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© Longanesi & C. 2009 | Prefazione © Björn Larsson | Riproduzione vietata.
prefazione
PIRATI DI MARE E PIRATI DI TERRA
di Björn Larsson
Qualche anno fa una casa editrice italiana, Ide e Ali, mi propose di scrivere una prefazione per un’antologia di storie di
pirati per bambini (Storie di pirati, narrate da Richard Walker
e illustrate da Olwyn Whelan). Risposi che avrei accettato se
i racconti fossero piaciuti a mia figlia, che all’epoca aveva
otto anni. Le lessi quindi una decina di storie che parlavano
di pirati di tutti i mari e gli oceani del mondo, piuttosto che
di tutti i Paesi. Nel letto mia figlia teneva con sé un bambolotto vestito da pirata che aveva battezzato John Silver. I racconti le piacquero, soprattutto la storia di un violinista giapponese catturato da una banda di pirati senza scrupoli, che
aveva chiesto come ultimo desiderio, prima di essere gettato
in pasto agli squali, di suonare un pezzo con il suo adorato
violino. Il violinista aveva suonato così bene che tutti i pirati
si erano commossi e gli avevano risparmiato la vita.
A soli otto anni mia figlia era già sensibile alla mitologia
romantica che circonda i pirati classici... e non solo perché il
suo papà aveva scritto La vera storia del pirata Long John Silver (Iperborea). Da Peter Pan all’Isola del tesoro, da Pippi
Calzelunghe ai pupazzetti di plastica nei negozi di giocattoli,
dai fumetti agli sceneggiati televisivi, i pirati avevano fatto
molto presto irruzione nella sua vita come in quella di tanti
altri bambini. Gli adulti, si sa, non sono da meno. In questi
ultimi anni I pirati dei Caraibi hanno riempito le sale cinematografiche del mondo intero. Il costante successo dei romanzi di pirati, da Salgari al sottoscritto, e le numerose ope-
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re storiche sui gentiluomini di fortuna stanno a testimoniare
il grande fascino esercitato dalla pirateria.
Nel leggere la straordinaria inchiesta di Nicolò Carnimeo
sui pirati moderni che popolano i mari mettendo in pericolo
il commercio marittimo, non si può fare a meno di chiedersi se in futuro questi predoni del mare entreranno nella leggenda accanto a Roberts, Barbanera, Morgan e altri temibili
capitani dell’epoca d’oro della pirateria.
Tuttavia a prima vista i nostri pirati contemporanei, descritti da Carnimeo con imparzialità e grande scrupolo di
verità, non sembrano verosimilmente destinati a essere immortalati nella coscienza collettiva e ad alimentare il nostro
immaginario romantico. Se, infatti, quanto a crudeltà e coraggio non hanno nulla da invidiare a quelli di una volta, i
pirati di oggi sembrano avere un unico scopo nella vita: arricchirsi. Anche quando invocano Allah in Somalia e in Indonesia o si autoproclamano protettori delle acque territoriali, in fin dei conti sono solo dei comuni ladri, come dimostra Carnimeo. È interessante, per esempio, sapere che gli
islamici in Somalia combattono i pirati somali con accanimento. Per gli islamici, che sognano di instaurare un regime
basato sulla legge del Corano, non solo essi rappresentano
un pericoloso contropotere, ma il loro materialismo sfrenato
è una minaccia ai valori musulmani. Allo stesso tempo i pirati, grazie alle ricchezze accumulate e alle armi di cui dispongono, diventano degli alleati e dei potenziali nemici
nelle lotte spietate tra etnie e tribù per la conquista del potere.
In ogni caso niente a che vedere con i corsari reclutati direttamente dallo Stato che, durante le guerre navali, si serviva di loro per una guerriglia marittima semiufficiale. Ai nostri giorni i pirati sono quasi tutti dei criminali che agiscono
autonomamente, anche se talvolta i potenti della terra si la-
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sciano corrompere per impossessarsi di una parte del bottino; in qualche altro caso poi i pirati diventano delle pedine
da spostare sullo scacchiere della politica internazionale.
