I Democratici dopo novembre

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I Democratici dopo novembre
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MIKE DAVIS*
I Democratici dopo novembre
(gennaio-febbraio 2007)
Le elezione di medio termine del novembre 2006 sono state un
epico massacro politico o soltanto una normale baldoria, appunto, da medio termine? Una settimana dopo la vittoria democratica, gli spindoctor del partito hanno espresso opinioni
tanto contrastanti quanto quelle dei protagonisti di Rashomon,
il famoso film di Akira Kurosawa che mette in scena una descrizione esasperatamente relativistica di uno stupro e di un delitto. Sul fronte liberal, Bob Herbert, nella sua rubrica sul
* Mike Davis (California, 1946), teorico dello sviluppo urbano e sociogeografo. È docente presso il dipartimento di Storia della University of
California, collabora con la «New Left Review» e la «Socialist Review».
Pubblicazioni: Buda’s Wagon, Verso, Londra 2007, tr. it. Breve storia
dell’autobomba, Feltrinelli, Milano 2007; Planet of Slums, Verso, Londra 2006, tr. it. Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006; Cronache dall’impero, Manifestolibri, Roma 2004; Dead Cities and Other Tales, New Press, New York 2003, tr. it. Città morte, Feltrinelli, Milano
2004; Late Victorian Holocausts, Verso, Londra 2001, tr. it. Olocausti
tardovittoriani, Feltrinelli, Milano 2002; The Flames of New York, in
«NLR», n. 12, 2001; Magical Urbanism. Latinos Reinvent the US City,
Verso, Londra 2000, tr. it. I Latinos alla conquista degli Usa, Feltrinelli, Milano 2001; The Ecology of Fear. Los Angeles and the Imagination
of Disaster, Metropolitan Books, New York 1998, tr. it. Geografie della paura, Feltrinelli, Milano 1999; City of Quartz, Verso, Londra 1990,
tr. it. La città di quarzo, Manifestolibri, Roma 1993.
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«New York Times», si è rallegrato del fatto che alla fine l’«ansiogena anomalia» dell’«era George W. Bush» abbia «esalato
l’ultimo respiro», mentre Paul Waldman (sul «Baltimore Sun»)
ha annunciato «un grosso passo avanti della nazione nella marcia a sinistra» e George Lakoff (su CommonDreams.org) ha festeggiato la vittoria dei «valori progressisti» e di «una fattiva e
accurata costruzione, fondata sui valori» (qualunque cosa questa frase significhi).1 Sul fronte conservatore, Lawrence Kudlow della «National Review» si è rifiutato di ammettere persino le evidenti tracce di sangue sui gradini del Congresso:
«Guardate alle vittorie dei Democratici Blue Dogs, iperconservatori, e guardate alle sconfitte dei Repubblicani nel Nord Est,
autentici liberali. Il passaggio di testimone alla Camera è una
vittoria conservatrice, non liberale». William Safire, benché disgustato dal fatto che la «sinistra perdente» abbia alla fine vinto un’elezione, ha liquidato il risultato come una «media sconfitta di medio termine».2
I. La vittoria e le sue pene
Ma Safire minimizza troppo. La vittoria democratica del 2006,
benché non sia stata proprio il diluvio che i Repubblicani guidati
da Newt Gingrich, Dick Armey e Tom DeLay scatenarono nel
1994 (vedi tabella 1), è stata tutt’altro che un «medio» risultato.
Nonostante l’economia (tema classico dell’opposizione nelle
consultazioni di medio termine) abbia rivestito un’importanza
relativamente modesta nel corso della campagna elettorale, i Democratici sono riusciti a ribaltare la maggioranza alla Camera
(dove i Repubblicani hanno conseguito il peggior risultato dal
1974) e a vincere di un seggio al Senato. Anzi, per la prima volta è
entrato al Senato un socialista «dichiarato»: Bernie Sanders del
Vermont, un indipendente imparentatosi con i Democratici.
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Inoltre, per la prima volta alla Camera tutti i Democratici
uscenti sono stati riconfermati. Gli elettori indipendenti (che
rappresentano il 26% dell’elettorato) hanno tendenzialmente
votato democratico, con un rapporto di quasi uno a uno: «la
percentuale di consenso più alta mai registrata fra gli indipendenti dai primi sondaggi del 1976».3 Potendo contare sulla più
forte leadership femminile della storia americana, nella corsa
alla Camera i Democratici convincono il 55% delle donne
(mentre i Repubblicani si fermano al 45%). Ma, cosa ancor più
sorprendente, riescono a ridurre la nota predominanza repubblicana fra gli uomini bianchi al 53% (era del 63% nelle elezioni per la Camera del 1994).4 Secondo il veterano esperto di sondaggi Stanley Greenberg, un elettore su cinque fra coloro che
in precedenza avevano votato per Bush ha scelto i blu. Ma nessun dato è altrettanto eclatante quanto quello che si registra
nella fascia degli «uomini privilegiati» (laureati e benestanti),
fra i quali in precedenza i Repubblicani godevano di un margine di vantaggio del 14%, ribaltatosi nel 2004 in una pur lieve
maggioranza democratica. Non solo. Anche se lo zoccolo duro
repubblicano (cristiani evangelici, bianchi delle regioni rurali e
delle periferie ricche) si assottiglia di poco, il partito della
“maggioranza morale” perde il 6% dei voti fra i cattolici praticanti. Mentre i latinoamericani arrabbiati, sfuggendo all’abbraccio dei vigilantes e dei muri di confine graditi alla base del
partito di Bush, hanno ucciso i Repubblicani in molte circoscrizioni dell’Ovest, altrimenti sicure.5
Nelle consultazioni locali i Democratici hanno dato prova
di una forza motrice anche maggiore. Alla vigilia delle elezioni
i Repubblicani vantavano il maggior numero dei governatori
(28 contro 22) e una lieve predominanza nelle assemblee legislative statali (49 contro 47, e 2 alla pari).6 Rispetto alla schiacciante predominanza locale dei Democratici prima del 1994
(quando i Repubblicani controllavano soltanto 8 Stati), tale se117
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miparità poteva apparire come «uno dei più significativi e duraturi risultati della rivoluzione repubblicana», come ebbe a dire John Hood, presidente di un think-tank conservatore della
Carolina del Nord. Ma si tratta di un’eredità andata ormai persa, visto che i Democratici hanno ribaltato i rapporti di forza
per quel che riguarda i governatori (dei 10 Stati più densamente popolati soltanto 3 rimangono ai Repubblicani) e hanno conquistato altre 8 assemblee legislative statali (il rapporto ora è di
56 a 41 a favore dei Democratici, mentre in una sola assemblea
le forze sono pari). Quel che è peggio per i Repubblicani, osserva Hood, è che il partito che detiene la maggioranza nelle legislature statali controllerà la redistribuzione dei distretti congressuali sull’onda del sempre più prossimo censimento del
2010. «Se i Democratici conserveranno l’attuale vantaggio, la
Camera degli Stati Uniti diventerà un po’ più blu».7
Sul piano regionale i candidati repubblicani sono stati decimati nelle loro roccaforti: il New England (fra cui il New Hampshire, notoriamente conservatore, dove per la prima volta dalla Guerra Civile i Democratici hanno conquistato la maggioranTABELLA 1: 1994 versus 2006
Vittorie repubblicane Vittorie democratiche
1994
2006
Camera
54
31
Senato
8
6
Governatorati
10
6
Parlamenti statali
20
4
Rappresentanti dello Stato
472
320
Fonti: Tim Storey e Nicole Moore, Democrats Deliver a Power Punch, e John Hood, GOP Car
Wreck.
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za) e gli Stati del Mid-Atlantic (New Jersey, Delaware, Maryland, New York, e Pennsylvania). Al punto che un illustre conservatore si è lamentato che «i Repubblicani rischiano di perdere per sempre il Nordest».8 Inoltre, i Democratici hanno
conquistato voti nel Midwest (Illinois, Indiana, Iowa, Michigan, Minnesota, Missouri, Ohio, Wisconsin) e negli Stati interni dell’Ovest (a tendenza repubblicana), e in particolare nel
Colorado, dove i quattrini dell’hi-tech hanno fatto crescere il
voto latinoamericano.9 Anche nel Sud, i Democratici sono riusciti a frenare il declino delle elezioni presidenziali e a riconquistare 19 seggi. (A dispetto del mito di un Sud saldamente repubblicano, i Democratici conservano una maggioranza del
54% nelle Camere della Dixie’s Land). 10
In Kansas, stato icona della falsa coscienza di voto di cui ha
parlato Tom Frank,11 la democratica Nancy Boyda ha sconfitto
l’uscente Jim Ryun (ex star olimpica nei 1.500 metri) in un distretto congressuale in cui, due anni prima, Bush aveva vinto
con un margine del 20%. Facile la rielezione per la popolare
governatrice democratica Kathleen Sebelius. Le altre grandi
cariche statali (quella di assistente e di procuratore federale)
sono andate agli ex Repubblicani che hanno corso con i Democratici: uno sbalorditivo rovesciamento del trend dell’alternanza politica. Il principale conservatore culturale dello Stato, il
procuratore federale Phil Kline, fanatico antiabortista, è stato
polverizzato ottenendo appena un terzo dei voti nelle periferie
tradizionalmente repubblicane del Kansas (Johnson County).12
E dire che nell’autunno del 2006 le cose non andavano particolarmente «male» per il Kansas.
