Paolucci_Mimesi_Città_Mall
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sito diretto da fabrizio bottini -1/34 - http://mall.lampnet.org Mimesi della città e seduzione dell’entertainment. Shopping e leisure nei centri commerciali di seconda generazione. Gabriella Paolucci Università di Firenze [email protected] www.gabriellapaolucci.it 1 Nuove formule distributive e vecchi codici della riproduzione Il centro commerciale: uno degli spazi più caratteristici della nostra contemporaneità. Il luogo dei nostri acquisti, certo, ma non solo questo. Il centro commerciale sembra essere anche il luogo del nostro girovagare in cerca di identità, come amano dirci gli operatori commerciali e gli studiosi di marketing. O piuttosto, come scrive Baudrillard, il luogo dove si dispiega “lo spazio-tempo del codice della riproduzione” (1976). Effimero, flessibile, camaleontico: aggettivi cui la letteratura sugli shopping centres ricorre insistentemente per descrivere i cambiamenti della figura del consumatore, il nuovo flâneur della post-modernità. Trasformazioni che si intrecciano all’emergere di un nuovo modello di centri commerciali. Non più semplici contenitori delle merci che con costante accelerazione vengono immesse sul mercato - incalzato dalla necessità di accelerare il ciclo del capitale - scatoloni disseminati nelle aree amorfe delle periferie urbane, lontani e separati dai luoghi vivi della città. Ma nuove aree multifunzionali che mimano il centro urbano, e cercano di riprodurne gli spazi e le funzioni. Luoghi capaci di attrarre, stupire, promettere e, soprattutto, intrattenere. Gli shopping malls si sono trasformati in shopping and entertainment centres, in luoghi dove si consumano spettacoli e giochi, incontri ed eventi, oltre che beni materiali. In “spazi di socialità”, come vengono amabilmente pubblicizzati dai loro “patrons” 1 . Progettati per inseguire e catturare un consumatore sempre più infedele, eterogeneo, sgusciante e incodificabile, le nuove cattedrali del consumo si propongono come “spazi di libertà” dove l’identità può vagare senza controllo, nel mondo incantato delle merci materiali e immateriali. Lo 1 Non di rado la presentazione della nuova formula da parte dei progettisti dei complessi architettonici e dei proprietari delle catene distributive assume caratteri enfatici come nelle parole del progettista del nuovo centro commerciale costruito recentemente ai bordi dell’area metropolitana fiorentina: “Il nuovo centro fortunatamente è il risultato di una evoluzione che niente ha a che fare con i predecessori di qualche decennio fa, quegli enormi scatoloni anonimi in cui si compravano solo tante merci a buon mercato. Il centro commerciale di oggi è diverso: è intrattenimento, scambio sociale, comunicazione. E, in una cultura come quella della Coop, tutto questo è stato rielaborato e amplificato: la galleria commerciale diventa anche piazza, uno spazio micro-urbano circondato da strutture e servizi che cambiano a seconda delle esigenze del territorio. Questa nuova centralità della piazza coperta (...) è un elemento decisamente innovativo della progettazione. Appaiono nuove forme, e di conseguenza nuovi materiali, soluzioni costruttive che si rifanno alle tecnologie aeronavali piuttosto che all’architettura storica” (P. A. Martini, progettista Centro Commerciale Coop di San Lorenzo a Greve, Firenze). Un’analoga enfasi la possiamo percepire nella riflessione del progettista del Tauman Center, Usa “In the 1960s and 1970s – osserva Carl Hagleman - they were designed to be rational and efficient machines for shopping. But time passed, and customers grew more sophisticated, they expected more than just a retail-processing machine; they wanted experiences, preferably those linked in some way to their community” (Carl Hagleman, Tauman Centres). sito diretto da fabrizio bottini -1/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -2/34 - http://mall.lampnet.org zapping tra i negozi alla ricerca dell’oggetto che appaghi il desiderio - di cui si è parlato a proposito dei vecchi malls (Amendola, 1997) – sembra così diventare un movimento senza meta alla ricerca di attrazioni e seduzioni che ben poco hanno a che fare con il tradizionale comportamento di consumo. Se è vero che l’ultima generazione di shopping malls incorpora ancora molte delle caratteristiche della formula precedente - a partire, ovviamente, dai fattori di ordine economico e simbolico - è anche vero che il nuovo modello è espressione di una trasformazione non di poco conto, che coinvolge in maniera profonda l’organizzazione della quotidianità urbana. Una trasformazione che produce una sintesi inedita tra pratiche di leisure e pratiche di consumo, prima collocate in zone differenziate della città e praticate in dimensioni temporali diverse della vita quotidiana. Diventando parte costitutiva dello spazio commerciale, il “tempo libero” si è così trasformato una mera appendice di quelle merci alle quali già da tempo aveva drammaticamente cominciato ad assomigliare. Il mutamento di formula del centro commerciale comincia tuttavia a mostrare alcune contro-finalità. Sempre più preoccupati, gli operatori del settore si stanno accorgendo che la messa in scena dello spettacolo non è sempre sufficiente ad innalzare il volume delle vendite, poiché gli shopping and entertainment centres sembrano attrarre in misura crescente persone che si lasciano affascinare dalle attività di intrattenimento più che dagli acquisti. Si sta scoprendo, insomma, che il tempo trascorso negli shopping malls per veri e propri acquisti sta tendenzialmente diminuendo rispetto al tempo dedicato alle attività collaterali. Un fenomeno che, pur accomunando la massa di persone che popola quotidianamente gli spazi sempre più spettacolari del consumo post-moderno, dentro e fuori dalle nostre città, sembra coinvolgere in modo particolare i frequentatori più giovani, i quali, in compagnia del gruppo dei pari, nelle ore libere dai vincoli dello studio o del lavoro, si recano nei centri commerciali col proposito esplicito di spendere solo tempo e non denaro, o, quantomeno, più tempo che denaro. Pratiche di questo genere, sia detto per inciso, valgono a sottrarre ogni residua legittimità teorica a quegli approcci che continuano ad adottare il paradigma rational choice per spiegare i complicati intrecci che si istituiscono tra l’uso del tempo e la dislocazione del denaro nel consumo (Becker, 1965) 2 . 2 Per una critica analitica di questo approccio, cfr. (Reid e Brown, 1996; Fine, 2004; Chan e Goldthorpe, 2005; Paolucci, 2005. sito diretto da fabrizio bottini -2/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -3/34 - http://mall.lampnet.org 2. Dal Mall all’Entertainment Shopping Center: un fenomeno globale Greyfields e demalling: due parole che ricorrono frequentemente non solo nella letteratura scientifica, ma anche nel lessico della pubblicistica di carattere politico e di marketing diffusa sopratutto negli Usa. Due fenomeni che vanno di pari passo: sono il sintomo della trasformazione in atto nei luoghi del commercio e dei problemi, economici ed urbanistici, che essa pone. Letteralmente, il demalling è il processo di dismissione e di riuso dei tradizionali malls che per decenni hanno costellato le grandi periferie degli Stati Uniti e degli altri Paesi industrializzati, lasciando così che gli spazi dei loro insediamenti diventassero delle zone abbandonate, grigie e più squallide dei vecchi “scatoloni”: i greyfields, appunto. Il fenomeno è senza dubbio di vaste dimensioni, anche se non se ne conosce l’esatta entità. Uno studio pubblicato recentemente dalla Louisville University (Kilton, 2005) sostiene, ad esempio, che il sette per cento dei centri commerciali regionali è oggi da considerarsi in situazione di greyfield, e che il venti per cento si avvia a diventarlo. In termini assoluti, si parla di oltre duemila complessi commerciali che stanno morendo. Questi dati sono sufficienti a mostrare come la dismissione delle grandi strutture di distribuzione possa costituire un problema ancora per un lungo periodo di tempo. Al di là delle soluzioni che si pensa di poter dare alla questione del riuso di queste aree 3 , si tratta di dati che mostrano in modo inequivocabile come la formula tradizionale del centro commerciale sia in piena crisi da almeno un decennio (Nichols et al. 2002; Kilton, 2005). E non solo negli Stati Uniti, dove è naturale che il processo sia più avanzato, ma anche in Europa e perfino in Italia, ultima arrivata tra i Paesi europei in quello che si può definire il processo di segregazione del consumo di massa dal resto delle attività urbane. Un processo iniziato ormai quasi un secolo fa, e ancora in piena effervescenza. Negli Stati Uniti il centro commerciale nasce nei primi anni del secolo scorso. Il primo complesso di questo tipo, esterno al centro urbano, viene costruito a Lake Forest, vicino a Chicago, nel 1916. Viene seguito a pochi anni di distanza, nel 1924, dal County Club Plaza di Kansas City, nel Missouri, considerato il vero antesignano del moderno mall. E’ qui che possiamo già intravedere le caratteristiche salienti della formula che si diffonderà rapidamente in tutti i Paesi industriali avanzati: progetto architettonico unico, gestione unificata delle attività, selezione dei servizi commerciali, parcheggio di grandi dimensioni. Con gli anni Cinquanta lo scenario si modifica. Si verifica una svolta che influenzerà la concezione dei centri commerciali per i decenni a venire, sia 3 Si può citare, a questo riguardo, un piano considerato tra i più avanzati negli Usa: il progetto di Villa Italia di Lakewood, in Colorado. Si tratta di un classico complesso mixed use, che incorpora sia funzioni abitative (1300 abitazioni), che spazi commerciali, per 80.000 mq. Vi sono inoltre giardini, piazze e spazi verdi, un albergo con 250 camere e l’immancabile parcheggio per 9000 posti auto. sito diretto da fabrizio bottini -3/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -4/34 - http://mall.lampnet.org in Usa che nel resto del mondo. Entrano in scena strutture di vendita ancora più grandi, che si rivolgono ad ampi bacini d’utenza e si collocano in aree ancora più lontane dai centri abitati. L’offerta si arricchisce di nuovi servizi e attività la cui capacità attrattiva ruota comunque intorno alla presenza dei department stores, che