto strano ma decido
ugualmente di comprarne due. Immediatamente hanno fatto presa
rapida tra lo stomaco e l'esofago, cementando tutto in un colpo solo.
Dopo due giorni l'intestino era incollato allo stomaco, e quest'ultimo
mi faceva fare dei ruttini che per fortuna si confondevano con l'Iron
Dome.
Dopo lo stress dell'Ulpan, organizzo una gita a Gerusalemme con la
famiglia di mio fratello e decido di andare ad osservare il panorama di
Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Mi hanno sempre parlato di questa veduta meravigliosa sulla città vecchia e pensavo che, visto che
ha un importante cimitero ebraico, fosse israeliano. Dopo poche centinaia di metri una sassata tirata sulla macchina ci da il benvenuto.
Lo stomaco mi sale in gola e mi si chiude. Mio fratello di corsa prende
la guida e via di corsa. Solo dopo ho potuto vedere che sulla portiera
della nostra auto c'era un'enorme bandiera israeliana.
Decido così di rilassarmi su una spiaggia di Hertzelia. Qui non potevano esserci stress. Di nessun tipo. L'autobus 90 passa proprio sulla
Dizengoff. Mi siedo sulla panchina e guardo le novità sul cellulare.
Purtroppo la guerra è ripresa. Mentre aspetto alla fermata, vedo sfrecciare il 90. Con uno scatto felino mi faccio vedere gesticolando. L'autista inchioda dieci metri più avanti. Salgo e gli dico tutto incavolato,
in ebraico con accento russo, e tempi presenti: dove stai andando? Il
tizio mi risponde male e s'infervora.
In Israele gli autisti degli autobus sono di due tipi: o simpatici o antipatici. Non ci sono vie di mezzo. Il mio aveva deciso di dare un colpo
mortale al mio reflusso. Urla, capisco dai gesti, non dalle parole, che
dovevo farmi vedere e non stare seduto in panchina. In inglese, urlando con i tempi presenti, pur sapendo il passato, gli dico: Vuoi che
mi attacco al palo come un panda? La battuta non gli deve essere piaciuta e mi ordina di sedermi. Usa l'imperativo che non è molto difficile
da capire in Israele visto che è largamente utilizzato. Mi siedo dietro
di lui per vedere bene dove scendere. Proprio in quel momento ricevo
una telefonata, il tizio inchioda un'altra volta. Con il dito indice mi fa
capire che non potevo stare al telefono. Lo stomaco oramai mormorava continuamente, vuoi per la rabbia, vuoi perché l'autista pensava
pure di avere ragione.
Al ritorno dalla spiaggia, decido di mangiare qualcosa: niente mafruma, humus o fallafel di qualsiasi genere. Forse la shashuka, fatta
di pomodoro e uova cotte su un tegamino, poteva essere la cosa più
adatta. Mi siedo e ordino in inglese chiarissimo una shashuka, non
piccante.
Per farmi capire meglio glielo dico in tre lingue: inglese, ebraico e
italiano. Il cameriere capisce benissimo, annuisce e mi conferma: no
spicy. Arriva la shashuka, ma aveva un colore strano. E' vero che sono
daltonico ed era pure buio, ma quelle forme non sembravano rosse di
pomodoro. Aspetto che si raffreddi il piatto e comincio a mangiarle
con gusto. Come metto la forchetta sulla lingua sento un brivido in
tutto il corpo. Sento una fiammata di bruciore che prende il palato fino
a soffocarmi. Il bastardo del cuoco l'aveva fatta no piccante ma piccantissima e aveva usato i peperoni israeliani. Mi arrabbio. Esce fuori il
titolare: alto, pelato e con delle mani a forma di pala. Mi chiede cosa
c'è che non va, provo spiegare al meglio, in tono molto gentile e in inglese che la shashuka è troppo piccante. Non come avevo chiesto. Lui,
avanzando verso di me, mentre io indietreggiavo, mi spiega che le
shashuka vengono preparate prima e non si possono modificare. "Ah
ho capito" faccio io. Giusto! L'ho mangiata tutta per non fargli dispiacere, e ho lasciato pure il 10% di mancia, dicendo che era molto buona.
Dopodomani ho il volo di ritorno per Roma. Dopodomani io vado
dal gastroenterologo ma gli israeliani no. Quelli il reflusso non ce
l'hanno, semmai te lo fanno venire. Nonostante l'Iron Dome non sono
stressati! Io sì.