Tali risultati confutano la leggenda dell’invincibilità che circondava la strategia di Karl Rove retta su un’intensa mobilitazione della base (galvanizzata dagli isterici appelli alla difesa dei
valori cristiani in pericolo) e su una massiccia pubblicità negativa (perpetuando in genere qualche bugia o calunnia all’indi119
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rizzo dell’opposizione). Secondo Stanley Greenberg, «l’immagine del partito repubblicano ha finito con l’essere la più negativa di cui si abbia memoria, peggiore addirittura di quella dei
tempi del Watergate». Ma il sondaggista democratico (scrivendo in collaborazione con Robert Borosage e James Carville) si
dice convinto che le sconfitte repubblicane non siano necessariamente vittorie democratiche. «In queste elezioni, anche il
partito democratico è stato visto molto più negativamente di
quanto non fosse nel 2004… I Democratici vincono di poco. E,
nei sondaggi, appena il 50% degli intervistati risponde che li
giudica “dalla propria parte”, “orientati al futuro”, sostenitori
di una politica “in favore della famiglia”.»13
Thomas Edsall concorda che «i trionfi democratici sono fragili» e avverte che essi «sono dovuti più alla diffusa insoddisfazione verso la guerra in Iraq che non a un sostanziale mutamento di orientamento partitico o ideologico, come si era registrato
con lo sfondamento repubblicano nel 1980 e nel 1994».14 I sondaggi sugli orientamenti della popolazione verso i partiti danno
risultati che si avvicinano alla parità (il 38% degli intervistati
preferisce i Democratici, il 37% i Repubblicani), più di quanto
sia mai avvenuto in qualsiasi altra epoca dalla fine del XIX secolo. E la conquista della maggioranza alla Camera dipende
TABELLA 2: Percentuale del voto popolare nelle elezioni della Camera
Repubblicani
Democratici
2000
48
48
2002
51
46
2004
50
47
2006
46
52
Fonte: Charlie Cook, Rebalancing Act, in «National Journal», 2 dicembre 2006.
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dalle oscillazioni di pochi punti di percentuale: per questo i Repubblicani erano così decisi a ridistribuire e manipolare i distretti nelle elezioni di mezzo termine, nel tentativo di mettere
le pezze al proprio sistema di potere.15
Inoltre, i vincitori sono divisi sulla direzione da dare al partito. Al contrario di quanto avvenne nel 1994, quando i Repubblicani erano entusiasticamente uniti attorno a un programma
di «rivoluzione» congressuale, alla fine del 2006 gli ideologi democratici sono sostanzialmente spaccati. Mentre i progressisti
come Ezra Klein («American Prospect») sono preoccupati che
i leader Blue Dogs e i capi del DLC (il Democratic Leadership
Council) vogliano «tenere i liberal fuori dalle stanze del potere», Christopher Hayes («Nation») applaude al «nuovo populismo democratico» e Michael Tomasky (direttore di «American Prospect») sostiene che il partito si sta intelligentemente
spostando, al contempo, verso il centro e verso sinistra («il partito è riuscito a sostenere questa coalizione di sinistra-centro e
a ridurre le distinzioni fra i due gruppi»).16 Hillary Clinton, seguita da un coro di voci adulatorie, ha vantato il miracolo di un
«centro vitale e dinamico». Mentre altri Democratici, più pessimisti, concordano con l’aspra previsione di Safire secondo cui
il partito è proiettato verso la guerra civile.
In ogni caso, i Democratici (guidati dalla speaker Nancy
Pelosi, dal leader della maggioranza alla Camera Steny Hoyer e
dal leader della maggioranza al Senato Harry Reid) hanno due
anni di tempo per consolidare il loro rinvigorito consenso elettorale e armare adeguatamente Hillary Clinton in vista del duro scontro con John McCain o con Rudy Giuliani nel 2008.17 (È
improbabile che i due outsider, il repubblicano Mitt Romney e
il democratico Barack Obama, sopravvivano alle forche caudine delle primarie presidenziali, anche se possono riciclarsi come vicepresidenti.)18 Il 110° Congresso offrirà ai Democratici
una straordinaria opportunità per abrogare la reazionaria sca121
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letta programmatica della «rivoluzione repubblicana» del 1994
e della «guerra al terrorismo» del 2001-2002. Ma i Democratici saranno lacerati da due opposti imperativi categorici: da una
parte, affondare insieme alla nave di Bush il maggior numero di
Repubblicani possibile; dall’altra, riconquistare il «centro» mistico e il consenso delle lobby imprenditoriali. Se il passato
prossimo insegna qualcosa, allora una politica democratica seriamente populista e ideologicamente combattiva è assolutamente incompatibile con il progetto clintoniano che mira a fare dei Democratici i rappresentanti per eccellenza della knowledge economy e della globalizzazione economica.
In modo più specifico, la nuova maggioranza democratica
deve saggiare le sue ambigue promesse di combattivo populismo e di centrismo inclusivo sul recalcitrante terreno dei quattro megaproblemi che inevitabilmente domineranno il nuovo
Congresso: 1) il fiasco in Iraq e nella guerra al terrorismo; 2)
l’eredità repubblicana della corruzione congressuale e della
frode imprenditoriale; 3) le urgenti e insoddisfatte necessità sociali (compresa la ricostruzione della costa del Golfo) nel contesto dell’enorme deficit lasciato da Bush; 4) la crescente tensione sui costi sociali della globalizzazione economica. In ogni
caso, è probabile che la speranza di un reale cambiamento a
Washington espressa dagli elettori lo scorso novembre sia tradita dal più pressante imperativo di eleggere Hillary e di riconquistare la grande borghesia.
II. Una guerra più piccola o più grande?
A differenza delle elezioni presidenziali del 2004 e della polemica sull’importanza dei «valori», non ci sono dubbi su quale
sia il tema chiave che ha mobilitato la maggioranza degli elettori nel novembre 2006. Mentre continuava a imperversare la
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bolla immobiliare (nonostante si profilasse una recessione economica indotta dal mercato delle abitazioni) e mentre il fallimento dell’offensiva contro messicani e gay suscitava forti contraccolpi nazionali, il problema principale era l’incombente
sconfitta dell’intervento americano in Iraq.
Secondo i sondaggi, sei americani su dieci erano sconvolti da
come Bush stesse gestendo la guerra (con la crescente carneficina a Baghdad e la paralisi nella Casa Bianca) e dichiaravano che
avrebbero votato di conseguenza. Gli editorialisti concordavano
con gli esperti di sondaggi che l’Iraq era la leva di Archimede che
aveva spostato così massicciamente il voto indipendente verso i
Democratici.19 Intanto gli ideologi conservatori e le lobby economiche inorridivano nel constatare che i loro programmi di politica interna venivano ottenebrati da quel mostro di Frankenstein
che è l’Iraq.20 Persino l’elettorato militare (tradizionale «vivaio
del partito repubblicano», come l’ha definito Rosa Brooks) ha
cambiato scuderia: secondo un sondaggio di «Military Times», i
soldati che si dichiarano repubblicani sono scesi dal 60% del
2004 al 46% della fine del 2006. Solo poco più di un terzo dei
militari approva oggi la conduzione di Bush della guerra.21
TABELLA 3: Priorità degli elettori
Democratici
%
Indipendenti
%
Repubblicani
%
1
Guerra in Iraq
61
Guerra in Iraq
52
Guerra in Iraq
38
2
Economia
19
Economia
18
Prezzo
della benzina
20
3
Sistema sanitario
Sistema sanitario
& prezzo della 18 & prezzo della 14
benzina
benzina
Immigrazione
19
4
Crisi energetica
5
Sgravi nelle cala10
mità nautrali
10
Crisi energetica
13
Terrorismo
18
Immigrazione
9
Sicurezza
nazionale
12
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Dopo aver dominato il Congresso per dodici anni, a quanto pare i Repubblicani sono sprofondati nelle contraddizioni
del nuovo imperialismo.
È così? Il lato ironico della vicenda è che i Democratici, premiati dal voto antiguerra, non hanno alcuna intenzione di porre
fine alla barbara occupazione americana. Poco dopo le elezioni,
Tom Hayden si è rallegrato con i gruppi di cittadini di Chicago e
di altre città che si sono mobilitati per trasformare le elezioni in
un plebiscito su una guerra sempre più impopolare, ma ha avvertito che «nessuno dei due partiti è disposto a riconoscere che
la guerra è una causa persa» e che il rapporto dell’Iraq Study
Group fornirà a Democratici e Repubblicani l’occasione «per
escludere l’eventualità di un “ritiro immediato”». 22
Malgrado la maggioranza dell’opinione pubblica pensi che
quella in Iraq sia una «brutta guerra» e che bisognerebbe rimpatriare l’esercito, i Democratici continuano ad appoggiare
dalle retrovie la disastrosa politica di Bush, evitando di compiere passi decisivi per porre termine all’occupazione. In effetti,
dal punto di vista del freddo calcolo politico, i Democratici
non hanno interesse a togliere Bush dalla palude irachena più
di quanto Bush ne abbia nel catturare o uccidere Osama bin
Laden. Perciò, come ha scritto di recente il «Los Angeles Times», «la Pelosi e i Democratici si guardano bene dall’influenzare il corso della guerra».23 Il presidente del Democratic National Committee Howard Dean, che una volta si presentava
come incarnazione del movimento no-war, ammonisce ora che
il massimo che ci si può aspettare dalla nuova maggioranza è
«qualche limitazione alla libertà di manovra del presidente».24
Inoltre, la Pelosi ha rinnegato fin dall’inizio un reale potere dei
Democratici sulla politica bellica della Casa Bianca: «Sorveglieremo. Ma non taglieremo i finanziamenti».25
La reale opposizione democratica alla guerra (a parte, la defezione di John Murtha, di cui hanno ampiamente parlato gli
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organi di informazione) è venuta dai ranghi del Black Caucus,
i cui membri (tra gli altri, John Lewis, Charles Rangel e Barbara Lee) sono anche i principali fautori del comitato «Out of
Iraq», organizzato di recente e presieduto dal fervente Maxine
Waters di Los Angeles. La sostanziale sovrapposizione del comitato antiguerra (che comprende anche dieci o più rappresentanti latinoamericani, guidati da José Serrano di New York) e
dei membri della Camera più fermamente impegnati nei programmi sociali urbani manifesta una fondamentale tendenza
politica pressoché ignorata dai media: la diffusa coscienza nelle comunità di colore che l’intervento in Iraq e in Afghanistan
(costando più di due miliardi di dollari a settimana) sottragga
importanti risorse economiche alle necessità umane delle città
povere dell’interno e dei più vecchi sobborghi urbani, agevolando il moto di ribellione delle comunità di immigrati.
