Paolucci_Mimesi_Città_Mall

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Paolucci_Mimesi_Città_Mall
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Mimesi della città e seduzione
dell’entertainment. Shopping e leisure
nei centri commerciali di seconda generazione.
Gabriella Paolucci
Università di Firenze
[email protected]
www.gabriellapaolucci.it
1 Nuove formule distributive e vecchi codici della riproduzione
Il centro commerciale: uno degli spazi più caratteristici della nostra
contemporaneità. Il luogo dei nostri acquisti, certo, ma non solo questo. Il
centro commerciale sembra essere anche il luogo del nostro girovagare in
cerca di identità, come amano dirci gli operatori commerciali e gli studiosi
di marketing. O piuttosto, come scrive Baudrillard, il luogo dove si
dispiega “lo spazio-tempo del codice della riproduzione” (1976). Effimero,
flessibile, camaleontico: aggettivi cui la letteratura sugli shopping centres
ricorre insistentemente per descrivere i cambiamenti della figura del
consumatore, il nuovo flâneur della post-modernità. Trasformazioni che si
intrecciano all’emergere di un nuovo modello di centri commerciali. Non
più semplici contenitori delle merci che con costante accelerazione
vengono immesse sul mercato - incalzato dalla necessità di accelerare il
ciclo del capitale - scatoloni disseminati nelle aree amorfe delle periferie
urbane, lontani e separati dai luoghi vivi della città. Ma nuove aree
multifunzionali che mimano il centro urbano, e cercano di riprodurne gli
spazi e le funzioni. Luoghi capaci di attrarre, stupire, promettere e,
soprattutto, intrattenere. Gli shopping malls si sono trasformati in
shopping and entertainment centres, in luoghi dove si consumano
spettacoli e giochi, incontri ed eventi, oltre che beni materiali. In “spazi di
socialità”, come vengono amabilmente pubblicizzati dai loro “patrons” 1 .
Progettati per inseguire e catturare un consumatore sempre più infedele,
eterogeneo, sgusciante e incodificabile, le nuove cattedrali del consumo si
propongono come “spazi di libertà” dove l’identità può vagare senza
controllo, nel mondo incantato delle merci materiali e immateriali. Lo
1
Non di rado la presentazione della nuova formula da parte dei progettisti dei complessi
architettonici e dei proprietari delle catene distributive assume caratteri enfatici come nelle parole
del progettista del nuovo centro commerciale costruito recentemente ai bordi dell’area
metropolitana fiorentina: “Il nuovo centro fortunatamente è il risultato di una evoluzione che niente
ha a che fare con i predecessori di qualche decennio fa, quegli enormi scatoloni anonimi in cui si
compravano solo tante merci a buon mercato. Il centro commerciale di oggi è diverso: è
intrattenimento, scambio sociale, comunicazione. E, in una cultura come quella della Coop, tutto
questo è stato rielaborato e amplificato: la galleria commerciale diventa anche piazza, uno spazio
micro-urbano circondato da strutture e servizi che cambiano a seconda delle esigenze del
territorio. Questa nuova centralità della piazza coperta (...) è un elemento decisamente innovativo
della progettazione. Appaiono nuove forme, e di conseguenza nuovi materiali, soluzioni costruttive
che si rifanno alle tecnologie aeronavali piuttosto che all’architettura storica” (P. A. Martini,
progettista Centro Commerciale Coop di San Lorenzo a Greve, Firenze). Un’analoga enfasi la
possiamo percepire nella riflessione del progettista del Tauman Center, Usa “In the 1960s and
1970s – osserva Carl Hagleman - they were designed to be rational and efficient machines for
shopping. But time passed, and customers grew more sophisticated, they expected more than just
a retail-processing machine; they wanted experiences, preferably those linked in some way to their
community” (Carl Hagleman, Tauman Centres).
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zapping tra i negozi alla ricerca dell’oggetto che appaghi il desiderio - di
cui si è parlato a proposito dei vecchi malls (Amendola, 1997) – sembra
così diventare un movimento senza meta alla ricerca di attrazioni e
seduzioni che ben poco hanno a che fare con il tradizionale
comportamento di consumo. Se è vero che l’ultima generazione di
shopping malls incorpora ancora molte delle caratteristiche della formula
precedente - a partire, ovviamente, dai fattori di ordine economico e
simbolico - è anche vero che il nuovo modello è espressione di una
trasformazione non di poco conto, che coinvolge in maniera profonda
l’organizzazione della quotidianità urbana. Una trasformazione che
produce una sintesi inedita tra pratiche di leisure e pratiche di consumo,
prima collocate in zone differenziate della città e praticate in dimensioni
temporali diverse della vita quotidiana. Diventando parte costitutiva dello
spazio commerciale, il “tempo libero” si è così trasformato una mera
appendice di quelle merci alle quali già da tempo aveva drammaticamente
cominciato ad assomigliare.
Il mutamento di formula del centro commerciale comincia tuttavia a
mostrare alcune contro-finalità. Sempre più preoccupati, gli operatori del
settore si stanno accorgendo che la messa in scena dello spettacolo non
è sempre sufficiente ad innalzare il volume delle vendite, poiché gli
shopping and entertainment centres
sembrano attrarre in misura
crescente persone che si lasciano affascinare dalle attività di
intrattenimento più che dagli acquisti. Si sta scoprendo, insomma, che il
tempo trascorso negli shopping malls per veri e propri acquisti sta
tendenzialmente diminuendo rispetto al tempo dedicato alle attività
collaterali. Un fenomeno che, pur accomunando la massa di persone che
popola quotidianamente gli spazi sempre più spettacolari del consumo
post-moderno, dentro e fuori dalle nostre città, sembra coinvolgere in
modo particolare i frequentatori più giovani, i quali, in compagnia del
gruppo dei pari, nelle ore libere dai vincoli dello studio o del lavoro, si
recano nei centri commerciali col proposito esplicito di spendere solo
tempo e non denaro, o, quantomeno, più tempo che denaro. Pratiche di
questo genere, sia detto per inciso, valgono a sottrarre ogni residua
legittimità teorica a quegli approcci che continuano ad adottare il
paradigma rational choice per spiegare i complicati intrecci che si
istituiscono tra l’uso del tempo e la dislocazione del denaro nel consumo
(Becker, 1965) 2 .
2
Per una critica analitica di questo approccio, cfr. (Reid e Brown, 1996; Fine, 2004; Chan e
Goldthorpe, 2005; Paolucci, 2005.
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2. Dal Mall all’Entertainment Shopping Center: un fenomeno globale
Greyfields e demalling: due parole che ricorrono frequentemente non solo
nella letteratura scientifica, ma anche nel lessico della pubblicistica di
carattere politico e di marketing diffusa sopratutto negli Usa. Due
fenomeni che vanno di pari passo: sono il sintomo della trasformazione in
atto nei luoghi del commercio e dei problemi, economici ed urbanistici,
che essa pone. Letteralmente, il demalling è il processo di dismissione e
di riuso dei tradizionali malls che per decenni hanno costellato le grandi
periferie degli Stati Uniti e degli altri Paesi industrializzati, lasciando così
che gli spazi dei loro insediamenti diventassero delle zone abbandonate,
grigie e più squallide dei vecchi “scatoloni”: i greyfields, appunto. Il
fenomeno è senza dubbio di vaste dimensioni, anche se non se ne
conosce l’esatta entità. Uno studio pubblicato recentemente dalla
Louisville University (Kilton, 2005) sostiene, ad esempio, che il sette per
cento dei centri commerciali regionali è oggi da considerarsi in situazione
di greyfield, e che il venti per cento si avvia a diventarlo. In termini
assoluti, si parla di oltre duemila complessi commerciali che stanno
morendo. Questi dati sono sufficienti a mostrare come la dismissione delle
grandi strutture di distribuzione possa costituire un problema ancora per
un lungo periodo di tempo. Al di là delle soluzioni che si pensa di poter
dare alla questione del riuso di queste aree 3 , si tratta di dati che mostrano
in modo inequivocabile come la formula tradizionale del centro
commerciale sia in piena crisi da almeno un decennio (Nichols et al. 2002;
Kilton, 2005). E non solo negli Stati Uniti, dove è naturale che il processo
sia più avanzato, ma anche in Europa e perfino in Italia, ultima arrivata tra
i Paesi europei in quello che si può definire il processo di segregazione
del consumo di massa dal resto delle attività urbane. Un processo iniziato
ormai quasi un secolo fa, e ancora in piena effervescenza.
Negli Stati Uniti il centro commerciale nasce nei primi anni del secolo
scorso. Il primo complesso di questo tipo, esterno al centro urbano, viene
costruito a Lake Forest, vicino a Chicago, nel 1916. Viene seguito a pochi
anni di distanza, nel 1924, dal County Club Plaza di Kansas City, nel
Missouri, considerato il vero antesignano del moderno mall. E’ qui che
possiamo già intravedere le caratteristiche salienti della formula che si
diffonderà rapidamente in tutti i Paesi industriali avanzati: progetto
architettonico unico, gestione unificata delle attività, selezione dei servizi
commerciali, parcheggio di grandi dimensioni.
Con gli anni Cinquanta lo scenario si modifica. Si verifica una svolta che
influenzerà la concezione dei centri commerciali per i decenni a venire, sia
3
Si può citare, a questo riguardo, un piano considerato tra i più avanzati negli Usa: il progetto di
Villa Italia di Lakewood, in Colorado. Si tratta di un classico complesso mixed use, che incorpora
sia funzioni abitative (1300 abitazioni), che spazi commerciali, per 80.000 mq. Vi sono inoltre
giardini, piazze e spazi verdi, un albergo con 250 camere e l’immancabile parcheggio per 9000
posti auto.