svolgono la funzione di “magneti”. Il traffico veicolare viene rigidamente separato da quello pedonale. I percorsi tra i negozi - i malls, appunto - chiusi e climatizzati, si trasferiscono all’interno dell’immobile e diventano oggetto di un design abbastanza ricercato. Tali mutamenti avvengono in uno scenario caratterizzato dalla forte espansione demografica del secondo dopoguerra, dalla crescita ipertrofica dei suburbi e dall’esplosione della motorizzazione privata, oltre che dal processo di concentrazione delle imprese commerciali, che favorisce – o postula – l’affermazione di strategie di marketing tese a ottimizzare l’uso degli spazi e dei tempi della distribuzione. Le dimensioni dei regional shopping centres variano in questi anni dai 40.000 agli oltre 100.000 di Gla (superficie lorda affittabile). In Europa il centro commerciale, che compare alla fine degli anni Cinquanta, presenta inizialmente caratteristiche differenti. E’ situato nel cuore delle città satelliti delle grandi conurbazioni nordeuropee, come le new towns inglesi, ma è ancora concepito come un insieme integrato di servizi e non come un unico complesso architettonico con struttura unitaria. La circolazione avviene a cielo aperto e l’utenza non è motorizzata. Solo verso la fine degli anni Sessanta la formula statunitense del regional suburban shopping center riesce a penetrare anche in Europa: il Main Taunus di Francoforte, il Parly 2 a Parigi e il Woluvé in Belgio sono un esempio tipico della penetrazione del modello Usa. Da questo momento la superficie commerciale della grande distribuzione conosce in Europa un costante incremento, anche se rimane molto al di sotto degli standard raggiunti in Usa, dove si hanno ben 1.800 mq ogni mille abitanti, mentre i valori europei si aggirano ancora, all’inizio del secolo, sui 140 mq. Il fenomeno europeo, tuttavia, non è da considerarsi marginale: Già nel 2002, infatti, in Europa si contano ben 3.725 shopping centers, il 35% dei quali ha ancora dimensioni piccole o medie, mentre un centinaio di in sedimenti oltrepassa i 60.000 mq. sito diretto da fabrizio bottini -4/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -5/34 - http://mall.lampnet.org In Italia, come è noto, il fenomeno della proliferazione dei centri commerciali è abbastanza recente (Mela e Preto, 2004; Davico, 2004). Anche se la loro prima comparsa risale all’inizio degli anni Settanta, il vero e proprio boom italiano si ha solo all’inizio degli anni Novanta, proprio quando negli Usa la formula sta iniziando il suo inesorabile declino. Il primo centro commerciale italiano, aperto a Bologna nel 1971, è il Fossolo 1. Si tratta di un tipico centro commerciale di vicinato, di piccole dimensioni e pienamente inserito nel tessuto urbano: una formula che dominerà per alcuni anni ancora nel nostro Paese. Verso la fine degli anni Settanta si assiste ad una svolta con la creazione dei primi due veri e propri centri commerciali multifunzionali: il primo a Prato nel 1978 e il secondo a Lodi nel 1979. Entrambi sono dotati di due “magneti” e di una certa varietà di negozi e di servizi, oltre che di una galleria con operatori specializzati. Ma la formula del centro commerciale stenta a prendere piede nel nostro Paese almeno fino agli anni Ottanta, quando si verifica il primo incremento di una certa entità: dai 39 centri del 1981 si passa ai 180 del 1989. In termini di superficie l’espansione è ancora più accentuata, poiché dai 367.968 mq del 1981 si giunge a 1.434.728 mq del 1989. Ma non siamo ancora di fronte al vero e proprio boom dell’inizio sito diretto da fabrizio bottini -5/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -6/34 - http://mall.lampnet.org degli anni Novanta, quando si assiste a incrementi medi annui di cinquanta nuovi centri e in un solo quadriennio si passa dal 230 a 389 unità. Aumentano anche le dimensioni: la maggior parte dei centri commerciali è di grandezza medio-grande e di rilievo regionale. Sotto il profilo qualitativo siamo di fronte ad un modello che ripropone sostanzialmente quello statunitense degli anni Settanta: collocato su un territorio extra-urbano, si rivolge ad un’utenza regionale; contiene uno o più magneti, che in genere sono supermercati di medie dimensioni, oltre a negozi multi-specializzati. Le dimensioni sono abbastanza ridotte. La battuta d’arresto che caratterizza la parte centrale del decennio, dovuta sia a vicende di natura politica che legislativa, viene superata negli anni immediatamente successivi, per raggiungere la sua punta più alta nel 1999, e, di nuovo, nel 2003, anno in cui i centri commerciali raggiungono la quota di 603, di cui 503 con superficie di vendita superiore ai 2.500mq. Dalla prima comparsa di questa formula, dunque, molte cose sono cambiate anche nel nostro Paese, sia in direzione di una diffusione più capillare, che verso una costante e crescente diversificazione delle formule e delle localizzazioni. La diffusione dei centri commerciali, d’altra parte, non è che uno degli aspetti del fenomeno, ben più vasto, della crescita della grande distribuzione, che in pochi anni anche in Italia ha superato la piccola. Basti pensare che alla fine degli anni Ottanta il giro d’affari dei negozi tradizionali è ancora superiore a quello della grande distribuzione, mentre proprio a partire dal 1990 la situazione si capovolge. Già nel 1994 il giro d’affari della grande distribuzione si aggira intorno agli 85.000 miliardi, oltre il doppio dei 38.000 miliardi che raggiungono i negozi tradizionali. Sebbene i centri commerciali situati nel territorio italiano non abbiano raggiunto i livelli europei, sia per quanto attiene la densità – che si è attestata nei primi anni del nuovo secolo intorno ai 130 mq per 1000 abitanti – sia per quanto concerne il volume d’affari, è interessante notare che il ritmo di espansione di questa formula è, come è logico, molto più alto che negli altri Paesi europei. Ma ciò che appare ancora più interessante è il fenomeno relativo alle dimensioni dei centri commerciali più recenti, che tendono ad aumentare costantemente, anche se il mercato rimane ancora dominato dalla presenza di centri commerciali relativamente piccoli, con una superficie di vendita inferiore ai ventimila mq. Un indizio, questo, dell’emergere di un nuovo formato, molto più variegato e articolato rispetto al modello tradizionale 4 . 4 Per un’analisi dettagliata della diffusione dei centri commerciali in Italia e in Europa cfr.: Court e Myers (2002); Davico (2004) e Zappi (2003). sito diretto da fabrizio bottini -6/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -7/34 - http://mall.lampnet.org Grafico 2. Numero dei nuovi centri commerciali e degli ampliamenti. Anni 2001-2005. Italia Fonte: Infocommercio 50 40 30 Nuovi centri com m erciali 20 Am pliam enti 10 0 2001 2002 2003 2004 2005 sito diretto da fabrizio bottini -7/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -8/34 - http://mall.lampnet.org Grafico 3. Superficie Gla dei nuovi centri commerciali e degli ampliamenti (mq. GLA) - Anni 2001-2005. Italia Fonte: Infocommercio 1.000.000 800.000 884.185 793.929 602.355 600.000 400.000 575.705 392.950 200.000 0 2001 2002 2003 2004 2005 Grafico 4. Distribuzione geografica nuove aperture Numero di insediamenti - Valori percentuali Italia 2001-2005 Fonte: Infocommercio 2001 38,5 2002 39,5 2003 21,1 30,8 19,2 31,6 2005 30 20% 26,3 27,5 40% 28,9 10,5 28,9 26,7 2004 0% 11,5 24,4 20 18,4 23,7 Nord Est Centro Sud e Isole 27,5 15 60% Nord Ovest 80% sito diretto da fabrizio bottini -8/34 - http://mall.lampnet.org 100% sito diretto da fabrizio bottini -9/34 - http://mall.lampnet.org Grafico 5. Densità commerciale per Regione Italia 2005 - Fonte: Infocommercio (mq per 1000 abitanti) 38 Sicilia 52 Campania 71 Valle d'Aosta 89 Calabria 105 Trentino 108 Puglia 128 Basilicata Toscana 133 Liguria 135 146 Umbria 150 Lazio 158 Sardegna 170 Italia Piemonte 227 Veneto 228 242 Marche Friuli 260 Emilia Romagna 261 Abruzzo 269 Lombardia 270 306 Molise 0 50 100 150 200 250 sito diretto da fabrizio bottini -9/34 - http://mall.lampnet.org 300 350 sito diretto da fabrizio bottini -10/34 - http://mall.lampnet.org 3. La separazione dalla città Fin dal suo primo apparire nello scenario statunitense, la cifra costitutiva del mall è la separazione della distribuzione di massa dalla città e la sua segregazione in spazi isolati, lontani dal tessuto urbano. La separazione spaziale degli insediamenti commerciali produce l’isolamento delle pratiche legate al consumo entro nicchie temporali staccate dalle altre durate della vita quotidiana: la frequentazione del centro commerciale, per l’organizzazione della mobilità e la pianificazione del tempo che richiede, costituisce un ‘frammento’ isolato dal continuum del tempo quotidiano. In altre parole, mentre la frequentazione dei negozi come elementi integrati nell’architettura dello spazio pubblico della città associa l’atto dell’acquisto alle altre pratiche della vita quotidiana, con il mall questa integrazione scompare. La separatezza spazio-temporale viene sancita simbolicamente dal “cordone sanitario” costituito dai parcheggi e dalle vie di comunicazione che allacciano la città al mall, oltre che dall’”architettura a fortezza” (Graham, 2000), che sottolinea il senso di isolamento rispetto alla città 5 . I confini che separano il mall dal mondo esterno, così come le forme dell’ ambiente costruito, svolgono infatti una significativa funzione simbolica: eliminare la possibilità di qualsiasi contaminazione tra il fuori e il dentro, tra la vita urbana e il consumo di massa. Le poche uscite, le coperture, l’omogeneità e la spettacolarità delle architetture, i percorsi esterni impossibili ai pedoni, fino all’assenza di orologi all’interno del mall, tutto concorre alla costruzione simbolica di uno spazio che, postulando la segregazione spazio-temporale del consumo, si contrappone esplicitamente alla città, alla necessaria interazione tra le pratiche urbane che il tempo ha sedimentato. Questo tipo di segregazione spazio-temporale sottolinea e radicalizza aspetti simbolici del consumo che sono comunque caratteristici della società capitalistica. L’intreccio tra consumo e piacere è uno di questi aspetti. Le forme architettoniche e urbanistiche del mall favoriscono e, in un certo senso, incorporano la dimensione del piacere come dispositivo interno al