Voi mi guardate e ridete perché sono diverso, io vi

Transcript

Voi mi guardate e ridete perché sono diverso, io vi
Voi mi guardate e ridete perché sono diverso, io vi
guardo e rido perché siete tutti uguali
1
INDICE GENERALE
•
•
•
INTRODUZIONE
Motivazione scelta argomento;
Cosa sono diversità, discriminazione e integrazione;
Temi affrontati nella tesina.
ITALIANO
• “La madia”
• Gabriele D’Annunzio
INGLESE
• “My Left Foot”
• Christy Brown
STORIA
• Antisemitismo hitleriano: la persecuzione antiebraica
METODOLOGIA
• Una condizione di marginalità: il barbonismo
PEDAGOGIA
• Bambini precoci,dotati, superdotati
INTRODUZIONE
La scelta di questo argomento da affrontare nella tesina, è dovuta alle troppe sentite discriminazioni
che in ogni società, o quasi, sono esercitate.
Si sentono tanti casi di discriminazione attraverso i mass-media, ma, nonostante tutto, le varie
istituzioni che cercano di far fronte ad essi, non riescono ad eliminarli totalmente. La
discriminazione è esercitata da tutti e in qualsiasi luogo, anche dove forse potrebbe, in realtà, non
esserci: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, per strada, negli oratori, ecc… Quasi ogni settimana si
sente di ragazzi che hanno picchiato altri loro coetanei, solo perché “diversi”, o di persone che non
riescono a superare i colloqui di lavoro, solo perché hanno qualche disturbo fisico oppure perché
appartenenti ad altre religioni o etnie.
La diversità è sentita come qualcosa di negativo e molto spesso la si fa pesare in maniera alquanto
esagerata. I ragazzi “diversi” si sentono esclusi, presi in giro e non accolti volentieri nei vari gruppi
o associazioni. Bisogna riuscire a far fronte del tutto a queste cose orribili; ognuno nel proprio
piccolo potrebbe contribuire positivamente, ma questo non vale solo per le discriminazioni, ma per
qualsiasi azione che dovrebbe essere eliminata.
•
•
•
LE DIFFERENZE ESISTONO. VANNO RICONOSCIUTE E ACCETTATE.
LE DIFFERENZE POSSONO DISPIACERE, MA NON DOBBIAMO IMPEDIRE AGLI
ALTRI DI ESSERE DIVERSI.
LE DIFFERENZE POSSONO ESSERE ANCHE POSITIVE, RENDONO IL MONDO UN
LUOGO INTERESSANTE IN CUI VIVERE.
2
L'unico modo per vivere pacificamente insieme agli altri è accettare le differenze. Una volta
accettata l'idea che le differenze esistono e che nonostante alcune siano positive, altre possono non
piacerci; bisogna convincersi che la vita sociale ci impone di tollerare anche certe situazioni, che
possono risultare non gradite a noi stessi.
Ma cosa sono, in breve, diversità, discriminazione e integrazione?
DIVERSITÀ:
• essere normali significa rispettare sia le leggi ufficiali, sia le leggi non scritte, che
controllano la nostra vita morale, stabilendo la distinzione tra bene e male, vizio e virtù,
successo e fallimento. Chi si allontana dalla norma è invece “anormale”, diverso dagli
altri;
• è diverso chi si sente tale: chi non riesce a rientrare nella norma, perché è incapace di
comportarsi e di vivere come gli altri o perché crede in altri valori e in altri modelli di vita;
• è diverso chi viene considerato tale e pertanto viene emarginato ed escluso;
• chi è privo di requisiti fisici o sociali ritenuti indispensabili: la salute, la bellezza,
l’intelligenza, il benessere economico, ecc. [...]. Gli altri sono invece coloro che sono, o
credono di essere, “normali”, che rispettano le regole del gioco e che in virtù della loro
posizione, sanciscono la diversità. Eppure la distinzione tra normalità e anormalità,
sebbene inevitabile e necessaria, non è un valore assoluto o eterno, ma una convenzione,
che può essere messa in discussione, criticata e/o modificata. […]. (M. Antonello, “Le voci
dell’altro”, Loescher, Torino, 1995).
La diversità non è una sola ma, ne esistono di diverse forme:
• motoria;
• cognitiva;
• sensoriale;
• linguistica;
• sessuale;
• religiosa;
• sociale;
• etnica.
Un ulteriore caso particolare di diversità è costituito da bambini
precoci, dotati e superdotati.
DISCRIMINAZIONE:
• trattamento non paritario riservato a un singolo individuo o a un gruppo, a causa della
propria appartenenza a una particolare categoria, classe sociale o etnia oppure a causa del
sesso o delle preferenze sessuali, della religione, delle opinioni politiche, dell’età o di un
handicap.
Esempi, quindi, di situazioni discriminanti sono costituiti dal razzismo, dal sessismo,
dall’omofobia e dall’handifobia.
