quella gran luce sulla via di damasco

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quella gran luce sulla via di damasco
Ettore Schmitz
QUELLA GRAN LUCE
SULLA VIA DI DAMASCO
ROMANZO PSICOANALITICO
Ettore Schmitz, a 34 anni si rende conto di avere numerosi nodi della personalità da sciogliere. Invece di andare da uno
psicoanalista, decide di scrivere un memoriale autobiografico, di pubblicarlo tramite due blog e tramite facebook e di costruire
una attività psicoanalitica dove non sarà uno psicoterapeuta a dare consigli, ma gli utenti dei suoi blog e i suoi amici su facebook,
tra i quali ci sono anche degli psicoanalisti. Che ti po di trasformazione della personalità può generare un simile esperimento
psicosociale? Il romanzo dal titolo “Quella gran luce sulla via di Damasco” ce lo racconta man mano che esso stesso prende forma.
“Quella gran luce sulla via di Damasco” è un romanzo ispirato alla vita dell’autore, con aggiunte
di pura fantasia. E’ presentato e reso disponibile interamente e gratuitamente su Internet. E’
una storia che documenta l’origine di una famiglia del sud Italia con ricordi così lucidi e precisi
– perfino per quel che riguarda la vita infantile dei genitori – che hanno dell’inquietante.
Questa conoscenza gli è stata tramandata oralmente principalmente dal padre. Spicca la
descrizione della genesi del proprio carattere: preciso, metodico, perfezionista potremmo
infine definire svagodeficiente ma col sogno di riscattare per se stesso una vita normale. La
lucidità di questa autoanalisi crea un’atmosfera sinistra dove l’autore si diverte a creare
suspense e sorpresa, in relazione a cose incredibili ma realmente accadute. Si racconta un
dramma terribile e misterioso: l’autore si ammala a 22 anni, con diagnosi clinica “Schizofrenia
paranoide”. Ettore capirà un giorno che la normalità non esiste come condizione ma solo come
metodo e filosofia di vita. L’autore per fortuna beneficia di lunghi periodi di benessere ed è
convinto di poter spiegare da un punto di vista che non andrebbe ignorato come ci si
incammina in questo abisso e come se ne possa uscire. Si apprenderà che questa risalita
dall’abisso della psicosi coincide con una progressiva ricostruzione del proprio carattere.
Accidentalmente tutto questo coesiste con numerose vicende sentimentali dolorose, dopo
delle quali riuscirà ad innamorarsi sul serio e con un cuore rinnovato e più umano che mai.
Finalmente Ettore perderà le sembianze di una macchina e acquisterà quelle di un uomo,
perchè “anche se all’orizzonte c’è un vulcano che minaccia la nostra vita, con un po’ di forza e
immaginazione si può intravedere sempre un’ alba”. Cosa è determinante per la guarigione? La
filosofia? La religione? La psicoanalisi? Lasciatevelo raccontare…
INDICE
Introduzione
I Inizierò a scrivere un romanzo psicoanalitico
II Abbandono della terapia farmacologica
III Ricaduta
Guida alla lettura
Preambolo
1 La storia di mio padre
2 La storia di mia madre
3 Il matrimonio dei miei genitori
4 I miei nonni a Milano
5 Mia sorella
6 I miei cugini, gli zii e i nonni in Sicilia
7 L’infanzia e i primi anni a scuola
8 La morte di mio nonno Ludwig
9 Lo scontro con la scuola media
10 La più brava della classe
11 Storia di una spiritualità tormentata
12 I miei due amici più stretti
13 I primi due anni delle scuole superiori
14 I miei primi due veri amori: Aurora e un personal computer
15 L’esame di maturità
16 Cosa farò da grande?
17 I primi mesi all’università
18 Il primo trauma: vorrei essere perfetto
19 Dio mi può aiutare?
20 Il lavoro
21 Quella casa nella prateria
22 Storia di una ordinaria psicosi
23 Le mie delusioni
24 Dirty Pamela
25 I miei amici Deborah e Daniele
26 Il mio matrimonio
APPENDICE
27 Arte di vivere contro filosofia
28 Psicologia contro psichiatria
29 Empirismo contro matematica
30 Agnosticismo contro religione
Introduzione
I
Inizierò a scrivere un romanzo psicoanalitico
Pantelleria, 11 Novembre 2008
Spero che questo lavoro possa attirare l’attenzione di chiunque abbia vissuto l’eperienza della malattia
mentale e di parenti e amici dei malati psichiatrici. Spero inoltre che la mia esperienza, unita alla
critica sugli argomenti metodologici della psichiatria, della psicoanalisi e della psicoterapia individuale e
di gruppo e di tutte le terapie atte ad alleviare i sintomi del disagio psichico, possa essere di interesse
per chi semplicemente è affascinato dal mondo della psicologia pur non appartenendo al mondo
accademico, nonchè per chi lavora e studia tutti i giorni per aiutare chi sta soffrendo, in qualità di
professionista come psichiatra, psicologo, psicanalista o assistente sociale. In questo blog, Ettore
Schmitz vuole raccontare come sia arrivato ad un concetto che – crede – sia oggi equilibrato in merito a
terapia farmacologica e psicoterapia nella cura delle psicosi.
I nomi dei personaggi e delle località geografiche sono stati cambiati.
Mi chiamo Ettore Schmitz e da circa due anni e mezzo abito in Sicilia nell’isola di Pantelleria di cui sono
originario, dopo aver vissuto dalla nascita fino a trentadue anni nell’interland Milanese. Quando avevo
19 anni mi sono incamminato nella pericolosa strada che conduce alla psicosi e a 22 anni mi sono
ammalato con diagnosi clinica “Schizofrenia paranoide”. Sono separato legalmente e sono padre di una
bambina di circa tre anni e mezzo. Oggi vivo una vita serena e -credo- molto significativa.
Sono stato curato per 12 anni con vari farmaci neurolettici per una repertina insorgenza di fenomeni
allucinatori, deliri e vissuti di persecuzione e di distruzione del mondo. Tutto questo dopo un periodo di
tanti anni di stress che io giudico veramente eccezionale, dovuti ad una serie di traumi emotivi maturati
nell’infanzia che mi hanno portato ad un comportamento scorretto dapprima all’università e poi nel
mondo del lavoro come sviluppatore di software per banche dati elettroniche. Con comportamento
scorretto intendo uno sfruttamento eccessivo delle energie fisiche e mentali.
Da quando vivo in Sicilia, sono in cura dal Dott. Fiorentino, un medico psichiatra di grande preparazione,
nonchè uomo di grande coraggio. Il dottore, dopo una serie di visite, ha fatto l’ipotesi che la mia
malattia, nonostante le cure decennali debba ormai considerarsi latente con la possibilita’ di ridurre
progressivamente la terapia farmacologica. Da oltre dieci anni, le allucinazioni sono cessate. E’ restata
negli anni una permanente leggera depressione cronica che mi ha dato molti problemi sul lavoro. Sono
sempre stato convinto che questa depressione sia stata una conseguenza dei neurolettici, ma a Milano
non ho mai trovato un medico che me ne facesse ammissione. Penso che questo sia dovuto al timore
spesso frequentato che il paziente psichiatrico possa interrompere la terapia, con la conseguente
pesante probabilità del ritorno della sintomatologia delirante. Le cose sono cambiate da quando ho
incontrato il Dott. Fiorentino, ma ci è voluto peraltro più di un anno perchè il medico acquistasse piena
fiducia della mia consapevolezza e della mia capacità di criticare i sintomi della malattia.
Ora sono in cura con una dose minima di neurolettici e gradualmente ho raggiunto obiettivi sempre più
importanti, sia in famiglia che sul lavoro. Oltre ad avere un buon compenso psichico, la depressione sta
diventando un lontano ricordo. Da quando è nata mia figlia Ludovica, ho promesso a me stesso che avrei
fatto tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere questi risultati.
La depressione è stata da sempre considerata un male oscuro, incomprensibile e l’ignoranza ha
condannato malati e familiari alla vergogna e ad assurdi sensi di colpa. Grazie alla medicina moderna si
sta pian piano uscendo da questa spirale. Purtroppo però, la crescente complessità della società in cui
viviamo sta provocando un aumento dell’incidenza delle malattie psichiatriche. Per questo motivo è
quanto mai indispensabile che acquisiamo informazioni corrette e consapevolezza, anche perchè sono
profondamente convinto che qualsiasi cervello posto in condizioni di stress protratto nel tempo ha una
certa probabilità di impazzire. La differenza tra le persone sane e quelle malate, secondo me, è da
intendersi prevalentemente su un piano psicologico. Il punto cruciale è la consapevolezza dei propri
limiti e la ferma decisione di non superarli mai, per nessun motivo al mondo. Poco importa quanto siano
ampi questi limiti. Riconosco, tuttavia, che questo ragionamento funziona solo in relazione ad alcune
patologie, per lo più di lieve entità. E’ indispensabile una cura che abbia basi scientifiche e
assolutamente costante nel tempo, il fai da te in questo campo è semplicemente inconcepibile e la
remissione è diagnosticabile in maniera insindacabile solo da un medico specializzato. Ammetto che
anche per me è stato molto difficile accettare questa triste realtà.
Certo, sono consapevole di non essere il solo ad aver vissuto questa esperienza. Ritengo, tuttavia di
avere molte cose interessanti da dire, e inoltre, grazie all’esperienza informatica di cui sono padrone, di
avere una grossa potenza espressiva nelle mani. Voglio perciò farvi partecipi di un mio progetto:
• SCRIVERE UN LIBRO ON LINE.
Il libro ha titolo Quella gran luce sula via di Damasco – crisi di coscienza di un ex testimone di Geova.
E’ un libro che sarà disponibile in due fasi (prima 8 e poi 30 capitoli complessivi), in modo gratuito sul
web. E’ una biografia ispirata alla vita dell’autore, racconta una storia affascinante dove il climax è
raggiunto in relazione ad una storia sentimentale estremamente difficile, finita nel momento in cui
l’autore si renderà conto di non riuscire a salvare la sua amata dalla depressione, almeno fino a quando
non sarà lui stesso più forte e maturo. Purtroppo la ragazza non capirà le sue motivazioni e lo ricatterà
moralmente minacciando il suicidio. Questo scatenerà la psicosi di Ettore. E poi un graduale e
progressivo riscatto…
Dopo anni di riflessioni, Ettore abbandonerà il culto dei Testimoni di Geova che i suoi genitori hanno
praticato fin da cinque anni prima della sua nascita e praticano tuttora.
Il sito web creato metterà a disposizione una serie di strumenti di critica proveniente dagli stessi
lettori grazie ai quali l’autore potrà essere influenzato nella stesura progressiva dei capitoli. In un
certo senso, i lettori avranno la loro parte nella scrittura del libro.
Il libro potrebbe sembrare un’esperimento di auto-psicoanalisi. Nel momento in
incomincerà ad interagire con un vasto pubblico, tutto questo si potrebbe
esperimento sociale. Di informazione…di riflessione, forse. Spero più di tutto
divertimento, visto che i capitoli saranno brevi e più che mai intrisi di un’ironia in
alleggerirà l’onere della lettura.
cui Ettore Schmitz
trasformare in un
però di evasione e
stile “sveviano”, che
Nei prossimi giorni, vi informerò sull’evoluzione del mio progetto, sia per le tematiche letterarie che
per gli aspetti tecnici.