A distinguere i pirati contemporanei non sono tanto le
motivazioni quanto i metodi prescelti e la crudeltà dimostrata. Così, volendo schematizzare le articolate descrizioni di
Carnimeo, possiamo suddividerli in due grandi gruppi:
quelli per i quali il bottino è costituito principalmente da
beni materiali e quelli che mercanteggiano la vita dei membri dell’equipaggio, ovvero i ladri da un lato e i sequestratori
dall’altro.
I primi, per esempio le organizzatissime bande che attaccano le grandi navi da carico e perfino le petroliere nello
Stretto di Malacca, non hanno alcun rispetto per la vita
umana. Sono interessati solo alle imbarcazioni e al loro carico. Considerano gli equipaggi un inutile ostacolo e per di
più dei testimoni pericolosi che è meglio far sparire per non
lasciare tracce. Al contrario le navi, che valgono decine e
perfino centinaia di milioni di dollari, vengono svuotate, ridipinte e rivendute con l’aiuto delle autorità corrotte. Si
tratta di grosse operazioni che richiedono personale specializzato e che per ironia della sorte sarebbero impensabili senza l’ausilio della tecnologia più avanzata: i navigatori gps,
Internet e i computer portatili.
Tra i ladri troviamo anche piccole bande che attaccano i
pescatori della Nigeria, altre che depredano le imbarcazioni
dei clandestini privandoli delle loro ultime risorse o assalgono coppie di navigatori in barca a vela nei Caraibi o nel mar
Rosso... o altre ancora che nelle Filippine salgono a bordo
dei ferry-boat per derubare i passeggeri. Se è possibile stabilire una scala nella malvagità, sono questi i più crudeli, perché colpiscono gente che non ha nulla e la lasciano andare
alla deriva fino allo sfinimento e alla morte. In Nigeria ci
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sono dei pescatori che sono stati attaccati anche più di sei
volte e che sono riusciti ad avere salva la vita, ma hanno perso i mezzi per provvedere ai bisogni delle loro famiglie. I più
cinici tra questi ladri sono i falsi scafisti che, dopo aver fatto
pagare ai clandestini la traversata per l’Europa, li abbandonano consapevolmente a una morte sicura, per evitare che la
polizia possa risalire ai responsabili. È difficile riuscire a trovare negli annali della pirateria esempi di una simile ferocia
priva di ogni umanità.
Il secondo tipo di pirati contemporanei è costituito da
quelli che mercanteggiano gli uomini invece dei beni materiali. Si tratta soprattutto dei pirati somali che sequestrano
equipaggi di ogni nazionalità, tenendoli in ostaggio, se è necessario, anche per dei mesi in attesa del riscatto. Ma se gli
affari dei pirati ladri debbono molto al commercio globalizzato, quelli dei sequestratori, invece, sfruttano i diritti dell’uomo. Infatti, se gli armatori e i Paesi occidentali non avessero rispetto per la vita umana, gli ostaggi non frutterebbero
nessun riscatto. Se non ci preoccupassimo della vita dei
membri dell’equipaggio, naturalmente sarebbe possibile
mandare dei commando a uccidere i pirati e a riprendere le
navi sequestrate anche a costo della vita degli ostaggi. I sequestratori e coloro che devono pagare il riscatto hanno
quindi un interesse comune: mantenere in vita i membri
dell’equipaggio, cosa che del resto fa pensare alla tratta degli
schiavi, quando era più importante per gli armatori conservare intatta la merce, cioè gli schiavi, piuttosto che l’equipaggio a bordo. Ma Carnimeo dimostra che la pirateria dei
rapimenti ha un’altra conseguenza inaspettata: l’espansione
del sistema bancario nei Paesi sottosviluppati! Per condurre a
buon fine le trattative, naturalmente bisogna disporre di un
metodo sicuro per trasferire l’importo talvolta cospicuo del
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riscatto... e per poterlo mettere al sicuro una volta arrivato
nelle mani dei pirati.