Questa nuova equazione – necessità urbane, diritti civili degli immigrati e antimperialismo – potrebbe sfociare in un possente controprogramma nella politica americana se fosse appoggiato dall’attivismo popolare e da un coerente moto di protesta. Ma vi è un ostacolo. Benché sull’onda del voto di novembre il comitato «Out of Iraq» sia salito a 74 membri (oltre un
quinto dei parlamentari democratici alla Camera), la sua inTABELLA 4: Membri democratici del Congresso affiliati
ad associazioni ideologiche
A sinistra
A destra
Progressive Caucus
70
Nuova Coalizione
Democratica
60
Black Caucus
43
Blue Dogs Coalition
44
Associazione «Out of Iraq»
74
Democratici per la vita
32
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fluenza è notevolmente diminuita a causa della mancanza di un
movimento nazionale no-war e del fallimento del tentativo dei
maggiori sindacati progressisti (SEIU, HERE-UNITE e AFT) di fare
del ritiro una priorità politica.
In realtà, a novembre, il paesaggio elettorale era dominato
dal paradosso di un fortissimo sentimento antiguerra a cui non
si associava un visibile movimento antiguerra. Al contrario di
quanto avvenne nel 1968 e nel 1972 (o anche, per certi aspetti,
nel 1916 e nel 1938), l’opposizione degli elettori all’intervento
oltreoceano non è stato sostenuto da un movimento pacifista
organizzato, in grado di incalzare il ceto politico o di ricollegare l’opposizione alla guerra a una più profonda critica della politica estera (in questo caso, la guerra al terrorismo). Il vasto
movimento pacifista spontaneo dell’inverno 2003 (che con la
sua energia popolare ha riempito il vuoto dell’opposizione democratica all’invasione di Bush) è stato dapprima riassorbito
dalla campagna di Howard Dean della primavera 2004 e poi
politicamente dissolto nella candidatura di John Kerry. La
Convention dei Democratici del 2004, che avrebbe dovuto essere un forum su come attaccare la politica estera e interna dei
Repubblicani, si è trasformata in una sgradevole celebrazione
patriottica di Kerry nelle vesti di Rambo.
Benché molti attivisti abbiano sperato che dalle rovine della campagna di Kerry spuntasse un movimento per la pace autonomo, si sono avute solo poche sacche di protesta a livello regionale. Uno dei principali compiti di Howard Dean come presidente democratico nazionale (e, d’altra parte, uno dei motivi
per cui è stato scelto per quella carica) è stato immobilizzare le
forze antibelliche entro un’ampia quanto ipocrita coalizione
«chiunque eccetto Bush». Facendo di Bush (e dei suoi padrini
politici, Cheney e Rumsfeld) il problema supremo, i sofisti democratici hanno evitato un reale dibattito sull’Iraq. I capi del
partito hanno bensì criticato il presidente per il caos a Bagh126
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dad, ma senza dire nulla sulla responsabilità americana di fronte alla condizione di anarchia in cui stanno piombando molti
Paesi, dal Pakistan al Sudan. Né è stata spesa una parola a proposito del semaforo verde dato dall’amministrazione Bush al
massacro israeliano dei civili libanesi o, più di recente, a proposito dello scellerato ruolo svolto dalla CIA nell’istigare l’invasione etiope della Somalia e gli attacchi aerei americani. Per intanto, la destra israeliana sa che Hillary Clinton sarà una sostenitrice della sua politica a Gaza e nella West Bank non meno
intransigente di un fondamentalista texano che conta i giorni
che mancano al giudizio universale.
In realtà, i leader democratici (con l’eccezione del Black
Caucus e di alcuni illustri progressisti) hanno sfruttato il risentimento nazionale verso la politica di Bush in Iraq per consolidare, e non per ridimensionare, il consenso di Washington alla
Guerra al Terrorismo. Mentre un movimento nazionale antiguerra avrebbe probabilmente ricollegato l’apocalisse irachena
all’incombente catastrofe in Afghanistan e a una nuova guerra
regionale nel Corno d’Africa, la piattaforma democratica, al
contrario, ha riaffermato l’impegno alla guerra antislamica come parte di un più vasto programma che allarga, non riduce, la
controrivolta globale. «Rimpatriare subito le truppe» non era
una priorità programmatica dei Democratici. Invece, raddoppiare il contingente delle forze speciali «per distruggere la rete
del terrorismo» e incrementare i finanziamenti alla lotta contro
il terrorismo in patria sono pezzi forti del piano democratico
per una «Nuova direzione per l’America» (un insieme di punzecchiature e slogan pesanti che non sono neppure l’ombra
della robusta strategia di Gingrich del 1994 incarnata nel suo
Contract with America).26
Allo stesso modo la leadership democratica ha deliberatamente evitato di affrontare le implicazioni costituzionali del Patriot Act. Neppure uno dei dirigenti democratici ha proposto
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esplicitamente di ridurre i poteri totalitari che la presidenza ha
introdotto dopo l’11 settembre. Addirittura, Hillary Clinton si
è dichiarata favorevole all’arresto senza prove e al ricorso alla
tortura in determinate circostanze. Intanto la speaker Pelosi ha
sottolineato che i principali obiettivi democratici del 110° Congresso saranno: per prima cosa, raccogliere il frutto, non controverso e a portata di mano, della riforma tradizionale (salario
minimo, prescrizioni mediche, prestiti agli studenti, e via dicendo); quindi, approvare rapidamente un «programma innovativo» in favore delle industrie hi-tech. Le discussioni sulla
politica estera alla Camera (grazie all’aggressivo contrappeso di
oltre 100 New Democrats e Blue Dogs) non andranno oltre gli
assunti bipartisan del piano Baker-Hamilton o di una nuova
strategia coercitiva per l’autoliquidazione dello Stato palestinese proposta da Condoleezza Rice.
Che cosa ha guadagnato davvero allora il voto antiguerra?
In fin dei conti, la disillusione collettiva verso la politica messianica dei neocon ha preparato la strada a una restaurazione
«realista» sotto l’egida del piano Baker-Hamilton, che riconcilia le istituzioni di politica estera di Bush senior e quelle di
Clinton. Il massacro iracheno ha spalancato i sarcofagi sul Potomac, vomitando un esercito paralitico di antichi segretari di
Stato e consiglieri per la sicurezza nazionale (Scowcroft, Eagleburger, Brzezinski e, naturalmente, Henry Kissinger, padrino
di tutti costoro), impazienti di impartire lezioni al Congresso
sull’approccio più «razionale» per imporre il volere americano
al resto del mondo. Naturalmente, Hillary Clinton è la regina
dei realisti (tranne quando il realismo contrasta con gli interessi israeliani), ed è poco probabile che la nuova maggioranza democratica alla Camera si discosti troppo dalla già prefissata sceneggiatura della campagna presidenziale del 2008. Nei futuri
faccia a faccia con Rudy Giuliani o John McCain (che di recente si è proclamato salvatore della «vittoria» in Iraq), Hillary si
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darà da fare per imporsi come una novella soldato Jane ben dotata di muscoli, capace di scansare i colpi degli avversari dimostrandosi ancora più rigida su temi quali al-Qaeda, l’Iran, la Palestina e Cuba.
Un motivo di speranza, se esiste, è che probabilmente al
Congresso i Democratici (con il Black Caucus e i suoi alleati
che premono per il ritiro) dovranno vedersela con la rabbia
collettiva, mentre in Iraq l’insurrezione e la guerra civile continuano a prosciugare le risorse dell’«occupazione». In un disperato tentativo di placare i sunniti e di giustificare una zona di
controllo a Baghdad, l’amministrazione Bush sta tramando un
assalto in grande stile ai poveri miliziani di Muqtada al-Sadr
(precondizione necessaria è il surge, «l’improvviso aumento»
dei militari USA in Medio Oriente). Una nuova guerra contro
l’esercito del Mahdi (enormemente accresciuto e meglio addestrato dai tempi dei primi scontri con le forze americane del
2004) scoperchierebbe un altro vaso di Pandora, con il rischio
di un gran numero di vittime americane e di una esplosiva risposta da parte dell’intero mondo sciita. (Gli inevitabili attacchi aerei statunitensi su Sadr City darebbero origine a macabre
scene analoghe a quelle dei bombardamenti israeliani sulla zona meridionale di Beirut).