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in Usa che nel resto del mondo. Entrano in scena strutture di vendita
ancora più grandi, che si rivolgono ad ampi bacini d’utenza e si collocano
in aree ancora più lontane dai centri abitati. L’offerta si arricchisce di nuovi
servizi e attività la cui capacità attrattiva ruota comunque intorno alla
presenza dei department stores, che svolgono la funzione di “magneti”. Il
traffico veicolare viene rigidamente separato da quello pedonale. I
percorsi tra i negozi - i malls, appunto - chiusi e climatizzati, si
trasferiscono all’interno dell’immobile e diventano oggetto di un design
abbastanza ricercato. Tali mutamenti avvengono in uno scenario
caratterizzato dalla forte espansione demografica del secondo
dopoguerra, dalla crescita ipertrofica dei suburbi e dall’esplosione della
motorizzazione privata, oltre che dal processo di concentrazione delle
imprese commerciali, che favorisce – o postula – l’affermazione di
strategie di marketing tese a ottimizzare l’uso degli spazi e dei tempi della
distribuzione. Le dimensioni dei regional shopping centres variano in
questi anni dai 40.000 agli oltre 100.000 di Gla (superficie lorda affittabile).
In Europa il centro commerciale, che compare alla fine degli anni
Cinquanta, presenta inizialmente caratteristiche differenti. E’ situato nel
cuore delle città satelliti delle grandi conurbazioni nordeuropee, come le
new towns inglesi, ma è ancora concepito come un insieme integrato di
servizi e non come un unico complesso architettonico con struttura
unitaria. La circolazione avviene a cielo aperto e l’utenza non è
motorizzata.
Solo verso la fine degli anni Sessanta la formula
statunitense del regional suburban shopping center riesce a penetrare
anche in Europa: il Main Taunus di Francoforte, il Parly 2 a Parigi e il
Woluvé in Belgio sono un esempio tipico della penetrazione del modello
Usa. Da questo momento la superficie commerciale della grande
distribuzione conosce in Europa un costante incremento, anche se rimane
molto al di sotto degli standard raggiunti in Usa, dove si hanno ben 1.800
mq ogni mille abitanti, mentre i valori europei si aggirano ancora, all’inizio
del secolo, sui 140 mq. Il fenomeno europeo, tuttavia, non è da
considerarsi marginale: Già nel 2002, infatti, in Europa si contano ben
3.725 shopping centers, il 35% dei quali ha ancora dimensioni piccole o
medie, mentre un centinaio di in sedimenti oltrepassa i 60.000 mq.
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In Italia, come è noto, il fenomeno della proliferazione dei centri
commerciali è abbastanza recente (Mela e Preto, 2004; Davico, 2004).
Anche se la loro prima comparsa risale all’inizio degli anni Settanta, il vero
e proprio boom italiano si ha solo all’inizio degli anni Novanta, proprio
quando negli Usa la formula sta iniziando il suo inesorabile declino. Il
primo centro commerciale italiano, aperto a Bologna nel 1971, è il Fossolo
1. Si tratta di un tipico centro commerciale di vicinato, di piccole
dimensioni e pienamente inserito nel tessuto urbano: una formula che
dominerà per alcuni anni ancora nel nostro Paese. Verso la fine degli anni
Settanta si assiste ad una svolta con la creazione dei primi due veri e
propri centri commerciali multifunzionali: il primo a Prato nel 1978 e il
secondo a Lodi nel 1979. Entrambi sono dotati di due “magneti” e di una
certa varietà di negozi e di servizi, oltre che di una galleria con operatori
specializzati. Ma la formula del centro commerciale stenta a prendere
piede nel nostro Paese almeno fino agli anni Ottanta, quando si verifica il
primo incremento di una certa entità: dai 39 centri del 1981 si passa ai
180 del 1989. In termini di superficie l’espansione è ancora più
accentuata, poiché dai 367.968 mq del 1981 si giunge a 1.434.728 mq del
1989. Ma non siamo ancora di fronte al vero e proprio boom dell’inizio
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degli anni Novanta, quando si assiste a incrementi medi annui di
cinquanta nuovi centri e in un solo quadriennio si passa dal 230 a 389
unità. Aumentano anche le dimensioni: la maggior parte dei centri
commerciali è di grandezza medio-grande e di rilievo regionale. Sotto il
profilo qualitativo siamo di fronte ad un modello che ripropone
sostanzialmente quello statunitense degli anni Settanta: collocato su un
territorio extra-urbano, si rivolge ad un’utenza regionale; contiene uno o
più magneti, che in genere sono supermercati di medie dimensioni, oltre a
negozi multi-specializzati. Le dimensioni sono abbastanza ridotte. La
battuta d’arresto che caratterizza la parte centrale del decennio, dovuta
sia a vicende di natura politica che legislativa, viene superata negli anni
immediatamente successivi, per raggiungere la sua punta più alta nel
1999, e, di nuovo, nel 2003, anno in cui i centri commerciali raggiungono
la quota di 603, di cui 503 con superficie di vendita superiore ai 2.500mq.
Dalla prima comparsa di questa formula, dunque, molte cose sono
cambiate anche nel nostro Paese, sia in direzione di una diffusione più
capillare, che verso una costante e crescente diversificazione delle
formule e delle localizzazioni.
La diffusione dei centri commerciali, d’altra parte, non è che uno degli
aspetti del fenomeno, ben più vasto, della crescita della grande
distribuzione, che in pochi anni anche in Italia ha superato la piccola. Basti
pensare che alla fine degli anni Ottanta il giro d’affari dei negozi
tradizionali è ancora superiore a quello della grande distribuzione, mentre
proprio a partire dal 1990 la situazione si capovolge. Già nel 1994 il giro
d’affari della grande distribuzione si aggira intorno agli 85.000 miliardi,
oltre il doppio dei 38.000 miliardi che raggiungono i negozi tradizionali.
Sebbene i centri commerciali situati nel territorio italiano non abbiano
raggiunto i livelli europei, sia per quanto attiene la densità – che si è
attestata nei primi anni del nuovo secolo intorno ai 130 mq per 1000
abitanti – sia per quanto concerne il volume d’affari, è interessante notare
che il ritmo di espansione di questa formula è, come è logico, molto più
alto che negli altri Paesi europei. Ma ciò che appare ancora più
interessante è il fenomeno relativo alle dimensioni dei centri commerciali
più recenti, che tendono ad aumentare costantemente, anche se il
mercato rimane ancora dominato dalla presenza di centri commerciali
relativamente piccoli, con una superficie di vendita inferiore ai ventimila
mq. Un indizio, questo, dell’emergere di un nuovo formato, molto più
variegato e articolato rispetto al modello tradizionale 4 .
4
Per un’analisi dettagliata della diffusione dei centri commerciali in Italia e in Europa cfr.: Court e
Myers (2002); Davico (2004) e Zappi (2003).
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Grafico 2. Numero dei nuovi centri commerciali e degli
ampliamenti. Anni 2001-2005. Italia
Fonte: Infocommercio
50
40
30
Nuovi centri com m erciali
20
Am pliam enti
10
0
2001
2002
2003
2004
2005
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Grafico 3. Superficie Gla dei nuovi centri commerciali e degli
ampliamenti (mq. GLA) - Anni 2001-2005. Italia
Fonte: Infocommercio
1.000.000
800.000
884.185
793.929
602.355
600.000
400.000
575.705
392.950
200.000
0
2001
2002
2003
2004
2005
Grafico 4.
Distribuzione geografica nuove aperture
Numero di insediamenti - Valori percentuali
Italia 2001-2005
Fonte: Infocommercio
2001
38,5
2002
39,5
2003
21,1
30,8
19,2
31,6
2005
30
20%
26,3
27,5
40%
28,9
10,5
28,9
26,7
2004
0%
11,5
24,4
20
18,4
23,7
Nord Est
Centro
Sud e Isole
27,5
15
60%
Nord Ovest
80%
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100%
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Grafico 5. Densità commerciale per Regione
Italia 2005 - Fonte: Infocommercio
(mq per 1000 abitanti)
38
Sicilia
52
Campania
71
Valle d'Aosta
89
Calabria
105
Trentino
108
Puglia
128
Basilicata
Toscana
133
Liguria
135
146
Umbria
150
Lazio
158
Sardegna
170
Italia
Piemonte
227
Veneto
228
242
Marche
Friuli
260
Emilia Romagna
261
Abruzzo
269
Lombardia
270
306
Molise
0
50
100
150
200
250
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300
350
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3. La separazione dalla città
Fin dal suo primo apparire nello scenario statunitense, la cifra costitutiva
del mall è la separazione della distribuzione di massa dalla città e la sua
segregazione in spazi isolati, lontani dal tessuto urbano. La separazione
spaziale degli insediamenti commerciali produce l’isolamento delle
pratiche legate al consumo entro nicchie temporali staccate dalle altre
durate della vita quotidiana: la frequentazione del centro commerciale, per
l’organizzazione della mobilità e la pianificazione del tempo che richiede,
costituisce un ‘frammento’ isolato dal continuum del tempo quotidiano. In
altre parole, mentre la frequentazione dei negozi come elementi integrati
nell’architettura dello spazio pubblico della città associa l’atto dell’acquisto
alle altre pratiche della vita quotidiana, con il mall questa integrazione
scompare.
La
separatezza
spazio-temporale
viene
sancita
simbolicamente dal “cordone sanitario” costituito dai parcheggi e dalle vie
di comunicazione che allacciano la città al mall, oltre che dall’”architettura
a fortezza” (Graham, 2000), che sottolinea il senso di isolamento rispetto
alla città 5 . I confini che separano il mall dal mondo esterno, così come le
forme dell’ ambiente costruito, svolgono infatti una significativa funzione
simbolica: eliminare la possibilità di qualsiasi contaminazione tra il fuori e
il dentro, tra la vita urbana e il consumo di massa. Le poche uscite, le
coperture, l’omogeneità e la spettacolarità delle architetture, i percorsi
esterni impossibili ai pedoni, fino all’assenza di orologi all’interno del mall,
tutto concorre alla costruzione simbolica di uno spazio che, postulando la
segregazione spazio-temporale del consumo, si contrappone
esplicitamente alla città, alla necessaria interazione tra le pratiche urbane
che il tempo ha sedimentato.