consumo. Lo shopping è una attività di tipo edonistico e fa parte integrante delle pratiche di leisure in quanto ingloba, insieme alla pratica dell’acquisto intesa in senso “letterale”, anche la dimensione squisitamente simbolica del rapporto soggettivo con le merci: la costruzione del sé come soggetto desiderante. Sotto il velo del risparmio del tempo e del denaro – principale argomento impiegato per motivare alla frequentazione del mall - si dispiega così un discorso sul piacere del consumo in sé che trova una delle sue principali articolazioni nella 5 Per motivi di spazio tralascio qui di trattare le questioni relative alla pianificazione urbana che sono connesse alla costruzione dei centri commerciali fuori dalla città. Per un’analisi interessante di questo argomento, cfr. Graham (2000), il quale parla a questo riguardo della progressiva “erosione della pianificazione urbana di tipo complessivo”, che riguardi cioè la città nella sua interezza. sito diretto da fabrizio bottini -10/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -11/34 - http://mall.lampnet.org esposizione segregata e spettacolare delle merci come rappresentazione della totalità dei desideri possibili. Un discorso “democratico” – “tutto ciò che è desiderabile è a disposizione di tutti” – che gioca sulla costruzione sociale dello shopping come piacere squisitamente individuale, pensato e progettato per il singolo, eppure goduto necessariamente in massa. Attraverso l’intreccio tra leisure privato e consumo di massa il mall propone così ai suoi frequentatori un’identità che è al tempo stesso affermata e negata. 4. La simulazione della città: leisure e consumo Che nella nostra società il piacere costituisca una componente fondamentale del rapporto con le merci è cosa non nuova. Lo stesso Benjamin, scrivendo delle lussureggianti gallerie costruite dalla borghesia parigina nel XIX secolo, metteva l’accento su questo aspetto, sottolineando come in questi luoghi i percorsi del desiderio si intrecciassero intimamente al consumo come pratica costitutiva di un’identificazione di classe di carattere squisitamente distintivo (Bourdieu, 1979) 6 . Puntare sulla logica della seduzione (Baudrillard, 1968) ed elaborare produzioni discorsive - come lo sono i centri commerciali - che diano forma a intrecci sempre diversi tra leisure e consumo è un tipico dispositivo della società industriale, come ben sappiamo. Benché mutino le forme di questo intreccio - in ragione dei cambiamenti dei cicli economici, ma anche a causa del meccanismo della distinzione che muove i consumi - il dispositivo continua ad agire sostanzialmente immutato. Le trasformazioni delle formule adottate dalla grande distribuzione commerciale negli ultimi anni non devono dunque ingannare. Non siamo di fronte ad un mutamento radicale, ma soltanto alla declinazione, e, in alcuni casi, all’enfatizzazione di aspetti che costituiscono l’ossatura delle pratiche distributive e di consumo nella nostra società. Ciò non toglie che non rivesta una grande rilevanza analizzare le forme di tale mutamento e individuarne gli effetti sociali. Il rapporto con la città è uno dei fattori più rilevanti nella storia dell’evoluzione della grande distribuzione, come si è visto per il modello tradizionale di mall. Ora accade che, invece di fondarsi sulla separazione spaziale e simbolica dalla città, i nuovi modelli ne mimino il funzionamento. Sia che vengano costruiti fuori dal tessuto urbano, sia che vengano inseriti all’interno della città, magari in aree occupate 6 “Le lotte per l’appropriazione dei beni economici (...) sono in modo inscindibile lotte simboliche per l’appropriazione di questi segni di distinzione rappresentati dai beni o dalle pratiche classificate e classificanti, o per la conservazione o la sovversione dei principi di classificazione di queste proprietà distintive. Di conseguenza, lo spazio degli stili di vita, cioè l’universo delle proprietà grazie alle quali color che occupano lo spazio sociale si differenziano, con o senza l’intenzione di distinguersi, è anch’esso soltanto un bilancio, fatto in un determinato momento, delle lotte simboliche che hanno per posta l’imposizione dello stile di vita legittimo, e che trovano la propria legittimazione esemplare nelle lotte per il monopolio degli emblemi della “classe”: beni di lusso, beni culturali legittimi o modo di appropriazione legittima di tali beni” (Bourdieu, 1979, tr. it. p. 2578). sito diretto da fabrizio bottini -11/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -12/34 - http://mall.lampnet.org precedentemente da complessi industriali, come accade sempre più spesso, i centri commerciali di seconda generazione propongono una replica dello spazio urbano. Teorizzata dai progettisti, pubblicizzata dai proprietari delle catene distributive, legittimata dalla letteratura di marketing, la riproduzione della forma urbana è diventata il leit-motiv di tutta una pubblicistica sui nuovi shopping centres che si è sviluppata negli ultimi anni. Inscritta nelle forme architettoniche, attentamente disegnata nelle figure organizzative interne e pianificata negli strumenti urbanistici, la replica artificiale della città sembra ormai diventata un fattore costitutivo indiscusso della nuova architettura commerciale. Non è dunque tanto la localizzazione urbanistica a caratterizzare il rapporto con la città, l’essere cioè fuori o dentro lo spazio urbano, quanto, come osserva Péron, la “densità e la natura delle interazioni fisiche, sociali e simboliche rese possibili dalla pianificazione e dal disegno architettonico di questi luoghi” (Péron, 2001:854). Nell’ultima incarnazione del centro commerciale si passeggia tra filari di alberi. Gli edifici, spesso di molti piani, sono progettati per apparire “caratteristici”; ci si affida ad un artificioso “sense of place” che si suppone venga ricercato dai consumatori, e si cura la localizzazione di attività collaterali in modo da sedurre e intrattenere una clientela che appare sempre meno disposta ad acquistare. Complessi con la forma di un insediamento all’aria aperta, i nuovi centri sono pensati per creare una “shopping experience” che induca il visitatore a trascorrere più tempo possibile all’interno degli spazi commerciali. Avendo ben compreso, anche sulla scorta dell’esperienza statunitense, che il consumo fuori città comincia a presentare pesanti controfinalità di tipo economico, le catene più accorte puntano sulla capacità evocativa delle architetture. Ma cos’è che si vuole evocare? Certamente la città. Ma una città irreale, strappata alla verità del vivere quotidiano e riproposta in una dimensione fantasy: una sorta di set cinematografico dove l’iper-realtà delle soluzioni sceniche si intreccia alla dimensione onirica delle gratificazioni promesse. L’esito di questa operazione non può essere che grottesco. Mimare la città attraverso una lettura che ne interpreta il tessuto come se fosse una delle tante merci da mettere in mostra sulla scena del mercato, significa espungere una delle sue dimensioni centrali: il tempo. Il tempo che passa modifica la forma urbana e i suoi significati, creando prossimità spaziale tra materiali cronologicamente distanti. Negli stessi luoghi in cui prendono corpo le routines quotidiane, e nelle strutture architettoniche in cui esse si svolgono, la città incorpora i materiali del passato, sedimenti di un tempo anteriore. Lo spazio urbano contiene spezzoni di vecchie morfologie, materiali lasciati da epoche precedenti, intesi non solo come singoli oggetti, ma come “catene temporali” legate fra loro. Non solo, quindi, le “rovine e macerie” di cui parla Marc Augé (2003), ma anche le cristallizzazioni di vecchie funzioni urbane, o le tracce di una volontà di oblio, che possiamo leggere nel trattamento delle “pre-esistenze”. Sono i sedimenti di ciò che il tempo lascia nello spazio costruito che chiamiamo “città”: quel “tempo divenuto spazio”, nella bella espressione usata da sito diretto da fabrizio bottini -12/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -13/34 - http://mall.lampnet.org Walter Benjamin, che rigugge da ogni artificiosa riproduzione, a meno di non rifarsi al kitsch o al “carnevalesco” (Langman, 1992). Ma ciò non preoccupa di certo i progettisti e i proprietari delle catene distributive, dal momento che l’operazione ha l’unica finalità di distogliere il consumatore di massa dal frantumato e casuale commercio urbano e di incanalare i suoi bisogni e i suoi desideri – nonché il suo denaro, ovviamente – verso il mondo onirico degli spazi commerciali post-moderni. In questa evoluzione, tra le altre cose, si può leggere anche una radicalizzazione delle forme di privatizzazione dello spazio pubblico già avviate nel mall. La replica della città comporta ad esempio che anche i percorsi tra i luoghi del commercio e dell’intrattenimento, le strade e le piazze, quelle “passeggiate tra i filari” che i patrons delle catene commerciali vantano, i luoghi, insomma, che costituiscono l’essenza dello spazio pubblico urbano, siano sottomessi alle logiche e agli imperativi del mercato. E’ un cambiamento sostanziale che va ben al di là della specifica ubicazione del complesso commerciale, come si può facilmente comprendere. La mimica della città trascina con sé tratti costitutivi della vita urbana.E’ il caso delle attività di leisure, che le nuove formule di centro commerciale catturano e riducono a pendant dello shopping. La nuova dimensione del leisure negli shopping malls di ultima generazione non è da considerarsi un meccanismo inedito nel mondo della distribuzione commerciale, ma semmai una declinazione del tradizionale modo di costruzione del consumo attraverso il dispositivo del piacere, per usare un’espressione cara a Foucault. Ciò che muta è il ‘posizionamento’ di tale dispositivo, che continua a trovare nella spettacolarizzazione delle merci il suo punto di forza. E’ nel confronto con questa messa in scena che avviene quella trasmigrazione dal mondo del flâneur - individuo isolato nel suo approccio feticistico con gli oggetti – a quel mondo del consumo di massa di cui parla Bauman (1993), riprendendo la visione di Baudrillard (1968, 1976). Non più soltanto integrato nelle pratiche di acquisto degli oggetti, il leisure viene dislocato anche al di fuori di esso, in pratiche “collaterali” che si affiancano agli acquisti (Hazel, 2001). Il