Se ratificheranno quest’ultima escalation, Condoleezza Rice
e Robert Gates avranno buone speranze di imbarcare qualche
macho democratico (anche se quasi certamente perderanno alcuni Repubblicani di spicco). Il leader al Senato Harry Reid ha
già dato prova della sua epica confusione, approvando e poi revocando in tutta fretta il sostegno alla proposta di inviare a Baghdad altri 35.000 soldati USA. In Senato il falco Joe Lieberman, rieletto come indipendente dopo essere stato bocciato alle primarie democratiche, voterà senz’altro in favore dell’escalation. La Pelosi, mentre scriviamo queste note, sta valutando
di opporsi alle nuove spese per l’invio di altri militari, ma non
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interferirà con il finanziamento delle truppe già stanziate in
Medio Oriente.
Quale sarà, alla fine, l’atteggiamento della Pelosi e di Reid
e quanto si batteranno davvero per il «ritiro programmato»
previsto dal programma in sei punti di novembre dipende in
gran parte dal riaffiorare o meno di un movimento no-war. Gli
elettori dello scorso novembre coltivavano certamente meno illusioni dei loro candidati su quanto la situazione sia disperata
(i sondaggi dicono che «solo un elettore su cinque pensa che il
presidente o i Democratici abbiano un chiaro piano per l’Iraq»),27 e l’opinione pubblica può di nuovo trovare vulcaniche
alternative a un Congresso impotente. In effetti, solo una protesta di massa, svincolata dai ceppi della Realpolitik di Howard
Dean e di MoveOn.org, può spostare la bilancia del potere al
Congresso a favore di un decisivo dibattito sul ritiro.
III. I limiti dell’inchiesta
Uno dei più gustosi momenti del voto di novembre è stata l’elezione di Nick Lampson, che ha preso il posto di Tom DeLay
nel 22° Distretto del Texas. Lampson (insegnante di scuola ed
ex membro del Congresso democratico, di Galveston) era stato una delle principali vittime dell’infame redistribuzione dei
distretti del Texas voluta nel 2003 da DeLay: una manipolazione senza precedenti, resa possibile dalle massicce e illegali donazioni di denaro sporco di cui il leader della maggioranza alla
Camera aveva usufruito l’anno prima per far eleggere nel Texas
un’assemblea legislativa a maggioranza repubblicana. Grazie al
coraggio di un gran giurì locale e del procuratore distrettuale
della Contea di Travis, Ronnie Earle, nel settembre 2005 DeLay è stato incriminato per falsa testimonianza e, finito poco
dopo sotto inchiesta per i legami con il corrotto lobbista Jack
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Abramoff, è stato costretto a rassegnare le dimissioni da leader
della maggioranza e a dimettersi dal Congresso.
Naturalmente DeLay era il Robespierre della «rivoluzione
repubblicana» del 1994, forse il più spietato crociato di un governo monocolore nella storia degli Stati Uniti. In qualità di
cofondatore del cosiddetto «progetto K Street»,28 assieme a
Rick Santorum e a Grover Norquist, era tristemente noto per i
lauti contributi alla campagna elettorale strappati alle lobby
economiche (ottenendo per giunta la promessa che avrebbero
assunto solo repubblicani) cui concedere in cambio di scrivere
di proprio pugno la legislazione repubblicana. In qualità di leader della maggioranza, DeLay (o «Martello» come era soprannominato) ha imposto ai Repubblicani una disciplina ideologica senza precedenti (sfidando addirittura il tentativo della Casa Bianca di concedere una modesta agevolazione fiscale alle
famiglie con basso reddito), menando contemporaneamente
colpi a destra e a manca a ogni accenno di gestione bipartisan
o di civiltà collegiale. In combutta con l’infame Abramoff, è
stato anche fautore delle più sordide cause del Campidoglio:
dal sostegno al lavoro a termine in quel paradiso dello sfruttamento lavorativo che sono le isole Marianne Settentrionali (un
territorio statunitense privo della protezione delle leggi degli
Stati Uniti sul lavoro) ai molti favori resi sottobanco a una gigantesca compagnia russa che a sua volta cacciava soldi per le
cause collegate al nome di DeLay.29
Dopo essere stati falciati per oltre un decennio dalla forza
travolgente di una campagna sordidamente finanziata (che
Karl Rove ha diretto con il cinismo di un pirata della strada), i
Democratici hanno ora l’opportunità di respingere indietro la
Rivoluzione Repubblicana: ossia di troncare quel flusso di soldi e di poteri alimentato da DeLay e dal progetto «K Street».
Naturalmente il Congresso ha sempre «pagato per giocare» e
ha lubrificato la politica attraverso le lobby. Ma mai, prima del
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1994, i Repubblicani avevano adottato mezzi tanto coercitivi e
rigidi per imporsi non solo come il naturale partito del business, ma più decisamente come il partito di cui il business non
poteva fare a meno. (In parte, si trattava di una risposta al successo con cui i Democratici avevano attratto, da una costa all’altra, i favori dei settori della new-economy, dell’intrattenimento, dei media, dei software, della bio-tech e del gioco
d’azzardo).
La tonificante promessa della vittoria di novembre è che
una schiera di liberal democratici di antica data (Charles Ranger, presidente della House Ways and Means Committee; Barney Frank, presidente della Commissione per i Servizi finanziari; Henry Waxman, presidente dell’Oversight and Government
Reform Committee; David Obey, presidente della House Appropriations Committee; Ike Skelton, presidente delle Forze
armate alla Camera, e John Rockefeller IV, presidente della
Commissione di controllo sull’Intelligence al Senato) approfitteranno delle cariche conquistate a fatica per promuovere una
travolgente serie di inchieste sulla stratosferica corruzione e
sulla collusione degli anni di DeLay. Ora che l’opposizione dispone finalmente della facoltà di emanare mandati di comparizione, sarà più facile riportare alla luce l’intreccio di interessi
che dominano l’amministrazione Bush e che il partito repubblicano è riuscito sinora a occultare sulla scia dello scandalo Enron. In effetti, nel momento in cui riaffiorano gli scheletri dell’armadio repubblicano e il pubblico incomincia a conoscere
l’enormità degli illeciti profitti e delle frodi legate all’occupazione dell’Iraq, alla mancata ricostruzione di New Orleans, agli
inutili interventi per la «sicurezza in patria», quali l’ipocrita
piano BioShield (lo Scudo biologico), e al finanziamento delle
compagnie assicurative, delle industrie farmaceutiche e delle
società petrolifere, gli elettori sosterranno con decisione un ritorno a un’adeguata supervisione governativa, una riforma del132
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la regolamentazione in materia di ambiente e di salute e una seria campagna di riforma finanziaria.
Questa è la reale opportunità che si presenta, in teoria, ai
Democratici. Ma è difficile che i loro leader consentano alle inchieste del Congresso di scavare nella corruzione per seguire i
sentieri che portano a monte. Le speranze dei progressisti che
il Congresso possa ritornare ai tempi eroici delle indagini antitrust condotte da Thurman Arnold alla fine degli anni Trenta o
a quelli delle denunce della Commissione Watergate per le infrazioni della legge compiute dai Repubblicani negli anni Settanta, appaiono come puri sogni irrealizzabili se si considera
che la Pelosi ha affermato che i cani da guardia democratici saranno tenuti strettamente al guinzaglio negli interessi del «centrismo» da costruire. Del resto, la Pelosi ha già strappato un
umiliante giuramento di lealtà a due democratici neri senior
che avrebbero potuto scuotere la barca bipartisan: John
Conyers (presidente della Commissione di giustizia), che la intraprendente speaker ha costretto a rinnegare il sostegno all’impeachment («il Paese non vuole e non ha bisogno di un più
paralizzato governo di parte», ha affermato di recente), e Charles Ranger (il quale aveva aspramente criticato Dick Cheney),
che ha ricondotto all’interno del coro («Mi comporterò da leader», ha promesso quest’ultimo). 30 Più diabolicamente, la Pelosi ha affidato a Henry Waxman («Nemico n. 1 della Casa
Bianca») il compito di fare in modo che la disattenzione congressuale «non spinga i Democratici all’ostruzionismo e all’estremismo nella prossima tornata elettorale» (come ha scritto
Brian Friel).31
In mancanza di una risoluta pressione da parte dei movimenti operai e ambientalisti, è poco probabile che i Democratici arrechino disturbo ai potenti interessi economici che altrimenti si diletterebbero a strappare ai Repubblicani. Certo, ci
saranno alcuni che non demorderanno sulla questione Halli133
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burton e su quella delle frodi contrattuali in Iraq; e forse il processo per falsa testimonianza ai danni di Lewis «Scooter»
Libby (capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) sarà
insaporito da nuove rivelazioni da parte di Rockefeller e della
sua Commissione per il controllo dell’Intelligence riguardo alle
menzogne dell’amministrazione e alle false prove sulla via di
Baghdad. Ma gli ipotetici tentativi di scavare più a fondo incontrerebbero le resistenze non soltanto dei Repubblicani che
lottano per la propria sopravvivenza ma anche dei Democratici, che aspirano a salvaguardare i ritrovati rapporti con i gruppi economici al centro della corruzione e dello scandalo. Ogni
passo compiuto sul piano dell’investigazione e delle riforme
sarà controbilanciato dalla tentazione di fare affari e raccogliere contributi per la campagna elettorale delle presidenziali. Come ha scritto con cinica saggezza l’«Economist», «i nuovi condottieri della Camera non si considerano rivoluzionari. Il loro
scopo, dopo tutto, non è realizzare uno specifico programma,
bensì prepararsi il terreno per la corsa alla presidenza nel
2008».32
Dato che i lobbisti sono spaventati dai mandati di comparizione che potrebbero emanare Rangel e Waxman (che tuttavia
sono vincolati alla Pelosi), cercheranno tranquillamente rifugio
nei comitati per la campagna elettorale democratica. La fusione
fra il partito repubblicano e l’America imprenditoriale appare
meno forte e inattaccabile di quanto fosse un anno fa. E, come
«BusinessWeek» ha predetto subito dopo le elezioni, «le grandi
aziende si affretteranno a fare incetta di lobbisti con credenziali
democratiche».33 Per parte loro, i capi del partito democratico
stanno rastrellando soldi a palate. La prossima tornata elettorale
sarà la più costosa della storia ed è poco probabile che Hillary
Clinton permetta al Congresso di ficcare il naso nei reati delle
industrie farmaceutiche, petrolifere e delle costruzioni militari,
che nel 2008 potrebbero sguinzagliare una massiccia rappresa134
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glia contro di lei. In una prospettiva strategica, per i Democratici è molto più sensato convogliare le denunce del Congresso
verso una manciata di furfanti dell’Amministrazione, ricostruendo con calma condizioni di parità rispetto a «K Street»,
tanto più che molte scimmie alate sono ben contente di essersi
liberate di DeLay, la strega malvagia del Texas.