Questo tipo di segregazione spazio-temporale sottolinea e radicalizza
aspetti simbolici del consumo che sono comunque caratteristici della
società capitalistica. L’intreccio tra consumo e piacere è uno di questi
aspetti. Le forme architettoniche e urbanistiche del mall favoriscono e, in
un certo senso, incorporano la dimensione del piacere come dispositivo
interno al consumo. Lo shopping è una attività di tipo edonistico e fa parte
integrante delle pratiche di leisure in quanto ingloba, insieme alla pratica
dell’acquisto intesa in senso “letterale”, anche la dimensione
squisitamente simbolica
del rapporto soggettivo con le merci: la
costruzione del sé come soggetto desiderante. Sotto il velo del risparmio
del tempo e del denaro – principale argomento impiegato per motivare
alla frequentazione del mall - si dispiega così un discorso sul piacere del
consumo in sé che trova una delle sue principali articolazioni nella
5
Per motivi di spazio tralascio qui di trattare le questioni relative alla pianificazione urbana che
sono connesse alla costruzione dei centri commerciali fuori dalla città. Per un’analisi interessante
di questo argomento, cfr. Graham (2000), il quale parla a questo riguardo della progressiva
“erosione della pianificazione urbana di tipo complessivo”, che riguardi cioè la città nella sua
interezza.
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esposizione segregata e spettacolare delle merci come rappresentazione
della totalità dei desideri possibili. Un discorso “democratico” – “tutto ciò
che è desiderabile è a disposizione di tutti” – che gioca sulla costruzione
sociale dello shopping come piacere squisitamente individuale, pensato e
progettato per il singolo, eppure goduto necessariamente in massa.
Attraverso l’intreccio tra leisure privato e consumo di massa il mall
propone così ai suoi frequentatori un’identità che è al tempo stesso
affermata e negata.
4. La simulazione della città: leisure e consumo
Che nella nostra società il piacere costituisca una componente
fondamentale del rapporto con le merci è cosa non nuova. Lo stesso
Benjamin, scrivendo delle lussureggianti gallerie costruite dalla borghesia
parigina nel XIX secolo, metteva l’accento su questo aspetto,
sottolineando come in questi luoghi i percorsi del desiderio si
intrecciassero intimamente al consumo come pratica costitutiva di
un’identificazione di classe di carattere squisitamente distintivo (Bourdieu,
1979) 6 . Puntare sulla logica della seduzione (Baudrillard, 1968) ed
elaborare produzioni discorsive - come lo sono i centri commerciali - che
diano forma a intrecci sempre diversi tra leisure e consumo è un tipico
dispositivo della società industriale, come ben sappiamo. Benché mutino
le forme di questo intreccio - in ragione dei cambiamenti dei cicli
economici, ma anche a causa del meccanismo della distinzione che
muove i consumi - il dispositivo continua ad agire sostanzialmente
immutato. Le trasformazioni delle formule adottate dalla grande
distribuzione commerciale negli ultimi anni non devono dunque ingannare.
Non siamo di fronte ad un mutamento radicale, ma soltanto alla
declinazione, e, in alcuni casi, all’enfatizzazione di aspetti che
costituiscono l’ossatura delle pratiche distributive e di consumo nella
nostra società. Ciò non toglie che non rivesta una grande rilevanza
analizzare le forme di tale mutamento e individuarne gli effetti sociali.
Il rapporto con la città è uno dei fattori più rilevanti nella storia
dell’evoluzione della grande distribuzione, come si è visto per il modello
tradizionale di mall. Ora accade che, invece di fondarsi sulla separazione
spaziale e simbolica dalla città, i nuovi modelli ne mimino il
funzionamento. Sia che vengano costruiti fuori dal tessuto urbano, sia che
vengano inseriti all’interno della città, magari in aree occupate
6
“Le lotte per l’appropriazione dei beni economici (...) sono in modo inscindibile lotte simboliche
per l’appropriazione di questi segni di distinzione rappresentati dai beni o dalle pratiche classificate
e classificanti, o per la conservazione o la sovversione dei principi di classificazione di queste
proprietà distintive. Di conseguenza, lo spazio degli stili di vita, cioè l’universo delle proprietà grazie
alle quali color che occupano lo spazio sociale si differenziano, con o senza l’intenzione di
distinguersi, è anch’esso soltanto un bilancio, fatto in un determinato momento, delle lotte
simboliche che hanno per posta l’imposizione dello stile di vita legittimo, e che trovano la propria
legittimazione esemplare nelle lotte per il monopolio degli emblemi della “classe”: beni di lusso,
beni culturali legittimi o modo di appropriazione legittima di tali beni” (Bourdieu, 1979, tr. it. p. 2578).
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precedentemente da complessi industriali, come accade sempre più
spesso, i centri commerciali di seconda generazione propongono una
replica dello spazio urbano. Teorizzata dai progettisti, pubblicizzata dai
proprietari delle catene distributive, legittimata dalla letteratura di
marketing, la riproduzione della forma urbana è diventata il leit-motiv di
tutta una pubblicistica sui nuovi shopping centres che si è sviluppata negli
ultimi anni. Inscritta nelle forme architettoniche, attentamente disegnata
nelle figure organizzative interne e pianificata negli strumenti urbanistici, la
replica artificiale della città sembra ormai diventata un fattore costitutivo
indiscusso della nuova architettura commerciale. Non è dunque tanto la
localizzazione urbanistica a caratterizzare il rapporto con la città, l’essere
cioè fuori o dentro lo spazio urbano, quanto, come osserva Péron, la
“densità e la natura delle interazioni fisiche, sociali e simboliche rese
possibili dalla pianificazione e dal disegno architettonico di questi luoghi”
(Péron, 2001:854). Nell’ultima incarnazione del centro commerciale si
passeggia tra filari di alberi. Gli edifici, spesso di molti piani, sono
progettati per apparire “caratteristici”; ci si affida ad un artificioso “sense of
place” che si suppone venga ricercato dai consumatori, e si cura la
localizzazione di attività collaterali in modo da sedurre e intrattenere una
clientela che appare sempre meno disposta ad acquistare. Complessi con
la forma di un insediamento all’aria aperta, i nuovi centri sono pensati per
creare una “shopping experience” che induca il visitatore a trascorrere più
tempo possibile all’interno degli spazi commerciali. Avendo ben
compreso, anche sulla scorta dell’esperienza statunitense, che il consumo
fuori città comincia a presentare pesanti controfinalità di tipo economico,
le catene più accorte puntano sulla capacità evocativa delle architetture.
Ma cos’è che si vuole evocare? Certamente la città. Ma una città irreale,
strappata alla verità del vivere quotidiano e riproposta in una dimensione
fantasy: una sorta di set cinematografico dove l’iper-realtà delle soluzioni
sceniche si intreccia alla dimensione onirica delle gratificazioni promesse.
L’esito di questa operazione non può essere che grottesco. Mimare la
città attraverso una lettura che ne interpreta il tessuto come se fosse una
delle tante merci da mettere in mostra sulla scena del mercato, significa
espungere una delle sue dimensioni centrali: il tempo. Il tempo che passa
modifica la forma urbana e i suoi significati, creando prossimità spaziale
tra materiali cronologicamente distanti. Negli stessi luoghi in cui prendono
corpo le routines quotidiane, e nelle strutture architettoniche in cui esse si
svolgono, la città incorpora i materiali del passato, sedimenti di un tempo
anteriore. Lo spazio urbano contiene spezzoni di vecchie morfologie,
materiali lasciati da epoche precedenti, intesi non solo come singoli
oggetti, ma come “catene temporali” legate fra loro. Non solo, quindi, le
“rovine e macerie” di cui parla Marc Augé (2003), ma anche le
cristallizzazioni di vecchie funzioni urbane, o le tracce di una volontà di
oblio, che possiamo leggere nel trattamento delle “pre-esistenze”. Sono i
sedimenti di ciò che il tempo lascia nello spazio costruito che chiamiamo
“città”: quel “tempo divenuto spazio”, nella bella espressione usata da
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Walter Benjamin, che rigugge da ogni artificiosa riproduzione, a meno di
non rifarsi al kitsch o al “carnevalesco” (Langman, 1992). Ma ciò non
preoccupa di certo i progettisti e i proprietari delle catene distributive, dal
momento che l’operazione ha l’unica finalità di distogliere il consumatore
di massa dal frantumato e casuale commercio urbano e di incanalare i
suoi bisogni e i suoi desideri – nonché il suo denaro, ovviamente – verso il
mondo onirico degli spazi commerciali post-moderni.
In questa evoluzione, tra le altre cose, si può leggere anche una
radicalizzazione delle forme di privatizzazione dello spazio pubblico già
avviate nel mall. La replica della città comporta ad esempio che anche i
percorsi tra i luoghi del commercio e dell’intrattenimento, le strade e le
piazze, quelle “passeggiate tra i filari” che i patrons delle catene
commerciali vantano, i luoghi, insomma, che costituiscono l’essenza dello
spazio pubblico urbano, siano sottomessi alle logiche e agli imperativi del
mercato. E’ un cambiamento sostanziale che va ben al di là della specifica
ubicazione del complesso commerciale, come si può facilmente
comprendere.
La mimica della città trascina con sé tratti costitutivi della vita urbana.E’ il
caso delle attività di leisure, che le nuove formule di centro commerciale
catturano e riducono a pendant dello shopping.