INTEGRAZIONE:
• insieme di processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una società;
• partecipazione alla vita comune e presenza di relazioni umane soddisfacenti;
3
La società tende, nella maggior parte dei casi, ad assumere un atteggiamento nei confronti del
“diverso” non di apertura, ma di chiusura, in quanto chi è diverso, il più delle volte, non viene
capito e accettato e, talvolta, non si cerca neppure di assumere un atteggiamento atto a favorire una
sorta di integrazione.
Alla luce di quanto fin qui descritto, può risultare coerente iniziare questo percorso con la
presentazione del brano “La madia”, tratto dall’opera “Le novelle della Pescara” di Gabriele
D’Annunzio. Esso tratta del tema della discriminazione da parte, non solo dei concittadini, ma
anche del fratello e della matrigna, nei confronti di un ragazzo definito “lo stroppiatino”, con
disturbi fisici e mentali. “[…] Egli era mingherlino, con una grossa testa pesante. I capelli erano
così biondi che quasi parevano bianchi.
Gli occhi erano dolci come quelli di un agnello, azzurri fra le lunghe ciglia chiare.
Entrando, non disse nulla; poiché era muto per una paralisi. […] La gamba destra, torta e
raccorciata, aveva un piccolo tremito visibile. […]”.
Successivamente con il libro “Il mio piede sinistro”, si può esaminare una situazione opposta, nella
quale è visibile il tema dell’integrazione di un ragazzo disabile, sia all’interno della famiglia sia
della società, senza che egli venga preso in giro o deriso.
Christy Brown, disabile dalla nascita a causa di una paralisi cerebrale, poteva comunicare solo con
il suo piede sinistro, l’unica parte del corpo della quale aveva il controllo.
Si può passare poi ad analizzare un’ulteriore situazione di discriminazione, questa volta non più
esercitata nei confronti di persone disabili, ma verso persone di un’altra razza, come ad esempio
l’antisemitismo hitleriano, con la conseguente persecuzione antiebraica.
In seguito si può prendere in esame un caso di marginalità presente in ogni società e molto spesso
non preso in considerazione: il barbonismo.
Per finire si può trattare di un caso particolare di diversità non diffuso come gli altri, ma comunque
rilevante e interessante, relativo ai bambini precoci, dotati e superdotati.
Da “Le novelle della Pescara”:
LA MADIA
Appena Luca udì il rumore delle grucce, spalancò gli occhi e li volse
ardenti verso la porta, aspettando che il fratello comparisse sul
limitare. Tutta la faccia, estenuata dalla sofferenza, divorata dalla
febbre, sparsa di bolle rossastre, gli prese d’improvviso un aspetto di
durezza e quasi d’ira. Egli afferrò le mani della madre,
convulsamente, gridando, con la voce rauca e rotta:
“Caccialo! Caccialo! Non lo voglio vedere. Capisci? Non lo voglio
vedere; mai più. Capisci?”
Le parole lo soffocarono. Egli stringeva forte le mani della madre,
tossendo con grande affanno, mentre la camicia sul petto gli palpitava
e gli s’apriva un poco ad ogni sforzo. Aveva la bocca gonfia; e pel
mento le bolle riseccate gli formavano come una crosta che si
screpolava e sanguinava ad ogni sforzo.
La madre cercava di placarlo.
“Sì, sì, figlio mio. Non lo vedrai più. Farò come tu vuoi. Lo caccerò, lo caccerò. Questa è la casa
tua, figlio, tutta tua. Mi senti?”
Luca le tossiva sul volto.
4
“Ora, ora, subito” egli diceva, con una persistenza feroce, sollevandosi di sul letto, spingendo la
madre verso la porta.
“Si, figlio mio. Ora, subito.”
Ciro comparve al limitare, reggendosi su le grucce. Egli era mingherlino, con una grossa testa
pesante. I capelli erano così biondi che quasi parevano bianchi. Gli occhi erano dolci come quelli
di un agnello, azzurri fra le lunghe ciglia chiare.
Entrando, non disse nulla; poiché era muto per una paralisi. Ma vide gli occhi dell’infermo, che lo
guardavano intenti e crudeli; e si fermò nel mezzo della stanza, appoggiato alle grucce, irresoluto,
non osando avanzare. La gamba destra, torta e raccorciata, aveva un piccolo tremito visibile.
Luca disse alla madre:
“Che viene a fare, questo stroppiato? Caccialo via! Voglio che tu lo cacci via. Capisci? Subito.”
Ciro intese, e guardò la matrigna che già era per levarsi. La guardò con occhi supplichevoli,
ch’ella non ebbe cuore di fargli violenza. Poi, tenendo sotto l’ascella una gruccia, con la mano
libera fece un gesto disperato. E gettò uno sguardo vorace alla madia ch’era in un canto. Voleva
dire:
“Ho fame.”