CLAUDIO COEN
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Gli israeliani non soffrono
di reflusso. Io sì
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DOVE E QUANDO
SETTEMBRE
15
17
17.00 Le Palme
Attualità - Parliamone insieme
L U N E D I -----------------------------------------------
Adei Wizo
Un libro al mese: Nostro Figlio di Alon Altars ed. Atmosphere
MERCOLEDI
Che sia cancellato il suo nome
di Anouk Markovits
ed. Mondadori
-----------------------------------------------
18
21
17.00 Le Palme
Le prossime festività,
G I O V E D I con Rav Amitai Sermoneta
-----------------------------------------------
Adei Wizo
Pic-nic di famiglia: Prepara il tuo
DOMENICA pic-nic parve e vieni alla “Collina
27
Via delle Sette Chiese
L U N E D I Passeggiata culturale al quartiere
Garbatella guidati dalla prof.ssa
Paola Sonnino. Info e prenotazioni
non oltre mercoledì 24 settembre
21.00 Il Pitigliani
Chassidismo e modernità.
La scoperta dell’individuo
Incontro con Gavriel Levi
OTTOBRE
02
17.00 Le Palme
La festa di Sukkot,
G I O V E D I usanze e tradizioni,
03
04
12
a cura di Rav Roberto Di Veroli
-------------------------------------------------
Centro di Cultura Ebraica
SHABAT SHALOM
Parashà: Nitzavim-Vayelech
Venerdì 19 SETTEMBRE
Nerot Shabath: h. 18:54
Sabato 20 SETTEMBRE
Mozè Shabath: h. 19:55
--------------------------------------------------Parashà: Haazinu
Venerdì 26 SETTEMBRE
Nerot Shabath: h. 18.42
Sabato 27 SETTEMBRE
Mozè Shabath: h. 19.43
--------------------------------------------------Parashà: Yom Kippur
Venerdì 3 OTTOBRE
Nerot Shabath: h. 18.30
Sabato 4 OTTOBRE
Mozè Shabath: h. 19.31
--------------------------------------------------Parashà: Chol ha moed Succot
DOMENICA
Israele.
Adulti € 10,00 - bambini gratis.
Sukkot: pranzo e incontro col rav
Prenotazione obbligatoria in sede
Info e prenotazioni: Diletta
entro giovedì 18 settembre.
------------------------------------------------Info: 065814464 - 3246388500
----------------------------------------------Pranzo sotto la Sukkà dei giardiL U N E D I ni del Tempio Maggiore
Al termine della Tefillà
MINAG TRIPOLINO ALLO SPAGNOLO
Centro di Cultura Ebraica
Derashà di Shabbat Teshuvà:
“Come si fa teshuvà?”
con il Rabbino Capo
Rav Riccardo Di Segni
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
10.00 Adei Wizo
Asili Infantili Israelitici,
storta”, Centro Educativo e didatV E N E R D I Yom Kippur 5775. Come ogni antico all’aperto sulla Via Aurelia.
no il nostro Kippur. Tefillà, spieGiochi, intrattenimento, caccia al
gazioni e commenti.
tesoro, passeggiata sui pony, parInfo: 06 5897589
SABATO
tita di calcio e tanto altro....
------------------------------------------------Il ricavato della giornata sarà devoluto a sostegno dei centri per
Pranzo sotto la Sukkà
bambini e ragazzi della Wizo in
S A B A T O Tempio Maggiore,
46
29
13
13.00 Le Palme
Il Pitigliani
13.00 Adei Wizo
“Il sinodo delle donne”: giornate
di incontri, dibattiti e conferenze
tra donne di varie culture sul tema
“La famiglia tra tradizione e modernità” Info: 065814464
ADEI WIZO
IL PITIGLIANI
Dopo i moadim riprenderà il corso di Torà e
pensiero ebraico a cura di Rav Chaim Vittorio
Della Rocca.
ADEI Wizo e Asili Infantili Israelitici Rav Elio
Toaff organizzano l'evento "Artisti in erba". Si
accettano iscrizioni per partecipanti dai 5 ai 18
anni che possano esibirsi in danza di qualsiasi
genere, recitazione, musica strumentale, canto
corale fino al 30 ottobre 2014. adeiwizor@gmail.