La nuova dimensione del leisure negli shopping malls di ultima
generazione non è da considerarsi un meccanismo inedito nel mondo
della distribuzione commerciale, ma semmai una declinazione del
tradizionale modo di costruzione del consumo attraverso il dispositivo del
piacere, per usare un’espressione cara a Foucault. Ciò che muta è il
‘posizionamento’ di tale dispositivo, che continua a trovare nella
spettacolarizzazione delle merci il suo punto di forza. E’ nel confronto con
questa messa in scena che avviene quella trasmigrazione dal mondo del
flâneur - individuo isolato nel suo approccio feticistico con gli oggetti – a
quel mondo del consumo di massa di cui parla Bauman (1993),
riprendendo la visione di Baudrillard (1968, 1976). Non più soltanto
integrato nelle pratiche di acquisto degli oggetti, il leisure viene dislocato
anche al di fuori di esso, in pratiche “collaterali” che si affiancano agli
acquisti (Hazel, 2001). Il cambiamento non è di poco conto, poiché
coinvolge numerosi fattori, sia di ordine culturale, architettonico e
urbanistico, che di natura economica, tanto che a proposito di questa
nuova formula è stata coniata l’espressione “entertainment economy”
(Hannigan, 1998). Alla base dell’ideazione di questi nuovi modelli di
centro commerciale vi è un insieme di cause di natura economica che non
è possibile prendere in esame dettagliatamente in questa sede. Basti solo
accennare al fatto che la concentrazione dei capitali impiegati nel settore
della grande distribuzione, e la connessa concorrenza sempre più serrata
tra le varie catene, spinge in maniera crescente verso la necessità di
diversificare l’offerta. Diversificazione che viene raggiunta in gran parte
attraverso l’immagine dello shopping center, di cui l’entertainment
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costituisce parte essenziale, come viene sottolineato da più parti (Kim,
2002; Sit. et al., 2003) 7 .
Il dispiegamento, sempre più massiccio e imponente, di dispositivi atti a
rendere più ‘piacevole’ e più variegata, nonché più prolungata, la
permanenza dei consumatori all’interno delle nuove cittadelle del
consumo, vengono significativamente denotati con la nozione di
entertainment. Il concetto non è univoco. In letteratura gli si attribuiscono
spesso significati diversi, a seconda delle “attività collaterali” che vi
vengono fatte rientrare. In ogni caso la varietà delle pratiche inglobate è
sempre molto ampia. Sit. et al (2003) ad esempio, che hanno studiato il
fenomeno negli Usa, includono nella nozione di “entertainment” una
molteplicità eterogenea di attività, e propongono una articolazione
tipologica. Da un lato vi sono gli eventi di intrattenimento, che vengono
proposti ai frequentatori in maniera occasionale e per un breve periodo di
tempo (fashion shows, bridal fairs, taking pictures, etc.). Vi sono poi le
offerte di intrattenimento di carattere specialistico, incorporate stabilmente
negli spazi di proprietà della catena commerciale, come i cinema multiplex
o le video gallerie. Ed infine ci sono i luoghi per il cibo: ristoranti, bar, fastfood, caffè, etc. 8 . Tutto ciò va a configurare un ambiente teso a giocare un
ruolo inedito nello scenario della distribuzione commerciale: sostituire
non solo i negozi tradizionali nella funzione distributiva, ma anche il centro
urbano come luogo di incontro, di socialità e di leisure. La fusione tra
consumo e intrattenimento per il tempo libero ha tra le sue conseguenze
l’ampliamento dell’offerta temporale, portando tendenzialmente gli orari di
apertura alle 24 ore per sette giorni 9 . Un cambiamento che non è solo
letterale, ma anche simbolico: i nuovi centri per il consumo tendono a
inglobare e controllare attraverso lo scambio economico e la sua logica
tutto il tempo non dedicato al lavoro, il cosiddetto “tempo libero”. Un
aspetto che viene ampiamente sottolineato dalla letteratura di marketing,
che si assume l’onere di indicare agli operatori economici del settore le
strade più opportune per rendere quanto più efficace possibile questa
operazione (Sit. et al., 2003) 10 .
7
Osservano a questo riguardo Sit. et al.: “Due to the intense competition, there is increasing
pressure on shopping centres to clearly differentiate themselves more distinctively. Entertainment
is a potential means of differentiation (Sit et al, 2003, p. 80)
8
Sul tema cfr. anche Kim (2002) e Kang e Kim (1999).
9
E’ il caso, ad esempio, della catena 7-Eleven della Wall Mart, o della All Pets Clinic di Boulder.
10
“Shopping centre management has sought to alter consumers’ perceptions of shopping to be a
community recreational activity, for seeing and being seen, for meeting and passively enjoying the
atmosphere. Thus many shopping centres have incorporated food courts, cafes and restaurants on
the centre property, either inside or on outparcels” (Sit et al. 2003, p. 84).
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5. Un consumatore edonista?
La nascita delle nuove formule di shopping centres è stata accompagnata
e, oserei dire, “guidata”, dalla proliferazione di indagini e ricerche sui
comportamenti, le aspirazioni e i desideri di coloro che frequentano i
centri commerciali, con la finalità di fotografare e comprendere uno dei
fenomeni che più preoccupano le catene commerciali: la “disaffezione
all’acquisto, come si suole chiamarla. Un fenomeno, questo, che sembra
accomunare sia i Paesi con un’esperienza storica di shopping centers, ed
in primo luogo gli Stati Uniti, sia il nostro Paese, che, pur essendo arrivato
in ritardo, si sta in parte allineando alle nuove tendenze.
La letteratura sul tema è unanime nel cogliere nei comportamenti di
consumo degli ultimi anni un sensibile spostamento dall’atteggiamento
utilitaristico all’atteggiamento edonistico (Carpenter et al. 2005).
L’atteggiamento utilitaristico farebbe riferimento all’esperienza del
consumo come strumento per ottenere i beni di cui si ha necessità: è lo
“shopping to get something” (Holbrook e Hirschman, 1982; Hu e Jasper ).
L’atteggiamento edonistico, che sospinge verso lo “shopping because you
love it” (Babin et al, 1994), sarebbe invece fondato, in questa prospettiva,
sull’esperienza del consumo come pratica che procura piacere in sé.
Al di là delle scarse potenzialità euristiche di questi concetti, che lasciano
trasparire l’adozione di un tipico approccio comportamentista di matrice
rational choice, bisogna riconoscere che i risultati di queste ricerche
assumono una certa utilità conoscitiva, alla luce di quanto si osservava
nelle pagine precedenti. Si è infatti notato come il ruolo del
comportamento edonistico stia crescendo in maniera molto vistosa
sopratutto tra i frequentatori dei centri commerciali, i quali sembrerebbero
andare in cerca del piacere offerto dalle varie forme di intrattenimento a
portata di mano negli shopping malls, piuttosto che di oggetti da
acquistare.
Un’ulteriore conferma dell’attendibilità di questa ricostruzione proviene
dalle indagini che hanno sondato la dimensione temporale del consumo
nei centri commerciali, ed in primo luogo la frequenza e la durata delle
visite. Su questo tema disponiamo fortunatamente di dati che riguardano
anche il nostro Paese, oltre che gli altri Stati membri dell’Unione Europea.
In Europa la frequenza delle visite ai centri commerciali è molto
pronunciata. La media si aggira intorno alle diciassette volte all’anno
(approssimativamente ogni 3 settimane). Le differenze tra i vari Paesi
sono in questo caso notevoli. Mentre gli svedesi sono degli assidui
frequentatori dei centri (quasi trenta volte all’anno), le visite dei belgi 11 ,
degli ungheresi e dei polacchi sono appena dieci. Gli italiani, i francesi e
gli inglesi, da parte loro, superano di molto la media europea. Da notare
che è proprio in questi Paesi che si sta sviluppando, a ritmi più intensi che
altrove, la formula dello shopping ed intertainment centre.
11
Da notare che il Belgio possiede una forte tradizione di shopping centre “street oriented” e di
supermercati isolati, come si osserva nel report dell’Unione Europea (Court e Myers, 2002).
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Grafico 6
Frequenza media annua delle visite a shopping centres
Europa - 2002
Fonte: Cushman & Wakefield Healey & Baker
30
25
20
15
10
5
Ungheria
Polonia
Italia
Spagna
Belgio
Rep. Ceca
Olanda
Portogallo
Germania
Europa
Spagna
Italia
Gran
Bretagna
Francia
Svezia
0
Grafico 7
Durata media (in minuti) delle visite agli shopping centres
Europa 2002
Fonte: Cushman & Wakefield Healey & Baker
120
100
80
60
40
20
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Svezia
Francia
Germania
Gran
Bretagna
Europa
Polonia
Ungheria
Rep. Ceca
Portogallo
Olanda
Belgio
0
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Di un certo interesse appaiono anche i dati relativi alla durata delle
visite 12 , dai quali emerge che i frequentatori dei centri commerciali europei
trascorrono in media un’ora e mezzo all’interno delle aree commerciali.
Gli italiani sono tra coloro che vi trascorrono meno tempo, accanto agli
spagnoli, mentre gli olandesi e i belgi superano ampiamente la media.
Se si considera che il tempo passato nel centro commerciale è un
importante indicatore della prevalenza degli atteggiamenti edonistici o
utilitaristici, si dovrebbe concludere che tra i belgi e gli olandesi tende a
prevalere un atteggiamento di tipo edonistico piuttosto che utilitaristico. In
Italia e Spagna, al contrario, sembrerebbe prevalere un comportamento di
acquisto più strumentale. Quest’ultimo dato non è del tutto conforme a
quanto emerge da altre indagini (Censis, 2004) che suggeriscono invece
una tendenza molto marcata all’entertainment shopping anche per l’Italia.
Da un’indagine svolta nel 2003, ad esempio, emerge che solo il 36% dei
frequentatori dei centri commerciali manifesta un atteggiamento utilitarista
(e cioè si limita ad andare al centro commerciale per l’acquisto di qualche
bene senza dedicarsi ad attività collaterali), mentre il 55% usa il centro
commerciale come luogo per le attività di “tempo libero”, oltre che per gli
acquisti. Ma il dato più significativo è che il 20% non acquista nulla e si
reca al centro commerciale solo per l’intrattenimento. La percentuale sale
significativamente se osserviamo le fasce giovanili, ed in particolare la
fascia d’età 15-24 (30%).
Uno scenario questo, confermato anche da una ricerca sul modo di
trascorrere la domenica da parte degli italiani (Censis, 2004), dalla quale
emerge che il 39% degli intervistati percepisce il centro commerciale
come luogo attraente per le relazioni sociali e per trascorrervi il tempo
durante il week-end. Di nuovo, la percentuale sale notevolmente se si
osservano i giovani di 16-17 anni (64,3%) e coloro che hanno tra i 18 e i
29 anni (53%). I giovani dunque, ed in particolare gli adolescenti, non solo
sono degli assidui frequentatori di shopping centres, ma sembrano anche
essere particolarmente attratti dalle potenzialità sociali e di intrattenimento
che vengono attribuite agli insediamenti commerciali.