Sentitamente,
Ettore Schmitz
II
ABBANDONO DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA
5 Aprile 2009
Da
circa
tre
mesi
(15
Gennaio
2009),
ho
completamente
abbandonato
la
terapia farmacologica a base di neurolettici, ansiolitici e antidepressivi che da dodici anni mi è stata
prescritta dal Servizio Sanitario Nazionale, e che ho sempre seguito scrupolosamente e senza
interruzioni.
Da un anno, con il pieno appoggio del mio medico psichiatra, seguo un lento e progressivo programma di
“disintossicazione” dai farmaci che per lungo tempo ho assunto. Darò una rapida sintesi del percorso
seguito:
1) Negli ultimi 8 anni ho sempre assunto una compressa da 10 mg di Zyprexa, antipsicotico a base
di olanzapina, oltre a vari altri farmaci ansiolitici e antidepressivi
2) 1 anno fa: passaggio da 10 a 5 mg di Zyprexa
3) 7 mesi fa: passaggio da 5 a 2,5 mg di Zyprexa
Nei periodi immediatamente successivi alle due riduzioni sopra citate, il mio comportamento ha subito
alcune variazioni, di cui mi scuso principalmente con i miei familiari e con i miei amici.
Dopo il primo periodo, accompagnata da vari lievissimi disturbi fisici (ad esempio momentanee rigidità e
tensioni muscolari, in prevalenza cervicali) c’è stata una prolungata tendenza all’aggressività (soltanto
verbale, per fortuna e circoscritta alla semplice “botta e risposta” ma con un pesante senso
dell’umorismo orientato al più freddo cinismo).
Dopo circa tre mesi, il mio carattere sembrava essere tornato stabilmente alla sua forma solita in
relazione alla sensibilità e al rispetto del prossimo. Permaneva una rinnovata energia e la voglia di
essere sempre attivo. Dopo due mesi di stabilità, una nuova riduzione dei farmaci.
Il risultato è stato simile a quello precedente, ma con misure molto molto più ridotte. Di nuovo una
certa aggressività, ma molto meno fastidiosa e pungente. Inoltre, la variazione caratteriale si presenta
in un periodo molto più breve.
Arriviamo ad Ottobre 2008.
Chiedo allo psichiatra come voglia procedere, quando sarà possibile la totale dismissione della terapia.
Il medico fa dietrofront: contraddicendo se stesso mi dice che la terapia sarà ridotta ma mai
abbandonata, inoltre sarà necessaria l’introduzione del Lamictal a forti dosaggi, che però a sua detta
non è un antipsicotico ma “solo uno stabilizzatore dell’umore, qualcosa di molto più leggero”.
Intuisco che le vere intenzioni sono di cambiare casa farmaceutica.
Per
due
settimane
assumo
il
Lamictal,
prima
da
25
e
poi
da
50
mg.
Percepisco
di
essere
vittima
di
un
nuovo
ottundimento
emotivo.
Il
dottore
mi
comunica
di
voler
arrivare
a
200
mg
di
Lamictal,
e
dopo
valutare
se
è
il
caso
di
aumentare
ulteriormente
la
dose.
Inoltre mi ordina di non leggere le indicazioni terapeutiche del nuovo farmaco, perchè “per via della
malattia di cui soffri potresti interpretare scorrettamente quello che leggi”.
Fino
a
quel
momento,
avevo
tentato
di
interagire
con
il
dottore
con
argomentazioni tecniche inerenti la cura (manifestando la mia convinzione di poter vivere senza
psicofarmaci), ottenendo invariabilmente la sua ira e un’accusa di volermi occupare di una cosa di cui non
sono competente, per la malattia stessa di cui soffro.
Un giorno dissi al medico che mia moglie è della mia stessa opinione, e che lei fino a prova contraria è
sana.
Risposta del medico: “QUELLO CHE DICONO LE DONNE NON CONTA NULLA, non parliamo poi delle
mogli!”
Nasce così in me un proponimento che non ho espresso al dottore. Voglio abbandonare completamente
l’uso degli psicofarmaci senza dire alcunchè allo psichiatra.
Per precauzione, incomincio a togliere subito soltanto il Lamictal, restando con 2,5 mg di Zyprexa e 4
gocce di Dropaxin. Due settimane di leggera depressione, le avrei evitate se non avessi mai assunto il
Lamictal. Non ho mai ricevuto una diagnosi di Disturbo Bipolare, come dicono le indicazioni del farmaco
che lessi disobbedendo al dottore.
15
Gennaio
2009:
la
mia
prima
notte
senza
Zyprexa.
Per
una
settimana
sto
male
come
un
cane.
Mia
moglie
non
sa
niente.
Incomincio
a
stancarmi,
mi
chiedo
se
sto
facendo
la
cosa
giusta.
Ma i sintomi incominciano a regredire. Per fortuna non c’è aggressività, ma mi sono sentito molto
abbattuto e malinconico. Dopo due settimane mia moglie mi chiede con preoccupazione: “Perchè non
accendi
più
il
computer,
perchè
non
scrivi
più
il
tuo
libro?”
In quel momento ero diventato sicuro di poter andare avanti. Avevo spesso voglia di piangere, avevo di
frequente la nausea ma mi sentivo di giorno in giorno un pochino meglio. Le racconto tutto.
“Perchè non mi dici quello che fai, non ti fidi di me? Sono tua moglie…”
La rassicuro: “Mi fido di te. Se ti avessi detto prima queste cose avrei generato la tua ansia. Ora io mi
sento sicuro di quello che sto facendo e non sono ansioso. Tu invece sei ansiosa e si vede. Lo avrei visto
in ogni caso e mi sarei scoraggiato. Invece io adesso incoraggio te. Stai tranquilla, per la
prima
volta
nella
tua
vita
sarai
sposata
ma
non
una
vedova.”
I sintomi sono via via spariti, ora sono tranquillo, sono felice, mi godo molte cose della vita che una volta
non avevo per nulla, che poi ho avuto ma non percepivo fino in fondo, che ora ho e che sento veramente
per
la
prima
volta
e
di
cui
sono
immensamente
grato.
Il dottore Sabato scorso mi ha detto di proseguire con la solita terapia e io gli ho detto “va bene”.
Peso 15 kg in meno dell’anno scorso. I miei esami del sangue sono tutti nella norma, è la prima volta dopo
12 anni.
Ho deciso di dimostrare almeno a me stesso che la medicina è certamente una scienza, di cui la
psichiatria (almeno come oggi è praticata) NON DOVREBBE IN ALCUN MODO FAR PARTE.
Rigrazio
gli occhi.
il
sito
http://nopazzia.anti-psichiatria.com/
che
mi
ha
aperto
Ora ci vedo molto bene. Credevo che il Dott. Fiorentino (anche questo è uno pseudonimo) fosse un
medico illuminato, ma forse oggi la sua luce ha incominciato a spegnersi. Oggi ho più paura per lui che
per me.
Il sito “nopazzia”, per evitare che molti altri incomincino a vedere, sta per essere oscurato in relazione
alle sue funzionalità interattive, ma si potranno ancora visitare i vecchi contenuti al seguente indirizzo:
http://www.nopazzia.it/index.html
(fate altri siti come questi, voi coraggiosi!)
Ettore Schmitz,
sviluppatore web, sopravvissuto alla psichiatria
III
RICADUTA
Nello scorso anno, Ettore Schmitz ha avuto una ricaduta della sua malattia. Era convinto di essere
entrato in contatto con varie “intelligenze superiori”. Indipendentemente da quello che questo significhi
nella realtà, quello che ha “visto” e “sentito” ha chiarito alcuni suoi dubbi in merito a convinzioni e dogmi
religiosi. Oggi Ettore non è più un testimone di Geova ed è affascinato dalle filosofie orientali.
Che cosa ha provocato la sua crisi interiore?
L’abbandono degli psicofarmaci?
I litigi in famiglia?
Oppure le obiettive contraddizioni dei dogmi dei testimoni di Geova, come ad esempio il divieto rispetto
alle trasfusioni di sangue, la non partecipazione alla vita politica oppure lo scoraggiare i giovani ad
intraprendere gli studi universitari?
Il libro “Quella gran luce sulla via di Damasco" risponde a queste domande.
GUIDA ALLA LETTURA
“Quella gran luce sulla via di Damasco” non e’ un semplice rotocalco di fatti elencati in ordine
cronologico. Ettore Schmitz aspira a qualcosa di piu’. Il fatto che scrivere questo romanzo lo abbia
aiutato a liberarsi di alcune ossessioni per trovarne delle nuove risulta essere la prova di un personale
esperimento ben riuscito che ha avuto come oggetto la propria personalita’. Sembra abbastanza
evidente che lo scrittore dei primi capitoli diventi pian piano qualcosa di diverso rispetto a cio’ che era
prima di questa esperienza. In particolare gli ultimi quattro capitoli “Arte di vivere contro filosofia”,
“Psicologia contro psichiatria”, “Empirismo contro matematica” e “Agnosticismo contro religione” sono
profondamente condizionati dall’esperienza narrativa che ha costretto l’autore a rivisitare
interiormente antichi ricordi ed emozioni. Resta fermo che “Arte di vivere contro filosofia” non vuole
nemmeno somigliare ad un saggio filosofico. In modo analogo dicasi per gli ultimi capitoli. L’ appendice
vuole spiegare cosa siano stati per Ettore Schmitz questi astratti protagonisti – i quali sembrano agire
come personaggi in carne ed ossa – ed in particolare come ne hanno influenzato il pensiero e il
comportamento lungo il suo cammino. Tutto questo viene fatto rivisitando fatti e situazioni alla luce di
complessi sentimenti ed emozioni a volte contraddittori e dalle molte facce e completando il romanzo
con ulteriori narrazioni, sullo sfondo di una costante e fluida ironia in stile sveviano, che alleggerisce
molto l’onere della lettura. Rimane sottointeso un conflitto interiore che gravita intorno a due idee
diametralmente opposte circa l’adeguatezza della psicanalisi e della psichiatria. Questo lavoro non vuole
esaltare alcun pensiero filosofico particolare ma stimolare il lettore al fine di aiutarlo a porsi delle
domande senza imporre le proprie risposte, sebbene esse vengano indicate come un esempio per
spiegare un metodo, il quale dovrebbe portare il lettore a riflettere in merito al proprio percorso di
vita, alle proprie risposte e alla propria “arte di vivere”. Questo risultato sara’ ottenuto con una
notevole potenza espressiva, grazie al fatto che il libro è ospitato e disponibile sul Web, e tramite lo
stesso Web i lettori ne influenzeranno la stesura interagendo direttamente con l’autore e con altri
lettori.