“No, no, non gli dar niente!” si mise a gridare Luca, agitandosi tutto sul letto, imponendo alla
donna il suo capriccio malvagio.
“Niente! Mandalo via.”
Ciro aveva chinato sul petto la grossa testa, tremando, con gli occhi pieni di lacrime.
Quando la matrigna gli mise una mano su la spalla e lo spinse verso l’uscio, egli ruppe in
singhiozzi. Poi sentì chiudere l’uscio; e rimase sul pianerottolo, a singhiozzare. Singhiozzava forte
e costante.
Disse Luca alla madre, con un atto iroso:
“Lo senti? Fa apposta, per farmi venir male.”
Il singhiozzo del fratello seguitava, interrotto qualche volta da un mugolio singolare, accorante
come il rantolo d’un giumento che sia per morire.
“Ma lo senti? Gettalo per le scale”
La donna sorse con impeto; corse all’uscio, e levò sul muto le mani dure, avvezze a percuotere e ad
incrudelire.
Luca, sollevato in su gomiti, ascoltava i colpi, dicendo:
“Ancora! Ancora!”
Sotto le percosse, Ciro tacque. Trattenendo il pianto, discese nella strada. Egli era famelico; non
mangiava da quasi due giorni. A pena aveva la forza di trascinare le grucce.
Passò in corsa una schiera di monelli, dietro il volo d’un aquilone che prendeva vento
beccheggiando. Taluni gli diedero un urto, gridandogli:
“Ehi, lo stroppiatino!”
Altri lo beffarono, gridandogli:
“Vieni, barbero, alla carriera!”
Altri, alludendo alla sua gran testa, gli chiesero per dileggio:
“Quanto la libbra il cervello, stroppiatino?”
Uno tra questi più disumano, gli fece cadere una gruccia; e si mise a fuggire. Il muto barcollò;
poi la raccolse a fatica, e si mosse. Gli strilli e le risa dei monelli si dileguavano verso il fiume.
L’aquilone s’innalzava, come un uccello di paesi strani, in un cielo tutto rosato e soave.
Compagnie di soldati cantavano in coro, lungo il Bagno. Era la bella stagione, sotto la festa di
Pasqua.
Ciro sentendosi mordere le viscere dalla fame, pensò: ora chiedo l’elemosina.
5
Dal forno veniva con il vento primaverile la fragranza del pane recente. Passò un uomo vestito di
bianco, portando in testa una lunga tavola su cui giacevano in ordine molti pani color d’oro, che
ancora fumavano. Due cani lo seguivano, con il muso all’aria, dimenando la coda.
Ciro si sentì quasi venir meno, di languore. Pensava:
“Ora chiedo l’elemosina; se no, muoio.”
Il giorno cadeva lentamente. Il cielo diafano era tutto sparso d’aquiloni che si ritraevano verso
terra ondeggiando. Le campane propagavano nell’aria sonora un rombo continuo e profondo.
Ciro pensò:
“Ora mi metto alla porta della chiesa.”
E si trascinò verso quel luogo.
La chiesa in fatti era aperta. Si vedeva in fondo l’altare illuminato di fiammelle tremolanti, come
una costellazione. Usciva fuori l’aroma dell’incenso e del benzoino, svanito. Di tanto in tanto,
l’organo gittava un gran fruscio di suoni.
Ciro, d’improvviso, sentì velarsi gli occhi da nuove lacrime. Egli pregò nel cuor suo religioso:
“O Signore, Dio mio, aiutami tu!”
L’organo mise un tuono che fece vibrare i pilastri come stromenti; poi si rallegrò di note chiare.
Sorsero le voci dei cantori. E i devoti e le devote entravano, a due, a tre, per la porta unica. Ciro
non osava ancora tendere la mano. Un mendicante, poco discosto, chiese lamentevole:
“La carità, per l’amore di Dio!”
Allora il muto ebbe onta. Vide entrare nella chiesa la matrigna, tutta raccolta sotto la mantura
nera. Pensò:
“Se andassi a casa, mentre la matrigna è fuori?”
La bramosia del cibo lo punse così forte, che egli non indugiò più oltre. Volava, su le grucce, dietro
la speranza del pane. Una femminetta, al passaggio, gli gridò ridendo:
“Corri il palio, stroppiatino?”
Egli giunse alla casa, in un baleno, ansando e palpitando. Salì le scale con cautela infinita, senza
rumore. Cercò la chiave a tentoni, in una cavità del muro, dove soleva metterla la matrigna
uscendo. La trovò; e prima d’aprire guardò per buco della serratura. Luca, sul petto, pareva
sopito.
Ciro pensò:
“Se potessi prendere il pane senza svegliarlo!”
E girò la chiave, piano piano, trattenendo il respiro, temendo di svegliare il fratello con i palpiti
del cuore. Pareva che i palpiti empissero tutta la casa, come d’un fragore altissimo.