com - 065814464 [email protected] –
065803668
Lunedì 15/09 ore 19.30 muoversi con il Metodo
Feldenkrais con I. Habib
Domenica 21/09 primo seminario domenicale
con il Metodo Feldenkrais del 5775
Martedì 30/09 ore 20.00 lezione aperta del
Laboratorio di Vocecanto con E. Meghnagi
Lunedì 29/09 ore 9.00 nuovo corso di Ginnastica
Posturale con G. Ciccarone
Lunedì 29/09 dalle 18.00 presentazione del
corso di Ebraico con A. Goldman – per i livelli e
gli orari contattare la segreteria
Martedì 14/10 ore 16.30 arte con C. Terracina
Info e iscrizioni: [email protected] (Diletta o
Micaela)
Gruppo Ghimel: Lunedì 13 ottobre: rincominciano gli incontri! pranzo in sukkà e attività
Programmi educativi:
Mercoledì 8 ottobre a partire dalle 15.30 attività
su sukkot per bimbi dai 2 ai 10 anni
Giovedì 9, lunedì 13 e martedì 14 ottobre opensukkà per fare merenda insieme
Lunedì 13 ottobre pranzo in sukkà per bambini
CENTRO DI CULTURA EBRAICA
Sono ancora aperte le iscrizioni ai corsi di:
ebraico moderno ai vari livelli e nelle diverse
fasce orarie con Alumà Mieli insegnante di
madrelingua
ebraico biblico con lettura del testo attraverso
le radici delle parole con Hora Aboaf
Corso principiante: lunedì tardo pomeriggio/
sera Corso intermedio: giovedì 17.30/19.00 Info:
06 5897589 - [email protected]
Venerdì 10 OTTOBRE
Nerot Shabath: h. 18.18
Sabato 11 OTTOBRE
Mozè Shabath: h. 19.20
--------------------------------------------------Siamo lieti di informare tutti i nostri Correligionari interessati, che per l’anno che sta
arrivando B’H’, al Tempio Spagnolo di Via
Catalana, si svolgeranno come oramai da
più di sessanta anni, le funzioni per lo YOM
KIPUR con Minag tripolino.
Ci aiuterà anche quest’anno nella lettura
delle Tefillot e delle Parashot il Hazan Beno
Baadash, proveniete da Israele.
Con la certezza di vedervi sempre più
numerosi, auguriamo a tutti un sereno e
dolcissimo anno 5775.
Info: Giorgia Di Veroli 065897756 educazione@
pitigliani.it
Attivalamente: Sono aperte le iscrizioni per il
recupero e il potenziamento delle abilità di
apprendimento. Info: Simona Zarfati simona.
[email protected]
Save the date: domenica 26 ottobre ore 11.00
Spettacolo teatrale per bambini (3-10 anni) "La
torre di Babele" con Graziano Sonnino. Regia di
Giordana Moscati.
Piccola colazione di accoglienza, spettacolo e
per chi lo desidera laboratorio manuale per bambini inerente il testo.
LE PALME
Durante il periodo dei Moadim, dal 24 Settembre
al 17 Ottobre, nel Gazebo situato nel parco
dell'Ente, si svolgeranno le funzioni religiose
delle festività di Rosh ha-Shanà, di Kippur e di
Sukkot.
Verrà inoltre costruita una splendida Sukkà nel
giardino, ove accogliere amici e frequentatori
per merende e lezioni.
RINGRAZIAMENTI
NASCITE
Rachel Benigno di Angelo e Giorgia Mieli
Sofia, Rivkà Del Monte di Alessandro e Federica Coen
Edoardo, Itzhak Hai Di Porto di Attilio e Letizia Di Veroli
Asya Funaro di Rodolfo e Micaela Salmonì
Gemma Eden Piperno di Fabrizio e Sharon Hayon
Sara Salmonì di Marco e Pamela Salmonì
Jacopo Genco di Giuseppe e Grazia Spizzichino
Samuel, Leone Sonnino di Andrea e Beatrice Di Cori
Elena, Noa Tiberi di Claudio e Gaia Spagnoletto
Michelle Fiano di Fabrizio e Giada Di Porto
BAR-BAT MIZVÀ
Golda Danon Rubin di Enzo e Anna Bader
Virginia Efrati di Massimo e Elisa Piroli
Arielle Sagi Schlesinger di Nicolò e Roberta Anticoli
Allison Zarfati di Mirko e Chiara Sonnino
Alessandro Astrologo di Giacomo e Claudia Sonnino
Niccolò Spizzichino di Andrea e Fabiana Moscati
Il Keren Hayesod e l’Ose Italia Onlus ringraziano i Signori Enrico
e Tamara Campagnano per aver voluto in occasione delle loro
Nozze d’Argento, devolvere i doni ricevuti da parenti e amici, al
progetto Amigour “Case protette per anziani” in Israele ed ai
progetti per l’infanzia dell’Ose Italia.
Il Consiglio della Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizio Sociale di Roma desidera esprimere i suoi migliori auguri e
sentiti ringraziamenti a Arnaldo e Anna Coen che in occasione
delle loro Nozze d’Oro hanno generosamente devoluto quanto
destinato ai loro regali a favore delle famiglie bisognose della
nostra Comunità
La Comunità ebraica e la redazione di Shalom sono vicine
a Claudio Di Segni, Maestro del Coro del Tempio Maggiore,
per la scomparsa della madre,
Sarina Piattelli Di Segni
Lo scorso 21 luglio è venuto a mancare
Giorgio Campagnano,
per anni presidente del Keren Hayesod.