Come ha scritto «BusinessWeek» rassicurando i suoi apprensivi lettori, ogni tendenza all’eccesso populistico sarebbe
neutralizzata nel nuovo Congresso dagli avvocati miliardari
delle aziende e dagli imprenditori hi-tech schierati tra le fila dei
Democratici, soprattutto nella New Democrat Coalition (braccio del Democratic Leadership Council alla Camera, calorosamente vicino al mondo imprenditoriale), presieduta dalla deputata californiana Ellen Tauscher. «Con il gruppo democratico letteralmente spaccato alla Camera, la banda Tauscher, che
può contare su una quarantina di esponenti moderati in materia economica, eserciterebbe il suo straordinario potere per influenzare la politica delle tasse, del commercio e del bilancio.»
Peraltro gli amministratori delegati preoccupati di un’eventuale incriminazione o le cattive società per azioni, timorose di
perdere i redditizi contratti federali, potrebbero pur sempre
appellarsi al nuovo prodigio di «K Street», George Crawford,
ex capo dello staff di Nancy Pelosi e candidato al ruolo di principale deal-maker di Washington. («Nei mesi scorsi», rivela
«BusinessWeek», «Crawford ha aggiunto Exxon Mobil Corp.
e Amgen Inc. al suo portafoglio clienti.»34)
Al di là della «agenda delle 100 ore» è probabile che
poche riforme fra quelle promesse per spingere gli elettori
progressisti a votare democratico siano messe in cantiere a
fronte delle impetuose pressioni imprenditoriali e del fundraising politico organizzato da Crawford e da altri Democratici.
Per esempio, la politica energetica è stata una dei temi su cui il
partito ha insistito maggiormente, e la senatrice Barbara Boxer
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(nuovo presidente della Commissione per la tutela dell’ambiente) ha messo in piedi un’ampia coalizione di ambientalisti
uniti attorno al problema delle emissioni inquinanti e del prezzo della benzina. Ma, come ha riferito di recente Richard
Simon sul «Los Angeles Times», le case automobilistiche di
Detroit e i magnati del petrolio del Texas appaiono sorprendentemente imperturbabili. «Confidiamo sul fatto che un gran
numero di Democratici ci conoscono e ci comprendono», gli
avrebbe detto un nome di spicco della National Petrochemical
and Refiners Association.35
Fra i «comprensivi» Democratici del 110° Congresso ci sono i senatori degli Stati esportatori di energia, come Mary Landrieu (Louisiana) e Jeff Bingaman (New Mexico), e il potente
presidente dell’House Energy Committee John Dingell (Michigan), che si batteranno per difendere fino all’ultima molecola
di biossido di carbonio emessa da una Ford Explorer o da una
Chevy Suburban. È anche possibile che Nancy Pelosi revochi
le più scandalose agevolazioni fiscali all’industria petrolifera.
Ma Barbara Box non porterà mai via i SUV agli americani ricchi né ne ridurrà la dipendenza dal petrolio straniero. Poco importa se milioni di persone sono atterrite dalle «scomode verità» sul riscaldamento del pianeta, comunque ci saranno
sempre Democratici pronti a minimizzare l’effetto serra o a votare a favore delle speciali concessioni all’industria petrolifera.
IV. Deficit e «canili»
A differenza della maggior parte dei sistemi parlamentari europei, il sistema partitico americano è solo parzialmente «nazionalizzato» e i programmi regionali e locali rivestono un ruolo di
primo piano nell’operato del Congresso. Le elezioni del 2006
rappresentano in questo senso un caso spettacolare: indipen136
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dentemente dal fatto che l’elettorato si sia realmente spostato a
sinistra o no, il baricentro del Congresso si è spostato di nuovo
verso le coste blu, a maggioranza democratica (si tratta di uno
dei più straordinari ribaltamenti geografici di cui si abbia memoria). Il Texas, la Florida, la Virginia e la Georgia (le cui periferie fecero da perno strategico alla rivoluzione repubblicana
del 1994) sono tagliate fuori; la California e lo Stato di New
York (i paria dell’età di Bush) tornano in auge. Per essere più
precisi, a governare ora il Congresso sono i Democratici che
rappresentano quel triangolo d’oro che sono Wall Street, Hollywood e la Silicon Valley.
Benché la California e lo Stato di New York egemonizzino
(con il Massachusetts e lo Stato di Washington) la knowledge
economy e le esportazioni statunitensi di tecnologia, prodotti
per l’intrattenimento e servizi finanziari, sono diventate dal
1994 le vacche da mungere della politica redistributiva repubblicana a livello regionale. La California costituisce forse il caso estremo. Per cinquant’anni, dal Lend-Lease al crollo del muro di Berlino, le industrie aerospaziali ed elettroniche californiane sono state irrorate di dollari per ragioni di difesa militare. Ma, dal 1990, i sussidi finanziari hanno cambiato destinazione e la California si è trovata ad esportare le proprie tasse federali agli Stati repubblicani. Se, per ogni dollaro pagato in tasse federali, un tempo la California ne riceveva 1,15, oggi recupera appena 79 centesimi. (Le iniquità sono peggiori di quelle
che emergono dalla tabella 5, dato che la California e lo Stato
di New York sono le più vaste porte d’accesso dei nuovi immigranti e dei servizi finanziari che dovrebbero essere sotto mandato federale). Anche a causa di questa riduzione dei sovvenzionamenti, la prima economia regionale al mondo nei settori
tecnico-scientifici conta su infrastrutture fisiche, sociali e didattiche (almeno, per quanto riguarda la scuola elementare e secondaria) scandalosamente deteriorate.
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TABELLA 5: Rapporto spese federali e tasse
Stati repubblicani
Stati democratici
Texas
1,00
California
0,79
Florida
0,98
New York
0,80
Virginia
1,59
Illinois
0,72
Georgia
0,96
Massachusetts
0,79
Arizona
1,23
Connecticut
0,67
Alabama
1,68
Minnesota
0,69
N. Carolina
1,08
Wisconsin
0,83
S. Carolina
1,36
Michigan
0,86
Kentucky
1,51
Oregon
0,99
Alaska
1,90
Washington
0,91
Fonte: State Blaming Washington for Budget Woes, in «Los Angeles Times», 15 febbraio 2005.
Ma i Democratici dovranno lottare contro se stessi, e non
solo contro i Repubblicani, se vorranno porre rimedio al relativo declino della spesa federale, specialmente nelle ormai vecchie città degli Stati blu. Mentre, sul piano individuale, i nuovi
leader del Congresso (in particolare la Pelosi e la Clinton) si
battono spesso con ferocia per venire incontro ai bisogni dei
propri Stati e distretti, sul piano collettivo si sono legati le mani accettando di firmare un impegno blindato per ridurre il deficit e contenere le spese. Benché per gli elettori le priorità fossero rappresentate dall’Iraq e dalla corruzione politica, i Democratici nel tentativo di dare una «Nuova Direzione» all’America hanno fatto proprio il vecchio grido di battaglia dei Repubblicani: «responsabilità fiscale.»
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A dispetto delle dichiarazioni rilasciate a «Nation» e ad altre
testate, secondo cui i Democratici stanno ora incanalando i loro
«populisti interni», il partito rimane schiavo della «Rubinomics»: quella disciplina politica che antepone la riduzione del
bilancio alla spesa sociale, e che ha caratterizzato la linea di Robert Rubin (ex amministratore delegato della Goldman Sachs)
come ministro del Tesoro nell’era di Bill Clinton. In pratica,
questa linea politica non si traduce semplicemente nella riluttanza a spendere ma anche nel rifiuto di mettere in discussione i
tagli alle tasse che Bush ha assicurato ai ricchi per migliaia di miliardi di dollari. «Tassare e spendere, tassare e spendere, tassare
e spendere. Non è questa la nostra linea», ha detto al «New
York Times» il senatore Kent Conrad (presidente della Commissione bilancio).36 Bush può anche regalare il Tesoro ai super
ricchi e contrarre colossali debiti per invadere il mondo. I Democratici sono vincolati, in ogni caso, a un patto di rettitudine
anti-keynesiana che avrebbe fatto arrossire Calvin Coolidge.
In realtà, al Congresso, i più «risoluti bilancieri del bilancio» (come si descrivono sul loro sito web) sono i Blue Dogs,
una corrente di Democratici moderati per non dire conservatori organizzatisi nel 1995 emulando i repubblicani di Gingrich.