“E se si sveglia?” pensò Ciro con un brivido nelle midolle, quando sentì che la porta era aperta.
Ma la fame lo rendeva audace. Egli entrò, puntando le grucce delicatamente, non togliendo mai gli
occhi di sul fratello.
“E se si sveglia?”
Il fratello, supino, respirava con affanno in quel sopore. Di tratto in tratto gli usciva dalle labbra
quasi un fischio lieve. Una sola candela ardeva su la tavola, gittando alla parete larghe ombre
variabili.
Ciro, come fu presso alla madia, s’arrestò per vincere il tremore; guardò il dormiente; poi,
reggendo ambo le grucce con l’ascelle, si mise a sollevare il coperchio. La madia scricchiolava
forte.
D’improvviso Luca diede un balzo, svegliandosi. Vide il fratello in quell’atto e cominciò a gridargli
contro, agitando le braccia, come un ossesso.
“Ah, ladro! Ah, ladro! Aiuto!”
Ma il furore lo soffocava. Mentre il fratello, accecato dalla fame, chino sulla madia, cercava con le
mani tremanti un pezzo di pane, egli si gettò giù dal letto e gli corse sopra a impedirgli di prendere.
“Ladro! Ladro!” gridava, fuori di sé.
6
Fuori di sé, trasse il coperchio pesante sul collo di Ciro; che s’agitò come una vittima alla
tagliola, disperatamente. Resisteva Luca contro quelli sforzi, avendo perduto ogni coscienza della
cosa, premendo con tutta la sua persona, quasi per decapitare il fratello. Il coperchio
scricchiolava, penetrando nella viva carne della nuca, schiacciando le canne della gola, pestando
le vene e i nervi. Penzolò dalla madia un corpo inerte, che più non dava alcun tratto. Allora, in
cospetto dello storpio trucidato, uno sbigottimento pazzo invase l’animo del fratello.
Due o tre volte, barcollando, egli attraversò la stanza che i guizzi della candela empivano di paure;
mise le mani su le coperte, le tirò a sé, ci si avvoltolò tutto, coprendosi anche la testa; poi si
accovacciò sotto il letto. E nel silenzio i suoi denti stridevano, come una lima sul ferro.
Questo brano affronta molto vivamente il tema della discriminazione e dell’emarginazione agli inizi
del Novecento. Questo fa capire che i comportamenti negativi nei confronti delle persone disabili
non sono affatto nulla di nuovo, ma venivano esercitati anche nel passato.
Le novelle della Pescara (1902) sono una antologia, fatta dall'autore stesso, dei risultati più brillanti
finora raggiunti, rivisti e corretti. Con modifiche di titoli e anche più sostanziali revisioni del testo,
“Le novelle della Pescara” comprendono i racconti già usciti sotto il titolo di San Pantaleone, con
l'aggiunta di “La vergine Orsola” tratto dalla raccolta “Il libro delle Vergini”.
L’opera nasce da un’attenta selezione, che le conferisce, nella varietà dei temi affrontati, un
carattere unitario. Il primo elemento caratterizzante è, come suggerisce il titolo, il rapporto con il
territorio. Il paese di Pescara (che diventerà capoluogo di provincia solo nel 1927 e proprio per
iniziativa di D’Annunzio) è al centro di questa narrazione, insieme alla campagna circostante che
spesso accoglie folle di persone in preda ad impulsi non controllabili.
D’Annunzio mostra da un lato una perfetta padronanza del mezzo espressivo, che riesce a restituire
ogni minima emozione dei personaggi, dall’altro una viva curiosità per le emozioni più estreme. Si
va dal fanatismo della folla alla sorte disperata di molte madri, che finiscono per morire di parto o
nel tentativo disperato di vedere un’ultima volta il figlio ormai lontano.
La rappresentazione di scene di vita quotidiana si risolve a volte in beffe di sapore boccaccesco, ma
il legame più significativo risulta quello che avvicina D’Annunzio al Verismo. Anche lo scrittore
abruzzese ama soffermarsi sulle emozioni del popolo e sulle sue rivolte, non però per descrivere
(come accade in Verga) le rivendicazioni sociali, ma per studiarne gli stati d’animo, le energie quasi
primordiali, che vengono sprigionate nel momento della protesta. Per questo, agli occhi di
D’Annunzio, la rivolta dei contadini non è molto diversa dalla guerra in nome del patrono; ciò che
davvero lo affascina è il grande spettacolo delle emozioni collettive, che portano singoli individui
ad un livello quasi subumano di ferocia ed aggressività. La conferma di questo interesse per le
emozioni intense, quasi morbose, viene dalla novella che chiude la raccolta, Il cerusico di mare. In
essa D’Annunzio descrive minuziosamente l’infezione di un marinaio e la maldestra operazione
effettuata da un compagno di bordo, per poi soffermarsi sul propagarsi dell’infezione, fino alla
morte dello sfortunato protagonista; anche se manca la folla, emerge comunque l’interesse per le
situazioni estreme, descritte nei minimi particolari.