cambiamento non è di poco conto, poiché coinvolge numerosi fattori, sia di ordine culturale, architettonico e urbanistico, che di natura economica, tanto che a proposito di questa nuova formula è stata coniata l’espressione “entertainment economy” (Hannigan, 1998). Alla base dell’ideazione di questi nuovi modelli di centro commerciale vi è un insieme di cause di natura economica che non è possibile prendere in esame dettagliatamente in questa sede. Basti solo accennare al fatto che la concentrazione dei capitali impiegati nel settore della grande distribuzione, e la connessa concorrenza sempre più serrata tra le varie catene, spinge in maniera crescente verso la necessità di diversificare l’offerta. Diversificazione che viene raggiunta in gran parte attraverso l’immagine dello shopping center, di cui l’entertainment sito diretto da fabrizio bottini -13/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -14/34 - http://mall.lampnet.org costituisce parte essenziale, come viene sottolineato da più parti (Kim, 2002; Sit. et al., 2003) 7 . Il dispiegamento, sempre più massiccio e imponente, di dispositivi atti a rendere più ‘piacevole’ e più variegata, nonché più prolungata, la permanenza dei consumatori all’interno delle nuove cittadelle del consumo, vengono significativamente denotati con la nozione di entertainment. Il concetto non è univoco. In letteratura gli si attribuiscono spesso significati diversi, a seconda delle “attività collaterali” che vi vengono fatte rientrare. In ogni caso la varietà delle pratiche inglobate è sempre molto ampia. Sit. et al (2003) ad esempio, che hanno studiato il fenomeno negli Usa, includono nella nozione di “entertainment” una molteplicità eterogenea di attività, e propongono una articolazione tipologica. Da un lato vi sono gli eventi di intrattenimento, che vengono proposti ai frequentatori in maniera occasionale e per un breve periodo di tempo (fashion shows, bridal fairs, taking pictures, etc.). Vi sono poi le offerte di intrattenimento di carattere specialistico, incorporate stabilmente negli spazi di proprietà della catena commerciale, come i cinema multiplex o le video gallerie. Ed infine ci sono i luoghi per il cibo: ristoranti, bar, fastfood, caffè, etc. 8 . Tutto ciò va a configurare un ambiente teso a giocare un ruolo inedito nello scenario della distribuzione commerciale: sostituire non solo i negozi tradizionali nella funzione distributiva, ma anche il centro urbano come luogo di incontro, di socialità e di leisure. La fusione tra consumo e intrattenimento per il tempo libero ha tra le sue conseguenze l’ampliamento dell’offerta temporale, portando tendenzialmente gli orari di apertura alle 24 ore per sette giorni 9 . Un cambiamento che non è solo letterale, ma anche simbolico: i nuovi centri per il consumo tendono a inglobare e controllare attraverso lo scambio economico e la sua logica tutto il tempo non dedicato al lavoro, il cosiddetto “tempo libero”. Un aspetto che viene ampiamente sottolineato dalla letteratura di marketing, che si assume l’onere di indicare agli operatori economici del settore le strade più opportune per rendere quanto più efficace possibile questa operazione (Sit. et al., 2003) 10 . 7 Osservano a questo riguardo Sit. et al.: “Due to the intense competition, there is increasing pressure on shopping centres to clearly differentiate themselves more distinctively. Entertainment is a potential means of differentiation (Sit et al, 2003, p. 80) 8 Sul tema cfr. anche Kim (2002) e Kang e Kim (1999). 9 E’ il caso, ad esempio, della catena 7-Eleven della Wall Mart, o della All Pets Clinic di Boulder. 10 “Shopping centre management has sought to alter consumers’ perceptions of shopping to be a community recreational activity, for seeing and being seen, for meeting and passively enjoying the atmosphere. Thus many shopping centres have incorporated food courts, cafes and restaurants on the centre property, either inside or on outparcels” (Sit et al. 2003, p. 84). sito diretto da fabrizio bottini -14/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -15/34 - http://mall.lampnet.org 5. Un consumatore edonista? La nascita delle nuove formule di shopping centres è stata accompagnata e, oserei dire, “guidata”, dalla proliferazione di indagini e ricerche sui comportamenti, le aspirazioni e i desideri di coloro che frequentano i centri commerciali, con la finalità di fotografare e comprendere uno dei fenomeni che più preoccupano le catene commerciali: la “disaffezione all’acquisto, come si suole chiamarla. Un fenomeno, questo, che sembra accomunare sia i Paesi con un’esperienza storica di shopping centers, ed in primo luogo gli Stati Uniti, sia il nostro Paese, che, pur essendo arrivato in ritardo, si sta in parte allineando alle nuove tendenze. La letteratura sul tema è unanime nel cogliere nei comportamenti di consumo degli ultimi anni un sensibile spostamento dall’atteggiamento utilitaristico all’atteggiamento edonistico (Carpenter et al. 2005). L’atteggiamento utilitaristico farebbe riferimento all’esperienza del consumo come strumento per ottenere i beni di cui si ha necessità: è lo “shopping to get something” (Holbrook e Hirschman, 1982; Hu e Jasper ). L’atteggiamento edonistico, che sospinge verso lo “shopping because you love it” (Babin et al, 1994), sarebbe invece fondato, in questa prospettiva, sull’esperienza del consumo come pratica che procura piacere in sé. Al di là delle scarse potenzialità euristiche di questi concetti, che lasciano trasparire l’adozione di un tipico approccio comportamentista di matrice rational choice, bisogna riconoscere che i risultati di queste ricerche assumono una certa utilità conoscitiva, alla luce di quanto si osservava nelle pagine precedenti. Si è infatti notato come il ruolo del comportamento edonistico stia crescendo in maniera molto vistosa sopratutto tra i frequentatori dei centri commerciali, i quali sembrerebbero andare in cerca del piacere offerto dalle varie forme di intrattenimento a portata di mano negli shopping malls, piuttosto che di oggetti da acquistare. Un’ulteriore conferma dell’attendibilità di questa ricostruzione proviene dalle indagini che hanno sondato la dimensione temporale del consumo nei centri commerciali, ed in primo luogo la frequenza e la durata delle visite. Su questo tema disponiamo fortunatamente di dati che riguardano anche il nostro Paese, oltre che gli altri Stati membri dell’Unione Europea. In Europa la frequenza delle visite ai centri commerciali è molto pronunciata. La media si aggira intorno alle diciassette volte all’anno (approssimativamente ogni 3 settimane). Le differenze tra i vari Paesi sono in questo caso notevoli. Mentre gli svedesi sono degli assidui frequentatori dei centri (quasi trenta volte all’anno), le visite dei belgi 11 , degli ungheresi e dei polacchi sono appena dieci. Gli italiani, i francesi e gli inglesi, da parte loro, superano di molto la media europea. Da notare che è proprio in questi Paesi che si sta sviluppando, a ritmi più intensi che altrove, la formula dello shopping ed intertainment centre. 11 Da notare che il Belgio possiede una forte tradizione di shopping centre “street oriented” e di supermercati isolati, come si osserva nel report dell’Unione Europea (Court e Myers, 2002). sito diretto da fabrizio bottini -15/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -16/34 - http://mall.lampnet.org Grafico 6 Frequenza media annua delle visite a shopping centres Europa - 2002 Fonte: Cushman & Wakefield Healey & Baker 30 25 20 15 10 5 Ungheria Polonia Italia Spagna Belgio Rep. Ceca Olanda Portogallo Germania Europa Spagna Italia Gran Bretagna Francia Svezia 0 Grafico 7 Durata media (in minuti) delle visite agli shopping centres Europa 2002 Fonte: Cushman & Wakefield Healey & Baker 120 100 80 60 40 20 sito diretto da fabrizio bottini -16/34 - http://mall.lampnet.org Svezia Francia Germania Gran Bretagna Europa Polonia Ungheria Rep. Ceca Portogallo Olanda Belgio 0 sito diretto da fabrizio bottini -17/34 - http://mall.lampnet.org Di un certo interesse appaiono anche i dati relativi alla durata delle visite 12 , dai quali emerge che i frequentatori dei centri commerciali europei trascorrono in media un’ora e mezzo all’interno delle aree commerciali. Gli italiani sono tra coloro che vi trascorrono meno tempo, accanto agli spagnoli, mentre gli olandesi e i belgi superano ampiamente la media. Se si considera che il tempo passato nel centro commerciale è un importante indicatore della prevalenza degli atteggiamenti edonistici o utilitaristici, si dovrebbe concludere che tra i belgi e gli olandesi tende a prevalere un atteggiamento di tipo edonistico piuttosto che utilitaristico. In Italia e Spagna, al contrario, sembrerebbe prevalere un comportamento di acquisto più strumentale. Quest’ultimo dato non è del tutto conforme a quanto emerge da altre indagini (Censis, 2004) che suggeriscono invece una tendenza molto marcata all’entertainment shopping anche per l’Italia. Da un’indagine svolta nel 2003, ad esempio, emerge che solo il 36% dei frequentatori dei centri commerciali manifesta un atteggiamento utilitarista (e cioè si limita ad andare al centro commerciale per l’acquisto di qualche bene senza dedicarsi ad attività collaterali), mentre il 55% usa il centro commerciale come luogo per le attività di “tempo libero”, oltre che per gli acquisti. Ma il dato più significativo è che il 20% non acquista nulla e si reca al centro commerciale solo per l’intrattenimento. La percentuale sale significativamente se osserviamo le fasce giovanili, ed in particolare la fascia d’età 15-24 (30%). Uno scenario questo, confermato anche da una ricerca sul modo di trascorrere la domenica da parte degli italiani (Censis, 2004), dalla quale emerge che il 39% degli intervistati percepisce il centro commerciale come luogo attraente per le relazioni sociali e per trascorrervi il tempo durante il week-end. Di nuovo, la percentuale sale notevolmente se si osservano i giovani di 16-17 anni (64,3%) e coloro che hanno tra i 18 e i 29 anni (53%). I giovani dunque, ed in particolare gli adolescenti, non solo sono degli assidui frequentatori di shopping centres, ma sembrano anche essere particolarmente attratti dalle potenzialità sociali e di intrattenimento che vengono attribuite agli insediamenti commerciali. 