Ne possiamo trarre un’importante lezione: se veramente
volessimo lottare in maniera efficace contro la criminalità
internazionale, di cui la pirateria è una forma, bisognerebbe
prima di tutto instaurare un sistema di trasparenza bancaria
e finanziaria. Può sembrare un’ironia della sorte, ma quelli
che difendono il segreto bancario, in Svizzera, nei paradisi
fiscali o semplicemente sui conti nazionali, ovvero i ricchi
del mondo, rendono in questo modo la vita più facile ai criminali. In ultima analisi l’avarizia legale o semilegale dei ricchi dà ai criminali la possibilità di riciclare il denaro sporco.
Certo il problema è che nessuno sembra battersi per la trasparenza economica. La sinistra, che per sua vocazione dovrebbe tentare di ridurre le disparità di ricchezza, si oppone
invece a ogni attacco alla vita privata, sostenendo che il controllo elettronico, anche solo del denaro, ci porterebbe immediatamente verso una società da Grande fratello.
Ma la poca trasparenza bancaria e finanziaria non è l’unico ostacolo alla lotta contro la pirateria. Un altro è costituito
dalla legislazione che Carnimeo conosce perfettamente, tra
l’altro per averla insegnata all’università. Lo studioso mostra
molto chiaramente come i pirati approfittino del principio
del libero commercio in mare e di quello del non intervento
nelle acque territoriali anche in una nazione in pieno sfacelo
come la Somalia. Se si inviassero dei commando della Marina per dare la caccia ai pirati sul loro territorio, si rischierebbe di minacciare la sacrosanta integrità nazionale, pilastro
dell’attuale ordine del mondo. Solo per fermare un genocidio o un massacro di civili, o crimini ancora peggiori, è permesso fare uno strappo a questo principio.
Il caso della Cina in questo senso è esemplare. Per molto
tempo, nel periodo dell’isolamento commerciale e politico,
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le autorità cinesi chiudevano un occhio di fronte ai pirati che
uscivano dai loro porti per attaccare navi di altre nazionalità.
Poi, con il disgelo economico e in parte politico del Paese, la
Cina per godere pienamente dei benefici dell’esportazione
ha dovuto incominciare non solo a difendere il libero commercio marittimo, ma anche a vigilare sulla sua reputazione
di partner commerciale affidabile. In poco tempo la Cina,
che come è noto non si preoccupa troppo della vita dei singoli individui, è riuscita a eliminare il problema della pirateria, con l’aiuto della pena di morte. Oggi partecipa perfino
ad azioni internazionali contro i pirati che non fanno alcun
caso all’appartenenza nazionale delle loro prede.
Quando non molto tempo fa alcuni pirati somali sono riusciti a impossessarsi di un’enorme nave cisterna piena di petrolio, battente bandiera saudita, la notizia ha avuto l’effetto
di una bomba. All’arrembaggio, come un tempo! Ma se i
pirati di una volta erano armati di sciabole e moschetti, quelli di oggi imbracciano mitragliette e kalashnikov!
Finito anche il « bel » tempo in cui un improvviso cambiamento del vento o l’arrivo della nebbia avevano il potere di
rovesciare le sorti degli uni o degli altri. Ai nostri giorni i
pirati raggiungono le loro vittime con gommoni rapidissimi
dotati di potenti motori fuoribordo. Se i pirati classici cercavano soprattutto un bottino d’oro e di pietre preziose, ora
sono i membri dell’equipaggio ad avere un prezzo. Paradossalmente quindi il nostro umanitarismo, tentennante e spesso ipocrita, si trasforma in valore finanziario per i pirati.