I primi capitoli – in particolare “La storia di mio padre” e “La storia di mia madre” – vogliono rispettare i
canoni del “realismo”, per lo meno in relazione alla fonte che ne ha trasmesso le informazioni. Risultano
essere dei brevi resoconti della vita infantile e adolescenziale dei genitori di Ettore. Si cerca pero’ di
porre l’accento piu’ che sia possibile sugli aspetti psicologici dei due protagonisti che hanno influito
pesantemente sul carattere dello scrittore. Vengono introdotti alcuni elementi essenziali dell’ambiente
in cui visse la madre di Ettore, Serenetta. Di riflesso il capitolo 26, “Il mio matrimonio”, in cui si parla
della “nuova vita” nell’isola di Pantelleria di Ettore e della moglie Ester, farà sentire il lettore a “casa
propria”, dal momento che vivere in Sicilia sarà per tutta l’infanzia di Ettore un sogno non realizzato,
catalizzato dall’amicizia del cugino Carlo e immagine diretta dell’identico sogno del papa’ Antonio,
peraltro non realizzato fino alla stesura di questo libro. I capitoli relativi all’infanzia di Ettore
riservano uno spazio importante alla formazione di questo “ambiente” durante le annuali vacanze estive
che
fungeranno
da
tela
per
dipingere
la
crescita
interiore
dell’autore.
Il capitolo 8 “La morte di mio nonno Ettore” risulta certamente un pilastro fondamentale per la
comprensione di avvenimenti posteriori, in particolare spiega alcuni meccanismi che risulteranno cruciali
per la genesi della sua psicosi, la quale – fortunatamente – avra’ un breve esordio e due piccole ricadute.
E’ comunque ancora piu’ determinante per comprendere alcuni aspetti del carattere dello scrittore
Ettore, il quale da questa esperienza – pur avendo solo 8 anni – uscirà profondamente disturbato e sara’
via via crescendo in cerca di risposte ad inquietanti domande sul significato della vita. Il piccolo Ettore,
per l’ingenuità tipica della sua eta’ e certamente per la scorrettezza di parenti e medici che tennero
nascosto al nonno malato il fatto che di li a poco lo stesso sarebbe morto per una patologia incurabile, si
ritrovo’ a rivelare al suo congiunto in merito a questa strana parola (“Ma non lo sai – rivolgendosi ad una
vicina di casa in presenza del nonno – che dicono che ha il tumore?”). Subito dopo si aspettava che
qualcuno gli spiegasse cosa fosse il tumore senza immaginare che in quel momento sarebbe scoppiata
l’ira del papa’ Antonio. Il nonno morì due mesi dopo, e il piccolo fini’ per comprendere molto piu’ di
quanto pensassero i familiari. Tutto questo avvenne davanti a quella casa, in quel cortile dove Ettore
oggi passa tutti i giorni, ricordando, ma non soffrendo più o forse soffrendo in un modo diverso, più
pacato. Restò invariata, fino all’età di diciannove anni, l’irrazionale sensazione di colpa, la convinzione di
averlo ucciso non nel corpo ma ancor peggio nei sentimenti. Proprio a diciannove anni ci sarebbe stata la
prima grande svolta della sua vita, documentata ampiamente nel capitolo 18 “Il primo trauma: vorrei
essere perfetto” .
Dal capitolo 9 al capitolo 15 si noterà che la crescita di Ettore assomiglia ad un’opera trasmessa per
radio a volte caratterizzata da un suono limpido e cristallino e a volte, in maniera imprevedibile,
disturbata fino al punto di diventare poco o per nulla comprensibile senza tener conto di un passato
turpe e di una logica eccessivamente rigida. Crescerà insieme a Ettore un senso di colpa esistenziale
che lo convincerà un giorno che Dio esiste, ma certamente ce l’ha a morte con lui. Ettore si sentirà
indegno per lunghi anni di coltivare interessi spirituali considerati accettabili nella societa’ in cui vive e,
inconsciamente, per compensare questa grande lacuna, cercherà di rendersi perfetto a scuola. Riuscira’
quasi ad esserlo alle superiori. All’universita’ , ben presto chiedera’ al suo fisico piu’ di quello che e’
ragionevole, costringendosi cosi’ a cambiare il proprio progetto di vita. Gia’ alle medie i professori
noteranno in lui un senso di malessere e consiglieranno al ragazzino di cercare la propria serenita’ non
nel rendimento massimo possibile a tutti i costi ma dentro se stesso. Nella classe seconda media
incontrerà una sua coetanea dai bellissimi capelli biondi e occhi verdi che oltre a rubargli il cuore gli
ruberà il titolo di “piu’ bravo della classe”, insegnadogli inoltre che per raggiungere obiettivi importanti
oltre alle capacità ci vogliono coerenza e perseveranza. Imparerà queste cose alle superiori, dove il suo
rendimento aumentera’ di anno in anno. Successivamente scoprirà che puo’ in certi casi esser necessario
fermarsi, per ripartire in seguito e superare gli ostacoli cambiando percorso. Nel capitolo 11 saranno
chiari gli elementi di una spiritualita’ molto tormentata, piena di incertezze e contraddizioni rese
difficili da risolvere per via di numerosi contatti sociali con persone altrettanto disturbate e in cerca
di un riscatto personale. Come risulterà evidente nel capitolo 12 saranno fondamentali due
frequentazioni, Jonatan Pretoriano, che sarà suo compagno di banco per cinque anni e in seguito
compagno di lavoro e Orlando Rights, quest’ultimo suo inseparabile compagno nel tempo libero
extrascolastico. Con Orlando sorprendentemente non condividerà mai alcun interesse importante e
tuttavia trascorrera’ insieme tantissimo tempo unicamente grazie allla parte piu’ frivola di se stesso.
Proprio Orlando, tenterà di distruggere l’amor proprio di Ettore predicando che i suoi interessi fossero
futili. Invece Jonatan tenterà di farlo convincendolo a ricercare la perfezione in ogni cosa,
comprendendo bene che questo non puo’ condurre ad alcun successo. Trovo’ il modo per colpire Ettore
nella sua debolezza, dal momento che non riusci’ ad eguagliare o superare i suoi voti. Erano due contro
uno, inoltre Ettore non aveva affatto perso la sua ingenuità. Jonatan perse il padre a dieci anni e
Orlando ebbe la madre affetta da psicosi.
Come mostra il capitolo 13, gli anni delle superiori risultarono il terreno più fertile per coltivare
interessi contrari alla logica e alla spiritualità della famiglia Schmitz e allo stesso tempo avrebbero
dato all’autore l’illusione di aver compensato completamente i sensi di colpa relativi alla rottura
ideologica con il suo ambiente d’origine. Questi sensi di colpa erano quanto più un’immagine di quella
colpa rimossa e dimenticata nei confronti del nonno paterno. I primi due anni risultarono difficili a
causa di alcuni compagni di scuola che trovavano certamente il loro ambiente naturale sugli spalti dello
stadio durante una partita di calcio piuttosto che sui banchi di scuola. Portavano infatti a scuola pugni
di ferro e lunghi e affilati coltelli (non sto davvero esagerando!). Jonatan, molto piu’ furbo e scaltro di
Ettore, probabilmente consapevole della sincerita’ dell’amicizia nei suoi confronti e determinato a non
ricambiarla ma a sfruttarla, riusciva spesso a trarre il meglio per se stesso dalla presenza di questi
personaggi, dipingendolo come un “secchione” privo di dignità secondo i canoni del piu’ rudimentale
bullismo. Contrariamente ai primi due anni, gli ultimi tre anni fino alla maturita’ segnarono in Ettore un
temporaneo riscatto e un’ effimera soddisfazione, dal momento che riusci’ a diplomarsi con il risultato
che aveva sperato. Jonatan non fece commenti in proposito in presenza di Ettore, Orlando invece disse
che chiunque avrebbe superato l’esame di maturita’ con il massimo punteggio se solo fosse stato tanto
pazzo da passare tutto il tempo necessario sui libri. In effetti Orlando non ne lesse molti nella sua vita
e non sapeva affatto cosa stesse dicendo.
Il capitolo 14 “I miei primi due amori: Aurora e un personal computer” mostra come l’estremo
attaccamento all’ambiente scolastico porterà Ettore ad ignorare alcuni aspetti emotivi del naturale
sviluppo adolescenziale e allo stesso tempo ad evitare di essere sopraffatto da numerosi e terribili
sentimenti di disorientamento scaturiti dall’incapacità di gestire nuove e quanto mai forti emozioni, in
pratica il ragazzo creera’ per se stesso una nicchia che sara’ un focolaio di problemi psicologici e allo
stesso tempo fungera’ da efficacissimo anestetico per non avvertirne il dolore. La compagna di classe
Aurora comprenderà bene i sentimenti di Ettore nei suoi confronti e li sfrutterà come un’abile stratega
a proprio vantaggio al fine di arrotondare i propri voti, senza peraltro concedere mai una gratificazione
all’autore, il quale stupidamente ed ingenuamente continuera’ ad osservare come lo spettatore di una
“soap opera” i suoi innumerevoli fidanzamenti e rotture nell’attesa assurda del proprio turno, che –
chissa’ per quale strana fissazione mentale – avrebbe certamente dovuto essere quello piu’ importante
della vita della ragazza e l’avrebbe salvata da una vita sentimentale travagliata e priva di sani principi.
Giunge il tempo della gita scolastica dell’ ultimo anno, tre mesi prima dell’ esame di maturita’. Aurora
si trasformera’ da abile stratega a generale impazzito alla guida di armate immaginarie. Passera’ tutto il
tempo libero con “Cecio”, un altro compagno di classe amico di Ettore. E Ettore agira’ come la piu’
fredda delle macchine: rivolgera’ le sue attenzioni a Francesca, la migliore amica di Aurora. In questo
modo Aurora fu colpita in due modi: in primo luogo fu demolita l’immagine a lei tanto cara di impietosa
seduttrice e infine dovette prepararsi da sola per l’esame di maturita’. Insomma fece proprio una
pessima figura di fronte alla classe. Dopo qualche mese ebbe una storia sentimentale con Dario, un
ragazzo rachitico e dall’ aria tisica. Infine usci’ dalle superiori con un voto davvero mediocre. Giusto
contrappasso. Il già citato capitolo 18, testimone della esperienza universitaria dell’autore, mostrera’
il dolore provato da Ettore privato ormai dell’ambiente delle superiori che in modo paranoico pur
sapendo che stava per dissolversi aveva sostituito alla sua famiglia. Il ragazzo sara’ totalmente
incapace di vivere in un ambiente individualistico. E, dopo aver punito Aurora, ne sentira’ per un po’ la
mancanza.