12 La durata è qui considerata escludendo il tempo del viaggio. sito diretto da fabrizio bottini -17/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -18/34 - http://mall.lampnet.org 6. La seduzione disincantata degli adolescenti Lo stato della ricerca. L’attrazione che i giovani avvertono verso i centri commerciali è un fenomeno ormai molto diffuso sia nel nostro Paese che a livello internazionale, anche se non è ancora molto studiato. Eppure riveste un grande rilevanza sociologica, non solo perché è un indizio molto rilevante delle trasformazioni in atto nel mondo giovanile, ma anche perché rappresenta una manifestazione eloquente di come funzioni il dispositivo della seduzione dell’intrattenimento nel nuovo modello di spazio commerciale. Le scarse indagini condotte su questo tema sono segnate quasi esclusivamente, come accade per altri temi inerenti la distribuzione commerciale, da finalità conoscitive legate al marketing 13 , ma si rivelano comunque utili per alcune indicazioni sulle tendenze in atto. Da alcuni studi recenti che considerano i giovani consumatori e la loro percezione degli shopping centers (Parker, S. R. et al., 2001; Taylor e Cosenza, 2002; Mitchell, 2002) emerge con chiarezza che i teen-agers sono attratti da questi luoghi perché sembrano offrire loro “un’esperienza eccitante” e molte chances di “socialità”. Come si può leggere in un fascicolo del Catalog Age di qualche anno fa (1999), i giovani, “amano fare shopping”, che considerano come “an experience rather than a errand, an event rather than a chore”. La ricerca empirica sembra confermare questa lettura. Come mostrano Craig e Turley (2004), i giovani sembrano aver risposto in pieno alle finalità dei patrons dei centri commerciali, attratti come sono da quella che viene definita “la dimensione sociale del centro commerciale” (ivi, p. 465). Lo shopping center, aggiungono altri ricercatori (Matthews et al., 2000; Young, 1999), non è solo un luogo dove si può fare “un’esperienza sociale” ma anche “un luogo dove rifugiarsi” e una “pausa nella monotonia di casa e scuola” (Anthony, 1985). Inoltre, come suggeriscono alcuni studi sulle differenze di genere negli atteggiamenti nei confronti dello shopping nei centri commerciali, i teenagers, ed in particolare le ragazze, sarebbero particolarmente inclini a recarsi nei centri commerciali per una forma di “gratificazione istantanea”, che non presuppone una progettualità di lungo periodo. La frequentazione dei centri commerciali da parte dei teenagers, inoltre, si concentrerebbe particolarmente intorno ai negozi piuttosto che intorno ai grandi magazzini 13 Per dare un’idea dell’atteggiamento conoscitivo delle indagini di marketing sulle pratiche di consumo giovanili, può essere d’interesse riportare le riflessioni di Peter Zollo, presidente del “Teenage Research Unlimited” Usa, il quale annovera le ragioni per incrementare la ricerca di mercato in questo campo. In primo luogo, i teenagers sono importanti per il loro potere d’acquisto in quanto consumatori autonomi: essi possono infatti essere considerati uno dei settori della popolazione più importanti per l’entità dei consumi. Il secondo fattore di rilevanza deriva dal fatto che spendono del denaro familiare, sopratutto nelle famiglie con doppio reddito. In terzo luogo, i teenagers tendono a influenzare le abitudini di consumo dei loro genitori. In quarto luogo devono essere considerati estremamente importanti come “futuri consumatori”, in quanto hanno una capacità di spesa che si dipanerà lungo molti anni. Su questo punto, cfr. anche Craig e Turley (2004) sito diretto da fabrizio bottini -18/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -19/34 - http://mall.lampnet.org posti all’interno dei malls, poiché, si suppone, essi vanno alla ricerca di quei marchi che nei grandi magazzini sono meno valorizzati 14 . L’approccio adottato più comunemente per l’analisi delle pratiche di consumo è, come si è accennato, di derivazione rational choice. Al di là delle osservazioni critiche di carattere generale che possiamo fare a questa modalità di studiare le pratiche del consumo, è opportuno sottolineare che questo approccio è ancor meno adeguato all’osservazione dei giovani di quanto non lo sia già per gli adulti, poiché le motivazioni giovanili sono assai meno strutturate su obiettivi di tipo economico di quanto non lo siano quelle adulte. E’ probabilmente per questo motivo che in alcuni studi sui comportamenti di consumo dei giovani vengono introdotti dispositivi che attenuano l’inclinazione economicista della teoria dell’azione razionale di Becker (1965). E’ il caso, ad esempio, delle indagini che introducono correttivi tratti dalla teoria della socializzazione (Ward, 1974; Moschis e Smith, 1985; Graig e Turley, 2004). Questo approccio prende le mosse dall’analisi piagetiana dello sviluppo cognitivo e cerca di spiegare gli atteggiamenti nei confronti del consumo come disposizioni apprese nel corso della crescita intellettuale infantile e adolescenziale. Tuttavia, quando si giunge allo studio delle effettive motivazioni al consumo, non si riesce ad uscire dal classico schema dell’approccio decision-making (Moschis, 1981; John, 1999). Lo stesso accade quando si studia il comportamento giovanile di fronte ai marchi, l’attitudine al confronto tra le qualità intrinseche dei beni o la capacità di scelta tra diversi insediamenti commerciali. Più interessante appare semmai la direzione di ricerca che costruisce confronti e comparazioni tra gli atteggiamenti e le aspirazioni di fronte al consumo di giovani appartenenti a Paesi diversi, e ipotizza l’esistenza di modelli comuni di comportamento. I risultati di queste indagini, così come alcune modellizzazioni proposte, possono rivelarsi di una certa utilità nel momento in cui si voglia mettere a tema la standardizzazione degli stili di vita giovanili e la diffusione di comportamenti di consumo, che non sembrano trovare barriere né nelle differenze di condizione economica, né in quelle di natura culturale. Il concetto di “global teenager”, nato ed impiegato entro questo approccio, ha recentemente guadagnato una certa credibilità tra gli studiosi (Meredith e Schewe, 2002; Wee, 1999). Supporta l’idea di un teenager globale che tende a comportarsi di fronte al consumo in modo omogeneo e ad avere attitudini e aspirazioni analoghe. In questa prospettiva i teenagers vengono visti come una componente del mercato mondiale che tende a comprare gli stessi prodotti: la prima 14 Per ragioni di spazio e di economia del lavoro tralascio qui di prendere in considerazione la questione dei brands, alla quale tutta la letteratura di marketing attribuisce ovviamente un grande valore. Si tratta, in effetti, di un aspetto di grande rilevanza non solo economica, ma anche simbolica. Per alcune indicazioni sul rapporto tra brands e fasce giovanili, cfr. Meyer (2001), secondo il quale, “i consumatori stabiliscono le loro preferenze in relazione ai brands tra i quindici e i venticinque anni”. E, aggiungono significativamente Taylor e Cosenza (2002), “If marketers miss this crucial period, it could require that they expend two to three times more marketing dollars in an attempt to capture them as they move into their twenties and beyond” (ivi, p. 394). sito diretto da fabrizio bottini -19/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -20/34 - http://mall.lampnet.org generazione che viene educata e cresciuta nel culto degli stessi simboli, della stessa cultura e delle stesse mode: è ciò che Miller (1995) 15 chiama “americanizzazione” dei teenagers: la standardizzazione dei consumi e degli atteggiamenti che si esprime soprattutto in un modo di vestire (e dunque di consumare) fatto di jeans Levi’s, t-shirts, scarpe Nike, ecc. L’abbigliamento costituisce del resto uno dei campi più frequentati dalla ricerca sulle pratiche di consumo delle giovani generazioni, sopratutto femminili (Taylor e Cosenza, 2002). La scarsità degli studi sugli atteggiamenti giovanili nei confronti dei centri commerciali diventa ancora più pronunciata se dall’ambito anglosassone passiamo al nostro Paese. Se si fa eccezione per alcuni dati - assai scarni, per la verità – che provengono direttamente dalle catene di distribuzione, e da rare informazioni che possiamo desumere dai risultati di ricerche focalizzate su questioni più generali, come le già citate indagini di Censis e dell’Unione Europea, non mi consta che in Italia siano stati condotti studi su questo argomento. Per questo motivo, quanto emerge da un’indagine che ho condotto recentemente su comportamenti e motivazioni degli adolescenti che frequentano gli shopping malls può rivestire un certo interesse. Benché le ridotte dimensioni del campione non permettano di fare generalizzazioni di alcun tipo, il metodo adottato e il tipo di informazioni raccolte possono quantomeno rivelarsi utili per l’avvio di una vera e propria direzione di ricerca su questo tema16 . L’immagine del centro commerciale. La letteratura internazionale è unanime nel ritenere che il modo in cui si percepisce il centro commerciale sia un fattore di primo piano nel 15 Miller (1995) ha condotto un’indagine secondo la quale l’87 per cento dei teenagers latinoamericani, l’80 per cento di quelli europei, l’80 per cento dei Paesi orientali definisce gli Usa come il Paese con la maggior influenza nella moda e nella cultura del loro Paese. 