Tuttavia non possiamo sostenere che gli attacchi recenti
da parte dei pirati somali costituiscano un reale aggravarsi
della minaccia. Ormai da decenni i pirati assaltano ogni anno centinaia di navi da carico nel mar Cinese, al largo della
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Nigeria o nello Stretto di Malacca. Solo tra il 1991 e il 1998,
ben 1196 imbarcazioni hanno subito atti di pirateria. Carnimeo ricorda che nel 2007, nei mari più a rischio, sono state
attaccate dai pirati quattro navi alla settimana! Il suo saggio
ha proprio il merito di mostrare la grande diffusione di questo flagello, di cui i giornali, invece, riportano esclusivamente i casi più clamorosi che fanno aumentare le vendite.
Qualcuno forse dirà che la storia si ripete: da sempre ci
sono stati i pirati, a cominciare dai saraceni che misero in
pericolo l’impero romano. Ma come al solito le generalizzazioni lasciano il tempo che trovano.
Innanzitutto quando qualche nave chiedeva loro da dove
provenissero, i pirati tradizionali rispondevano: « Dal mare!
Dal mare! », perché non avevano una patria. Quelli moderni,
invece, sono radicati in un luogo, « vengono dalla terra » e
pattugliano le proprie coste al punto che in Somalia si considerano praticamente delle guardie costiere e parlano del « loro » mare come di un territorio posto sotto la loro giurisdizione. Se i pirati classici si erano creati dei rifugi e dei punti
di riferimento – come l’isola di Tortuga o Libertalia in Madagascar – era perché non avevano nessun altro posto dove
andare: erano pochi i governatori delle isole e delle città che
li accoglievano a braccia aperte. Inoltre, mentre all’epoca potevano passare mesi e mesi in mare in attesa di una nave da
assalire, i pirati di oggi si avventurano appena a poche centinaia di miglia dalla costa, per poi rientrare subito « a casa »,
dove li attendono familiari e alleati. Del resto non è facile
oggi capire cosa significasse essere condannati a rimanere in
mare nell’incertezza quasi assoluta, su imbarcazioni talmente
piccole che non si poteva andare a dormire tutti contemporaneamente.
In effetti non bisogna dimenticare che i pirati dell’epoca
d’oro erano prima di tutto dei marinai. Il loro scopo princi-
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pale era sottrarsi alla tirannia di capitani che avevano su di
loro un’autorità indiscussa e persino il diritto di ucciderli...
per di più con la benedizione di Dio. Tra i pirati si diceva
che era più facile « per un marinaio diventare pirata che per
un criminale diventare marinaio ». Proprio per questo a bordo delle loro navi regnava un’organizzazione democratica e i
capitani venivano eletti a maggioranza. Nessuno doveva più
esercitare il potere assoluto su di loro. Erano liberi! Tutto
sommato forse è stato proprio questo a rendere grande il
mito dei pirati classici: l’accanita determinazione a difendere
la propria libertà a qualsiasi costo, anche a prezzo della vita.
La storia del pirata che sotterra il suo tesoro su un’isola
deserta è per l’appunto un mito, alimentato da scrittori e
registi. La speranza di vita di un pirata dell’epoca era in media di due anni! In quella breve esistenza era considerato
normale cercare di spendere il bottino il più rapidamente
possibile, per poi tornare in mare dove non c’era via di scampo. Già condannati a morte, i pirati non avevano davvero
niente da perdere, neanche la vita che era ipotecata fino al
collo... come è proprio il caso di dire dato che circa un terzo
di loro fu impiccato. Un altro terzo morì di sifilide e i rimanenti di alcolismo o di morte violenta durante gli scontri.
Ai giorni nostri invece fare il pirata è un modo di sopravvivere, non di morire; è un mestiere, un sistema per guadagnarsi la vita. Da questo punto di vista i pirati contemporanei assomigliano di più ai celebri bucanieri, che erano prima
di tutto cacciatori. Possiamo quindi supporre che i pirati attuali siano dei risparmiatori: una caratteristica tipica dei ladri di cavalli, di quelli che non hanno altro ideale che arricchirsi.