GABRIELE D’ANNUNZIO
Gabriele D’Annunzio, poeta, drammaturgo, simbolo del decadentismo
ed eroe di guerra, nacque a Pescara il 12 Marzo 1863.
Fin dai primi anni della sua vita, il giovane Gabriele manifestò una
personalità non priva di complessi e inibizioni, portata al confronto
competitivo con la realtà, e spiccava tra i coetanei per intelligenza
e per una precocissima capacità amatoria. Inoltre, era irrequieto, ribelle
7
e deciso a primeggiare.
Compose il suo primo libro di versi “Primo Vere” a soli 16 anni.
Non finì gli studi e si dedicò al giornalismo ed alla composizione di opere di varia natura e valore, e
trascorse anche un’esistenza ricca di mondanità, frequentatore come era di salotti, animatore di
dibattiti,
interessato
alla
realtà
politica.
Divenne immediatamente artista di tendenza, personaggio pubblico genialmente scandaloso, acuto e
irriverente polemista.
Nella sua poesia egli affronta una quantità enorme di tematiche: la sensualità, la malinconia
distaccata, il desiderio di purificazione, i destini della nazione, la celebrazione dell'avventura. Tutto
questo con strenua ricerca per le forme della parola, raffinate e insolite.
L'opera più autentica dell'ultimo D’Annunzio è il “Libro segreto”, a cui affida riflessioni e ricordi
nati da un ripiegamento interiore ed espressi in una prosa frammentaria. L'opera testimonia la
capacità del poeta di rinnovarsi artisticamente anche alle soglie della morte, giunta l’1 marzo 1938,
mentre si trovava sul lago di Garda.
MY LEFT FOOT
In Dublin in 1932, Christy Brown, just born, was victim of a
paralysis that prevents him from speaking and moving: doctors
express pessimistic forecasts on the possibility of survival of Christy
who, in spite of this handicap, was very accepted from all his
numerous, but poor family. With passing of the years Christy
surprises his relatives with his attempts to communicate with the left
foot, through which he succeeds in writing some words and in
painting. At the age of 17, it is offered him the opportunity of being
cured from doctor Eileen Cole: with the participation of this
specialist, Christy makes progress that allows him to obtain a
remarkable success as a painter. After an attempt of suicide, caused
by the marriage of his friend Peter with Eileen, who he madly loves,
Christy write his autobiography, that is published. Enthusiastic about
this book, the nurse Mary Carr accepts to marry him.
CHRISTY BROWN
Christy Brown (June 5, 1932 – September 7, 1981) was an
Irish author, painter and poet.
He was born in Crumlin, Dublin, and he was one of
thirteen surviving children (out of twenty-two born) in a
Catholic family. He was handicapped with cerebral palsy
and he was incapable for years of move and speak.
Doctors considered him to be mentally disabled as well.
However, his mother continued to speak to him, work with
him, and try to teach him until he snatched a piece of chalk
from his sister with his left foot to make a mark on the
floor. He was about five years old and only his left foot
8
responded to his will. His mother then taught him the alphabet and he laboriously copied each letter,
holding chalk between his toes. He learned to spell out words and finally to read. In the meantime,
his brothers took him everywhere in an old go-cart or wagon and included him in their activities as
much as possible. They even took him swimming. When the cart finally broke, his adventures with
his brothers came to an end. He became aware of his disabilities and he retired from public gaze
and withdrew into reading.
After his mother broke through the physical barrier and she achieved communication, Brown was
examined by a Dr. Eileen Cole and placed in a new physiotherapy program. He had to promise to
stop using his left foot, because in using it he twisted the rest of his body into an unnatural position.
Dr Cole had opened a new clinic in Dublin, specializing in Cerebral Palsy. Christy had been invited
to join, but he didn’t feel comfortable in the environment and he discontinued his attendance. Dr
Cole however, gave Christy home tutoring, where he learned to develop his movement and speech.
This didn’t discontinue his use of his left foot.
Brown's autobiography describes a trip to Lourdes, which was a solemn adventure for the young
Brown, but ineffectual in producing any physical improvement. Brown describes his attachments,
passions, and crushes, his admiration for his doctors and teachers, and his frustrations with his
abilities. His father was a bricklayer who recruited his sons into the same trade. Gradually, Christy
withdrew into a life of the mind and had always less in common with his brothers in his age group.
He felt that the younger children in his family, a different age group, were less familiar. His mother
persuaded the family to build him a small, separate house in their back yard. It became his studio,
where he could withdraw for peace and quiet, away from brothers and children.
Brown switched from reading to writing and from writing to painting. Then he decided to write his
autobiography. As he was self-taught and had read only Dickens, he wrote in a florid and oldfashioned style, dictating hundreds of pages to two of his brothers, but the work was unreadable
even for him. Eventually he asked Dr. Cole for help. One command of Dr. Cole was to read modern
authors.