Sentite condoglianze alla famiglia e in particolare al figlio Enrico,
attuale presidente del Keren Hayesod.
E’ scomparso Angelo Di Cori,
padre della morà Alba della Scuola Elementare ebraica.
Sentite condoglianze alla famiglia.
Lo scorso 21 agosto è venuto a mancare
Lello Vivanti (Cioccolato).
La Comunità ebraica partecipa al lutto della famiglia
ed esprime sentite condoglianze.
MATRIMONI
Graziano Calò - Sara Anticoli
Alberto D’Angeli – Laura Caserta
Ralph Di Segni – Alexandra Sciunnacche
Fabio Renato Di Veroli – Sara Sciunnach
David, Jonathan Halimi – Silvia Tedeschi
Gabriel Naccache – Deborah Moscati
AUGURI
I migliori auguri ad Angelo Benigno e Giorgia Mieli, educatrice
presso il Pitigliani, per la nascita di Rachel.
È nata Sara Salmonì. Auguri ai genitori Marco Salmonì e Pamela
Salmonì, alla famiglia, in particolare alla zia Giuliana Salmonì,
dell’Ufficio amministrativo della CER.
Si sono sposati Graziano Calò e Sara Anticoli. I migliori auguri
agli sposi, alla famiglia in particolare ad Alessandra Calò,
sorella dello sposo, educatrice presso il Dipartimento educativo
della CER.
Auguri a Gabriel Naccache e Deborah Moscati per il loro
matrimonio. Agli sposi, alla famiglia in particolare al padre della
sposa, Claudio Moscati, assessore al Culto della CER, mazal tov!
Roberto Coen, consigliere Ucei, è diventato nonno. Sabato 9
agosto è nata infatti Sofia, di Federica Coen e Alessandro Del
Monte. Ai neo genitori e ai nonni Roberto, Tiziana Della Rocca,
Vittorio e Marina Del Monte, i più affettuosi auguri.
I migliori auguri a Claudio Tiberi e Gaia Spagnoletto per la
nascita di Elena. Mazal tov alle famiglie, in particolare alla
nonna Alberta Efrati, ex insegnante della scuola elementare
ebraica e allo zio Amedeo Spagnoletto, Sofer dell’Ufficio
rabbinico.
CI HANNO LASCIATO
Salvatore Astrologo 27/02/1949 – 17/07/2014
Lalla Blum ved. Cittone 16/12/1921 – 05/08/2014
Giovanna Calabi ved. Piperno 15/11/1925 – 08/07/2014
Graziano Calò 07/05/1934 - 27/08/2014
Giorgio Campagnano 14/01/1929 – 21/07/2014
Aldo Coen 10/09/1946 – 18/07/2014
Elvira Coen 29/11/1941 – 02/08/2014
Crescenzo Di Castro 19/09/1933 – 20/06/2014
Lea Di Castro in Ortu 13/02/1936 – 22/06/2014
Angelo Di Cori 23/09/1930 – 20/08/2014
Cesare Di Porto 07/06/1963 – 29/06/2014
Giuliana Di Veroli ved. Sonnino – 07/03/1926 – 22/07/2014
Giacomina Elkaim in Conca 04/05/1927 -02/08/2014
Rosanna Funaro in Pierangeli 11/09/1943 – 22/06/2014
Elia Giuili 04/03/1940 – 01/07/2014
Gabriele Habib 11/07/1928 – 30/07/2014
Angelo Moscato 23/08/1936 – 08/07/2014
Sarina Piattelli Di Segni 05/10/1925 – 15/07/2014
Letizia Piperno in Sed 04/10/1934 – 24/06/2014
Lidia Piperno ved. Pontecorvo 03/08/1915 – 24/06/2014
Nicoletta Roccas in Di Veroli 09/02/1936 – 30/06/2014
Dora Salmonì in Caretta 18/01/1922 - 19/07/2014
Linda Silva 07/07/1922 – 12/07/2014
Giuseppe Sonnino 03/02/1929 – 22/08/2014
Claretta Spizzichino ved. Della Seta 19/02/1924 – 29/07/2014
Leone Taieb 02/12/1922 – 01/07/2014
Lello Vivanti 27/04/1944 -21/08/2014
Rosa Vivanti in Piazza Sed 19/03/1956 – 22/07/2014
Beniamino Zanzuri 03/11/1928 – 04/07/2014
Emanuele Zarfati 28/02/1949 – 08/08/2014
IFI
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TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
Shirel Ascoli di Dino e Micol Di Veroli
47
ROMA EBRAICA
Parola d'ordine:
"O' Bischero"
Il contributo degli ebrei
italiani alla guerra
di indipendenza di Israele
L
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
o scorso 22 agosto, è scomparso
Giuseppe Sonnino noto a tutti
come "Papone". Lo vogliamo ricordare con un articolo di Balfour
Zapler pubblicato su Shalom di maggio
1998.