Leggendo il libro di Carnimeo scopriamo, tuttavia, che
c’è ancora qualche pirata simile a quelli della classicità e forse aspetta solo un Salgari, uno Stevenson o un Defoe per
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entrare nella leggenda. A questo proposito lo studioso ha intervistato dei guerriglieri nigeriani che hanno deciso di diventare pirati per opporsi alla corruzione endemica dei propri amministratori, nelle cui tasche finisce buona parte degli
introiti del petrolio nigeriano, e alla distruzione ecologica
dell’ambiente naturale a opera delle grandi società petrolifere. Si tratta quindi di uomini che hanno scelto la pirateria
per necessità, dal momento che le loro risorse sono state sacrificate senza pietà per provvedere alle richieste di beni superflui delle nostre società occidentali... e asiatiche, tra cui la
Cina. In un certo senso i pirati del mend difendono la propria dignità come i pirati classici difendevano la propria libertà.
In alcune pagine Carnimeo racconta anche la storia delle
donne pirata che in Nigeria e a Rio si arrampicano come i
ninja giapponesi sulle catene delle ancore delle navi ormeggiate in rada. Sono donne di straordinario coraggio e tenacia, che la penna di un grande scrittore potrebbe far entrare
nella leggenda. Potremmo anche menzionare la storia di
Syaiful Rozi, una specie di Robin Hood della pirateria, che
sull’isola di Batam, in Indonesia, distribuisce parte del suo
bottino ai bisognosi e che se la spassa allegramente con la sua
ciurma, come gli antichi pirati sull’isola di Tortuga.
Si tratta, però, solo di rare eccezioni alla regola. Nel saggio di Carnimeo, infatti, non appare nessun personaggio simile a quei marinai di una volta che sceglievano la pirateria
per vivere degnamente e liberamente la propria vita, finché
era possibile. Come del resto non compaiono quei pirati che
partivano per il gusto dell’avventura e non per procacciarsi
le ricchezze necessarie a girare in Ferrari e vivere nel lusso
una volta a terra! Non ritroviamo nemmeno quello spirito di
libertà che ispirava i pirati di un tempo!
In un certo senso possiamo dire che la pirateria attuale è il
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prodotto della nostra modernità, che unisce umanitarismo,
individualismo e materialismo. Poiché non siamo disposti a
sacrificare la vita degli ostaggi, i pirati li fanno diventare
merci da vendere sul mercato della buona coscienza. Poiché
le regole del capitalismo ci impongono di risparmiare carburante, facciamo passare le nostre navi piene di merci sotto il
naso dei pirati, esponendoci così al rischio. Anche far navigare un convoglio di imbarcazioni o predisporre una scorta
avrebbe un costo troppo elevato. Poiché è interesse delle potenze economiche mondiali mantenere il segreto sui propri
affari, i pirati possono servirsi del sistema bancario e del libero commercio per far fruttare i proventi delle loro azioni criminose.
Da qui le difficoltà nella lotta contro la piaga della pirateria. È strano però che ogni volta che il capitalismo trionfante
si trova in difficoltà, chiediamo ai governi di correre in suo
aiuto, facendo appello proprio a quei principi di solidarietà,
giustizia e umanitarismo che in realtà se ne infischiano altamente del capitale. Come mi disse chiaro e tondo un amministratore delegato danese di fronte alle mie critiche sulla
scelta della sua società di investire in Sudafrica durante
l’apartheid: « Il capitale non ha altra morale che quella di
fruttare ». In attesa di una più equa distribuzione delle ricchezze nel mondo, l’unico modo per combattere i ladri del
mare, che in realtà non meritano più il nome di pirati, sarebbe far pagare la protezione di quelle ricchezze a chi rischia di
perderle piuttosto che ai contribuenti.
Cerchiamo tuttavia di mantenere il senso delle proporzioni: il panico collettivo esploso nei confronti della pirateria o
del terrorismo è del tutto fuori misura rispetto ai rischi reali:
ogni anno sulle strade d’Europa muoiono circa 40.000 persone senza che ciò desti grande indignazione. Le persone
morte ogni anno per mano dei pirati sono nell’ordine delle
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centinaia. Le paure che suscitano, proprio come nel caso dei
terroristi, non sono proporzionate ai reali rischi corsi dai
marinai della Marina mercantile e di quelli che cercano di
salvare la loro vita.