His autobiography, My Left Foot, was later expanded into the novel Down
All The Days and became an international bestseller, with translations into
fourteen languages. Down All The Days was followed by a series of other
novels, including A Shadow on Summer. He also published a number of
poetry collections, including Come Softly to My Wake.
With his wife, Mary Carr, whom he married on October 1972, he settled in
Ballyheigue, County Kerry. He later moved to Parbrook, Somerset,
England, where he died, aged 49. He is buried in Glasnevin Cemetery.
My Left Foot became also a film that recounts the same story of his
autobiography and it was filmed by Jim Sheridan in 1989.
The Irish rock band The Pogues paid tribute to Christy Brown with a song
titled "Down All the Days"
ANTISEMITISMO HITLERIANO:
LA PERSECUZIONE ANTIEBRAICA
Hitler, suddito asburgico, scoprì la sua vocazione per la politica e divenne leader del Partito
Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi, o più semplicemente del Partito Nazista. Hitler espose i
suoi progetti nel libro Mein Kampf (La mia battaglia, 1924).
Al centro dei piani hitleriani c’era un’utopia nazionalista e razzista, una considerazione della vita
come lotta continua in cui solo i forti erano destinati a vincere, l’esistenza di una razza superiore e
conquistatrice, inquinatasi per la mescolanza con le razze inferiori. La razza superiore o razza ariana
doveva innanzitutto schiacciare gli ebrei, popolo senza patria, responsabili del disastro finanziario,
9
del bolscevismo e della decadenza della civiltà europea. Inoltre la razza ariana aveva diritto ad un
proprio spazio vitale ad Oriente, sottomettendo tutti gli Untermenschen (razze inferiori).
Tuttavia l’antisemitismo non appariva ancora, negli anni dell’ascesa del nazismo e dopo la presa del
potere, la componente fondamentale del nazionalsocialismo e non si distingueva granché
dall’antisemitismo politico tradizionale, tipico degli ambienti reazionari tedeschi. E sebbene si
realizzasse progressivamente una politica di espulsione, di discriminazione e internamento degli
ebrei, per lungo tempo nulla lasciò intuire che si sarebbe arrivati al genocidio.
La persecuzione antiebraica venne attuata gradualmente:
• dal 1933 iniziò il boicottaggio dei negozi, l’esclusione degli ebrei dalle professioni, dalle
associazioni, ecc…; vennero messi al rogo i libri e la stampa ebraici;
• nel 1935 le Leggi di Norimberga sancirono la discriminazione, togliendo agli ebrei la parità
dei diritti conquistata nel 1848, dichiarandoli non appartenenti al popolo tedesco, istaurando
una sorta di segregazione razziale, privandoli della cittadinanza e proibendo i matrimoni
misti;
• dall’8/9 novembre 1938 (la “notte dei cristalli”) si moltiplicarono le violenze gratuite;
• negli anni successivi prese corpo l’idea della “soluzione finale”, da realizzare in diverse fasi:
o il “piano Madagascar”, con il quale si intendeva espellere gli ebrei dallo “spazio vitale”
destinato al popolo germanico, trasferendoli in una riserva extraeuropea, individuata
appunto, nell’isola del Madagascar. Questo progetto fu presto abbandonato;
o l’Action T4, che sviluppava programmi di sterilizzazione forzata dei disabili tedeschi e
mirava, attraverso l’eliminazione dei “malriusciti”, al perfezionamento selettivo della
razza ariana. Si trattava di una sorta di eutanasia, che riguardava non solo i malati
terminali, ma prevedeva l’eliminazione dei bambini malformati alla nascita, dei disabili
fisici e mentali e dei disadattati. Le persone selezionate venivano mandate in case di
cura e ai famigliari veniva comunicato l’avvenuto decesso per cause naturali;
o dal 1941 iniziarono le deportazioni degli ebrei, utilizzati in un primo momento presso le
industrie pubbliche e private del Reich. Successivamente ci fu la creazione di ghetti, che
prevedevano la deportazione dell’intera popolazione ebraica (il più celebre e il più
grande era il ghetto di Varsavia). Dai ghetti gli ebrei sarebbero stati in seguito inviati nei
campi di concentramento e di sterminio, dove sarebbero avvenute eliminazioni caotiche
e metodiche, attraverso fucilazioni di massa, sfruttamento e asfissia.
Cominciò, dunque, il genocidio degli ebrei.
UNA CONDIZIONE DI MARGINALITA’: IL BARBONISMO
Il barbonismo è il fenomeno per cui alcuni individui vivono senza
casa, senza famiglia, senza lavoro, con pochi averi essenziali,
sradicati dal tessuto sociale e dalla cultura di appartenenza. Si
tratta di una condizione che ha tutte le caratteristiche della
marginalità, non della semplice emarginazione, perché i barboni
sono completamente al di fuori del sistema sociale, si sentono
estranei ad esso, non aspirano a rientrarci, e vivono in un mondo
proprio, separato dal mondo della gente comune.