Ettore dovra’ a sua volta fare i conti con il proprio passato, forse anche in un modo più penoso. Dopo
aver scelto la facolta’ di informatica e conosciuto una simpatica ragazza di nome Elena, si impegno’ per
avere la patente in modo da incontrarla di tanto in tanto. Incomincio’, come universitario, a dare
ripetizioni di matematica e informatica per pagarsi la benzina senza pesare sul bilancio dei suoi
genitori. Si stupi’ – peraltro dopo vari mesi – di incominciare a provare una certa ansia che piano piano
mino’ il suo rendimento. Non capi’ in tempo che avrebbe dovuto alleggerire i suoi impegni. Quando
improvvisamente le sue energie si esaurirono rimase vittima di uno sconvolgente panico che lo costrinse
a ricorrere per alcuni mesi agli ansiolitici e purtroppo ad abbandonare la sua promettente – visti i primi
risultati – carriera universitaria. Il capitolo 18 spiega bene come riusci’ a superare questo primo grande
trauma solo nelle apparenze e come alcuni nodi marginali non risolti della sua personalita’ lo portarono
ad una vera psicosi, tre anni piu’ tardi. Il capitolo 19 “Storia di una nuova spiritualita’” illustra il primo
momento della vita di Ettore in cui trovera’ risposte per lui convincenti alle inquietanti domande sul
significato dell’ esistenza umana. La forte ansia provata lo portera’ a credere di non poter vivere senza
far luce in un modo logico e coerente a questi interrogativi. Purtroppo pero’ un atteggiamento troppo
dogmatico ed assolutista lo portera’ come piu’ volte citato a perdere completamente l’equilibrio e i
contatti con la realta’, in un contesto di vita lavorativa che, suo malgrado, lo portera’ nuovamente ed in
modo ancor peggiore a pretendere troppo dal suo fisico e in particolare dalla sua mente. Tuttavia, il
sostegno morale del cognato Fester lo salvera’ dal totale baratro e lo aiutera’ a ricomporre il suo
rapporto con il padre. Il capitolo 20 “Il lavoro” illustrerà nei particolari come i suoi superiori, il
compagno di lunga data Jonatan, i due colleghi Filippis e Cartasso e infine la pesantezza stessa del
lavoro eseguito come progettista e sviluppatore di software lo porteranno a trasformare le sue ansie e
i suoi dolori in personaggi immaginari e in una circostanza tragica relativa alla fidanzata Marlene mai
verificatasi nella realtà, dovuta ad un assurdo senso di colpa nei suoi riguardi che ricorda molto bene
quello piu’ antico nei confronti del nonno Ettore. Il capitolo 22 “Storia di un’ordinaria psicosi”, usarera’
lo stile del realismo, incredibilmente applicato all’immaginario che diventa ‘miraggio’.
Il suicidio di Orlando Visentin dara’ un duro colpo alla vita emotiva di Ettore.
Il capitolo 21 “Quella casa nella prateria” indica come Ettore, durante gli anni drammatici della sua
malattia, pur soffrendo riuscira’ a cooperare con il padre ad un importante progetto che –
provvidenzialmente – trasformera’ uno spinoso problema di natura economica in un trampolino di lancio
verso una vita estremamente serena e piena di soddisfazioni con la moglie e la figlia, argomento ben
discusso nel capitolo 26 “Il mio matrimonio”. Posto tra i capitoli 20 e 22, fungera’ da stacco nei
confronti della carica di emotivita’ degli argomenti trattati.
Il periodo successivo alla psicosi sara’ un momento buio nella vita di Ettore. Pur non avendo piu’
allucinazioni, il ragazzo diventato ormai uomo prendera’ piena coscienza della sua “anormalita’ “, e
questo lo fara’ sprofondare per lungo tempo nello sconforto e nella solitudine. Questo pero’ sara’ il
momento in cui Ettore si avvicinera’ piu’ che mai al padre che mai come allora gli dimostrera’ il suo
affetto soffrendo insieme a lui, mostrandogli il suo sincero interessamento e aiutandolo a credere
ancora una volta nei valori spirituali e nel potere della propria intelligenza. Sembra poco credibile ma
papa’ Antonio riuscira’ a fare un lavoro migliore degli analisti e delle terapie farmacologiche riuscendo a
cambiare Ettore ed anche se stesso. Certo, sia Ettore che Antonio sono tuttora persone dal carattere
un po’ strano: freddo e calcolatore ma credono nella vita e la amano ora piu’ che mai. Il capitolo 24
“Dirty Pamela” ci fara’ vedere l’effetto di questa crescita: Ettore sara’ di nuovo fidanzato e dopo aver
smascherato i motivi sbagliati della folle ed egocentrica Pamela la abbandonerà al suo egoismo senza
soffrire minimamente per lei.
E poi…arriverà il matrimonio. Ma i problemi non finiranno: dopo il matrimonio con Ester, Ettore dovra’
fare i conti con dei problemi economici per via della chiusura della AINATAC S.p.A. , importante
azienda milanese dalla storia secolare. Da qui scaturira’ la decisione di andare a vivere in Sicilia, dopo
aver saldato il mutuo della casa ubicata a Bollate. Il primo anno in Sicilia non sara’ facile: Ettore ora
diventato padre della piccola Ludovica dovra’ fare i conti con una leggera depressione residua, non sara’
grave ma lo privera’ delle energie necessarie per rendere dovutamente nel difficile mondo del lavoro.
Nel frattempo Ettore si fara’ curare da un bravo medico, il dott. Fiorentino, il quale lo aiutera’ a
scoprire dentro se stesso la causa delle sue allucinazioni e a vivere con una dose sempre minore di
farmaci. In questo periodo di maggiore benessere Ettore avrà l’idea di scrivere questo libro e di
trasformarlo in un prodotto per il Web. Questa esperienza lo cambiera’ profondamente aiutandolo a
sciogliere i nodi della sua personalita’ e a confrontare le sue idee con gli stessi suoi lettori, i quali
prenderanno parte attiva influenzando le scelte relative a varie parti del libro. Il libro esce in un primo
tempo con i suoi primi otto capitoli. Successivamente, grazie a numerosi strumenti della rete Ettore
avra’ le idee chiare per scrivere in tutto trenta capitoli. Si puo’ dire che “Quella gran luce sulla via di
Damasco” e’ un libro scritto per gli utenti del Web e realizzato tenendo conto di loro. L’autore spera
che vogliate affrontare questa sfida insieme a lui commentando quello che leggerete direttamente
tramite il sito che ospita il libro e consultando il blog di Ettore Schmitz. Spera inoltre che possiate
divertirvi sperimentando come le vostre idee e quelle di altri influiranno sugli sviluppi futuri e rendendo
possibili nuovi punti d’incontro tramite il Web.
PREAMBOLO
Era la quarta volta che leggevo “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Man mano che passavano gli anni
mi sentivo sempre più simile a Zeno Cosini, alla perenne ricerca della felicità ma senza strumenti giusti
per farlo. Volevo fare un lavoro simile a quello di Svevo, anche perchè credo fermamente che il romanzo
citato sia molto simile ad una autobiografia.
Decisi quindi di tentare a mia volta la composizione di una autobiografia come romanzo psicoanalitico e
di introdurlo in un blog.
Il libro racconta una storia vera, ma con nomi di personaggi cambiati. Le località del Nord e del Sud
Italia sono anche state cambiate, per mantenere l’anonimato.
Racconto in merito alla cura di un medico residente sull’isola di Pantelleria, grazie alla quale negli ultimi
tre anni ho risolto un sacco di problemi, principalmente perchè il Dott. Fiorentino mi aveva spesso
incoraggiato a mantenere la mente impegnata nel lavoro elaborando al contempo una strategia per
combattere lo stress.
Avevo ciononostante bisogno di fare qualcosa di originale, per distinguermi e non mi importava nulla se
molti mi schernivano come se stessi semplicemente dando i numeri su internet. Pensavo di avere
qualcosa di nuovo da raccontare, in merito a come si genera una psicosi e come si raggiunge
successivamente un buon compenso psichico. Questo non dal punto di vista del medico, ovviamente, ma
da quello del malato. Pensavo che scrivere del mio passato mi avrebbe aiutato a comprendere meglio e
soprattutto ad accettare me stesso. Ho spesso dei ricordi che vanno e vengono in modo poco ordinato.
Li voglio scrivere, così penseranno bene di mettersi in ordine.
Inizialmente mia moglie pensava che scherzassi. Poi si preoccupò per il fatto che molto del mio tempo
libero lo passassi al computer. Pensavo che vedere su carta la mia vita mi avrebbe dato consapevolezza
e lucidità. Mia moglie mi convinse peraltro a dedicare più tempo a lei e alla piccola Ludovica.
Ero convinto che il neurolettico mi sedasse in modo esagerato e se l’esperimento del libro avesse avuto
successo avrei forse fatto a meno di quell’infame veleno di cui ero schiavo da dodici anni. Oggi so che le
cose non stanno così, che chi accetta la terapia – la corretta terapia – gode di una vita di maggiore
qualità. Per capire queste cose, ho dovuto affrontare nuovamente delle esperienze dolorosissime e
nell’ultimo anno sono stato ospedalizzato quattro volte, mentre il mio libro era in una fase intermedia
della stesura. L’ultimo ricovero è stato in una località del Nord Italia, dove finalmente ho ricevuto le
cure che hanno consentito il mio attuale buon compenso psichico.
Mi piace molto scrivere e penso che questa impresa mi cambiera’ di sicuro e, se l’esperimento riuscira’,
lo fara’ in qualcosa di migliore.
Capitolo 1
LA STORIA DI MIO PADRE
“Tato’oo! Tato’oo!
Veni ca!
Va compra li fiammiferi!
E dici ca nun ci vai!”
“Nun ci vaio!”
“Che dicisti?”
“Ca nun ci vaio!”
“Sorta d’infirnu! Aio u ti inchiu a fazza di schiaffi!”
Il piccolo Antonio aveva pochi anni ma correva molto più’ in fretta della madre Amalia e conosceva tutte
le vie e i vicoli della città’ Siciliana in cui e’ cresciuto, un piccolo centro chiamato Solarino in provincia di
Siracusa. Già’ a sei anni aveva conosciuto cosa voleva dire adattarsi a una realtà’ diversa da quella che
avrebbe voluto. Era nato nel 1940, nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. In quegli anni suo padre
Ettore era arruolato nell’esercito e grazie a tanta fortuna riusci’ a tornare a casa. Purtroppo pero’,
quando Ettore torno’ a casa, verso la fine del 1945, i primi due figli Antonio e Margherita lo
consideravano un estraneo. Anche il rapporto di mio padre e mia nonna era difficile perché’ erano
vissuti separati per tutti quegli anni. Mio padre visse insieme ai suoi nonni mentre mia nonna accudiva gli
altri figli più’ piccoli.
Antonio era molto legato al suo nonno paterno, che si chiamava come lui. Il nonno aveva già’ quasi
ottant’anni ma aveva una mente lucidissima e fu una guida molto importante per il piccolo. Da lui il
piccolo acquisì’ una cultura orale fatta di aneddoti e proverbi che poi tramando’ a sua volta ai suoi figli.
Sembrava prematuro ma il ragazzino già’ prima di andare a scuola conosceva cosa vuol dire imporre il
proprio
carattere
che
era
molto
scontroso
come
quello
di
mia nonna
Amalia.
Negli anni della guerra, ogni giorno era una scommessa dove la posta in gioco era la sopravvivenza. Prima
i bombardamenti e poi le ritorsioni dei tedeschi in ritirata verso Nord e tanti anni di carestia avevano
segnato profondamente gli animi e dato in eredita’ un paese da ricostruire. Antonio ricorda ancora il
rumore delle sirene…: “Al rifugio! Veni Tato’! Veni cumme’!” Il nonno prende il piccolo Antonio per un
braccio e corre via. La terra trema ad ogni esplosione e tremano anche i cuori di Amalia e dei nonni.
Antonio e Margherita invece sono nati in mezzo a quei bombardamenti, non si rendono conto del
pericolo e hanno voglia di giocare. Non ci si abitua per niente invece ai morsi della fame.
Nelle famiglie patriarcali tutti sapevano chi comanda. Il nonno di mio padre incuteva timore con lo
sguardo e si faceva aiutare dalla nonna per dare le botte. Sembrava che mio nonno Ettore a più’ di
trent’anni avesse ancora bisogno di quella correzione. Fino a sessant’anni non imparo’ la lezione e porto’
avanti un carattere volubile e imprevedibile. Dopo il ’45, una volta che mio nonno Ettore era di nuovo a
casa, Antonio il nonno di mio padre visse ancora pochi anni.