12
La durata è qui considerata escludendo il tempo del viaggio.
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6. La seduzione disincantata degli adolescenti
Lo stato della ricerca.
L’attrazione che i giovani avvertono verso i centri commerciali è un
fenomeno ormai molto diffuso sia nel nostro Paese che a livello
internazionale, anche se non è ancora molto studiato. Eppure riveste un
grande rilevanza sociologica, non solo perché è un indizio molto rilevante
delle trasformazioni in atto nel mondo giovanile, ma anche perché
rappresenta una manifestazione eloquente di come funzioni il dispositivo
della seduzione dell’intrattenimento nel nuovo modello di spazio
commerciale.
Le scarse indagini condotte su questo tema sono segnate quasi
esclusivamente, come accade per altri temi inerenti la distribuzione
commerciale, da finalità conoscitive legate al marketing 13 , ma si rivelano
comunque utili per alcune indicazioni sulle tendenze in atto. Da alcuni
studi recenti che considerano i giovani consumatori e la loro percezione
degli shopping centers (Parker, S. R. et al., 2001; Taylor e Cosenza,
2002; Mitchell, 2002) emerge con chiarezza che i teen-agers sono attratti
da questi luoghi perché sembrano offrire loro “un’esperienza eccitante” e
molte chances di “socialità”. Come si può leggere in un fascicolo del
Catalog Age di qualche anno fa (1999), i giovani, “amano fare shopping”,
che considerano come “an experience rather than a errand, an event
rather than a chore”. La ricerca empirica sembra confermare questa
lettura. Come mostrano Craig e Turley (2004), i giovani sembrano aver
risposto in pieno alle finalità dei patrons dei centri commerciali, attratti
come sono da quella che viene definita “la dimensione sociale del centro
commerciale” (ivi, p. 465). Lo shopping center, aggiungono altri ricercatori
(Matthews et al., 2000; Young, 1999), non è solo un luogo dove si può
fare “un’esperienza sociale” ma anche “un luogo dove rifugiarsi” e una
“pausa nella monotonia di casa e scuola” (Anthony, 1985). Inoltre, come
suggeriscono alcuni studi sulle differenze di genere negli atteggiamenti
nei confronti dello shopping nei centri commerciali, i teenagers, ed in
particolare le ragazze, sarebbero particolarmente inclini a recarsi nei
centri commerciali per una forma di “gratificazione istantanea”, che non
presuppone una progettualità di lungo periodo. La frequentazione dei
centri commerciali da parte dei teenagers, inoltre, si concentrerebbe
particolarmente intorno ai negozi piuttosto che intorno ai grandi magazzini
13
Per dare un’idea dell’atteggiamento conoscitivo delle indagini di marketing sulle pratiche di
consumo giovanili, può essere d’interesse riportare le riflessioni di Peter Zollo, presidente del
“Teenage Research Unlimited” Usa, il quale annovera le ragioni per incrementare la ricerca di
mercato in questo campo. In primo luogo, i teenagers sono importanti per il loro potere d’acquisto
in quanto consumatori autonomi: essi possono infatti essere considerati uno dei settori della
popolazione più importanti per l’entità dei consumi. Il secondo fattore di rilevanza deriva dal fatto
che spendono del denaro familiare, sopratutto nelle famiglie con doppio reddito. In terzo luogo, i
teenagers tendono a influenzare le abitudini di consumo dei loro genitori. In quarto luogo devono
essere considerati estremamente importanti come “futuri consumatori”, in quanto hanno una
capacità di spesa che si dipanerà lungo molti anni. Su questo punto, cfr. anche Craig e Turley
(2004)
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posti all’interno dei malls, poiché, si suppone, essi vanno alla ricerca di
quei marchi che nei grandi magazzini sono meno valorizzati 14 .
L’approccio adottato più comunemente per l’analisi delle pratiche di
consumo è, come si è accennato, di derivazione rational choice. Al di là
delle osservazioni critiche di carattere generale che possiamo fare a
questa modalità di studiare le pratiche del consumo, è opportuno
sottolineare che questo approccio è ancor meno adeguato
all’osservazione dei giovani di quanto non lo sia già per gli adulti, poiché
le motivazioni giovanili sono assai meno strutturate su obiettivi di tipo
economico di quanto non lo siano quelle adulte. E’ probabilmente per
questo motivo che in alcuni studi sui comportamenti di consumo dei
giovani vengono introdotti dispositivi che attenuano l’inclinazione
economicista della teoria dell’azione razionale di Becker (1965). E’ il caso,
ad esempio, delle indagini che introducono correttivi tratti dalla teoria della
socializzazione (Ward, 1974; Moschis e Smith, 1985; Graig e Turley,
2004). Questo approccio prende le mosse dall’analisi piagetiana dello
sviluppo cognitivo e cerca di spiegare gli atteggiamenti nei confronti del
consumo come disposizioni apprese nel corso della crescita intellettuale
infantile e adolescenziale. Tuttavia, quando si giunge allo studio delle
effettive motivazioni al consumo, non si riesce ad uscire dal classico
schema dell’approccio decision-making (Moschis, 1981; John, 1999). Lo
stesso accade quando si studia il comportamento giovanile di fronte ai
marchi, l’attitudine al confronto tra le qualità intrinseche dei beni o la
capacità di scelta tra diversi insediamenti commerciali.
Più interessante appare semmai la direzione di ricerca che costruisce
confronti e comparazioni tra gli atteggiamenti e le aspirazioni di fronte al
consumo di giovani appartenenti a Paesi diversi, e ipotizza l’esistenza di
modelli comuni di comportamento. I risultati di queste indagini, così come
alcune modellizzazioni proposte, possono rivelarsi di una certa utilità nel
momento in cui si voglia mettere a tema la standardizzazione degli stili di
vita giovanili e la diffusione di comportamenti di consumo, che non
sembrano trovare barriere né nelle differenze di condizione economica, né
in quelle di natura culturale. Il concetto di “global teenager”, nato ed
impiegato entro questo approccio, ha recentemente guadagnato una
certa credibilità tra gli studiosi (Meredith e Schewe, 2002; Wee, 1999).
Supporta l’idea di un teenager globale che tende a comportarsi di fronte al
consumo in modo omogeneo e ad avere attitudini e aspirazioni analoghe.
In questa prospettiva i teenagers vengono visti come una componente del
mercato mondiale che tende a comprare gli stessi prodotti: la prima
14
Per ragioni di spazio e di economia del lavoro tralascio qui di prendere in considerazione la
questione dei brands, alla quale tutta la letteratura di marketing attribuisce ovviamente un grande
valore. Si tratta, in effetti, di un aspetto di grande rilevanza non solo economica, ma anche
simbolica. Per alcune indicazioni sul rapporto tra brands e fasce giovanili, cfr. Meyer (2001),
secondo il quale, “i consumatori stabiliscono le loro preferenze in relazione ai brands tra i quindici e
i venticinque anni”. E, aggiungono significativamente Taylor e Cosenza (2002), “If marketers miss
this crucial period, it could require that they expend two to three times more marketing dollars in an
attempt to capture them as they move into their twenties and beyond” (ivi, p. 394).
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generazione che viene educata e cresciuta nel culto degli stessi simboli,
della stessa cultura e delle stesse mode: è ciò che Miller (1995) 15 chiama
“americanizzazione” dei teenagers: la standardizzazione dei consumi e
degli atteggiamenti che si esprime soprattutto in un modo di vestire (e
dunque di consumare) fatto di jeans Levi’s, t-shirts, scarpe Nike, ecc.
L’abbigliamento costituisce del resto uno dei campi più frequentati dalla
ricerca sulle pratiche di consumo delle giovani generazioni, sopratutto
femminili (Taylor e Cosenza, 2002).
La scarsità degli studi sugli atteggiamenti giovanili nei confronti dei centri
commerciali diventa ancora più pronunciata se dall’ambito anglosassone
passiamo al nostro Paese. Se si fa eccezione per alcuni dati - assai
scarni, per la verità – che provengono direttamente dalle catene di
distribuzione, e da rare informazioni che possiamo desumere dai risultati
di ricerche focalizzate su questioni più generali, come le già citate indagini
di Censis e dell’Unione Europea, non mi consta che in Italia siano stati
condotti studi su questo argomento. Per questo motivo, quanto emerge da
un’indagine che ho condotto recentemente su comportamenti e
motivazioni degli adolescenti che frequentano gli shopping malls può
rivestire un certo interesse. Benché le ridotte dimensioni del campione
non permettano di fare generalizzazioni di alcun tipo, il metodo adottato e
il tipo di informazioni raccolte possono quantomeno rivelarsi utili per
l’avvio di una vera e propria direzione di ricerca su questo tema16 .
L’immagine del centro commerciale.
La letteratura internazionale è unanime nel ritenere che il modo in cui si
percepisce il centro commerciale sia un fattore di primo piano nel
15
Miller (1995) ha condotto un’indagine secondo la quale l’87 per cento dei teenagers latinoamericani, l’80 per cento di quelli europei, l’80 per cento dei Paesi orientali definisce gli Usa come il
Paese con la maggior influenza nella moda e nella cultura del loro Paese.