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Giuseppe Sonnino è molto noto in “Piazza”, al Portico d’Ottavia dove è conosciuto
con l’affettuoso nomignolo di Papone. Parla bene l’ebraico, scandendo le sillabe con
il caratteristico accento degli ebrei romani.
Scherza sempre con tutti, e alcune volte i
suoi scherzi sono grevi, ma questa è una
sua caratteristica.
Nei suoi ricordi parla
sempre di quando faceva “er sordato” in
Israele, cominciando nella “mahteret”, la
resistenza, appena prima della proclamazione dello Stato, e poi nell’Haganà, l’esercito regolare.
Forse non sa che il caso ha
voluto che partecipasse alle più importanti
battaglie delle neonate forze armate d’Israele. E non sa neppure di essersi comportato da eroe.
L’avventura di “Papone” inizia nel 1945
quando, appena sedicenne, decise di recarsi in Palestina, dove frequentò – dopo
un breve soggiorno al campo di transito
di Beit Lid – la scuola agricola di Ben Shemen. Da lì entrò a far parte del Kibbutz
di Givat Brenner dove, nel 1947 iniziò
l’addestramento militare. L’azione per
Papone cominciò lo stesso anno quando
una nave di profughi proveniente dall’Italia, la “Shabatay Luscinsky”, si arenò
sulla costa e fu individuata dagli inglesi,
avvertiti dagli arabi di un villaggio vicino.
Un centinaio di giovani di Givat Brenner
(tra cui il nostro “Papone”) si recarono immediatamente sul luogo dello sbarco dei
profughi e scambiarono i propri indumenti con quelli degli immigrati illegali, per
farsi arrestare dagli inglesi al posto loro e
permettere agli sbarcati di recarsi nei kibbutzim vicini. l giovani di Givat Brenner
furono infatti arrestati e condotti a bordo
di una nave da guerra britannica a Cipro
e poi internati in un campo di concentramento dove fu facile dimostrare di essere
legalmente residenti in Palestina ed essere quindi rilasciati e riportati a Haifa.
Alla
fine dell’anno, quando gli inglesi si apprestavano a lasciare la Palestina e la fondazione dello Stato Ebraico era ormai data
per certa, Giuseppe Sonnino venne regolarmente arruolato nell’Haganà. Alla domanda di rito: “Dove preferisci andare?”,
questi rispose: “in Marina”; al che l’uffi-
ciale arruolatore, con un sorriso: “Quando
avremo le navi te lo faremo sapere”.
Arruolato nella brigata Ghivati – tuttora
uno dei reparti di “élite” dell’esercito israeliano – viene aggregato al 52° reggimento che diverrà famoso nell’epopea militare
della guerra di liberazione israeliana per
essere stato una delle unità combattenti che ha partecipato alle più numerose e
rischiose azioni di guerra del 1948.
Sonnino partecipa alle battaglie di Latrun,
Nitzanim, Giaffa, Tel Nof, Ramat Hakovesh, Ibdis, Ecron; è tra i primi ad entrare a
Sarafand, l’accampamento militare inglese
più grande del Medio Oriente; è tra coloro
che espugnano la Collina 69 e combattono
alla Collina 113 ed espugnano le roccaforti
di Kubeba e Saranuga… Nomi e luoghi che
ormai fanno parte della storia di Israele.
Oggi Sonnino non sa di essere tra i pochi
sopravvissuti a coloro che di notte portavano armi, cibo e munizioni al kibbutz
Negba, assediato dalle truppe egiziane,
attraversando le linee nemiche.
Coloro
che sono sopravvissuti alle guerre e all’età
(sono passati 50 anni!) e che hanno partecipato a quelle azioni, sono oggi onorati e
riconosciuti come eroi in Israele.
La battaglia della Collina 113 combattuta (e persa)
contro un intero battaglione di sudanesi
che non fece prigionieri, finendo a colpi di
baionetta i feriti, fa parte dei testi militari
più importanti della storia d”Israele.
Ecco
il racconto di quanto accaduto nelle parole
di Giuseppe Sonnino.
Ricordo l’attacco alla Ghivà 113. Durò tutta
la notte iniziando all’una circa. I comandanti ci avevano detto di non preoccuparci
poiché si trattava di un’azione molto semplice. Ma non fu così: i soldati arabi erano
centinaia. Erano sudanesi che facevano
parte dei battaglioni d’assalto dell’esercito
egiziano. La nostra unità era invece com-
posta di soli trenta elementi.