Provengono per lo più dalle piccole città e dai sobborghi, come Merced, Tallahassee e Hot Springs, e si sono dati un’immagine tradizionale da «pistoleri» e fanatici lettori della Bibbia in
netto contrasto con l’immagine da «consumatori di cappuccino» propria dei New Democrats (che rappresentano le più ricche periferie residenziali del Connecticut e della California).
Benché condividano l’aggressiva politica dei New Dems, i primi guardano con minor favore agli hedge funds e agli accordi
per il libero scambio. Al primo posto nell’agenda politica dei
Blue Dogs c’è un’opposizione demagogica al Welfare State e,
specialmente, agli aiuti federali alle grandi città a maggioranza
nera o latinoamericana. Con i 44 membri del loro «grosso ca139
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nile» e i molti alleati sul fronte repubblicano, i Blue Dogs giurano di tenere a freno le spese del prossimo Congresso, rastrellando inoltre voti in favore di un emendamento costituzionale
che riformi il bilancio federale su cadenza annuale.37 Presidente della Commissione bilancio della Camera sarà uno dei loro
principali alleati, John Spratt, della Carolina del Sud, che, con
il placet della Pelosi, farà da «sorvegliante» per il partito dell’austerità di bilancio.38
Terrorizzati dalle possibili ripercussioni elettorali e finanziarie dei tentativi di riforma dell’attuale sistema fiscale, e con i
Blue Dogs che abbaiano alle calcagne, i leader preferiscono lasciare che il deficit repubblicano e i tagli alle tasse dettino la
politica democratica. È appunto quello che propone di fare
Karl Rove e, nell’anno nuovo, Bush ha invitato i Democratici a
unirsi a lui allo scopo di raggiungere il pareggio di bilancio:
«un obiettivo che legherebbe le mani dei Democratici», lasciando loro «ben poca libertà di manovra per tenere fede alle
loro priorità attraverso il Congresso». 39
V. New Orleans contro la Silicon Valley
La scelta della leadership democratica a favore del pareggio di
bilancio rispetto ai bisogni umani rispecchia perciò in parte gli
equilibri di potere all’interno del partito, nel quale i Blue Dogs
(da soli o assieme ai New Dems) hanno de facto potere di veto
sulla nuova legislatura. È stata probabilmente la pressione dei
Democratici bianchi conservatori a spingere gli strateghi elettorali del Congresso, sotto il comando di Rahm Emanuel, rappresentante dell’Illinois, a eliminare ogni cenno a New Orleans
nella campagna elettorale del 2006.40
Naturalmente, il destino di New Orleans è uno dei grandi
spartiacque morali nella storia moderna degli Stati Uniti. Ma,
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in campagna elettorale, la maggior parte dei Democratici ha
sfacciatamente rifiutato di dare risposte, a livello federale, su
problemi scottanti come l’uragano Katrina o la successiva pulizia etnica della Costa del Golfo. Nonostante lo stesso presidente Bush, nel discorso di Jackson Square, abbia dichiarato che
«abbiamo un dovere morale rispetto alla povertà [mostrata da
Katrina] che dobbiamo combattere con azioni audaci», i Democratici non hanno mostrato maggior senso del «dovere» o
maggiore capacità di «azioni audaci» della Casa Bianca, notoriamente ipocrita e incompetente. Le priorità democratiche sono esemplificate dai sei punti della piattaforma nazionale di novembre, in cui viene messo in rilievo l’incremento del deficit e
delle truppe senza far cenno né a Katrina né alla povertà.
Anche il Black Caucus (a parte poche voci discordanti) si è
dimostrato sorprendentemente molto blando nel rispondere all’incessante serie di provocazioni dell’amministrazione Bush
(tra cui, la recente decisione di abbattere 4.000 alloggi di proprietà pubblica leggermente danneggiati a New Orleans e quella di porre bruscamente fine agli aiuti in favore dei sinistrati
senza casa accampati fuori città). Benché Charles Rangel, di
Harlem, abbia promesso che alla luce della catastrofe di New
Orleans il Congresso si occuperà della povertà, è poco probabile che egli sfidi il feticcio della riduzione del deficit proprio
della leadership democratica. Sarà più facile rincarare la dose
di critiche all’indirizzo della politica repubblicana (critiche ampiamente meritate, ovviamente) che non revocare i tagli alle
tasse per i ricchi e utilizzare gli introiti per finanziare la spesa
sociale.
Ma l’importanza della crociata nazionale condotta da
Nancy, Harry e Hillary trascende gli altri dogmi e vincoli: la
promozione del «programma per l’innovazione» con cui i Democratici sperano di consolidare i propri rapporti con le grandi industrie dell’hi-tech e della ricerca scientifica. Quella pas141
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sione che i Democratici hanno mancato di riversare sul problema Katrina e su quello della povertà urbana si trova invece negli animati discorsi che la Pelosi e altri leader democratici hanno pronunciato l’anno scorso in hub della tecnologia come
Emeryville, Mountain View, Raleigh e Redmond.
Al contrario del rimpatrio delle truppe in Iraq o della ricostruzione delle case e delle vite a New Orleans, il programma
per l’innovazione è una «reale» priorità dei Democratici. I leader dell’industria tecnologica (fra cui gli amministratori delegati di Cisco e di Genentech), irritati dai finanziamenti che i Repubblicani hanno fatto mancare ai reparti di ricerca e sviluppo
delle aziende della Silicon Valley, hanno collaborato con la Pelosi e i suoi colleghi democratici della Bay Area per stendere
una lista di punti chiave che il partito democratico si è impegnato ad approvare nel 2007: fra l’altro, nuove regole contabili in materia di stock options, finanziamenti permanenti per la
ricerca e lo sviluppo, riforma dei brevetti, sussidi per l’energia
alternativa, raddoppiamento dei finanziamenti per la National
Science Foundation e garanzia di «net neutrality» per Internet.41 (Da tempo, inoltre, i Democratici difendono il ricorso al
visto H1-B che consente alla Silicon Valley di tenersi a galla assumendo ingegneri stranieri a basso costo, privi per lo più del
diritto di organizzazione o di iscriversi ai sindacati. )42
L’interesse che i Democratici hanno dimostrato per i brevetti e l’innovazione è stato puntualmente ricompensato dall’incremento dei contributi finanziari versati dalle industrie hitech (50% in più rispetto al 2004).43 Per contro, mentre la
quota dei contributi della Silicon Valley al partito repubblicano nel 2000 «era del 43%, ora è scesa al 4%» (dati del Center
for Responsive Politics)44. Per i Democratici, fin dai tempi dell’amministrazione Clinton, sedurre le aziende che producono
software e biotecnologia e i loro alleati capitani di avventura
rappresenta l’equivalente del piano K Street dei Repubblicani
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(senza parlare dei già forti legami che i Democratici avevano
stretto con le industrie dell’intrattenimento e dei mezzi di comunicazioni di massa).45 Ora che Al Gore siede nel consiglio
di amministrazione di Google e di Apple, e con la Pelosi che
delinea futuri scenari virtuali con i fondatori di Google Larry
Page e Sergey Brin, il millennio è arrivato davvero. Con l’avvento dei Democratici della Bay Area ai posto di comando del
Congresso, New Orleans potrà continuare a rivoltarsi nella
miseria, ma la Silicon Valley e i suoi pendolari possono tirare
un bel respiro, non meno dei magnati del petrolio e degli appaltatori della difesa che conservano tutti i loro addentellati alla Casa Bianca.
VI. Il lato oscuro del populismo
Come ha più volte sottolineato Thomas Edsall, i Democratici
rappresentano due fasce di popolazione, estremamente diverse
fra loro e in gran parte incompatibili. Due elettori democratici
su cinque rispecchiano lo stereotipo del «professionista istruito, benestante e culturalmente liberal». Ma il resto della base
del partito è costituito da persone «socialmente ed economicamente svantaggiate» che non traggono beneficio dalla nuova
Età dell’Oro: operai neri e latinoamericani, donne bianche con
un contratto di lavoro temporaneo nel settore dell’informazione e uomini bianchi occupati nelle industrie tradizionali in rapida contrazione.46 Il partito guidato dai Clinton è tutto proteso ad articolare e difendere gli interessi dei ricchi lavoratori
della knowledge economy e delle industrie globalizzate in cui
sono occupati. I Democratici che non condividono questa linea
si adeguano, calcolando cinicamente che i neri, gli immigrati e
i bianchi della Rust belt (la cintura industriale) non hanno altri
luoghi dove andare e perciò voteranno senz’altro per i blu.
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Dal 1984, anno dell’elettrizzante quanto sfortunata campagna di Jesse Jackson denominata «Rainbow Coalition» (Coalizione Arcobaleno), il predominio dei New Democrats è incontrastato ed essi possono imporre la versione dell’ideologia della «Terza Via», che unisce neoliberalismo economico e tolleranza culturale. Nondimeno, il sogno di una nuova vampata di
populismo anti-yuppie, alimentata dalla sacrosanta rabbia operaia e dalla maggioranza del partito a lungo negletta, ha continuato a ispirare i progressisti e i veterani del Rainbow, sotto il
giogo imposto loro dai centristi del Democratic Leadership
Council e dai globalizzatori economici.