16
L’indagine è stata condotta su un piccolo gruppo di adolescenti di un liceo scientifico di Prato
che frequentano solitamente il vicino Centro Commerciale “I Gigli”. Ad essi è stata proposta una
traccia di intervista molto articolata. Per far luce sui motivi dell’attrazione degli shopping and
entertainment centres si è focalizzato lo sguardo sia sull’immagine che gli intervistati possiedono
dei centri commerciali che sugli scopi delle loro visite, cercando al contempo di ricostruire l’effettivo
comportamento all’interno dei complessi commerciali. Particolare attenzione è stata rivolta alle
modalità con le quali ci si reca al centro commerciale, oltre che alla dimensione temporale delle
visite. La rilevazione di quest’ultimo aspetto è stata particolarmente utile per mettere a fuoco due
aspetti di grande rilievo: da un lato, l’effettiva e concreta importanza che il centro commerciale
riveste nella vita quotidiana degli intervistati e, dall’altro lato, la relazione tra il tempo dedicato agli
acquisti e il tempo dedicato alle pratiche di intrattenimento. La rilevazione di motivazioni e
comportamenti è stata affiancata dalla ricostruzione delle attitudini verso pratiche culturali e del
“tempo libero” - come i gusti in tema di letteratura, musica, e cinema, la frequentazione di concerti,
teatri e musei. Si è ritenuto indispensabile, inoltre, corredare il quadro con informazioni relative alla
famiglia di provenienza: titolo di studio e condizione professionale dei nonni16 e dei genitori,
equipaggiamento tecnologico posseduto in famiglia e/o dal singolo intervistato, viaggi compiuti con
la famiglia, attività culturali proposte dai genitori, ecc. In tal modo si è cercato di costruire un
quadro quanto più esauriente possibile della condizione sociale e dello stile di vita della famiglia di
appartenenza, nella convinzione, tutta da verificare, che questi fattori possano in qualche modo
esercitare un’influenza importante sugli atteggiamenti adolescenziali nei confronti dei centri
commerciali.
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determinare il comportamento e le motivazioni dei suoi frequentatori. In
altre parole, l’immagine dello shopping center è strettamente legata alle
pratiche si mettono in atto nei suoi confronti. Ma quali sono gli elementi
dell’immagine? Per molti ricercatori i fattori più importanti sono sia di tipo
funzionale che edonistico. Tra i primi vengono annoverati tutti quegli
aspetti che contribuiscono a far sì che un centro commerciale sia o meno
preferito ad altri (facile raggiungibilità, prezzi, ampiezza della gamma di
prodotti, ecc.). Tra i secondi vengono individuati fattori di natura “estetica”
relativi agli ambienti e agli spazi, nonché la presenza di opportunità di
entertainment, genericamente inteso. L’immagine del centro commerciale
è dunque costituita da una molteplicità di elementi, alcuni dei quali
acquistano una rilevanza maggiore rispetto ad altri a seconda della
situazione oggettiva e soggettiva dei suoi frequentatori. Ciò che è
comunque indiscutibile è che ogni centro commerciale possiede
un’immagine con la quale l’utenza misura i propri atteggiamenti.
Potremmo dire che l’immagine dello shopping center funziona come una
sorta di dispositivo identitario che elabora un appeal discorsivo nei
confronti dell’utenza potenziale nel momento stesso in cui attiva
motivazioni, atteggiamenti e comportamenti dell’utenza reale.
Non è facile, ovviamente, rilevare quale sia l’immagine di un centro
commerciale collettivamente condivisa, per la molteplicità e l’eterogeneità
delle sue componenti. Sono stati condotti a questo riguardo studi ad hoc
che hanno come unica finalità proprio la rilevazione dell’immagine dello
shopping center tra i suoi frequentatori. Ma non è questo lo scopo
principale della nostra indagine, che è invece diretta a rilevare motivazioni
e comportamenti specifici di un gruppo di adolescenti. Per questo ci si è
limitati a toccare solo di sfuggita il tema dell’immagine, e lo si è fatto
indagando sul modo in cui vengono percepiti dai singoli intervistati i
comportamenti collettivi nei confronti dei centri commerciali, con la
convinzione che dalle risposte a domande di questo tipo potessero
emergere, come infatti è avvenuto, alcune immagini che, seppur
frammentarie, potessero rivelarsi utili a ricomporre il puzzle delle
percezioni individuali.
Come viene dunque interpretata dai nostri adolescenti la frequentazione
di massa dei centri commerciali? 17 E come viene descritta l’esperienza
degli amici? Dalle risposte emerge un quadro molto omogeneo, senza
sostanziali differenze legate a variabili di fondo, come il genere o la
condizione sociale della famiglia.
17
La formulazione della domanda è la seguente: “Secondo te, perché i centri commerciali attirano
così tante persone?”
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Per tutti il centro commerciale è un luogo attraente e accogliente, che
attira per la varietà e la concentrazione delle offerte, come ci spiega F2 18 .:
C’è tutto quanto in uno stesso edificio, diciamo...quindi se uno ha bisogno di una cosa va
in un negozio, se ha bisogno di un’altra va in un altro, è tutto dentro, diciamo, non hai
bisogno di spostarti.
Inevitabilmente viene alla luce il confronto con il centro storico, con le sue
funzioni e le sue chances. C’è chi paragona il centro commerciale ai centri
storici, come M4, a motivo della eterogeneità delle chances che offre, e
chi, invece, ad essi lo contrappone, per il motivo opposto, come F7:
E’ tipo un centro storico: ci sono posti dove mangiare, dove comprare (M4)
Senza stare a girare troppi posti trovi tutto. Cioè dai vestiti al supermercato, o al
negozio...poi molte volte nei centri commerciali si trovano altre cose...negozi un po’
particolari che andando in centro non trovi (F7).
L’immagine del centro commerciale che emerge dalle interviste è
dominata da una certa eterogeneità dei fattori di attrazione, che sono
almeno di tre tipi, compresenti e strettamente connessi tra loro:
concentrazione spaziale delle offerte, ampiezza e varietà delle opzioni e
dimensione sociale delle pratiche di frequentazione.
Il fattore al quale viene data maggiore importanza è quello di natura
squisitamente acquisitiva. E’ la caratteristica tipicamente commerciale del
centro. Si tratta evidentemente di un aspetto che il senso comune ha
ormai sedimentato come ovvietà: il centro commerciale, si dice, attrae per
il fatto di offrire la concentrazione spaziale degli oggetti e delle pratiche di
consumo, unitamente a un’ampia gamma di opzioni. Ciò facilita gli
acquisti perché abbrevia il tempo necessario per i percorsi e rende più
agile la scelta. L’ampiezza delle opzioni, inoltre, favorisce il risparmio di
denaro: un motivo, quest’ultimo, meno presente di quanto ci si potesse
aspettare, dal momento che l’immagine pubblica del centro commerciale
si gioca in gran parte sul fattore dei prezzi concorrenziali rispetto al
piccolo negozio urbano.
Alla concentrazione delle merci si accompagna spesso anche la
dimensione estetica degli spazi, come dice M9: Sono posti carini, poi c’è di
tutto. Per molti intervistati è un aspetto di rilievo, anche se non viene mai
eccessivamente enfatizzato.
Accanto alla concentrazione di merci gioca un ruolo di grande rilevanza
anche la presenza di “servizi collaterali”, che permettono di intensificare
l’uso del tempo trascorso dentro il centro per mezzo di altre pratiche: “puoi
fare tutto quello che vuoi” come dice F6:
18
Gli intervistati vengono denominati con la lettera F o M, a seconda del sesso. Il numero che
segue è l’ordine che è stato dato alle interviste.
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Attraggono così tante persone perché c’è di tutto. Cioè puoi trovare dalla candela al
mangiare, insomma tutto. Quindi sai che vai lì e non ti sposti, puoi fare tutto quello che
vuoi (F6)
I negozi sono racchiusi in poco spazio - dice F10 – sicché magari uno può andare a farsi
la spesa, può andare a farsi i capelli, può andare a comprare un paio di Jeans. E’ tutto lì
e si fa più veloce.
La dimensione sociale dello shopping center è un altro aspetto che viene
individuato come rilevante fattore di attrazione. Come in un gioco di
specchi, il fatto stesso che il centro commerciale sia una meta di massa,
costituisce di per sé, per i nostri giovani intervistati, un valido motivo di
attrazione:
E’ una cosa che tira. Tira perché comunque sono grandi, c’è tanta gente..negozi che
magari non trovi ci sono, che non trovi in giro ci sono, insomma (F6).
La dimensione della “socialità” acquista una valenza ancora più marcata
se dall’interpretazione del comportamento collettivo genericamente inteso
si passa a parlare del gruppo dei pari.
Gli intervistati raccontano di frequentazioni molto assidue, motivate, più
che da fattori di ordine meramente acquisitivo, dal semplice desiderio di
stare insieme agli amici in un luogo familiare, “protetto” e “piacevole”. Gli
amici dei nostri adolescenti vanno al centro commerciale anche solo “per
stare insieme”, “per passare un po’ di tempo”, o addirittura per
“mimetizzarsi” quando, durante le mattine piovose d’inverno, non hanno
voglia di andare a scuola 19 . Ciò non significa che la concentrazione
spaziale dei negozi e dei beni, e l’ampiezza delle opzioni scompaiano del
tutto come motivi di attrazione, ma assumono certamente una rilevanza
molto minore rispetto all’immagine che emerge dall’interpretazione delle
motivazioni del comportamento di massa.
Un’abitudine consolidata
Tra i fattori che possono far luce sul ruolo che svolge la presenza del
centro commerciale nella vita dei suoi frequentatori vi sono ovviamente le
dimensioni legate alla frequenza e alla durata delle visite. Indicatori che la
letteratura sul tema considera tra i più eloquenti per conoscere attitudini e
comportamenti dei consumatori. Lo scenario costituito dall’insieme dei
fattori di ordine cronologico, che danno corpo alla concretezza della vita
quotidiana e in ultima analisi ne determinano lo stile (Paolucci, 2005), ci
aiutano a comprendere motivazioni e attitudini nei confronti degli shopping
malls che altrimenti potrebbero rimanere nell’ombra. Anche ai nostri
adolescenti abbiamo dunque chiesto, come usa fare una consolidata
19
Questo aspetto, come vedremo, acquista una rilevanza ancora più significativa quando gli
intervistati parlano della loro personale esperienza, alla quale l’intervista ha dedicato lo spazio più
ampio.
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direzione di ricerca sul “mall shopping behavior” 20 , con quale frequenza
frequentino il centro commerciale e quanto tempo vi trascorrano.
Le informazioni raccolte su questi aspetti offrono un quadro che non lascia
alcun dubbio sulla rilevanza che questo tipo di spazi commerciali riveste
nella vita quotidiana dei nostri intervistati.