Nei primi
attimi di scontro morirono subito 13 dei
nostri e vi furono numerosi feriti. Il nostro
comandante decise, ad un certo punto, che
la cosa più saggia da fare fosse quella di ritirarsi, lasciando a terra i morti e portando
con noi solo i feriti fino al posto di raggruppamento a circa due chilometri di distanza.
Non fu facile abbandonare i corpi dei nostri
compagni, ma il bisogno di sopravvivere
era più forte.
Tornati indietro e fatto l’appello constatai
che il mio caro amico e commilitone, italiano Renzo Sornaga, anch’esso, di Firenze,
non c ‘era…
Chiesi al mio comandante il
permesso di tornare indietro per cercarlo.
Il capitano mi disse che avevo solo un’ora
e mezza a disposizione, cioè prima del sorgere del sole.
Corsi per circa un chilometro e mezzo, dopodiché cominciai ad avanzare lentamente
poiché già intravedevo le sagome dei nemici.
Vidi che colpivano a colpi di baionetta i corpi prostrati al suolo.
A questo punto
sparai nel gruppo tutti i colpi dei miei due
caricatori lanciando anche l’unica bomba a
mano in mio possesso e decisi di avanzare
ancora per qualche metro sussurrando la
nostra parola d’ordine: O’Bischero…
Ad un certo punto sentii afferrare i miei
pantaloni e, guardando per terra, vidi con
immensa gioia Renzo Sornaga, ancora vivo,
ferito all’inguine. Cercai di aiutarlo e, trascinandolo gli dissi. “O’bischero! Se riesci ad
aggrapparti a me torniamo indietro!” Finalmente arrivammo al punto di riunione dove
mi stavano aspettando poiché avevano sentito il rumore delle mie raffiche. Renzo fu
trasportato su di una jeep all’ospedale.
Dopo la convalescenza, partecipammo,
ancora insieme all’occupazione di Kubeba, dove perse la vita un nostro caro amico, italiano di origine turca, Romano. In
seguito ad una ennesima battaglia, vicino
a Beer Tuvia, Sornaga fu ferito di nuovo,
questa volta ad una spalla.
Ora, dopo tanti anni, a Roma, sono stato invitato a partecipare ad una manifestazione per il 50°
anniversario della fondazione dello Stato
d’Israele, dove ho ricevuto un attestato al
valor militare. In questa occasione ho avuto il piacere di rivedere Renzo Sornaga, il
mio amico di Firenze, ed è stato bello perdersi nel ricordo del passato fatto di tante
forti emozioni.
Questa è la storia di Papone… In qualche
altra parte del mondo, avrebbe il petto coperto di medaglie. Per Israele è uno dei
tanti che hanno partecipato alla lotta per
l’indipendenza. Per Papone è giusto che
sia così e continua a giocare la schedina al
totocalcio perché, se vince, vuole comprare
un appartamentino ad Arad, una città nel
deserto del Neghev, dove gli piacerebbe
trascorrere la vecchiaia.
BALFOUR ZAPLER
Shalom n°5/1998
LETTERE AL DIRETTORE
Gli indignati orbi
Caro Direttore
Non avevo intenzione di scrivere riguardo
i 50 giorni in cui Israele ha dovuto fronteggiare Hamas e i suoi compari che avevano scatenato una guerra folle e criminale
contro Israele lanciando migliaia di missili
e facendosi poi scudo con i civili di Gaza.
Inutile ripetere che l’opinione pubblica, una buona parte della stampa, alcuni
partiti di formazioni estreme, personalità
del mondo della cultura e del cinema del
mondo intero, si sono schierati in maniera
acritica con Hamas. Vecchia storia che si
ripete da anni, il colpevole a prescindere è
Israele, punto. Quindi perché intervenire?
La stampa ebraica ne darà e ne da ampio
risalto, nei modi più adeguati. Poi ieri leggo su un quotidiano un rapporto dell’ONU:
Assad in Siria ad Aprile ha usato i gas lanciati su città e villaggi, asfissiando centinaia di civili; i seguaci del Califfo nelle
zone controllate dall’IS, Stato Islamico in
Siria e Iraq, il venerdì giorno di festa e di
preghiera, lo “santificano” facendo nell’ordine: esecuzioni pubbliche, amputazioni,
fustigazioni, crocifissioni. I malcapitati sono prigionieri di guerra, minoranze
etnico-religiose da sterminare se non si
adeguano al loro Islam rozzo e primitivo.