Il piccolo Antonio, affronto’ la scuola in modo disinteressato. Il pensiero più’ ricorrente che lo
distraeva in classe era il fatto di non aver fatto colazione. “Antonio! Tu passerai la vita a zappare! Hai
capito? Sara’ la zappa a farti compagnia!” diceva sempre il maestro Beccaria. E cosi’ fu, almeno fino agli
anni
dell’adolescenza.
Finita la guerra, Ettore e Amalia si riconciliano in mezzo a litigi e incomprensioni. Forse avevano davvero
bisogno delle botte di nonno Antonio.
Un giorno il piccolo Antonio camminava tra le carrettiere che squadravano i campi di grano vicino casa
insieme ad Antonino, lo zio fratello minore della madre. Antonino non era certo conosciuto per l’
intelligenza e quel giorno si fece ingannare tragicamente dalla fame. A quel tempo Antonino aveva
diciassette anni. Il piccolo Antonio allarmato dai tanti rimproveri che il nonno non si stancava di
sbraitare nei giorni precedenti supplico’ più’ volte Antonino: “Dassala stare chista, vidi ch’è’ na
‘bbumba!” .”Ma statti mutu! Ie’ na scatoletta i carni!” urlo’ subito Antonino. Il piccolo Antonio scappo’ via
impaurito e fu la sua salvezza. Antonino invece rimase in vita per miracolo e perse un braccio e un
occhio in questa tragica trappola.
In seguito, Antonino ottenne un’invalidità’ e un lavoro adatto alle sue limitazioni e si sposo’ con una sua
cugina, su mandato di nonno Ettore. Mio nonno si improvviso’ più’ volte agente matrimoniale e combino’
vari matrimoni di amici e parenti. Riusci’ persino a combinare il primo fidanzamento di mio zio Nino,
successivamente a farli lasciare e spinse molto gli eventi che condussero al suo definitivo matrimonio.
Passando gli anni, il miracolo economico italiano si senti’ molto di più’ al Nord che in Sicilia, come tutti
sappiamo. La città’ di Milano regalo’ un sogno di realizzazione a tante famiglie di meridionali immigrati.
La famiglia di mio padre incomincio’ a sognare un futuro più’ dignitoso e incomincio’ a progettare un
fortunato esodo.
Mio padre non sopportava più il lavoro nei campi. Pensava che sarebbe stato sempre schiavo dei
cosiddetti “gnuri”, i signori padroni delle terre che certamente non regalavano nulla. Invece la città’ di
Milano sembrava la terra promessa che avrebbe riscattato la dignità’ di tanti operai agricoli. Mio padre
parti’ per primo a diciotto anni nel 1958. I miei nonni rimasero in Sicilia ancora per alcuni mesi, mentre
mio padre era ospite temporaneo di uno zio. Dopo poco, mio padre si mise alla ricerca di un lavoro. A
quel tempo accadevano delle cose che oggi sarebbero considerate fantascientifiche, come ad esempio
recarsi all’ingresso di una fabbrica e trovare un grosso cartellone con scritto: “Siamo alla ricerca di
operai”. Cosi’ mio padre riusci’ a trovare non uno ma due lavori, il primo in una acciaieria di Bollate, città’
limitrofa di Milano, il secondo in un’impresa edile come muratore. Non era certo una vita comoda.
Inoltre bruciando tutte quelle energie bisognava mangiare tanto, e questo era finalmente possibile
perché’ i soldi c’erano e molti problemi erano spariti. Mio nonno Ettore, sentendo che le cose a Milano
andavano meglio che in Sicilia incomincio’ a pensare di fare emigrare l’intera famiglia.
“Pronto Tato’!”
“Pronto chi parla?”
“Vidi’ stu disgraziato s’imparo’ lu taliano!”
Questo fu il primo dialogo che intercorse per telefono tra mio nonno e mio padre dopo qualche mese
dalla partenza. Mio padre divento’ poliglotta, infatti sapeva parlare l’italiano, il siciliano, il milanese e
addirittura il veneto. La sua vita era migliorata. Gli mancava solo il sole del Sud, perché’ il cielo a Milano
era spesso grigio e c’era “una strana cosa che tutti chiamano nebbia”. Arrivo’ il giorno in cui i miei nonni
la zia Margherita, lo zio Nino e lo zio Lorenzo furono a Milano. Mia nonna scese dal treno per prima, e
incontro’ subito suo fratello Santo.
“Ma Tato’ unni ie’?”
“U nu u vidi ia?” Mio padre aveva messo su almeno venti chili e aveva un’aria molto più’ rilassata. Il
nonno Antonio diceva sempre “La spina deve pungere per fare male!”. Bisogna dire che per la famiglia
Schmitz la spina della miseria era finalmente stata estirpata. Cosi’ Antonio pote’ imparare in fretta la
lingua e la cultura dei lombardi e dei tanti che erano accorsi a Milano. Imparo’ anche che le proprie
origini non si possono dimenticare del tutto. Forse per questo decise di sposare una siciliana. E la loro
vita cambiò quando ricevettero per la prima volta la visita di un testimone di Geova.
Capitolo 2
LA STORIA DI MIA MADRE
Erano gli anni tra il 1938 e il 1939. L’esercito italiano era impegnato nella guerra in Africa e mio nonno
Lorenzo era imbarcato. Nonna Lucia era rimasta con i suoi sette figli a governare campi e vari
allevamenti di bestiame. Mio nonno torno’ in licenza per poco tempo e fu abbastanza per far nascere un
anno dopo mia madre Serenetta, ultima di otto figli. Mia madre era quindi nata agli inizi del 1940, anche
lei nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Nella citta’ di Sataria, a mezz’ora di cammino da
Pantelleria, pure negli anni piu’ bui della guerra non si era affatto conosciuta la fame, come invece
accadeva a Solarino. Quasi tutte le famiglie possedevano terreni coltivati e animali. La forma di
economia prevalentemente praticata era quella del baratto, i piu’ poveri erano mezzadri e quasi nessuno
aveva provato il grande trauma della fame. Lo definisco un grande trauma perche’ troppe volte ho visto
mio padre – che dovette certamente provarlo – comprare in vari periodi tre chili di pane al giorno per
scongiurare il piu’ possibile il terribile incubo di trovare il paniere vuoto. Per questo da bambino ho
mangiato tante volte pane duro. Ma come mi insegno’ mia madre, che per tutta la vita difese il diritto di
papa’ Antonio ad esprimere la sua personalita’ con tutte le sue contraddizioni, “il pane duro inzuppato
nel latte caldo diventa molle”. E chi poteva dire che non fosse vero? Ho da dire che era persino buono!
Negli anni ’40 invece il pane non si comprava ma si faceva con le mani proprie, sempre a patto di aver
prima coltivato il grano. I campi erano talmente grandi da far si’ che l’immenso mare scorto all’orizzonte
diventasse ad un certo punto di un caldo verde, come se l’acqua e il grano fossero della stessa sostanza.
Davanti al Foro di Achille, dove oggi sorge il campeggio comunemente chiamato Forachili, c’era un lembo
di terra che si estendeva per centinaia di metri, con case e terreni coltivati. Oggi questo terreno e’
stato portato via dal mare e chi ama praticare lo snorkling puo’ ammirare sul fondale i resti di travi e
antichi pavimenti. Certo il turismo a quell’epoca – almeno quello che conosciamo noi oggi – non esisteva
affatto e la gente viveva grazie ai propri mezzi. La vita era piu’ semplice, non si conoscevano gli
stranieri e ci si sposava tra cugini.
Ma le bombe e i combattimenti, purtroppo, arrivarono anche nella contrada Arrusti del Comune di
Sataria, che fa parte della splendida isola di Pantelleria. Mio nonno Lorenzo trovo’ per caso nei suoi
terreni due fucili appartenenti agli alleati, piu’ o meno negli ultimi mesi del 1945. La radio ammoniva la
popolazione : “I tedeschi si stanno ritirando verso Nord, si ha già notizia di rappresaglie”. Arrivavano
voci circa la scomparsa del Condottiero germanico e della fuga dei tedeschi, contrassegnata da
ritorsioni su poveri innocenti. “E ‘mmo’ ch’aio u fazzo?” chiese il nonno Lorenzo a nonna Lucia. Quei fucili
dovevano sparire, e al piu’ presto possibile. Presto venne la soluzione, una buca, molto profonda: piu’ di
cinque metri. Se quei fucili fossero stati trovati dai tedeschi, avrebbero provato che le famiglie della
contrada Arrusti dessero asilo a degli alleati nascosti. Sarebbe stata una catastrofe. Ma i tedeschi, a
detta di mia madre, che ricorda bene sebbene avesse solo cinque anni, avevano seguito un’altra strada e
ogni pericolo fu scongiurato.
Passarono gli anni, e piano piano si delineava la differenza tra Nord e Sud Italia. Ai primi del secolo
XX°, la meta piu’ ambita di emigranti in cerca di fortuna oltremare era nelle lontane Americhe. A quel
tempo in Sicilia molti sognatori preferivano l’Argentina. Molti miei parenti fecero questo passo e
qualcuno fece fortuna sul serio. Ciononostante, non ho ancora ereditato alcunche’ da uno zio americano.
Chi scelse di restare in Italia, o piu’ precisamente in Sicilia, non dovette trovarsi molto male negli anni a
cavallo tra il ’50 e ’60. Nonostante cio’, la famiglia di Serenetta scopri’ che anche avendo casa e pane da
mangiare si poteva fare i conti con amare lacrime.
La guerra era finita e mio nonno Lorenzo riusci’ a riportarsi a casa. I fucili si usavano ancora, per
andare a caccia di fagiani e uomini malintenzionati. Mio zio Francesco era davvero un bel ragazzone,
alto e atletico, dalla folta chioma e dagli occhi verdi. Come molti ragazzi dell’epoca, era un gran
lavoratore, amava percio’ i campi e gli allevamenti di bovini e maiali. Amava anche la musica e le canzoni.
Serenetta ricorda ancora oggi che sapeva che era ora di cena al suono della voce tonante di Francesco
che saliva dal dirupo, o per meglio dire “…quando Ciccu veni’a cantando d’ u u vaiuni”. Francesco era un
bravo ragazzo e usava il fucile solo per procurarsi da mangiare. Forse era solo un po’ ingenuo, magari
come lo zio di mio padre, Antonino. Un giorno, tornando dalle sue faccende nei campi aveva il fucile a
tracollo e saliva dal dirupo insieme a suo fratello Santino. Era una sera d’estate e faceva molto caldo.
Francesco era affamato e scorse lungo la strada una pianta di fichi d’India. Aveva bisogno di un bastone
per tirare giu’ qualche frutto, ma non l’avevano ne lui ne Santino. Si poteva usare il fucile al posto del
bastone? Sarebbe stato rischioso, la fame pero’ era tanta. Il fucile poteva essere usato bene come
bastone, cosi’ pian piano caddero a terra i frutti tanto ambiti.
Santino ammonisce Francesco : “Cicco, dassalo stari chistu, picchi’ ie’ troppo auto!”