16 L’indagine è stata condotta su un piccolo gruppo di adolescenti di un liceo scientifico di Prato che frequentano solitamente il vicino Centro Commerciale “I Gigli”. Ad essi è stata proposta una traccia di intervista molto articolata. Per far luce sui motivi dell’attrazione degli shopping and entertainment centres si è focalizzato lo sguardo sia sull’immagine che gli intervistati possiedono dei centri commerciali che sugli scopi delle loro visite, cercando al contempo di ricostruire l’effettivo comportamento all’interno dei complessi commerciali. Particolare attenzione è stata rivolta alle modalità con le quali ci si reca al centro commerciale, oltre che alla dimensione temporale delle visite. La rilevazione di quest’ultimo aspetto è stata particolarmente utile per mettere a fuoco due aspetti di grande rilievo: da un lato, l’effettiva e concreta importanza che il centro commerciale riveste nella vita quotidiana degli intervistati e, dall’altro lato, la relazione tra il tempo dedicato agli acquisti e il tempo dedicato alle pratiche di intrattenimento. La rilevazione di motivazioni e comportamenti è stata affiancata dalla ricostruzione delle attitudini verso pratiche culturali e del “tempo libero” - come i gusti in tema di letteratura, musica, e cinema, la frequentazione di concerti, teatri e musei. Si è ritenuto indispensabile, inoltre, corredare il quadro con informazioni relative alla famiglia di provenienza: titolo di studio e condizione professionale dei nonni16 e dei genitori, equipaggiamento tecnologico posseduto in famiglia e/o dal singolo intervistato, viaggi compiuti con la famiglia, attività culturali proposte dai genitori, ecc. In tal modo si è cercato di costruire un quadro quanto più esauriente possibile della condizione sociale e dello stile di vita della famiglia di appartenenza, nella convinzione, tutta da verificare, che questi fattori possano in qualche modo esercitare un’influenza importante sugli atteggiamenti adolescenziali nei confronti dei centri commerciali. sito diretto da fabrizio bottini -20/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -21/34 - http://mall.lampnet.org determinare il comportamento e le motivazioni dei suoi frequentatori. In altre parole, l’immagine dello shopping center è strettamente legata alle pratiche si mettono in atto nei suoi confronti. Ma quali sono gli elementi dell’immagine? Per molti ricercatori i fattori più importanti sono sia di tipo funzionale che edonistico. Tra i primi vengono annoverati tutti quegli aspetti che contribuiscono a far sì che un centro commerciale sia o meno preferito ad altri (facile raggiungibilità, prezzi, ampiezza della gamma di prodotti, ecc.). Tra i secondi vengono individuati fattori di natura “estetica” relativi agli ambienti e agli spazi, nonché la presenza di opportunità di entertainment, genericamente inteso. L’immagine del centro commerciale è dunque costituita da una molteplicità di elementi, alcuni dei quali acquistano una rilevanza maggiore rispetto ad altri a seconda della situazione oggettiva e soggettiva dei suoi frequentatori. Ciò che è comunque indiscutibile è che ogni centro commerciale possiede un’immagine con la quale l’utenza misura i propri atteggiamenti. Potremmo dire che l’immagine dello shopping center funziona come una sorta di dispositivo identitario che elabora un appeal discorsivo nei confronti dell’utenza potenziale nel momento stesso in cui attiva motivazioni, atteggiamenti e comportamenti dell’utenza reale. Non è facile, ovviamente, rilevare quale sia l’immagine di un centro commerciale collettivamente condivisa, per la molteplicità e l’eterogeneità delle sue componenti. Sono stati condotti a questo riguardo studi ad hoc che hanno come unica finalità proprio la rilevazione dell’immagine dello shopping center tra i suoi frequentatori. Ma non è questo lo scopo principale della nostra indagine, che è invece diretta a rilevare motivazioni e comportamenti specifici di un gruppo di adolescenti. Per questo ci si è limitati a toccare solo di sfuggita il tema dell’immagine, e lo si è fatto indagando sul modo in cui vengono percepiti dai singoli intervistati i comportamenti collettivi nei confronti dei centri commerciali, con la convinzione che dalle risposte a domande di questo tipo potessero emergere, come infatti è avvenuto, alcune immagini che, seppur frammentarie, potessero rivelarsi utili a ricomporre il puzzle delle percezioni individuali. Come viene dunque interpretata dai nostri adolescenti la frequentazione di massa dei centri commerciali? 17 E come viene descritta l’esperienza degli amici? Dalle risposte emerge un quadro molto omogeneo, senza sostanziali differenze legate a variabili di fondo, come il genere o la condizione sociale della famiglia. 17 La formulazione della domanda è la seguente: “Secondo te, perché i centri commerciali attirano così tante persone?” sito diretto da fabrizio bottini -21/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -22/34 - http://mall.lampnet.org Per tutti il centro commerciale è un luogo attraente e accogliente, che attira per la varietà e la concentrazione delle offerte, come ci spiega F2 18 .: C’è tutto quanto in uno stesso edificio, diciamo...quindi se uno ha bisogno di una cosa va in un negozio, se ha bisogno di un’altra va in un altro, è tutto dentro, diciamo, non hai bisogno di spostarti. Inevitabilmente viene alla luce il confronto con il centro storico, con le sue funzioni e le sue chances. C’è chi paragona il centro commerciale ai centri storici, come M4, a motivo della eterogeneità delle chances che offre, e chi, invece, ad essi lo contrappone, per il motivo opposto, come F7: E’ tipo un centro storico: ci sono posti dove mangiare, dove comprare (M4) Senza stare a girare troppi posti trovi tutto. Cioè dai vestiti al supermercato, o al negozio...poi molte volte nei centri commerciali si trovano altre cose...negozi un po’ particolari che andando in centro non trovi (F7). L’immagine del centro commerciale che emerge dalle interviste è dominata da una certa eterogeneità dei fattori di attrazione, che sono almeno di tre tipi, compresenti e strettamente connessi tra loro: concentrazione spaziale delle offerte, ampiezza e varietà delle opzioni e dimensione sociale delle pratiche di frequentazione. Il fattore al quale viene data maggiore importanza è quello di natura squisitamente acquisitiva. E’ la caratteristica tipicamente commerciale del centro. Si tratta evidentemente di un aspetto che il senso comune ha ormai sedimentato come ovvietà: il centro commerciale, si dice, attrae per il fatto di offrire la concentrazione spaziale degli oggetti e delle pratiche di consumo, unitamente a un’ampia gamma di opzioni. Ciò facilita gli acquisti perché abbrevia il tempo necessario per i percorsi e rende più agile la scelta. L’ampiezza delle opzioni, inoltre, favorisce il risparmio di denaro: un motivo, quest’ultimo, meno presente di quanto ci si potesse aspettare, dal momento che l’immagine pubblica del centro commerciale si gioca in gran parte sul fattore dei prezzi concorrenziali rispetto al piccolo negozio urbano. Alla concentrazione delle merci si accompagna spesso anche la dimensione estetica degli spazi, come dice M9: Sono posti carini, poi c’è di tutto. Per molti intervistati è un aspetto di rilievo, anche se non viene mai eccessivamente enfatizzato. Accanto alla concentrazione di merci gioca un ruolo di grande rilevanza anche la presenza di “servizi collaterali”, che permettono di intensificare l’uso del tempo trascorso dentro il centro per mezzo di altre pratiche: “puoi fare tutto quello che vuoi” come dice F6: 18 Gli intervistati vengono denominati con la lettera F o M, a seconda del sesso. Il numero che segue è l’ordine che è stato dato alle interviste. sito diretto da fabrizio bottini -22/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -23/34 - http://mall.lampnet.org Attraggono così tante persone perché c’è di tutto. Cioè puoi trovare dalla candela al mangiare, insomma tutto. Quindi sai che vai lì e non ti sposti, puoi fare tutto quello che vuoi (F6) I negozi sono racchiusi in poco spazio - dice F10 – sicché magari uno può andare a farsi la spesa, può andare a farsi i capelli, può andare a comprare un paio di Jeans. E’ tutto lì e si fa più veloce. La dimensione sociale dello shopping center è un altro aspetto che viene individuato come rilevante fattore di attrazione. Come in un gioco di specchi, il fatto stesso che il centro commerciale sia una meta di massa, costituisce di per sé, per i nostri giovani intervistati, un valido motivo di attrazione: E’ una cosa che tira. Tira perché comunque sono grandi, c’è tanta gente..negozi che magari non trovi ci sono, che non trovi in giro ci sono, insomma (F6). La dimensione della “socialità” acquista una valenza ancora più marcata se dall’interpretazione del comportamento collettivo genericamente inteso si passa a parlare del gruppo dei pari. Gli intervistati raccontano di frequentazioni molto assidue, motivate, più che da fattori di ordine meramente acquisitivo, dal semplice desiderio di stare insieme agli amici in un luogo familiare, “protetto” e “piacevole”. Gli amici dei nostri adolescenti vanno al centro commerciale anche solo “per stare insieme”, “per passare un po’ di tempo”, o addirittura per “mimetizzarsi” quando, durante le mattine piovose d’inverno, non hanno voglia di andare a scuola 19 . Ciò non significa che la concentrazione spaziale dei negozi e dei beni, e l’ampiezza delle opzioni scompaiano del tutto come motivi di attrazione, ma assumono certamente una rilevanza molto minore rispetto all’immagine che emerge dall’interpretazione delle motivazioni del comportamento di massa. Un’abitudine consolidata Tra i fattori che possono far luce sul ruolo che svolge la presenza del centro commerciale nella vita dei suoi frequentatori vi sono ovviamente le dimensioni legate alla frequenza e alla durata delle visite. Indicatori che la letteratura sul tema considera tra i più eloquenti per conoscere attitudini e comportamenti dei consumatori. Lo scenario costituito dall’insieme dei fattori di ordine cronologico, che danno corpo alla concretezza della vita quotidiana e in ultima analisi ne determinano lo stile (Paolucci, 2005), ci aiutano a comprendere motivazioni e attitudini nei confronti degli shopping malls che altrimenti potrebbero rimanere nell’ombra. Anche ai nostri adolescenti abbiamo dunque chiesto, come usa fare una consolidata 19 Questo aspetto, come vedremo, acquista una rilevanza ancora più significativa quando gli intervistati parlano della loro personale esperienza, alla quale l’intervista ha dedicato lo spazio più ampio. sito diretto da fabrizio bottini -23/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -24/34 - http://mall.lampnet.org direzione di ricerca sul “mall shopping behavior” 20 , con quale frequenza frequentino il centro commerciale e quanto tempo vi trascorrano. Le informazioni raccolte su questi aspetti offrono un quadro che non lascia alcun dubbio sulla rilevanza che questo tipo di spazi commerciali riveste nella vita quotidiana dei nostri intervistati. Sia che essi si rechino al centro con i genitori (pratica che per la verità ha una certa incidenza solo per i più giovani), sia che vadano con gli amici; sia che vengano attratti dagli acquisti o dal semplice girovagare senza meta; sia che frequentino il centro semplicemente