Già hanno trucidato migliaia di persone. I
nuovi nazisti. E allora anche solo per scaricare la mia indignazione mi sono messo
a scrivere. Non c’è l’ho con Hamas o i psicopatici seguaci del Califfo, ma per tutte
quelle brave persone che a tutti questi orrori sono rimasti silenti, non gli interessa,
sono distratti, nessun appello, nessuna
raccolta di firme, nessuna manifestazione.
Si occupano solo dei “sionisti”, il pericolo
di questo nuovo nazismo una minaccia reale anche per le nostre democrazie non lo
vedono. Ricordiamoci di rammentarglielo
quando Israele per difendersi dall’Is che
è arrivato ai confini del Golan, dovrà difendersi.
Magari iniziando dai “cittadini”
deputati della Casaleggio associati, ergo il
M5S, i più antisionisti/semiti del panorama politico italiano.
ALBERTO DI CONSIGLIO
Grazie per le belle vacanze
Sono un ragazzo autistico che, grazie all'aiuto della Deputazione, della sig.ra Loretta
Kaion, dell'avv. Angelo Sed, del capo-staff
Alberto Di Consiglio, ho avuto la possibilità di partecipare al centro estivo Shirat
Haiam di Ostia (RM).
Un ringraziamento anche a tutti i collaboratori dello staff che, con affetto, mi hanno
accolto in un ambiente divertente e amichevole. Un bacio grande.
PIERRE DADUSC
Validi e bravi medici
Gentile Direttore,
sono una signora molto anziana (ho 89
anni); circa tre mesi fa sono stata vittima
di una brutta caduta che mi ha causato una
dolorosa e grave ferita ad una gamba. Con
l’ausilio di una infermiera ho cercato di
curarla ma senza avere un miglioramento,
anzi peggiorando. Sono diabetica, insulina
dipendente, ho difficoltà a muovermi e non
sono autosufficiente.
Mi sono allora rivolta al dott. Claudio Ventura presso l’Ospedale Israelitico. Con
sollecitudine e generosità, vista la gravità
del caso, mi ha sottoposto alle sue cure
coadiuvato dalla dottoressa Valeria Bonato. Con la loro indiscussa professionalità
e disponibilità hanno risolto la mia grave
situazione in un tempo che non speravo.
Vorrei tramite la voce di Shalom ringraziare molto ed esprimere la mia gratitudine a
questi validi medici.
RENATA SCAZZOCCHIO
In ricordo di Lello Vivanti ‘Cioccolato’
Il 21 agosto 2014 – 25 av 5774, è venuto
a mancare Lello Vivanti Z.L.. Il nome Lello Vivanti, per molti, soprattutto per i nati
dopo gli anni 70, potrebbe non dire molto.
Tutto cambia quando al nome Lello Vivanti, si aggiunge, come spesso accade nel
nostro ambiente il soprannome, che nel
Suo caso era “Cioccolato”. “Cioccolato”
è stato e rimarrà per la nostra comunità
un pezzo di storia della quale andare fieri
ed orgogliosi. “Cioccolato” ha condiviso
insieme ad altri suoi amici, per decenni
la responsabilità di garantire alla nostra
Comunità, istituzioni ed iscritti, la normalità della vita quotidiana. Le riunioni con
“Cioccolato” non erano semplici. Lui era,
“nel nostro lavoro” un perfezionista, come
diciamo noi, un “magagnato”. Quando tutto sembrava pianificato, ecco che “Cioccolato” rimetteva in discussione anche il
più piccolo dettaglio, perché era cosciente
che da un dettaglio, giusto o sbagliato, poteva dipendere la vita di chi si fidava di
lui. Quando, in occasione di una festività
ebraica o di un evento, si vedeva “Cioccolato” fermo su di un cancello o in “giro”
tutti sapevano che la loro tranquillità era
in buone mani.
“Cioccolato” ha vissuto nella modestia
senza mai ostentare il ruolo di responsabilità che aveva, quella stessa modestia e
pacatezza che ha mostrato quando ha ritenuto di dover passare ad altri, soltanto per
motivi di età e non per carenza di capacità, la responsabilità del Suo “lavoro”. Nel
silenzio e nella modestia nella quale ha
vissuto, così, sopraffatto da un male che
non lo ha voluto perdonare, con la stessa
[email protected]
modestia, quasi in punta di piedi, ci ha lasciato.
Noi amici, che con “Cioccolato” abbiamo
lavorato per anni ed anni insieme, abbiamo di Lui un ricordo fraterno che difficilmente, così come è stato negli anni
passati quando ci hanno lasciato Pacifico
Di Consiglio “Moretto” Z.L. e Settimio Caviglia ”Aquilone” Z.L. non potremo mai
dimenticare. A te Lello, che la terra ti sia
lieve
I tuoi amici.