Detto ciò, so bene quanto possa essere traumatico un attacco dei pirati per chi ne resta vittima. Un capitano di lungo
corso mio amico mi ha raccontato che la sua nave, ancorata
nel porto di Lagos in Nigeria, è stata presa d’assalto da un
gruppo di una ventina di uomini. Il mio amico e il suo equipaggio, seguendo gli ordini dell’armatore, non hanno opposto resistenza. Si sono invece barricati nella stiva e da lì hanno
chiesto aiuto. Per quella volta se la sono cavata. Ma sono sicuro che il mio amico non tornerebbe volentieri a navigare
nelle acque della Nigeria. Pur essendo un uomo di grande
forza psichica, è anche un padre di famiglia con una moglie
e tre figlie. Per tutti quelli come lui mi auguro che gli armatori e gli Stati continueranno, in mancanza di altre soluzioni,
a pagare il riscatto per salvare delle vite umane.
Ma se attacchi sporadici, sia pure spettacolari, come quello alla petroliera Nagasaki Spirit o alla petroliera saudita sequestrata dai pirati somali, riescono a far vacillare il mondo
del commercio e della politica, significa che l’ordine mondiale attuale è molto più fragile di quanto non si pensi. Il motivo non risiede però nelle carenze infrastrutturali o amministrative e nemmeno nel reale pericolo rappresentato dai pirati o dai terroristi. La debolezza deriva invece dalle nostre
paure collettive, come quando gli azionisti sono presi dal panico non appena viene evocato lo spettro della recessione.
All’inizio del XVIII secolo, l’epoca d’oro della pirateria, il
totale dei gentiluomini di fortuna arrivava al massimo a duemila persone e quello delle navi pirata a qualche centinaia.
Considerando le decine di migliaia di imbarcazioni che in
quel momento solcavano i mari di tutto il mondo, le proba-
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bilità di subire un arrembaggio piratesco erano veramente
minime. E tuttavia la paura che i pirati ispiravano ad assicuratori, armatori e marinai finì per bloccare seriamente il
commercio marittimo per anni. In ultima analisi, ciò che
spiega i nostri timori e le nostre paure collettive di fronte a
minacce tutto sommato limitate e decisamente localizzate è
la consapevolezza della precarietà dei valori fondamentali,
che dovevano essere un baluardo contro il cinismo, la crudeltà, l’avarizia e l’egoismo. Fino a quando i valori umanitari
su cui si fondano i diritti dell’uomo continueranno a essere
oltraggiati o ignorati da chi pretende di difenderli, fino a
quando la misura del nostro benessere resterà il denaro, ci
saranno dei pirati che cercheranno di partecipare alla festa.
In fondo non è poi tanto diverso da ciò che accadeva a bordo delle navi mercantili del XVIII secolo. Finché il capitano
aveva il diritto di esercitare un’autorità illimitata sull’equipaggio, i marinai si univano ai pirati per sfuggire alla tirannia. Scommetto che il giorno in cui le ricchezze del mondo
saranno distribuite più o meno equamente tra i continenti, i
popoli e gli individui, non ci saranno quasi più pirati né criminali in genere.
Con Nei mari dei pirati, Nicolò Carnimeo ci ha fornito un
documento eccezionale e di grande valore su un fenomeno,
la pirateria, che non è certo recente, ma che continua a evolversi e a sfruttare le carenze e le contraddizioni delle società
attuali. Uno dei meriti di Carnimeo è l’aver evitato di cadere
nel romanticismo, cercando invece di dipingere la pirateria
contemporanea per quello che è realmente: una piaga per la
quale è davvero difficile trovare delle circostanze attenuanti.
(Traduzione di Maria Laura Vanorio)
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