Esistono due forme di barbonismo, quello tradizionale o puro e il
neobarbonismo. Nel primo c'è una frattura netta e apparentemente
insanabile nel rapporto con la società. Il barbone classico è
diffidente, spesso anche nei riguardi degli altri barboni, e
considera la società con le sue istituzioni, comprese quelle
assistenziali, pericolosa. E’ convinto inoltre, che il suo passaggio
10
al mondo della marginalità sia ormai senza ritorno e non è disposto a prendere in esame in alcun
modo la possibilità di una propria reintegrazione. Di conseguenza intrattiene con gli altri e con le
istituzioni rapporti occasionali e sfuggenti, legati al soddisfacimento dei bisogni primari. Può
chiedere l'elemosina, sedersi a una mensa, recarsi a un dormitorio, scambiare qualche parola, ma
non è disposto a impegnarsi ulteriormente nell’allacciare relazioni.
Nel neobarbonismo, divenuto quello prevalente negli ultimi decenni, c’è maggiore disponibilità a
fidarsi degli altri e della società e a considerare ancora aperto il proprio destino. In effetti il nuovo
barbone intrattiene un rapporto ambivalente con le istituzioni: da un lato le evita, le teme, le soffre,
dall'altro le ricerca, vi ripone aspirazioni e speranze.
La sua storia di barbonismo è spesso fluttuante e vede alternarsi periodi di vita da barbone ad altri di
vita normale o quasi. I nuovi barboni sono diversi in genere anche per il passato che hanno alle
spalle. Mentre il barbone tradizionale ha una profonda ferita, ha maturato una grave delusione che
investe per lo più gli affetti fondamentali, il lavoro e il valore stesso delle istituzioni e della vita
associata, il nuovo barbone è quasi sempre un disagiato (un alcoolista, un disoccupato, un
tossicodipendente, un disturbato mentale) che non ha trovato risposte adeguate nei servizi
assistenziali e nelle persone che si sono occupate di lui o che avrebbero dovuto occuparsene. Ci
sono infine le differenze di età: tra i nuovi barboni non prevalgono più nettamente gli anziani, ma ci
sono molte persone di mezza età e anche giovani.
Il barbonismo è stato inteso in vari modi. In passato si è oscillato tra due concezioni antitetiche. Da
un lato c’era chi pensava che il barbone vivesse così per sua volontà, dall'altro chi lo riteneva
costretto dalle condizioni oggettive e dalle pressioni sociali. Il barbone in questo caso era visto
come una vittima, mentre tra quelli che consideravano il barbonismo una scelta volontaria, i giudizi
andavano dal disprezzo all’idealizzazione della figura del barbone.
Una visione abbastanza diffusa tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, specie negli Stati Uniti
e in Gran Bretagna, era la cosiddetta teoria dell'orda primitiva. Si pensava che all’interno delle
società moderne esistesse una fascia di persone primitive, ancora non civilizzate o parzialmente
civilizzate.
Queste
andavano
coinvolte nella vita civile, più che
altro impegnandole in attività
produttive, mettendole a lavorare. I
barboni erano elementi dell’orda
primitiva che la società non era
riuscita a coinvolgere. All’estremo
opposto le correnti di pensiero che
hanno reagito alla razionalità
esasperante e disumanizzante del
mondo moderno, come ad esempio
il decadentismo in letteratura,
l’esistenzialismo o lo spiritualismo
in filosofia, hanno visto nel
barbone l’uomo che rifiuta
l’organizzazione sociale perché di fatto schiaccia e annienta l’individuo e coerentemente se ne pone
fuori.
Oggi, le idee del passato non sono più accettate. L’ipotesi prevalente allo stato attuale è che il
barbonismo rappresenti il punto di arrivo di un lungo cammino. Si diventa barboni attraverso un
processo, in cui fattori soggettivi e oggettivi, scelte individuali e condizionamenti sociali,
interagiscono. Tipici di tale processo sono i circoli viziosi in conseguenza dei quali ogni passo in
avanti rende sempre più difficile tornare indietro.
11
PROCESSO DEL BARBONISMO.
BAMBINI PRECOCI, DOTATI, SUPERDOTATI
Un caso particolare di diversità (e anche spesso trascurato) è quello dei bambini, le cui
capacità sembrano superare le aspettative medie nei loro confronti. Il primo atteggiamento
sviluppato in campo educativo verso i bambini dotati di talento consisteva infatti, nel
tentativo di creare per essi un'educazione "speciale", in grado di esaltare al massimo le loro
capacità cognitive: il risultato era spesso quello di uno sviluppo unilaterale, di un
disadattamento precoce nelle altre sfere di vita.