ANGELO “BAFFO”, BEBBY PONTECORVO, CESARE DI PORTO “CAVALLO”, CESARE DI SEGNI “LEPORINO”, FULVIO
GAY, MINO DI PORTO “PETACCUMME”,
ROBERTO DI PORTO “PUCCI”, ROBERTO
COEN, GIANNI ZARFATI.
Seguono altre firme
Sara e il suo telefonino
Questa storia parte dalla voglia che ha
Sara di comprarsi il tanto ambito Iphone.
Naturalmente noi genitori vista la giovane
età di nostra figlia, cerchiamo di rimandare
un po’ la cosa.
Forse rimandiamo un po’ troppo e allora
Sara, forse spazientita, decide di lavorare
per comprarselo da sola.
Parte con una produzione artigianale di
braccialetti colorati che si fanno con gli
elastici, e tutte le sere li prepara con tanta
pazienza, per poi venderli in spiaggia a S.
Marinella tutte le mattine di luglio.
Cominciano le vendite, e gli affari vanno
a gonfie vele tanto che Sara guadagna
€113.50, tutte di guadagno puro, perché
ovviamente gli elastici per i bracciali glieli
comprano mamma e papà. E fin qui tutto
sembrerebbe normale.
Ma poi in Israele scoppia la guerra, e a
casa si inizia a parlare di come aiutare Israele in questo momento difficile. Sente dire
che ognuno di noi può in qualche modo
rendersi utile anche contribuendo un modo
semplice, come ad esempio acquistare delle cose di prima necessità che poi vengono
date ai soldati. Sara comincia a pensare a
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
vocedeilettori
La
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come poter contribuire, e decide di dare tutto il suo incasso a favore dei soldati di Tzhal, rinunciando al tanto ambito Iphone.
E come in tutte le favole sapete come è andata a finire…i soldi
sono andati in Israele come voluto da Sara, e papà e mamma gli
hanno comprato l’Iphone!
E’ sorprendente notare come una bambina di otto anni abbia
ascoltato e recepito i discorsi degli adulti, per poi rimboccarsi le
maniche, e darsi da fare per contribuire per il bene comune, piuttosto che a un piacere privato. Sono convinta che ognuno nel suo
piccolo può fare qualcosa; e tutti insieme possiamo dare la nostra
parte, contribuendo a qualcosa di grande. Ed alla fine, anche se
rinunciamo a qualcosa, la nostra generosità sarà ricompensata, e
moltiplicata, da Qualcuno sopra di noi.
Am Israel hai
SHARON DI VEROLI
Quell’educazione all’odio
Difficile dormire, dopo aver saputo del ritrovamento dei cadaveri dei
“nostri tre ragazzi”. Tutto il tempo davanti al televisore per cercare
di capire, di trovare un motivo sul perché tre studenti adolescenti,
che stavano tornando a casa per passare in famiglia lo Shabbat,
mentre cercavano un passaggio in autostop, sono stati rapiti e quasi subito uccisi. I rapitori? Altri giovani, cresciuti nell’odio dell’altro,
uno dei due con “mamma orgogliosa” del gesto del figlio.
Cosa sta succedendo? Dove andremo a finire? Proprio con queste
domande in testa e con una grande angoscia nel cuore, ho cercato
di prendere sonno. Il vero problema, dispiace dirlo, è l’educazione all’odio che cresce i giovani palestinesi: sui libri di scuola, nei
campi estivi, essi imparano che gli ebrei hanno rubato loro la terra
e che ucciderli non è reato, anzi è un loro preciso dovere.
Fino a che non cambieranno le cose, fino a che non crescerà una generazione convinta che il nemico (che sicuramente non piace) è un
essere umano e non discendente di “scimmie e maiali”, con il quale
si può anche convivere senza ucciderlo, la vedo dura sulle prospettive di pace. E al popolo ebraico voglio ricordare le parole dei coraggiosi genitori di Eyal, Gilad e Naftalì: preghiamo e comportiamoci
bene, non odiamo perché dall’odio non nasce nulla di positivo.
ESTER PICCIOTTO
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Non ci sarebbe riuscito neppure il senatore Mc Carthy, che negli anni più duri della guerra fredda vedeva in ogni ebreo degli
Stati Uniti un comunista potenziale da neutralizzare ed isolare.
A chiudere in un ghetto 6 milioni di ebrei, 2 milioni di non ebrei
che ne condividono cittadinanza e destino, più alcune centinaia
di migliaia di visitatori c’è invece riuscita, sotto la presidenza
Obama, la Federal Aviation Administration (FAA) con il blocco
dei voli verso Tel Aviv: iniziato il 22 luglio, si è prolungato per
alcune compagnie fino al 26.
Smokéd
SETTEMBRE 2014 • ELUL 5774
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