Sia che essi si rechino al centro con i genitori (pratica che per la verità ha
una certa incidenza solo per i più giovani), sia che vadano con gli amici;
sia che vengano attratti dagli acquisti o dal semplice girovagare senza
meta; sia che frequentino il centro semplicemente per stare insieme ai
coetanei mangiando qualcosa, guardando le vetrine o provando vestiti, in
ogni caso lo shopping center fa parte integrante della vita quotidiana dei
nostri adolescenti. Qualche dato può aiutare a farsi un’idea più precisa.
La frequenza delle visite oscilla tra un minimo di una visita ogni tre
settimane ad un massimo di una visita ogni settimana. I giorni preferiti
sono decisamente quelli del week-end, e sopratutto il sabato, ma si va
anche negli altri giorni della settimana, nel tempo che rimane libero dai
vincoli della scuola. La durata delle visite è sempre molto ampia,
sopratutto quando si va con gli amici. Non è raro che si resti dentro il
centro per un intero pomeriggio, anche se alcuni dichiarano di non
superare generalmente l’ora e mezzo.
Queste semplici informazioni di ordine cronologico sono già sufficienti a
far luce sulla grande rilevanza che il centro commerciale riveste nello stile
di vita. Se poi andiamo a vedere qual è l’importanza che gli stessi
intervistati dichiarano di attribuire al centro commerciale per lo stile della
loro vita, il dato appare ancora più marcato. Eccetto due persone, che
usano espressioni sfumate che denotano un certo distacco, tutti
dichiarano di considerare il centro commerciale come un luogo di rilievo
nella struttura della propria vita. Diventata “un’abitudine”, e addirittura una
fonte di ricordi, come ci dice F6 21 , lo shopping and entertainment center
fa ormai parte del tessuto esistenziale di ognuno di loro. Viene percepito,
in modo totalmente a-problematico, come un punto di riferimento ovvio e
scontato per la pratica di relazioni sociali che non riescono probabilmente
a trovare altri canali e altri luoghi che si presentino in modo altrettanto
“amichevole” e protettivo.
Benché i risultati di questa piccola indagine confermino sostanzialmente
quanto viene evidenziato dall’insieme della letteratura sull’argomento,
essi, più che offrire risposte esaustive ai quesiti che ci eravamo posti,
sembrano suggerire l’avvio di ulteriori direzioni di ricerca. Se è vero,
infatti, che i giovani intervistati non si discostano dall’immagine che dei
20
21
Per tutti, cfr. Hu e Jasper, e la bibliografia cui gli autori fanno riferimento.
La domanda posta è stata: “Ritieni che il centro commerciale rivesta importanza nel
tuo stile di vita?”. Ecco alcune risposte: “Oramai abitudinario. (...) I ricordi ci sono, perché
a questo punto frequentando spesso insomma i ricordi ci sono. Uno dice: “Guarda, qui ci
siamo fatti...cioè è sortita fuori quella battuta” (F6). “Direi di sì. Ti senti anche un po’ al
sicuro, sei lì con gli amici, insomma visiti un bel posto, sicché ti senti soddisfatto di quello
che hai fatto, ecco” (M9). “Uhm, sì. E’ una comodità” (F2).
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loro comportamenti ci propongono le indagini finora disponibili, ciò non
toglie che restino ancora in ombra le motivazioni profonde che li
sospingono verso il mondo incantato delle merci, quando in realtà
sembrano mostrare nei suoi confronti un certo disincanto.
Gusti e disgusti
L’assiduità, la costanza della frequentazione del centro commerciale,
unita all’adesione affettiva mostrata dai nostri intervistati, è
particolarmente significativa se la si accosta ad altre attività che praticano
nel “tempo libero” e alla carenza pressoché generalizzata di interessi e
conoscenze in campo culturale.
Quasi tutti lamentano la mancanza di tempo per svolgere attività libere da
vincoli, presi come sono da impegni scolastici e parascolastici, e ognuno
di loro ammette di trascorrere una grande quantità di tempo davanti alla
televisione. In alcuni casi, addirittura, la mancanza di tempo viene
lamentata proprio in rapporto al desiderio di assistere con una frequenza
maggiore ai programmi televisivi, come afferma F7:
Ce n’è poco di tempo, veramente. Quando ho un poco di tempo o mi metto a guardare la
televisione o esco per andare a fare shopping (...) Guardo parecchio la televisione, cioè,
se avessi più tempo la guarderei tantissimo.
La televisione, il più delle volte presente nella camera personale, è il leit
motiv delle giornate di ognuno degli adolescenti che abbiamo intervistato.
Guardata con i genitori o da soli, accesa anche durante lo studio
pomeridiano, è l’assidua compagna del tempo domestico. Non ci sono
particolari preferenze in ordine ai programmi, a parte una dichiarata
idiosincrasia per le trasmissioni di carattere politico. Il telegiornale, che
accompagna sovente i pasti, fa solo da sfondo alla scena familiare. Non si
leggono giornali e poco ci si interessa a quanto accade nella dimensione
politica nazionale o internazionale, e perfino nel proprio istituto scolastico,
alla cui vita collettiva si preferisce restare estranei. Interrogati su questo
argomento, infatti, quasi tutti intervistati manifestano una scarsissima
conoscenza della sfera politica, verso la quale esprimono un esplicito
disinteresse. Tutt’al più si fa appello, giusto perché sollecitati, ad una
visione frammentaria e incoerente della doxa televisiva, come accade ad
esempio nei rari casi in cui si accenna all’Iraq o al terrorismo.
Non c’è da stupirsi, perciò, se dalle numerose domande che l’intervista ha
dedicato alle pratiche culturali emerge uno scenario desolante, che non
sembra peraltro legato né a variabili di ordine socio-economico, né al
genere.
Tutti gli intervistati mostrano una scarsissima dimestichezza con ambiti
culturali come la letteratura, il teatro o il cinema di qualità. Sebbene molti
amino ascoltare musica, seguendo più o meno ciò che offre il mercato di
massa, quasi nessuno ha assistito ad un concerto, né mostra il desiderio
di andare in futuro. I musei conosciuti sono quelli visitati con la scuola e
pochi conoscono anche solo il nome dei musei della vicina Firenze. I
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pochi viaggi fatti non sembrano aver sedimentato conoscenze e interessi
che vadano al di là della semplice riproposizione di stereotipi.
Ragazzi che possiedono somme discrete per le spese personali, che
dispongono personalmente di una gamma notevole di media di tutti i tipi
(dalla televisione al computer, dal lettore di Dvd all’Mp3), non hanno
sedimentato né stanno sedimentando alcun interesse per le
manifestazioni dell’arte e della cultura. Naturalmente, per comprendere a
pieno i motivi e le dinamiche di una tale drammatica carenza sarebbe
necessario indagare sul tipo di socializzazione ricevuta e sui
condizionamenti sociali ai quali si è stati sottoposti più di quanto abbiamo
potuto fare con la nostra intervista. In altre parole, come suggerirebbe
Bourdieu (1979), sarebbe necessario indagare come ha inciso il mix di
capitale culturale assicurato dalla famiglia e di trasmissione culturale
assicurata dalla famiglia che è di fondamentale importanza per
determinare gusti e preferenze culturali.
Un’esperienza sociale e un rifugio.
I racconti che gli intervistati fanno della loro esperienza personale nei
centri commerciali evidenziano molto esplicitamente questo scenario. Le
motivazioni di ordine ludico e “sociale” prevalgono di gran lunga sui fattori
direttamente connessi agli acquisti. Solo quando si recano allo shopping
center con gli adulti, generalmente i genitori, le finalità ludiche vanno in
secondo piano e prevale lo scopo dell’acquisto. Ma con gli amici e i con i
compagni di scuola, la connotazione commerciale del Centro perde la sua
rilevanza per dare spazio alla dimensione squisitamente “sociale”: una
sorta di area di accoglienza per la libera espressione dei bisogni di
socialità. Accogliente e rassicurante “come la casa” - “Proprio mi piace
come ambiente, mi trovo bene, è proprio il mio ambiente dove mi garba
guardare un po’ tutto, provare. (...) Sembra quasi che sia a casa mia.
Provo un senso di benessere, cioè sto bene, proprio...” (M5) – lo
shopping center catalizza le aspirazioni collettive alla libertà dai vincoli di
tempo e spazio imposti dalla vita quotidiana:
Quando per esempio dobbiamo uscire prima perché ci manca qualche professore di
solito tutti propongono di andare ai Gigli. Quindi di solito si prende l’autobus e si va ai
Gigli, anche per non fare niente. Magari si fa un giro, si mangia e poi si torna a casa.
Anche solo per stare insieme (F3).
E’ anche un luogo di ritrovo abbastanza.... Se posso andare lì anche per comprare
qualcosa, ma più
che altro lo scopo principale è stare insieme agli amici, divertirsi...così...è questo più che
altro la cosa principale (M5).
Siamo evidentemente di fronte, qui, a quel tipo di motivazioni “sociali” che
la letteratura ha enfatizzato in maniera particolare (Craig e Turley, 2004;
Matthews et al., 2000; Young, 1999). Si tratta di fattori attrattivi legati ad
una particolare socialità che si pratica dentro il centro commerciale, sia
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con il proprio gruppo di amici che con i coetanei che si possono anche
incontrare casualmente:
“Dici: uno ha bisogno di una cosa, dici: eh allora andiamo tutti ai Gigli, si fa due risate, c’è
tanta gente, capito. Sono posti dove c’è anche possibilità di fare conoscenze...tanti
negozi, giochini, perché ci sono anche i giochini. Se c’è un gruppo di ragazzi accanto che
stanno mangiando accanto a noi, magari capita la battuta, e quindi s’inizia a fare amicizia
(F6).
“Magari c’è comunque qualcuno che conosci. Comunque ci sono amici che incontri,
saluti, fai due chiacchiere, poi c’è il gelataio, prendi un panino, insomma è comodo.
Perché ti muovi poco e puoi fare tante cose. ...Quando dici: “Vado a mangiare fuori alle
due con gli amici di scuola” di solito spuntano fuori i Gigli” (M8).