Francesco, che oltre ad essere ingenuo era testone, tento’ la presa e poi accadde la tragedia. Il fucile
gli scappa di mano, cade a terra e parte un maledetto colpo che lo colpisce al petto. Francesco cadde a
terra, morto in un lago di sangue. Santino era sconvolto e non sapeva cosa fare. A quell’ ora c’era
silenzio nei campi, un silenzio che era quasi simbolo di una quiete e una calma che sarebbe stata per
sempre spezzata nella tranquilla famiglia dei nonni Lorenzo e Lucia. Corre, corre verso casa e trova per
prima mia nonna. Ben presto accorrono gli uomini e le donne dai campi, i bambini vengono allontanati. Mia
madre ricorda bene le urla della povera nonna che la costringe ad andare via. La nonna prende una
bacinella d’acqua e la getta sul povero corpo, quasi come se potesse giovargli e poi sprofonda nella
terribile disperazione dovuta alla consapevolezza di avere perso un figlio, per sempre. L’abito nero
accompagno’ la nonna Lucia per tutti i giorni che gli rimasero. Per poco non perse completamente la
ragione. Fu piu’ volte redarguita dal medico di famiglia, che oltre ad essere un uomo di scienza aveva
anche un buon cuore. “Lucia, ti capiscio. U saccio ca perdisti nu figghio, ma susiti, se no mi ietti in terra
na casata!” Con queste parole paterne, il dottore fece capire a mia nonna che anche un dolore immenso
puo’ essere superato grazie all’amore, di chi ha ancora bisogno di te, di chi ancora e’ rimasto.
Mio nonno Lorenzo cercava di consolare la moglie come meglio poteva. Non poteva permettersi di
piangere davanti a Lucia, doveva essere forte, per se stesso e per gli altri: la sua amata che aveva
perso per sempre un pezzo di cuore e gli altri figli che erano rimasti, alcuni anche piccoli. Doveva
alzarsi presto la mattina, lavorare tutto il giorno con un nodo che rimaneva in gola, che non riusciva
proprio ad ingoiare, soltanto per tornare a casa verso il tramonto per incoraggiare i suoi congiunti con
argomenti che in fondo non conosceva, perche’ la disperazione disorienta. Cosi’ dopo cena andava verso
il dirupo e riviveva quegli attimi orribili, gli ultimi momenti della vita di Francesco, e parlava con Dio:
“Ma picchi’?…ma picchi’?” E piangeva, solo, finalmente poteva farlo. “Cicco figghiu miu! Avissi muritu io e
no tu!”.
Mia madre mostro’ crescendo di avere un carattere forte, e sebbene avrebbe anche lei in seguito
subito degli avvenimenti sconvolgenti, per lo piu’ per via di alcuni suoi famigliari e di chi vi scrive, riusci’
piu’ volte a dare coraggio a se stessa e a chi gli stava vicino e la amava.
Fu forte e determinata anche nel decidere di cambiare religione all’età di trent’anni, lasciando perplessi
i miei nonni sull’Isola di Pantelleria.
Capitolo 3
IL MATRIMONIO DEI MIEI GENITORI
Tra il 1961 e il 1962, mio padre aveva stretto molte amicizie a Bollate, tranquilla cittadina alle porte di
Milano. Il lavoro non mancava e dava l’opportunita’ di conoscere molte persone. Come ho accennato in
precedenza, mio padre svolgeva in vari periodi piu’ di un lavoro. Questo ancor di piu’ quando arrivarono a
Bollate nonno Ettore e nonna Amalia. Per qualche tempo i nonni gestirono un banco di frutta e verdura
nei mercati, poi, quando i soldi lo resero possibile, comprarono un bar in un crocevia di grande passaggio
e al confine tra Bollate, Cormano e Rho, posto che tutti amavano chiamare “la stazionetta”.
Ovviamente mio padre conobbe molte ragazze, ciononostante per molto tempo nessuna riusci’ ad
entrare nel suo cuore. Non so se mio padre progetto’ mai di andare a cercare moglie in Sicilia perche’ ha
un carattere molto impulsivo: prende decisioni in tempi brevissimi sebbene sia molto tenace nel portarle
avanti. In fatto di matrimonio si puo’ dire che ci volle del tempo prima che fosse rapito dalla musa
illuminante. Questo era dovuto ad alcuni timori.
Antonio amava andare in bicicletta, non aveva la patente e neanche i soldi per comprare una macchina.
In certi periodi, in fabbrica lavoravano anche delle ragazze e papa’, come un vero galantuomo, ne
accompagnava due o tre sul posto di lavoro, in bicicletta, una sul manubrio e due vicino alla ruota
posteriore. Si vantava della sua forza fisica e si rilassava quando la strada era in discesa. Queste
prodezze durarono tuttavia poco tempo, perche’ Antonio comprese in fretta le astuzie femminili.
Un giorno del 1961 mio padre conobbe per la prima volta una donna che lo fece sognare veramente.
Aveva qualcosa di straordinario. Era una donna molto colta ed era molto bene inserita nella societa’
milanese. Non era tuttavia questo ad essere straordinario, bensi’ era la sua eta’ che aveva superato gli
ottanta. Come forse avete capito era molto, molto ricca. Si chiamava Bernarda.
Bernarda aveva avuto una vita difficile perche’ in giovane eta’ aveva perso il marito stroncato da un
tumore. Questo pover uomo era un chimico di fama e inoltre apparteneva ad una famiglia benestante,
per cui lascio’ alla moglie un lauto patrimonio. Lascio’ anche un figlio, che ahime’ mori’ ad un’eta’ simile a
quella di mio padre a quel tempo. Il caso volle che abitasse nello stesso quartiere di Bollate che mio
padre attraversava la mattina per recarsi al lavoro. La Bernarda conobbe Antonio e la prima volta che lo
vide trasali’ perche’ le ricordava terribilmente il caro figlio perduto. Ben presto nacque un’amicizia…mio
padre andava a fare la spesa per la vecchina che lo ricompensava con un panino e un bicchiere di vino,
che certamente faceva piacere nelle fredde mattinate invernali.
“Signora Bernarda, non sarebbe opportuno che io e lei ci sposassimo?” “Che cosa?”, disse la donna in
tono di scherno. “Si’, si’ sposiamoci, cosi’ io prendo la patente, ci compriamo la Seicento e giriamo tutta
l’Italia, poi quando avremo finito gireremo l’intera Europa.” “Tato’? Ma mi vorresti far credere che
avresti il coraggio di venire a letto con me? proprio come faresti con una ragazza della tua eta’?”
Antonio, sicuro del fatto suo, disse “L’amore non ha eta’!”… sembrava uno slogan pubblicitario, ma non
ebbe successo per mia fortuna, altrimenti non sarei qui a raccontarvelo. La verita’ e’ che sono i soldi a
non andare mai a male, al massimo si svalutano e per mantenerli giovani si investono. Bisogna proprio
dirlo, il primo affare commerciale di mio padre fu un vero fiasco. D’altronde, si puo’ forse nascere
maestri? “Per quanto riguarda il matrimonio, non se ne puo’ far nulla, piuttosto ti vorrei come figlio”. A
questo punto Antonio doveva decidere. Tuttavia, non si rivolse ad un commercialista come consulente
ma nientemeno che a suo padre Ettore. In quel momento in casa Schmitz scoppio’ un uragano che i
meteorologi non avevano mai previsto. “…maaa sarebbe solo una formalita’…” disse
prudentemente
Antonio per sentirsi rispondere “P r o v a c i e t i a m m a z z o!!!” E no…nonno Ettore non aveva
peli sulla lingua. Antonio si rese conto della mostruosita’ della proposta e dimentico’ la faccenda. Pochi
anni dopo la Bernarda si spense serenamente, ma mio padre non riusci’ a guadagnarci nulla. Chissa’ se
questo sentimento non abbia influenzato anche me in giovane eta’? Ricordo, un anno prima del mio
matrimonio, che ero in cerca di case in affitto. Avevo pensato di fare una ricerca sui necrologi per
trovare alloggi da poco liberati da anziane signore vedove e senza figli, cosi’ mi era parso conveniente,
dal momento che una proprieta’ senza eredi si vende piu’ a buon mercato. Per favore, non fate come me.
Antonio va a lavorare in fonderia e conosce Santino, mio zio. Santino abitava a Milano da pochi anni.
Voleva mettere da parte un po’ di soldi per comprare dei terreni e ritornare in Sicilia. La zia Teresina
era incinta del primo figlio, Francesco. Antonio e Santino diventarono amici. Cosi’ mio padre si reco’ una
sera a casa della coppia per condividere una cena. Sulla credenza di zia Teresina si trovava una piccola
fotografia. Era di Serenetta, mia madre. Mio padre fu magneticamente attratto da quella fotografia.
Cosi’ prese la parola:
“Santino, aio u mi curcu cu ‘ssorita!”
Ne il contenuto ne la forma avevano a che fare con un raffinato francese. Sembrava proprio un insulto!
Cosi’ mio padre sperimento’ che non solo a casa del nonno Ettore ma anche da zio Santino il tempo
poteva essere molto instabile.
“C’averisti i fari tu? Dassa che pigghio ‘ncunu fucili!”
Altro che uragano! Quando fini’ la pioggia di proiettili i due pero’ si chiarirono. Mio padre aveva
intenzioni serie, anche se tutto sembrava, tranne che serio. Quindi mio padre scrisse una lettera molto
composta e dignitosa a mio nonno Lorenzo, dove in buona sostanza chiedeva il permesso di andare a
curcarsi con mia madre. Sicche’ mio padre si reco’ a Sataria, nella contrada Arrusti (isola di
Pantelleria). Ad accoglierlo al piccolo porto c’era mio Zio Natale. Mio padre aveva con se’ una copia del
Bolero, per farsi riconoscere. Mia nonna Lucia sottolineo’ che mia madre non era mai stata fidanzata.
“Probabilmente perche’” disse nonno Lorenzo “non ci sente molto bene.” Mio padre obbietto’ di avere un
timbro di voce abbastanza alto, in realta’ e’ molto incline alle urla.
“Ma tu, mi voleristi sposare?” disse mia madre. “Certo!” rispose mio padre. “Chi dicisti?” ….e mio padre
capi’ che nella vita avrebbe ripetuto non solo la quinta elementare, ma molte altre cose. Mia madre
quando gli chiedi una cosa te la fa dire tre volte, dopodiche’ ti dice “Adesso ti ho sentito. Ma non ho
capito cosa vuoi dire!!” Invece quando ha lei qualcosa da dirti cerca di insegnartelo a memoria con l’uso
della ripetizione. Ciononostante, quando riesce a collegarsi audiovisivamente con la realta’ esterna
riesce a fare dei ragionamenti molto profondi. Ha inoltra una grande maturita’ a livello emotivo e riesce
a contenere le ansie di mio padre.
In un giorno, dopo il fidanzamento mio padre penso’ di avere la voce troppo bassa per mia madre, tanto
da non poter convolare proficuamente a nozze. Ricevette una lettera da mio zio Natale, che diceva tra
le righe: “Tato’! Ma vidi ca io aio moglie e du figghie! Posso ire in galera?” Quelle poche parole riuscirono
a creare una motivazione non ancora estinta dopo quarantacinque anni. Si sposarono nel 1963, in estate.