Così, pochi giorni dopo aver sconfitto George Allen in Virginia, il neosenatore democratico James Webb ha pubblicato un
articolo sul «Wall Street Journal» con il provocatorio titolo di
Lotta di classe. Ex segretario della Marina Militare durante l’amministrazione Reagan, Webb avvertiva che una «crescente frattura» provocata dalla diseguaglianza socioeconomica rischiava
di far precipitare di nuovo gli Stati Uniti in «un sistema classista,
come non si vedeva dall’Ottocento». Mentre i salari ristagnano
e la sicurezza sociale diminuisce, i lavoratori americani sono distratti da un isterismo orchestrato ad arte che ha per oggetto
«Dio, le pistole, i gay, l’aborto e la bandiera». «La politica dell’era di Karl Rove», avvertiva l’ex repubblicano, «è progettata per
distrarre e spaccare la popolazione che altrimenti si ribellerebbe
contro il deterioramento delle condizioni di vita.»47
Come prevedibile l’articolo di Webb indignò molti lettori
del «Wall Street Journal». In compenso, fu gradito ai progressisti, i quali vi riconobbero le tesi espresse da Tom Frank in
What’s the Matter with Kansas? e ne approvarono l’appello a
una maggiore attenzione per i problemi economici delle fasce
popolari. Secondo Webb, la vittoria democratica assicurava finalmente «ai lavoratori americani la possibilità di essere ascoltati» nelle loro legittime lamentele sui costi sociali del libero
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commercio e dell’esportazione del lavoro. «Il dovere maggiore
dei nostri capi di governo», sentenziò, «è quello di affrontare la
crescente ingiustizia dell’età della globalizzazione.»
Si tratta di pura retorica o di un programma di ribellione a
lungo atteso? Poche settimane dopo, su «Nation», Christopher
Hayes sostenne che il rinato interesse di Webb per la sorte degli
operai vittime della globalizzazione economica era espressione di
una genuina tendenza populista presente nel partito democratico,
fra i cui portabandiera vi sono anche il neodeputato Heath Shuler della Carolina del Nord e il neosenatore Sherrod Brown dell’Ohio.48 Certamente, il loro appello al patriottismo economico
(Shuler ha accusato il suo avversario repubblicano al Congresso
«di svendere le famiglie americane») e i forti attacchi all’indirizzo
degli «internazionalisti» e dei «liberoscambisti» hanno suscitato
ampi consensi nelle città tessili della Carolina e della Virginia e
nelle contee degli Appalachi dell’Ohio, dove le industrie hanno
subito letali perdite nell’ultimo decennio. Nel 2004 John Kerry
perse nelle zone di montagna e in quelle pedemontane (compresa la Virginia occidentale, roccaforte democratica) perché non
aveva quasi nulla da dire a proposito della crisi dei lavori regionali. Questa volta, i Democratici hanno messo in campo una demagogia di prima classe, con tanto di pronuncia locale.
Ma come sottolinea eloquentemente Hayes, «il populismo
economico ha un lato oscuro». Egli riconosce che altri analisti
hanno minacciato lo spettro dell’ascesa di una corrente interna al
partito vicina a certe posizioni di Lou Dobbs, i cui temi economici sono inestricabilmente intrecciati al nazionalismo razziale (un
genere di populismo che si trova altrettanto a suo agio nel biasimare le aziende che appaltano lavori all’esterno e gli «stranieri illegali» che portano via il lavoro agli americani) e la cui opposizione alla guerra in Iraq è radicata, nello stile di Pat Buchanan, nell’isolazionismo americano di vecchia maniera.
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Nonostante Hayes preferisca credere alla buona fede progressista di figure come Webb e Shuler, credo che egli non sbagli a paragonare le loro posizioni politiche a quelle di certi demagoghi razzisti televisivi come Dobbs e Buchanan.49
A una lettura attenta di Lotta di classe non può non stupire
quello che, per esempio, Webb scrive a proposito dei giardinieri messicani e dei professionisti dell’investment banking, accusati in pari grado di sfruttare il proletariato autoctono, mentre
«vaste fasce di lavoratori in nero costituite da immigrati illegali» non aspettano altro che affogare i valori e i salari degli americani. Uno strano passaggio sulla «inespressa insinuazione» secondo cui «certi gruppi di immigrati hanno il “giusto bagaglio
genetico” e perciò sono naturali candidati a entrare nella “classe abbiente”» può essere letto in riferimento alle fantasie sul
Pericolo Giallo che ispirano le pubbliche esternazioni di
Webb. Da segretario della Marina Militare, egli è stato fervente sostenitore di una continuativa guerra fredda nei confronti
della Cina che, a suo avviso, avrebbe in seguito sviluppato un
«asse strategico con il mondo musulmano». Con la linea politica di Bush in Iraq ha rotto precisamente perché temeva che
Rumsfeld stesse «rinforzando» in modo criminale i reali nemici: Iran e Cina.50
A suo modo, anche Heath Shuler, ex quarterback di grido
dei Washington Redskins, si scalda ingaggiando appassionate
diatribe contro il North American Free Trade Agreement
(l’Accordo nordamericano per il libero scambio) e l’esportazione dei lavori nell’Heartland (la zona centrale dell’Eurasia). Ma
il suo messaggio, come quello di Webb, è avvelenato da un nazionalismo sostenuto fra l’altro da numerose campagne televisive che lo dipingono come l’eroe solitario schierato contro
l’amnistia agli immigrati illegali. Su «American Prospect», Ezra Klein ha sostenuto di recente che i liberal non dovrebbero
impensierirsi troppo per lo sciovinismo di Webb e di Shuler o
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per le loro reazionarie prese di posizione sui gay e sull’aborto.
In un Congresso dominato dai Democratici, spiega Klein, «costoro non avranno molte occasioni per dare fondo al loro conservatorismo sociale. Tuttavia, il loro credo economico avrà miglior gioco in un Congresso che, finalmente, presti attenzione
ai problemi dell’assistenza sanitaria, del lavoro, della disuguaglianza, della regolamentazione imprenditoriale, e a tutti gli altri problemi nazionali che stanno a cuore ai Democratici».51
Tralasciando i suoi grandiosi postulati sulle intenzioni riformatrici dei Democratici, Klein sottovaluta il pericolo rappresentato dal nazionalismo economico presente fra i banchi dei
democratici. Per parte loro, Karl Rove e la Casa Bianca sono
stati colti alla sprovvista, l’anno scorso, dall’esplosione di isterismo della base conservatrice contro gli immigrati. E i direttori di «American Prospect» (la rivista dei «Democratici progressisti») si rammaricano ancora per aver sottovalutato la xenofobia democratica. Almeno metà dei trenta seggi strappati ai Repubblicani sono andati a Democratici che hanno posizioni conservatrici in tema di immigrazione. Per giunta, nel Sud e nel
Midwest, i democratici hanno attaccato i Repubblicani accusandoli di essere «troppo miti verso l’immigrazione illegale», e
il sito web del Comitato per la campagna dei Democratici al Senato ha addirittura pubblicato immagini di persone che scavalcavano le palizzate di confine con in mano il ritratto di bin Laden e di Kim Jong Il. Soprattutto i Blue Dogs sono risoluti sostenitori della necessità di un muro di confine su scala continentale e del ricorso alla polizia locale per far rispettare le leggi nazionali sull’immigrazione.52
Sarà interessante vedere, nel nuovo Congresso, quanto andranno avanti i vari Webb e Shuler con i loro attacchi «proletari» sui principi di libero scambio giudicati sacri dai New Dems e
dai clintoniani. (La mia impressione è che ai due politici importeranno di meno le nascoste ferite di classe una volta che avran147
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no avuto qualche rincuorante conversazione con i ricchi magnati dell’hi-tech nel Triangolo della Ricerca e nei parchi scientifici.)
D’altro canto, esiste la reale possibilità che le tendenze antiimmigrazione e le tentazioni sinofobe del loro populismo siano amplificate dalla sinergia con i Repubblicani che la pensano allo stesso modo. I Democratici possono rallegrarsi per il momento dell’autodistruzione «della strategia latinoamericana» dei Repubblicani. Ma essi stessi non sono affatto immuni da tali demoni, ben
presenti nel loro partito. Nel peggiore dei casi, il Nuovo Populismo darà origine a un raggruppamento bipartisan di eccentrici
bigotti, mentre la leadership democratica continuerà a prendere
imbeccate da Goldman Sachs e da Genentech.
1. Bob Herbert, Ms. Speaker and Other Trends, in «New York Times»,
9 novembre 2006; Paul Waldman, A Big Step in Nation’s March to
Left, in «Baltimore Sun», 12 novembre 2006; George Lakoff, Building on the Progressive Victory, in commondreams.org, 14 dicembre 2006.
2. Lawrence Kudlow, Reach Out to the Blue Dogs, in kudlowsmoneypolitics.blogspot.com, 8 novembre 2006; William Safire, After the Thumpin, in «New York Times», 9 novembre 2006.
3. William Schneider, Swing Time, in «National Journal», 11 novembre 2006.
4. Thomas Edsall, White-Guy Rebellion, in «National Journal», 11
novembre 2006.
5. Robert Borosage, James Carville e Stanley Greenberg, The Meltdown Election. Report on the 2006 Post-Election Surveys, Democracy Corps, Washington 15 novembre 2006, pp. 2-3.
6. Ci sono 98 assemblee legislative partitiche in 50 Stati. Ma il Nebraska, grazie al grande progressista George Norris, dal 1937 ha
una legislatura unicamerale e non partitica.
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7. John Hood, GOP Car Wreck, in «National Review», 4 dicembre
2006. Il numero degli Stati in cui i Democratici hanno la maggioranza nell’assemblea legislativa e la carica di governatore è raddoppiato, passando da 8 a 16. Vedi l’analisi di Tim Storey e Nicole Moore in Democrats Deliver a Power Punch, in «State Legislatures», dicembre 2006.
8. Jonathan Martin, Damn Yankees, in «National Review», 18 dicembre 2006.
9. Per un’isterica denuncia di «come i miliardari liberal stanno corrompendo la politica del Colorado», vedi John Miller, The Color
Purple, in «National Review», 4 dicembre 2006.