per stare insieme ai coetanei mangiando qualcosa, guardando le vetrine o provando vestiti, in ogni caso lo shopping center fa parte integrante della vita quotidiana dei nostri adolescenti. Qualche dato può aiutare a farsi un’idea più precisa. La frequenza delle visite oscilla tra un minimo di una visita ogni tre settimane ad un massimo di una visita ogni settimana. I giorni preferiti sono decisamente quelli del week-end, e sopratutto il sabato, ma si va anche negli altri giorni della settimana, nel tempo che rimane libero dai vincoli della scuola. La durata delle visite è sempre molto ampia, sopratutto quando si va con gli amici. Non è raro che si resti dentro il centro per un intero pomeriggio, anche se alcuni dichiarano di non superare generalmente l’ora e mezzo. Queste semplici informazioni di ordine cronologico sono già sufficienti a far luce sulla grande rilevanza che il centro commerciale riveste nello stile di vita. Se poi andiamo a vedere qual è l’importanza che gli stessi intervistati dichiarano di attribuire al centro commerciale per lo stile della loro vita, il dato appare ancora più marcato. Eccetto due persone, che usano espressioni sfumate che denotano un certo distacco, tutti dichiarano di considerare il centro commerciale come un luogo di rilievo nella struttura della propria vita. Diventata “un’abitudine”, e addirittura una fonte di ricordi, come ci dice F6 21 , lo shopping and entertainment center fa ormai parte del tessuto esistenziale di ognuno di loro. Viene percepito, in modo totalmente a-problematico, come un punto di riferimento ovvio e scontato per la pratica di relazioni sociali che non riescono probabilmente a trovare altri canali e altri luoghi che si presentino in modo altrettanto “amichevole” e protettivo. Benché i risultati di questa piccola indagine confermino sostanzialmente quanto viene evidenziato dall’insieme della letteratura sull’argomento, essi, più che offrire risposte esaustive ai quesiti che ci eravamo posti, sembrano suggerire l’avvio di ulteriori direzioni di ricerca. Se è vero, infatti, che i giovani intervistati non si discostano dall’immagine che dei 20 21 Per tutti, cfr. Hu e Jasper, e la bibliografia cui gli autori fanno riferimento. La domanda posta è stata: “Ritieni che il centro commerciale rivesta importanza nel tuo stile di vita?”. Ecco alcune risposte: “Oramai abitudinario. (...) I ricordi ci sono, perché a questo punto frequentando spesso insomma i ricordi ci sono. Uno dice: “Guarda, qui ci siamo fatti...cioè è sortita fuori quella battuta” (F6). “Direi di sì. Ti senti anche un po’ al sicuro, sei lì con gli amici, insomma visiti un bel posto, sicché ti senti soddisfatto di quello che hai fatto, ecco” (M9). “Uhm, sì. E’ una comodità” (F2). sito diretto da fabrizio bottini -24/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -25/34 - http://mall.lampnet.org loro comportamenti ci propongono le indagini finora disponibili, ciò non toglie che restino ancora in ombra le motivazioni profonde che li sospingono verso il mondo incantato delle merci, quando in realtà sembrano mostrare nei suoi confronti un certo disincanto. Gusti e disgusti L’assiduità, la costanza della frequentazione del centro commerciale, unita all’adesione affettiva mostrata dai nostri intervistati, è particolarmente significativa se la si accosta ad altre attività che praticano nel “tempo libero” e alla carenza pressoché generalizzata di interessi e conoscenze in campo culturale. Quasi tutti lamentano la mancanza di tempo per svolgere attività libere da vincoli, presi come sono da impegni scolastici e parascolastici, e ognuno di loro ammette di trascorrere una grande quantità di tempo davanti alla televisione. In alcuni casi, addirittura, la mancanza di tempo viene lamentata proprio in rapporto al desiderio di assistere con una frequenza maggiore ai programmi televisivi, come afferma F7: Ce n’è poco di tempo, veramente. Quando ho un poco di tempo o mi metto a guardare la televisione o esco per andare a fare shopping (...) Guardo parecchio la televisione, cioè, se avessi più tempo la guarderei tantissimo. La televisione, il più delle volte presente nella camera personale, è il leit motiv delle giornate di ognuno degli adolescenti che abbiamo intervistato. Guardata con i genitori o da soli, accesa anche durante lo studio pomeridiano, è l’assidua compagna del tempo domestico. Non ci sono particolari preferenze in ordine ai programmi, a parte una dichiarata idiosincrasia per le trasmissioni di carattere politico. Il telegiornale, che accompagna sovente i pasti, fa solo da sfondo alla scena familiare. Non si leggono giornali e poco ci si interessa a quanto accade nella dimensione politica nazionale o internazionale, e perfino nel proprio istituto scolastico, alla cui vita collettiva si preferisce restare estranei. Interrogati su questo argomento, infatti, quasi tutti intervistati manifestano una scarsissima conoscenza della sfera politica, verso la quale esprimono un esplicito disinteresse. Tutt’al più si fa appello, giusto perché sollecitati, ad una visione frammentaria e incoerente della doxa televisiva, come accade ad esempio nei rari casi in cui si accenna all’Iraq o al terrorismo. Non c’è da stupirsi, perciò, se dalle numerose domande che l’intervista ha dedicato alle pratiche culturali emerge uno scenario desolante, che non sembra peraltro legato né a variabili di ordine socio-economico, né al genere. Tutti gli intervistati mostrano una scarsissima dimestichezza con ambiti culturali come la letteratura, il teatro o il cinema di qualità. Sebbene molti amino ascoltare musica, seguendo più o meno ciò che offre il mercato di massa, quasi nessuno ha assistito ad un concerto, né mostra il desiderio di andare in futuro. I musei conosciuti sono quelli visitati con la scuola e pochi conoscono anche solo il nome dei musei della vicina Firenze. I sito diretto da fabrizio bottini -25/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -26/34 - http://mall.lampnet.org pochi viaggi fatti non sembrano aver sedimentato conoscenze e interessi che vadano al di là della semplice riproposizione di stereotipi. Ragazzi che possiedono somme discrete per le spese personali, che dispongono personalmente di una gamma notevole di media di tutti i tipi (dalla televisione al computer, dal lettore di Dvd all’Mp3), non hanno sedimentato né stanno sedimentando alcun interesse per le manifestazioni dell’arte e della cultura. Naturalmente, per comprendere a pieno i motivi e le dinamiche di una tale drammatica carenza sarebbe necessario indagare sul tipo di socializzazione ricevuta e sui condizionamenti sociali ai quali si è stati sottoposti più di quanto abbiamo potuto fare con la nostra intervista. In altre parole, come suggerirebbe Bourdieu (1979), sarebbe necessario indagare come ha inciso il mix di capitale culturale assicurato dalla famiglia e di trasmissione culturale assicurata dalla famiglia che è di fondamentale importanza per determinare gusti e preferenze culturali. Un’esperienza sociale e un rifugio. I racconti che gli intervistati fanno della loro esperienza personale nei centri commerciali evidenziano molto esplicitamente questo scenario. Le motivazioni di ordine ludico e “sociale” prevalgono di gran lunga sui fattori direttamente connessi agli acquisti. Solo quando si recano allo shopping center con gli adulti, generalmente i genitori, le finalità ludiche vanno in secondo piano e prevale lo scopo dell’acquisto. Ma con gli amici e i con i compagni di scuola, la connotazione commerciale del Centro perde la sua rilevanza per dare spazio alla dimensione squisitamente “sociale”: una sorta di area di accoglienza per la libera espressione dei bisogni di socialità. Accogliente e rassicurante “come la casa” - “Proprio mi piace come ambiente, mi trovo bene, è proprio il mio ambiente dove mi garba guardare un po’ tutto, provare. (...) Sembra quasi che sia a casa mia. Provo un senso di benessere, cioè sto bene, proprio...” (M5) – lo shopping center catalizza le aspirazioni collettive alla libertà dai vincoli di tempo e spazio imposti dalla vita quotidiana: Quando per esempio dobbiamo uscire prima perché ci manca qualche professore di solito tutti propongono di andare ai Gigli. Quindi di solito si prende l’autobus e si va ai Gigli, anche per non fare niente. Magari si fa un giro, si mangia e poi si torna a casa. Anche solo per stare insieme (F3). E’ anche un luogo di ritrovo abbastanza.... Se posso andare lì anche per comprare qualcosa, ma più che altro lo scopo principale è stare insieme agli amici, divertirsi...così...è questo più che altro la cosa principale (M5). Siamo evidentemente di fronte, qui, a quel tipo di motivazioni “sociali” che la letteratura ha enfatizzato in maniera particolare (Craig e Turley, 2004; Matthews et al., 2000; Young, 1999). Si tratta di fattori attrattivi legati ad una particolare socialità che si pratica dentro il centro commerciale, sia sito diretto da fabrizio bottini -26/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -27/34 - http://mall.lampnet.org con il proprio gruppo di amici che con i coetanei che si possono anche incontrare casualmente: “Dici: uno ha bisogno di una cosa, dici: eh allora andiamo tutti ai Gigli, si fa due risate, c’è tanta gente, capito. Sono posti dove c’è anche possibilità di fare conoscenze...tanti negozi, giochini, perché ci sono anche i giochini. Se c’è un gruppo di ragazzi accanto che stanno mangiando accanto a noi, magari capita la battuta, e quindi s’inizia a fare amicizia (F6). “Magari c’è comunque qualcuno che conosci. Comunque ci sono amici che incontri, saluti, fai due chiacchiere, poi c’è il gelataio, prendi un panino, insomma è comodo. Perché ti muovi poco e puoi fare tante cose. ...Quando dici: “Vado a mangiare fuori alle due con gli amici di scuola” di solito spuntano fuori i Gigli” (M8). “Quando sono con loro [gli amici] mi capita di guardare di meno, siamo più lì che si scherza, poi quando siamo in tanti insomma c’è più confusione”(F7). “Quando fai forca vai ai Gigli” (M8). “Ci si può ritrovare con gli amici, si può andare con loro, insieme al giro, insomma si può trascorrere una giornata divertente e piacevole (M9). “Di solito guardiamo i negozi e basta. Anche se non d’abbigliamento. L’ultima volta abbiamo visto dei negozi di bambini piccoli, ma perché...insomma, così, tanto per passare del