Ci fu un breve ricevimento a Bollate, a casa dei miei nonni paterni (non ho mai saputo perche’ il
matrimonio non fu celebrato nell’isola di Pantelleria). Con gli avanzi del ricevimento, andarono avanti due
settimane.
Capitolo 4
I MIEI NONNI A MILANO
Verso la fine del 1958 mio nonno Ettore e mia nonna Amalia progettarono seriamente di andare a vivere
a Bollate, alle porte di Milano per ricongiungersi con il figlio maggiore Antonio. I miei nonni restarono
sposati per 44 anni, fino al giorno della morte di Ettore. Quelli erano tempi molto diversi da quelli
attuali, per questo motivo i matrimoni erano considerati un sacramento indissolubile tanto da passar
sopra anche ad incompatibilita’ che oggi molte persone considerate di buon senso giudicherebbero
insormontabili, fino al punto di consigliare una separazione. I miei nonni proprio non si sapevano
sopportare e mio padre soffri’ molto per i loro litigi. A distanza di tanti anni, Antonio parla meno
favorevolmente del nonno Ettore decantando in tono negativo molte caratteristiche del suo carattere.
Parla anche del carattere della nonna come “non facilmente sopportabile” dicendo pure di comprendere
la frustrazione del nonno, ma non riesce a perdonare il modo in cui reagiva nei confronti della nonna. Le
urla scandivano tutte le ore del giorno e i nonni litigavano sia di giorno che di notte. La nonna, di notte,
svegliava spesso il nonno accusandolo di russare troppo fastidiosamente, ma quando si addormentava
accompagnava il nonno in un duetto molto melodioso.
“Citta’ di Milano, stazione centrale, e’ in arrivo il treno espresso proveniente da Palermo…” “Bedda
matri! Talia quanti palazzi che ci sunnu!” diceva mia nonna con il naso appiccicato al finestrino
rivolgendosi a mio nonno. Mio nonno intanto si schifava per come la nonna aveva ridotto quel povero
pezzo di vetro.
A distanza di molto tempo, quando io rincasavo tornando da scuola mi capitava di parlare cosi’ con mia
madre: “C’e’ stata la nonna questa mattina?” e mia madre “Si, e’ andata via un’oretta fa.” Io lo avevo
capito dall’aspetto dei vetri delle finestre del soggiorno.
I nonni erano appena scesi dal treno e gia’ avevano incominciato a cantare. “Dobbiamo andare a Bollare!”
diceva la nonna, e il nonno: “Ti dissi ca ie’ Bollate e no Bollare, ma ie n’a capiscio a sta fimmina!” La loro
vita era imperniata in una comunicazione aggressiva ma costante e continua. Oggi che sono sposato so
che i matrimoni che falliscono sono invece quelli in cui non si parla affatto. Se fossero ancora in vita
direi a ragione ai miei nonni: “Per favore, continuate ad urlare! Non fermatevi mai!”.
I nonni raggiunsero mio padre a casa dello zio santo. Trovarono il giovane Antonio con venti chili in piu’
di quando lascio’ la Sicilia. Non c’era un’attimo da perdere, bisognava trovare casa e lavoro. Mio padre
lavorava in fonderia ed era indipendente, i nonni avevano qualche soldo da parte e riuscirono a comprare
una casa a Bollate in via Almese – a quei tempi non era difficile come oggi – e ad acquisire una licenza
per lavorare nei mercati. Con i nonni, arrivarono anche la sorella e i due fratelli di mio padre. La zia
Margherita e lo zio Nino trovarono lavoro dopo pochi giorni, lo zio Lorenzo non aveva ancora dieci anni e
frequentava la scuola elementare.
I nonni sperimentarono sul lavoro uno dei pochi ambiti in cui andavano d’accordo. Ma l’ora di pranzo era
un vero massacro. Era proverbiale la grande – o per meglio dire immensa – pentola della pasta, quella
che mia nonna usava divorare con tanta violenza. E mio nonno era sul divano a rodersi il fegato. Perche’
tutto questo? Perche’ nonna Amalia era la piu’ veloce, incominciava a mangiare prima di mio nonno il
quale si disgustava degli assurdi rumori prodotti dalla masticazione della nonna, per cui con aria di
stizza diceva “Mi passao a fami!”. Quindi la nonna prendeva la pentola con tutto cio’ che avanzava e
distruggeva tutto come un grande termovalorizzatore.
Il nonno aveva molti vizi: l’alcol, il fumo e le donne. Mio padre proprio non riusci’ a perdonargli le
sofferenze che questo provocava alla moglie e ai figli. Piu’ di tutto, era terribile il suo comportamento
sotto l’effetto dell’alcol. Per molti anni rimase schiavo di tutto questo, ma per lo meno non fu mai
schiavo di buoni propositi non realizzati. Mio padre dice sempre che sotto tanti aspetti io somiglio a mio
nonno. Il mio carattere ha molto in comune con quello del nonno Ettore: ancora oggi, nonostante
un’intensa terapia farmacologica sono vittima – ma in modo lieve – di numerosi comportamenti
compulsivi. Tendo a controllare tutte le cose che gestisco, cercando di prevedere come andranno a
finire in ogni minimo particolare. Questo rende soggetti ad ansia oltre misura i periodi in cui ci sono
decisioni importanti da prendere in poco tempo. Ultimamente pero’ mi sono liberato in buona misura dei
buoni propositi relativi alla compulsivita’, ad esempio controllo spesso di aver chiuso le portiere dell’auto
e di aver spento i fornelli della cucina. Lo faccio piu’ volte e ne vado fiero; tuttavia cerco di non essere
visto in tali frangenti perche’ mi piace camuffarmi da “persona normale”. Visto che non ho ancora
risolto i miei problemi, almeno non ho piu’ il problema di risolvere i miei problemi e quindi ho un problema
in meno. Il nonno invece dovette aspettare la vecchiaia per liberarsi del suo vizio peggiore: l’alcol. Il
fumo,invece, lo accompagno’ fino alla morte.
La zia Margherita conobbe Nanni, un ragazzo emigrato dal veneto. Ancora oggi mio padre si rivolge allo
zio Nanni scherzosamente: “Nanni’iii ! ! ! A comprare il giornale ci sei anda’toooo?” Lo zio Nanni era un
bravo ragazzo, pero’ come tutti i veneti – cosi’ dice mio padre – concepiva in modo profondamente
diverso il fidanzamento e il matrimonio da come lo intendono i siciliani. Arriva il giorno delle
pubblicazioni in comune e dopo aver messo le firme all’ufficio di stato civile del comune di Bollate, lo zio
Nanni si slancia con queste parole nei confronti della zia: “Rita! A questo punto semo gia’ marito e
moglie!” e mio padre: “Guarda! Guarda! Cosa hai detto tu? Ti do io una lezione!” Fu triste, ma pur
essendo lui veneto in terra lombarda si doveva fare alla maniera dei siciliani, del resto non poteva mica
disonorare mia zia, mio padre, gli altri zii, i nonni e tutta la nostra razza che si sarebbe rivoltata
furiosamente nelle rispettive tombe! Lo zio Lorenzo a quel tempo era ancora un ragazzino, andava a
scuola ma era piu’ interessato a giocare a pallone. Mia mamma si ricorda che, durante i quindici terribili
mesi in cui visse a Bollate insieme al resto della famiglia di mio padre, passava il tempo a fare il bucato
scontrandosi con il pezzo d’esso piu’ difficile: i calzettoni di zio Lorenzo il quale giocava di pomeriggio
con tre paia per volta, altrimenti accusava dolori ai poveri piedi. Era ancora molto giovane quando
conobbe zia Lina, che era persino piu’ giovane di lui. Mia nonna Amalia si lamentava del comportamento
compromettente di Lorenzo e Lina rivolgendosi a nonno Ettore. La ragazza era simpatica ma si doveva
parlare alla sua famiglia per richiamarla all’ordine. Cio’ era piu’ che sufficiente perche’ “mica ie’ a nostra
a fimmina! U nostro ie’ u masculu!”, perpetrando cosi’ la secolare cultura misogina. La consuocera
appreso il malcontento dei miei nonni e il loro encomiabile senso di colpa pensando di aver fatto un torto
alla famiglia di zia Lina pronuncio’ la seguente sentenza, in tono benevolo, rassicurante e con l’obiettivo
di minimizzare:
“Ma son fioil! Lassate che se divertano!”
“Bedda matri!” agonizzo’ nonna Amalia.
“In sta manera, fazzamo che si sposano, sti du’ disgraziati.” sentenzio’ in appello nonno Ettore.
Mio zio Nino si sposo’ invece con Lisa, una ragazza di Pantelleria, dopo il matrimonio di mio Padre.
Questo dopo un fidanzamento interrotto qualche tempo prima per mancanza di requisiti morali
pregressi da parte della precedente ragazza. Detto tutto questo, la razza dei Schmitz si salvo’
dall’estinzione.
Capitolo 5
MIA SORELLA
Nel 1963 la televisione non era molto diffusa percio’, a nove mesi dal matrimonio dei miei genitori
nacque mia sorella Amalia – per la precisione con due settimane di anticipo - il 15 Aprile 1964.