10. Tim Storey e Nicole Moore in Democrats Deliver a Power Punch,
op. cit.
11. L’autorevole e brillante libro di Tom Frank, What’s the Matter with
Kansas? (2004), traccia il ritratto di un proletariato bianco che ha rinunciato a ogni calcolo razionale dei suoi interessi economici per disperazione e rabbia, culturalmente manipolata. Come molti altri
progressisti, Frank invita i Democratici a contrastare il populismo
culturale di Karl Rove contrapponendogli il proprio populismo
economico. Il mio intervento critico sul libro di Frank, «What’s
Wrong with America» (preparato per un dibattito all’UCLA, l’università della California, di Los Angeles, nel 2005) è raccolto ora in
In Praise of Barbarians: essays against empire, Chicago 2007.
12. Peter Slevin, Trounced at Polls, Kansas GOP Is Still Plagued by Infighting, in «Washington Post», 30 dicembre 2006. Slevin sostiene che le battaglie culturali (in particolare, per lo sviluppo e l’aborto) hanno finito forse con lo spaccare irrimediabilmente il
partito repubblicano del Kansas.
13. Robert Borosage, James Carville e Stan Greenberg, Meltdown
Election. L’esperto di sondaggi repubblicano Frank Luntz concorda con Greenberg: «In gran parte le elezioni sono state una manifestazione di delusione verso la leadership repubblicana più che di
consenso all’alternativa democratica. Le elezioni erano un referendum pro o contro il partito repubblicano nazionale»: Tim Storey e Nicole Moore in Democrats Deliver a Power Punch, op. cit.
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14. Thomas Edsall, White-Guy Rebellion, op. cit.
15. Com’è tristemente noto, in Senato, dove il Wyoming con meno di
500.000 abitanti ha la stessa rappresentanza della California che
ne ha quasi 35 milioni, i Repubblicani (dominanti negli Stati rurali e poco popolati) possono contare su un cospicuo vantaggio.
16. Ezra Klein, Spinned Right, in «American Prospect online», 8 novembre 2006; Christopher Hayes, The New Democratic Populism, in «Nation», 4 dicembre 2006; Michael Tomasky, Dems put
the “big tent” back together, in «Los Angeles Times», 12 novembre 2006.
17. La bocciatura di Bush da parte degli elettori indipendenti ha per
contrasto fatto salire le quote di John McCain e di Rudolph Giuliani, percepiti come i soli repubblicani in grado di riconquistare
quel segmento di elettorato. Ma ancor più ha fatto salire le azioni del «Terminator». Il governatore della California Arnold
Schwarzenegger, dopo aver visto crollare il proprio consenso nel
2005 in seguito a una disastrosa politica iperconservatrice, si è riciclato tornando a nuova vita nelle vesti di democratico clandestino, propenso a mettere le mani al portafogli. Attualmente i
suoi paladini stanno vagliando la possibilità di un emendamento
costituzionale che consentirebbe all’attore, nato all’estero, di
candidarsi alle presidenziali del 2012.
18. Un sondaggio di opinione della CNN sui politici che gli elettori
non vorrebbero avere come candidato (del proprio partito) alle
presidenziali 2008 ha visto Mitt Romney al 50% fra i Repubblicani (appena dietro Bill Frist, ex leader della maggioranza al Senato) e Barack Obama al 38% fra i Democratici (dietro Al Gore
e lo sfortunato John Kerry). Vedi Poll Track, in «National Journal», 2 dicembre 2006.
19. William Schneider è rimasto colpito dalla quasi esatta correlazione numerica che si registra in tutte le regioni fra disapprovazione
della guerra e disapprovazione del presidente: «tempo di cambiamenti». Un altro ben noto esperto di psefologia, Charlie Cook, ritiene che la ragione dello spostamento dell’elettorato dai Repubblicani ai Democratici sia riconducibile al 70% all’Iraq. Charlie
Cook, The War’s Wave, in «National Journal», 11 novembre 2006.
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20. Vedi Bara Vaida e Neil Munro, Reversal of Fortunes, in «National Journal», 11 novembre 2006.
21. Come sottolinea Rosa Brooks, l’aggressiva “republicanizzazione”
delle forze armate è un fenomeno relativamente recente (iniziato
con Reagan e la “seconda” guerra fredda), incoraggiato dalla politica democratica che ha spostato le basi militari e i centri di addestramento ufficiali negli Stati più conservatori del Sud. Rosa
Brooks, Weaning the military from the GOP, in «Los Angeles Times», 5 gennaio 2007.
22. Tom Hayden, Election Interpretation, dispensa del Pitzer College, 9 novembre 2006.
23. Noam Levey, Democracy To-Do List is Modest at Outset, in «Los
Angeles Times», 2 gennaio 2007.
24. William Schneider, Warring Sects, in «National Journal», 18 novembre 2006.
25. Noam Levey, Democracy To-Do List is Modest at Outset, op. cit..
Nency Pelosi riecheggia le posizioni dell’ideologo Will Marshall,
presidente del Democratic Leadership Council, secondo cui
«quanti hanno memoria storica [e si ricordano, per esempio, del
Vietnam] eviteranno di cercare di assumere il controllo della politica irachena, per esempio, tagliando i finanziamenti alla guerra». James Kitfield, Next Steps in Iraq, in «National Journal», 11
novembre 2006.
26. Al «National Journal» che gli chiese quali fossero le sue priorità,
il neopresidente della Armed Services Committee Ike Skelton rispose: «L’esercito è diventato forse fonte di disturbo? Si è corazzato? La fanteria e le forze speciali hanno bisogno di più uomini,
di un miglior addestramento e di migliori equipaggiamenti», in
Democrats to Watch.
27. Dati del Pew Research Center, citati da William Schneider in The
Price of Patience, in «National Journal», 2 dicembre 2006.
28. «K Street» (oltre che indirizzo della sede di molti lobbisti) è per
metonimia la porta girevole dalla quale gli ex membri del Congresso (specialmente i presidenti di Commissione) e i loro aiutanti escono da politici e rientrano da lobbisti al soldo di compagnie
farmaceutiche, giganti del petrolio, agenti di investimento immo151
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biliare, rivenditori di armi e dittatori stranieri. Benché i libri di testo di educazione civica non ne riconoscano ancora l’enorme
portata, «K Street» è il quarto ramo «finanziario» del governo
nazionale degli Stati Uniti.
Vedi Lou Dubose e Jan Reid, The Hammer: Tom DeLay, God,
Money, and the Rise of the Republican Congress, New York 2004.
Richard Cohen, David Baumann e Kirk Victor, Going Blue, in
«National Journal», 11 novembre 2006, p. 16; e Democrats to
Watch, op. cit.
Brian Friel, Junkyard Dogs, on a Leash, in «National Journal», 11
novembre 2006.
Old dogs; few tricks, in «Economist», 11 novembre 2006.
Richard Dunham e Eamon Javers, The Politics of Change, in «BusinessWeek», 20 novembre 2006.
Richard Dunham e Eamon Javers, The Politics of Change, op. cit.
Richard Simon, Green laws no slam-dunk in new Congress, in
«Los Angeles Times», 18 dicembre 2006.
Edmund Andrews, The Democrats’ Cautious Tiptoe Around the
President’s Tax Cuts, in «New York Times», 4 gennaio 2007.
Blue Dog Coalition, 12-Point Reform Plan for Curing Our Nation’s
Addiction to Deficit Spending, in www.bluedogdemocrat.org.
Democrats to Watch, op. cit.
Joel Havemann, Bush wants budget balanced by 2012, in «Los
Angeles Times», 4 gennaio 2007.
«È come se quest’anno Katrina fosse il problema subliminale»: Michael Tisserand, The Katrina Factor, in «Nation», 1° gennaio 2007.
Jim Puzzanghera, Pelosi likely to speak up for tech industry, in
«Los Angeles Times»,13 novembre 2006.
David Bacon, Immigrants Find Hi-Tech Servitude in Silicon Valley, in «Labor Notes», settembre 2000.
Jim Puzzanghera, Pelosi likely to speak up for tech industry, op. cit.
Massie Ritsch, direttore della comunicazione CRP, in uno dei comunicati apparsi sull’inserto «Technology Daily» del «National
Journal», agosto 2006.
Vedi Sara Miles, How to Hack a Party Line: The Democrats and
Silicon Valley, New York 2001.
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46. Thomas Edsall, in «National Journal», 23 settembre 2006. Lo
studioso si serve dei dati del Pew Research Center per tracciare
un quadro dell’elettorato democratico.
47. James Webb, Class Struggle: American workers have a chance to
be heard, in «Wall Street Journal», 15 novembre 2006.
48. Christopher Hayes, The New Democratic Populism, op. cit.
49. Christopher Hayes, The New Democratic Populism, op. cit. Tralascio, riproponendomi di esaminarla in altra sede, l’inaspettata
campagna elettorale di John Edwards che, nel tentativo di scavalcare a sinistra Hillary Clinton, ha dato l’impressione di abbracciare più decisi e autentici principi progressisti rispetto al manierismo populista che deluse i suoi seguaci nel 2004. Per un’interessante anteprima, vedi Perry Bacon, The Anti-Clinton, in «Time», 15 gennaio 2007.
50. James Webb, What to do about China?, in «New York Times», 15
giugno 1998; e Heading for Trouble, in «Washington Post», 4 settembre 2002.
51. Ezra Klein, Spinned Right.
52. Brian Friel, Splits of Their Own, in «National Journal», 9 settembre 2006.
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