Passaggio a Prato

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Passaggio a Prato
"Passaggio a Prato"
Paolo Meoni lavora agendo sovrapposizioni, usando linguaggi che possono
impiegare il video o la fotografia, o combinazioni di strumenti più complessi,
ma che, indifferenti a se stessi, sembrano puntare alla realizzazione di un
ulteriore dispositivo: una macchina capace di produrre una forsennata corsa
sul posto, per guardare attraverso i luoghi e le loro età, le loro trasformazioni
nell’arco di una giornata o nell’intero ciclo di vita di un’architettura, di una
città, di una esistenza.
L’obiettivo di questo sguardo comprende gli spazi del paesaggio metropolitano,
prediletti quelli residuali: avanzati (o scampati) alla razionalità della
pianificazione urbanistica, e quelli transitori, in abbandono (l’edilizia industriale
dismessa), o in costruzione. Spazi diversi tra loro, ma uniti da un comune stato
di temporaneità nella visione di chi abita la città, che tende, invece, a
immaginare come inamovibili le aree storiche e i principali centri di espansione
del Novecento, depositi di certezze per l’identità e la percezione del proprio
intorno fisico. Cantieri e luoghi in abbandono, gli uni e gli altri in fase di
mutamento, raccolgono la varietà dell’esistenza, come spazi metamorfici, come
anomali rappresentanti di quel “terzo paesaggio” in cui Gilles Clément individua
la resistenza di manifestazioni della natura non condizionata da logiche di
necessità. In questi luoghi si raccoglie la metafora della città stessa, del suo
essere soggetta al cambiamento, e viene testimoniata la difficoltà di trattenere
un’immagine leggibile, pianamente decodificata, della realtà oggettiva.
Lavori come “Streams” e “Unità residenziale d’osservazione” chiariscono la
tangenza tra la complessità del mondo visibile e l’azione di Meoni. In entrambi
i casi si susseguono stratificazioni (in “Stream” i negativi della pellicola
fotografica, nel video un numero cospicuo di immagini digitali) che cancellano il
proprio profilo specifico e, nell’addensarsi delle forme, restituiscono una visione
dei luoghi che proprio nell’articolazione di punti di osservazione e prospettive
diverse si qualifica fedele alla loro natura.
La molteplicità contestuale della visione è un aspetto costante nel lavoro di
Meoni, che mette in gioco più modi possibili in cui si presenta la realtà: statica
o in movimento, con la presenza di esseri umani oppure deserta, abitata e
efficiente oppure abbandonata e in attesa di una vita nuova che dovrebbe
esserle assegnata. La coesistenza di più condizioni in una sola immagine, o in
un’unica sequenza video, è quanto di più vicino ci sia al mondo reale, che non
è mai univoco, mai semplice, mai rassicurante. Così, la vibrante operosità di un
cantiere edile contiene già l’immagine del puntellamento che a distanza di
decenni ne rallenterà il crollo e, nella stessa misura, il silenzio delle
architetture industriali e di quelle civili è abitato dai passaggi che lo hanno
attraversato.
In “nuits sans nuit”, il lavoro che apre questo percorso di visioni sugli spazi
della città, un guscio fatto di materia opaca e greve, un abitacolo angusto sulla
cui superficie si trovano delle aperture, diventa l’archetipo dell’osservatorio,
adatto come rifugio per la caccia, o come specola del cielo notturno. Il
firmamento di fughe prospettiche sul paesaggio che si intravede dai fori di una
semplice lamiera ricorda il progetto che Etienne-Louis Boullée redasse nel 1784
per il cenotafio di Isaac Newton: una semisfera di proporzioni colossali con il
guscio traforato che di notte sarebbe stato illuminato internamente e di giorno
avrebbe lasciato filtrare all’interno la luce naturale. Un modo semplice per
avvicinare alla dimensione dell’uomo l’immensità del cielo. Il progetto di
Boullée, per sempre confinato nella sua dimensione di onirico azzardo, di un
luogo e di un tempo mai realizzati, sottratti alla capacità tecnica delle cose
umane, nasce dal desiderio di dare una misura e una dimensione a cose
arcane. Paolo Meoni aspira, forse, a una simile leggerezza, una consolazione
davanti alla fuga del tempo, alle distanze remote.
Pietro Gaglianò