Per contro oggi si ritiene che l'importanza sociale di uno sviluppo adeguato dei talenti e delle
risorse individuali non debba mai prescindere da un rigoroso rispetto dei diritti del singolo ad
una crescita armoniosa e felice. Determinati bambini possono presentare caratteristiche, che
li differenziano dalla media verso l'alto, dimostrando lo sviluppo precoce di certe aree della
personalità oppure la presenza di capacità determinate ad un livello superiore. Questi bambini
hanno il diritto, esattamente come tutti gli altri, di crescere in modo coerente con le proprie
caratteristiche, senza che la loro presenza diventi penalizzante o squilibrante per gli altri o per
le istituzioni educative. Le famiglie sembrano a questo proposito generalmente dimostrare
più attenzione della scuola verso la vera o presunta "eccezionalità" dei figli, che provoca in
genere una serie di stimolazioni ed attenzioni educative "mirate", fra cui la decisione di far
seguire percorsi istruttivi speciali. Questi bambini apprendono molto presto di possedere
qualcosa che li rende "diversi", anche se non di una diversità in negativo, e ad avere un
livello di aspettative coerente. Si tratta tuttavia di una condizione, in cui sono presenti
numerosi gravi rischi educativi. Può accadere che la famiglia voglia credere a tutti i costi ad
un'eccezionalità, che non esiste nei fatti, lottando strenuamente per affermarla attraverso una
iperstimolazione nevrotizzante del bambino, che vive continuamente nella tensione di chi sa
di dover corrispondere giorno per giorno ad aspettative sproporzionate; può accadere che
l'eccezionalità esista effettivamente, e la famiglia ne faccia pressoché l'unico scopo della vita
comune, trasmettendo al figlio l'idea di essere amato solo in relazione alla sua potenzialità di
successo; può accadere che il diritto del bambino ad una crescita armonica venga negato in
nome dello sviluppo del suo talento. Il rischio maggiore che invece può comparire nella
scuola è l'indifferenza.
Fatta per lo studente "medio", la scuola di massa sembra penalizzare equamente ipodotati e
superdotati, a maggior ragione se questi ultimi provengono da ambienti familiari, dove la loro
iperstimolazione è frequente. Per questi bambini la scuola è un ambiente noioso e
demotivante. Talora, invece, la scuola si fa trascinare nello stesso “gioco”, che era stato
inaugurato dalla famiglia: investe il bambino della responsabilità di essere sempre
"eccezionale", trascura il suo diritto a crescere in modo armonico anche nelle sfere "normali"
della personalità, ne fa un “prodigio” con difficoltà di socializzazione rispetto ai compagni.
12
La scuola "noiosa" può far sì che questi bambini crescano in modo positivo, ma senza
sfruttare le loro potenzialità, oppure che manifestino forme di disadattamento più o meno
grave in relazione alla scarsa aderenza dell'ambiente rispetto alle loro aspettative, alla
“deprivazione evolutiva” che esso esercita nei loro confronti. Talora può invece accadere che
i bambini precoci o superdotati “vadano male” a livello di profitto, a causa dell'inadeguatezza
dei percorsi di insegnamento rispetto alle loro esigenze; oppure che essi scoprano che per
realizzare una socializzazione positiva con i loro compagni è meglio non evidenziare o
sfruttare a fondo le proprie capacità. Coloro che seguono invece fino in fondo, ma a senso
unico, la valorizzazione delle proprie potenzialità, possono diventare adulti con carriere di
successo, ma anche persone con sofferenze psicologiche consistenti, capaci talora di cambiare
improvvisamente vita, senza più dedicarsi a quelle aree di attività, sulle quali avevano
investito la propria educazione. Risulta perciò evidente che solo percorsi educativi attenti, ma
responsabili da parte degli adulti, sono in grado di valorizzare autenticamente i talenti e le
potenzialità di questi bambini.
Il diritto alla diversità si deve concretizzare qui in una educazione “su misura”, in cui tuttavia
il bambino non è ostaggio delle ambizioni degli adulti e viene riconosciuto nell'integralità dei
suoi bisogni, anche nelle sfere “normali”. Bisogna dare atto che molti sostenitori
dell'educazione precoce dei talenti, come l'americano Glenn Doman, hanno più volte insistito
a questo proposito, sottolineando come i bambini “eccezionali” crescano veramente tali, solo
in un ambiente affettivamente positivo, che li ama per il semplice fatto di esserci piuttosto che
per quello che sono in grado di fare. Resta tuttavia il problema dell'inadeguatezza, in molti
casi, dell'istituzione scolastica, nella quale la mobilitazione di risorse a favore degli ipodotati
(peraltro non sempre, comunque, fonte di successi) non corrisponde ad un'attenzione analoga
verso i precoci o i superdotati, se non, talvolta, nella possibilità di accelerazione dei percorsi
di studio. Alla base di tutto questo resta dunque la realizzazione del grande ideale pedagogico
di una scuola “per tutti e per ciascuno”.
13