tempo, niente di particolare” (F3). Sebbene tra gli adolescenti intervistati vi sia una piccola minoranza che dichiara di avere un atteggiamento più strumentale e di essere quindi mosso da motivazioni legate quasi esclusivamente all’acquisto di oggetti, come F10 22 , la grandissima maggioranza racconta di comportamenti molto centrati sull’esperienza collettiva di un ambiente del quale si percepiscono potenzialità connesse con l’uso del tempo libero più che con l’acquisizione di beni e oggetti. L’aspetto della socialità come fattore di attrazione sembrerebbe essere addirittura sussumere entro il proprio orizzonte anche le pratiche di acquisto, e quelle pratiche che all’acquisto sono connesse, come il guardare le vetrine, il provare, il cercare. ecc. I comportamenti che si inscrivono nell’ordine dello scambio economico vengono dunque richiamati all’interno della categoria delle pratiche di socialità: è lo stare insieme agli amici che muove il comprare – o il vedere e il provare per poi, semmai, comprare, come racconta F6, di sedici anni: “Si può andare a vedere i CD che sono appena usciti, possiamo ascoltarli, quindi farci un’idea...Andiamo a sentire i profumi dalla Sephora, tutti insieme, e sicché si comincia il gioco degli odori: “Ehi, senti buono questo, eh no senti quest’altro è più buono. Tante cose, capito...Magari non si sa cosa fare e dici: Mah, andiamo a fare un iro ai Gigli, guardiamo se c’è qualcosa di bello”. Insomma, anche così, senza dover comprare 22 “Ai Gigli ci vado più per comprare [rispetto al centro della città di Prato]. Se sono intenzionata proprio a comprare, allora vado ai Gigli, magari c’è una scelta più vasta e insomma trovo tutto. ..I miei amici ci vanno quando fanno forca” (F10). Secondo F2, di 13 anni, la quale frequenta i centri commerciali solo per “fare la spesa, per comprare degli oggetti”, il centro commerciale non è un luogo dove si possono incontrare amici; “più al di fuori”, dichiara (F2). sito diretto da fabrizio bottini -27/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -28/34 - http://mall.lampnet.org obbligatoriamente niente, cioè..si va lì, si fa un giro, si guarda un po’ cosa c’è...dall’orecchino all’orologio...Quando stai lì ti passa il tempo, perché comunque fai tante cose, perché comunque “guarda bellini quelli, guarda bellino quell’altro” e il tempo passa e non te ne accorgi” (F6). “Con le mie amiche di solito proviamo tutto quello che è possibile provare. Passiamo così il tempo (F3). “Andiamo a fare merenda, andiamo in qualche negozio, a qualche fastfood. E poi, vabbè, si va un po’ ai negozi di giocattoli per fare un po’ gli stupidi, così...per fare un po’ i versi, ma tutta roba nostra perché ci s’ha un vizio di andare a questo negozio, una volta ci buttarono anche fuori. Poi ci si mise a cantare al cantatu, insomma, un macello (M5). Ci si diverte a “provare” ogni genere di cosa insieme agli amici. Si gira di negozio in negozio, a guardare vetrine e cercare novità. Ma il più delle volte non si compra. Semmai si memorizzano le informazioni ottenute per eventuali altre visite. E’ all’interno di questo tipo di pratiche che si situano le tipiche attività che la letteratura internazionale designa con la nozione di entertainment, come racconta F2: “Entro, guardo i vestiti, inizio ad andare al primo stand dove sono i vestiti, inizio a guardare, poi provo un pantalone, caso mai trovo la mia taglia e me lo vado a provare, e vedo come mi sta, poi provo una maglietta e provo tutte e due insieme, per esempio. E dopo continuo a guardare tutto, tutti i vestiti, mi piacciono anche sopra i manichini, per vedere come stanno, farmi consigliare, per esempio, mi piace proprio, diciamo che è una cosa anche solo per passare il tempo. ... C’è anche un apparecchio che tu gli passi sotto il CD e ti fa ascoltare quello che vuoi...Poi ci sono per esempio le PlayStation, i Gameboy e uno passa il tempo a giocare diciamo”. Tra le pratiche “collaterali” più diffuse tra gli intervistati - accanto alla frequentazione del cinema multiplex annesso al centro commerciale 23 , di cui vengono venduti biglietti scontati al McDonald’s situato nel complesso - il “mangiare” occupa un posto decisamente privilegiato. Si può andare al centro commerciale con lo scopo di mangiare qualcosa, oppure si speluzzica qua è là nei diversi fast-food che costellano il complesso. Sia che si tratti di un semplice spuntino, di un gelato o di una bibita, o di un vero e proprio lunch, il cibo costituisce nella maggioranza dei casi un’attività che molto spesso gioca la funzione di traino delle altre pratiche. 23 Può essere interessante notare, a questo punto, che le risposte ad una delle domande iniziali dell’intervista relativa alla conoscenza e al piacere del cinema hanno evidenziato, oltre ad uno scarso interesse per il cinema come arte, anche un livello molto basso di conoscenza della produzione cinematografica contemporanea, se si fa eccezione per il cinema “di cassetta”. A questo riguardo appare significativo che, tra i generi preferiti da molti degli intervistati, compaia il cinema horror: quasi un modo per vaccinarsi dalle paure e dalle insicurezze della società contemporanea delle quali non si controllano, neanche a livello cognitivo, né le cause né gli sviluppi. sito diretto da fabrizio bottini -28/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -29/34 - http://mall.lampnet.org 7. Coltivare l’insoddisfazione Nella vita quotidiana dei nostri giovani studenti il centro commerciale sembra essere diventato un punto di riferimento ineludibile, non solo per il tempo che essi vi trascorrono, che è davvero molto, ma anche per i significati simbolici che esso riveste. Luogo magico di attrazioni ludiche, spazio incantato e apparentemente separato dalle routines quotidiane, lo shopping center sembra condensare in un unico spazio tutto ciò che potevano offrire ad altre generazioni la piazza e la strada, il garage o il bar di quartiere o il pub. I racconti dei nostri giovani studenti disegnano uno scenario che, nella sua linearità, invoca letture tutt’altro che semplici. Che i luoghi della grande distribuzione siano diventati gli spazi preferiti per la condivisione delle esperienze tra pari può essere probabilmente addebitato anche alla crescente carenza di opportunità che caratterizza le nostre città, ma questo non è tuttavia sufficiente a spiegare un tale attaccamento al mondo incantato e luminescente delle nuove cattedrali del consumo. Altre e più complesse motivazioni vanno probabilmente cercate in direzioni diverse: nei dispositivi simbolici che la società post-industriale attiva nei desideri e negli appagamenti individuali, che diventano particolarmente cogenti nelle giovani generazioni, inclini ad habitus sedimentati fin dall’infanzia. Se il bisogno di libertà e di gioco dei giovanissimi si identifica in modo così a-problematico con i desideri mobilitati dalla razionalità del mercato, e se si affida in maniera così automatica ai luoghi in cui l’accattivante simbologia della merce si offre in tutta la sua magnificenza, è forse perché il bisogno di desiderare, dispositivo fondamentale per la riproduzione della società tardo-capitalistica (Heller-Fehér, 1988), può dispiegarsi in tutta la sua contraddittoria dinamica solo e unicamente negli spazi patinati del consumo di massa. Scelto come spazio per la costruzione di identità individuale e collettiva, il centro commerciale sembra divenire così, per i nostri adolescenti, il luogo privilegiato per esperire le forme contemporanee relative alla creazione, percezione e distribuzione di quei desideri che rinforzano l’insoddisfazione, dispositivo di fondo della “società insoddisfatta” 24 . Non è un caso che i ragazzi che abbiamo intervistato, pratichino dentro il centro commerciale un agire prevalentemente ludico, a scapito di un comportamento acquisitivo. E che, anche quando si avvicinano alle merci con finalità acquisitive, essi mettano in atto pratiche più vicine al gioco della scelta (il “provare” gli abiti, senza poi comprarli; il “sentire” la musica, senza nessun acquisto di dischi, ecc.) che all’atto dell’acquisto vero e 24 Sembra assai pertinente, a questo proposito, la riflessione sui meccanismi della “società insoddisfatta” che Agnes Heller e Ferenc Fehér conducono in uno studio della fine degli anni Ottanta: “Nella riproduzione della società moderna, l’insoddisfazione collettiva agisce come forte agente motivazionale. Ne consegue che se le persone cessassero di ritenersi insoddisfatte di ciò che hanno – ricchezze materiali, posizione sociale, relazioni sociali, conoscenze e attività da un lato, istituzioni, ordinamenti socio-politici e stato del mondo dall’altro – la società moderna non potrebbe più riprodursi” (1988, tr. it. p. 21). sito diretto da fabrizio bottini -29/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -30/34 - http://mall.lampnet.org proprio. Mimando l’acquisto, come in un movimento di danza, attivano tutti i loro sensi per una sorta di conquista simbolica degli oggetti, ma poi se ne allontanano, come se ciò fosse sufficiente per una vera e propria appropriazione. Si potrebbe pensare che pratiche di questo genere rispondano più al bisogno di padroneggiare desideri profondi, e inappagabili per mezzo della semplice acquisizione delle merci, che non al desiderio letterale di possesso. Come nel gioco del rocchetto del piccolo Hans, questi adolescenti cercano probabilmente di padroneggiare una carenza che temono e che non sanno come colmare altrimenti. sito diretto da fabrizio bottini -30/34 - http://mall.lampnet.org sito diretto da fabrizio bottini -31/34 - http://mall.lampnet.org Riferimenti bibliografici Amendola, G. (1997) La città postmoderna, Bari, Laterza. Anthony, K. H. (1985) “The shopping mall: a teenage hangout”, in Adolescence, vol. 20, n. 78, p. 307-312. Babin et al. (1994) “Work and/or fun: measuring hedonic and utilitarian shopping value” in Journal of Marketing, vol. 46, p. 114-123. Batra, R. e Ahtola, O. (1990) “Measuring the hedonic and utilitarian sources of consumer attitudes”, in Marketing Letters, vol. 2, n. 2, p. 150-170. Baudrillard, J. (1968) Le système des objets, Paris, Gallimard. Baudrillard, J. (1976) L’échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard. Bauman, Z. (1993) Postmodern Ethics, Oxford, Blackwell. Becker, G. 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