“Quando sono con loro [gli amici] mi capita di guardare di meno, siamo più lì che si
scherza, poi quando siamo in tanti insomma c’è più confusione”(F7).
“Quando fai forca vai ai Gigli” (M8).
“Ci si può ritrovare con gli amici, si può andare con loro, insieme al giro, insomma si può
trascorrere una giornata divertente e piacevole (M9).
“Di solito guardiamo i negozi e basta. Anche se non d’abbigliamento. L’ultima volta
abbiamo visto dei negozi di bambini piccoli, ma perché...insomma, così, tanto per
passare del tempo, niente di particolare” (F3).
Sebbene tra gli adolescenti intervistati vi sia una piccola minoranza che
dichiara di avere un atteggiamento più strumentale e di essere quindi
mosso da motivazioni legate quasi esclusivamente all’acquisto di oggetti,
come F10 22 , la grandissima maggioranza racconta di comportamenti
molto centrati sull’esperienza collettiva di un ambiente del quale si
percepiscono potenzialità connesse con l’uso del tempo libero più che con
l’acquisizione di beni e oggetti.
L’aspetto della socialità come fattore di attrazione sembrerebbe essere
addirittura sussumere entro il proprio orizzonte anche le pratiche di
acquisto, e quelle pratiche che all’acquisto sono connesse, come il
guardare le vetrine, il provare, il cercare. ecc. I comportamenti che si
inscrivono nell’ordine dello scambio economico vengono dunque
richiamati all’interno della categoria delle pratiche di socialità: è lo stare
insieme agli amici che muove il comprare – o il vedere e il provare per poi,
semmai, comprare, come racconta F6, di sedici anni:
“Si può andare a vedere i CD che sono appena usciti, possiamo ascoltarli, quindi farci
un’idea...Andiamo a sentire i profumi dalla Sephora, tutti insieme, e sicché si comincia il
gioco degli odori: “Ehi, senti buono questo, eh no senti quest’altro è più buono. Tante
cose, capito...Magari non si sa cosa fare e dici: Mah, andiamo a fare un iro ai Gigli,
guardiamo se c’è qualcosa di bello”. Insomma, anche così, senza dover comprare
22
“Ai Gigli ci vado più per comprare [rispetto al centro della città di Prato]. Se sono intenzionata
proprio a comprare, allora vado ai Gigli, magari c’è una scelta più vasta e insomma trovo tutto. ..I
miei amici ci vanno quando fanno forca” (F10). Secondo F2, di 13 anni, la quale frequenta i centri
commerciali solo per “fare la spesa, per comprare degli oggetti”, il centro commerciale non è un
luogo dove si possono incontrare amici; “più al di fuori”, dichiara (F2).
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obbligatoriamente niente, cioè..si va lì, si fa un giro, si guarda un po’ cosa
c’è...dall’orecchino all’orologio...Quando stai lì ti passa il tempo, perché comunque fai
tante cose, perché comunque “guarda bellini quelli, guarda bellino quell’altro” e il tempo
passa e non te ne accorgi” (F6).
“Con le mie amiche di solito proviamo tutto quello che è possibile provare. Passiamo
così il tempo (F3).
“Andiamo a fare merenda, andiamo in qualche negozio, a qualche fastfood. E poi, vabbè,
si va un po’ ai negozi di giocattoli per fare un po’ gli stupidi, così...per fare un po’ i versi,
ma tutta roba nostra perché ci s’ha un vizio di andare a questo negozio, una volta ci
buttarono anche fuori. Poi ci si mise a cantare al cantatu, insomma, un macello (M5).
Ci si diverte a “provare” ogni genere di cosa insieme agli amici. Si gira di
negozio in negozio, a guardare vetrine e cercare novità. Ma il più delle
volte non si compra. Semmai si memorizzano le informazioni ottenute per
eventuali altre visite.
E’ all’interno di questo tipo di pratiche che si situano le tipiche attività che
la letteratura internazionale designa con la nozione di entertainment,
come racconta F2:
“Entro, guardo i vestiti, inizio ad andare al primo stand dove sono i vestiti, inizio a
guardare, poi provo un pantalone, caso mai trovo la mia taglia e me lo vado a provare, e
vedo come mi sta, poi provo una maglietta e provo tutte e due insieme, per esempio. E
dopo continuo a guardare tutto, tutti i vestiti, mi piacciono anche sopra i manichini, per
vedere come stanno, farmi consigliare, per esempio, mi piace proprio, diciamo che è una
cosa anche solo per passare il tempo. ... C’è anche un apparecchio che tu gli passi sotto
il CD e ti fa ascoltare quello che vuoi...Poi ci sono per esempio le PlayStation, i Gameboy
e uno passa il tempo a giocare diciamo”.
Tra le pratiche “collaterali” più diffuse tra gli intervistati - accanto alla
frequentazione del cinema multiplex annesso al centro commerciale 23 , di
cui vengono venduti biglietti scontati al McDonald’s situato nel complesso
- il “mangiare” occupa un posto decisamente privilegiato. Si può andare al
centro commerciale con lo scopo di mangiare qualcosa, oppure si
speluzzica qua è là nei diversi fast-food che costellano il complesso. Sia
che si tratti di un semplice spuntino, di un gelato o di una bibita, o di un
vero e proprio lunch, il cibo costituisce nella maggioranza dei casi
un’attività che molto spesso gioca la funzione di traino delle altre pratiche.
23
Può essere interessante notare, a questo punto, che le risposte ad una delle domande iniziali
dell’intervista relativa alla conoscenza e al piacere del cinema hanno evidenziato, oltre ad uno
scarso interesse per il cinema come arte, anche un livello molto basso di conoscenza della
produzione cinematografica contemporanea, se si fa eccezione per il cinema “di cassetta”. A
questo riguardo appare significativo che, tra i generi preferiti da molti degli intervistati, compaia il
cinema horror: quasi un modo per vaccinarsi dalle paure e dalle insicurezze della società
contemporanea delle quali non si controllano, neanche a livello cognitivo, né le cause né gli
sviluppi.
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7. Coltivare l’insoddisfazione
Nella vita quotidiana dei nostri giovani studenti il centro commerciale
sembra essere diventato un punto di riferimento ineludibile, non solo per il
tempo che essi vi trascorrono, che è davvero molto, ma anche per i
significati simbolici che esso riveste.
Luogo magico di attrazioni ludiche, spazio incantato e apparentemente
separato dalle routines quotidiane, lo shopping center sembra condensare
in un unico spazio tutto ciò che potevano offrire ad altre generazioni la
piazza e la strada, il garage o il bar di quartiere o il pub. I racconti dei
nostri giovani studenti disegnano uno scenario che, nella sua linearità,
invoca letture tutt’altro che semplici. Che i luoghi della grande
distribuzione siano diventati gli spazi preferiti per la condivisione delle
esperienze tra pari può essere probabilmente addebitato anche alla
crescente carenza di opportunità che caratterizza le nostre città, ma
questo non è tuttavia sufficiente a spiegare un tale attaccamento al
mondo incantato e luminescente delle nuove cattedrali del consumo. Altre
e più complesse motivazioni vanno probabilmente cercate in direzioni
diverse: nei dispositivi simbolici che la società post-industriale attiva nei
desideri e negli appagamenti individuali, che diventano particolarmente
cogenti nelle giovani generazioni, inclini ad habitus sedimentati fin
dall’infanzia. Se il bisogno di libertà e di gioco dei giovanissimi si identifica
in modo così a-problematico con i desideri mobilitati dalla razionalità del
mercato, e se si affida in maniera così automatica ai luoghi in cui
l’accattivante simbologia della merce si offre in tutta la sua magnificenza,
è forse perché il bisogno di desiderare, dispositivo fondamentale per la
riproduzione della società tardo-capitalistica (Heller-Fehér, 1988), può
dispiegarsi in tutta la sua contraddittoria dinamica solo e unicamente negli
spazi patinati del consumo di massa. Scelto come spazio per la
costruzione di identità individuale e collettiva, il centro commerciale
sembra divenire così, per i nostri adolescenti, il luogo privilegiato per
esperire le forme contemporanee relative alla creazione, percezione e
distribuzione di quei desideri che rinforzano l’insoddisfazione, dispositivo
di fondo della “società insoddisfatta” 24 .
Non è un caso che i ragazzi che abbiamo intervistato, pratichino dentro il
centro commerciale un agire prevalentemente ludico, a scapito di un
comportamento acquisitivo. E che, anche quando si avvicinano alle merci
con finalità acquisitive, essi mettano in atto pratiche più vicine al gioco
della scelta (il “provare” gli abiti, senza poi comprarli; il “sentire” la musica,
senza nessun acquisto di dischi, ecc.) che all’atto dell’acquisto vero e
24
Sembra assai pertinente, a questo proposito, la riflessione sui meccanismi della “società
insoddisfatta” che Agnes Heller e Ferenc Fehér conducono in uno studio della fine degli anni
Ottanta: “Nella riproduzione della società moderna, l’insoddisfazione collettiva agisce come forte
agente motivazionale. Ne consegue che se le persone cessassero di ritenersi insoddisfatte di ciò
che hanno – ricchezze materiali, posizione sociale, relazioni sociali, conoscenze e attività da un
lato, istituzioni, ordinamenti socio-politici e stato del mondo dall’altro – la società moderna non
potrebbe più riprodursi” (1988, tr. it. p. 21).
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proprio. Mimando l’acquisto, come in un movimento di danza, attivano tutti
i loro sensi per una sorta di conquista simbolica degli oggetti, ma poi se
ne allontanano, come se ciò fosse sufficiente per una vera e propria
appropriazione. Si potrebbe pensare che pratiche di questo genere
rispondano più al bisogno di padroneggiare desideri profondi, e
inappagabili per mezzo della semplice acquisizione delle merci, che non
al desiderio letterale di possesso. Come nel gioco del rocchetto del
piccolo Hans, questi adolescenti cercano probabilmente di padroneggiare
una carenza che temono e che non sanno come colmare altrimenti.
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