Mamma e papa’ vivevano ancora insieme ai miei nonni paterni. Ben presto accarezzarono l’idea di
prendere in affitto un modesto appartamento. Prima di mia sorella nacque mia cugina Marisa, figlia degli
zii Nanni e Margherita. Mia madre ricorda ancora oggi il carattere molto burrascoso di mia cugina il
quale provoco’ delle grandi tempeste in eta’ decisamente piu’ matura… ma gia’ da bambine le piccole
Marisa e Amalia contribuivano ad animare le giornate dei nonni a cui spesso venivano affidate. Dopo il
sesto mese di vita della piccola Amalia, i miei genitori presero in affitto un appartamento di camera e
tinello a Novate (comune a sud rispetto a Bollate) e lo stesso fecero gli zii Nanni e Margherita con la
piccola Marisa, a pochi metri nella stessa via dei miei genitori. I nonni invece vendettero la casa di via
Almese e si trasferirono in via Rossini, sempre a Bollate. Le tre famiglie si trovavano tutte a poca
distanza da una grande arteria della viabilita’ di Milano che attraversa anche le citta’ di Bollate e Rho,
per un complesso di circa una ventina di chilometri. Nel frattempo, dopo pochi anni di lavoro nei mercati
i miei nonni fecero un ulteriore progresso riuscendo ad acquistare e prendere in gestione un negozio di
frutta e verdura, nella stessa via dove abitano ancora oggi i miei zii e i miei genitori. Capitava dunque
spesso che nonno Ettore e nonna Amalia ricevessero in affidamento le piccole Marisa e Amalia che non
andavano ancora a scuola. Mio padre e mia madre erano contrari ad usufruire di un asilo “perche’ in quei
posti i bambini imparano le parolacce e diventano maleducati”. La religione dei testimoni scoraggia ma
non impedisce la frequenza degli asili. Anche io non ho mai frequentato ne asili ne scuole materne, ma,
sebbene non sia un amante del turpiloquio, credo di conoscere una grande varieta’ di eufemismi in
italiano, inglese, milanese, siciliano e veneto.Mia sorella e’ di pochi mesi piu’ vecchia di Federico, il
secondogenito degli zii Nanni e Margherita. Diventarono proverbiali le avventure di Amalia, Marisa e
Federico, percio’ ve ne voglio raccontare un paio. Un giorno Amalia e Federico erano rimasti con la nonna
Amalia, durante il pomeriggio. All’epoca avevano circa cinque o sei anni ed erano soliti correre su e giu’
per il negozio della nonna giocando a lanciarsi vari articoli di frutta e verdura. Ogni tanto si
nascondevano nei pantaloni una mela o una banana. Quel pomeriggio erano gia’ stati sul balcone di casa di
mia madre ed avevano sperimentato il tiro a bersaglio dove il proiettile era una banana e il bersaglio era
uno qualunque di quei vecchietti che spesso passeggiavano in bicicletta passando per la via di casa
nostra. Lo scopo del gioco era considerato raggiunto se il povero vecchietto perdeva l’equilibrio e
cadeva a terra. Nell’appartamento a fianco a quello dei miei genitori c’era Emanuele, un bambino
coetaneo di mia sorella che da qualche giorno sperimentava il lancio delle palline di carta infuocate ed
alimentate da una spruzzata di alcol, aventi come bersaglio i panni stesi della signora del piano
sottostante. Mia sorella e mia cugina non erano ancora arrivate a tanto ed evitarono di farlo, forse
perche’ l’argomento era stato inserito nell’ordine del giorno di una lunga riunione condominiale. Il
pomeriggio era lungo e Amalia e Federico si annoiavano. Fortunatamente a Federico venne in mente
un’idea geniale, un vero esperimento di chimica. Gli era stato detto che la pipi’ mischiata con la
candeggina provocava degli effetti “meravigliosi” con l’inalazione, anzi oserei dire effetti quasi
“stupefacenti”. Suppongo che da grande qualche anima pia e sicuramente benintenzionata gli abbia
comunicato che anche certe “erbe” abbiano un effetto simile, magari senza che ci fosse il bisogno di
abbassarsi i pantaloni davanti a una femmina innocente ed indifesa. In breve, mia sorella inalo’ a lungo la
“pozione magica” tanto soporifera fatta in parte con la pipi’ di Federico. Quando penso a questo
episodio mi viene in mente il classico di Antonello Venditti: “Eleonora” (che dice nel ritornello:
“Eleonora… tira su, gira questa stanza, gira, sempre piu’, sempre piu’!”). La stanza comincio’ a girare
davvero per Amalia, finche’ la piccola non cadde a terra svenuta. Nonna Amalia e nonno Ettore
dovettero
fare
una
volata
in
pronto
soccorso
con
mia
sorella
narcotizzata.
Mio cugino Federico era molto ben voluto dallo zio Nanni, tuttavia lo stesso zio ebbe delle grane per via
del carattere un po’ problematico che il ragazzino (oggi quarantenne) andava via via sviluppando. Da
bambino il piccolo spesso veniva chiamato dal papa’ in questo modo: “Federico! Mi sembri un Gesu’
bambino!”. A venti anni il padre gli si rivolgeva in questo modo: “E mangia, che mi sembri un Cristo in
croce!”. Tutto sommato, il personaggio era sempre lo stesso. Era solo cresciuto, non vi pare?
Mia sorella era molto brava nello studio. Ricorda con affetto le maestre Zabert e Frullino, dove questa
ultima divenne la mia insegnante durante tutto il ciclo delle scuole elementari. (A proposito di ciclo, la
maestra Frullino a volte era di cattivo umore e non gli passava se non dopo quattro o cinque giorni.
Questo lo sapevano anche i bambini della classe della maestra Zabert, ma nessuno riusci’ a capirne la
ragione.) La piccola Amalia era brava sia in italiano che in matematica.
Gli anni delle medie inferiori furono un pochino problematici per la ormai signorina Amalia,
probabilmente perche’ con lo sviluppo mise qualche chiletto di troppo e non solo per questo. Con le varie
materie se la cavo’ molto bene ed usci’ dalla scuola media con dei buoni voti. Dunque, ben presto Amalia
dovette pensare a cosa fare dopo le medie. Voleva frequentare l’istituto agrario. Mio padre obietto’ che
l’istituto piu’ vicino, all’epoca, si trovava a Cormano, per cui doveva raggiungerlo tramite due autobus,
dove la mattina si potevano fare dei brutti incontri. Inoltre era “pieno di masculi”. Per giunta il primo
autobus aveva la fermata non lontano da un noto ospedale psichiatrico (posto che in eta’ adulta un
giorno io avrei conosciuto). Logica stringente. Tanto stringente da non andare in bagno per due
settimane. Ma – dico io – non potevano portarla in macchina? E non lo sanno che il mondo intero e’ “pieno
di masculi”? E infine non sapevano che il confine tra malattia e salute e’ illusorio? Non avevano letto “La
coscienza di Zeno”. Tranquilli, non voglio fare dell’inutile retorica, pero’ vi voglio preannunciare una mia
ferma convinzione: spesso non e’ realmente malato chi si comporta in modo sconvenevole per la comune
morale, bensi’ chi ti spinge a fare cio’, demoralizzandoti fino al punto di farti smarrire il buon senso.
Mia sorella, in buona sostanza, visse tutta l’adolescenza nell’osservanza di numerose e rigide regole,
dettate per lo piu’ dalle ansie di chi voleva proteggerla da pericoli poco probabili, se non immaginari.
Reagi’ sviluppando un carattere ribelle, che si tradusse pero’ nella piu’ concreta delle ipotesi in una
comunicazione aggressiva delle proprie idee che la mettevano in antitesi con la precedente generazione,
creando a se stessa non poco disagio. Si opponeva a certe regole dei Testimoni di Geova, ma non lo disse
mai chiaramente agli anziani di congregazione.
Non perse comunque mai il buon senso, cosa che invece accadde a me. Riuscii a farle comprendere il
meccanismo perverso che mi privo’ temporaneamente della ragione solo dopo il mio secondo ricovero in
ospedale. Ma di questo vi diro’ in seguito. Mia sorella, in sintesi, frequento’ un breve corso di
formazione come segreteria di azienda. Non era il diploma che sperava, ma un giorno le avrebbe
fruttato un buon lavoro.
I miei genitori avevano molto a cuore le adunanze dei testimoni di Geova e ci portavano alla sala del
regno, per tre volte alla settimana. In questi posti si studia la Bibbia, secondo le disposizioni della
Società Torre di Guardia, eretto in ente giuridico nel 1884.
Mia sorella ventitreenne conobbe Fester, ragazzo che divenne in seguito suo marito prima di diventare
un testimone.
Per i testimoni di Geova sposare un non testimone è un peccato contro Dio per il quale però non è
prevista la disassociazione (scomunica).
Si conobbero sul treno, di ritorno con le rispettive famiglie da una vacanza in Sicilia. Fester era
originario di Terrauzza, citta’ non lontano da Siracusa. Noi tornavamo da Pantelleria, come tutti gli anni.
A quel tempo io avevo solo tredici anni e durante le vacanze ero intento a giocare con Carlo (mio cugino
di secondo grado) con fionda e pietre ed avendo come bersaglio numerosi gatti randagi. Cosa c’era che
non andasse bene in tutto questo? Forse insultare gli animali non si addiceva alla fede cristiana? Puo’
darsi, ma i miei genitori avevano altre gatte da pelare, perche’ la famiglia di Fester era cattolica. Per di
piu’, i miei genitori nutrivano una certa simpatia per Silvestro, un ragazzo di buona famiglia e molto
osservante della fede dei testimoni. Amalia e Fester si diedero appuntamento a Novate, davanti al
municipio. Ben presto Silvestro divenne uno sbiadito ricordo, anche perche’ non era stato
adeguatamente convincente nel far la corte a mia sorella. Fester invece si comporto’ da abile stratega.
Ricordo che il primo giorno che si presento’ a casa nostra, per conoscere formalmente mio padre e mia
madre, si accompagno’ con un bel mazzo di rose rosse per mia sorella e un’altra composizione floreale
per mia madre. Mio padre, finiti i convenevoli, chiese a Fester senza mezzi termini in tono quasi
minaccioso e senza indorare la pillola: “Signor Fester, potrei chiederle qual e’ il fine delle sue visite a
casa nostra?” Il giovane Fester disse senza esitazione: “Attualmente ho stretto un’amicizia con sua
figlia Amalia, amicizia che in futuro vorrei coronare con un fidanzamento e successivamente con il
matrimonio.” Non saprei dire se questa risposta sia stata frutto di una lunga meditazione
precedentemente maturata oppure se sia stata dettata dall’impreparazione, o se pensasse di sostenere
un colloquio di lavoro. Ad ogni modo, Fester frequento’ casa nostra per alcuni mesi, durante i quali mio
padre e mia madre tentarono di dissuadere mia sorella da questa frequentazione, per loro non aveva un
curriculum all’altezza delle loro aspirazioni e non era neanche raccomandato. Sembrava che Fester non
avesse nemmeno una copia della Bibbia in casa. Mio padre quando apprese di questo ando’ su tutte le
furie: “Ma non vorrai mica sposarti in comune, come una donna senza fede?!”. Nonostante questa
ostilita’, ho da dire che nel giro di qualche settimana mio padre ebbe a ricredersi, almeno in parte, nei
confronti di Fester perche’ questi mostrava d’essere un ragazzo dal buon carattere, maturo e molto
mite. Fui affascinato anche io dalla sua personalita’, tanto da essere influenzato, l’anno dopo, ad iniziare
gli studi in un istituto tecnico industriale come aveva fatto lui in precedenza. Lui era perito meccanico,
mentre io sarei diventato qualche anno dopo perito informatico. Avevamo in comune la passione per
l’elettronica e per i computer.
Dopo pochi mesi da che conoscevamo Fester fummo investiti da un dramma familiare. Il ragazzo, ormai
fidanzato di mia sorella, purtroppo si ammalo’ seriamente. In principio i medici non capirono la corretta
diagnosi. Accusava dei forti mal di testa e difficolta’ a mantenere l’equilibrio nel camminare. Ebbe
anche un lieve incidente con l’auto. Qualcuno parlo’ di labirintite, qualcun altro ipotizzo’ un esaurimento
nervoso, ma ben presto conoscemmo un bravo medico del C.T.O. di Torino che ci disse, dopo alcuni
esami, di che cosa si trattava. Medulloblastoma al cervelletto. Fu un duro colpo per tutti noi e
specialmente per mia sorella. Mio padre, a quel tempo, aveva un’amicizia con un professore di
pneumologia e medicina legale che lo aveva curato al meglio per un enfisema polmonare, causato dai
numerosi anni di lavoro in fonderia. Quindi chiese a questo luminare che probabilita’ ci fossero che
un’eventuale operazione potesse avere un decorso positivo. Il professore fu schietto e molto
pessimista: “Il medulloblastoma e’ un tumore maligno, molto invasivo e parecchio incline alle metastasi e
alle recidive. Non vorrei essere nei suoi panni! Povero ragazzo!”. Mio padre, al solito suo, ci informo’ di
questi dettagli senza mezzi termini e senza delicatezze di alcun genere. Non avevo mai visto mia sorella
piangere in quel modo. Ciononostante, nei giorni a seguire, appresi il coraggio che ella sapeva
dimostrare.
Arrivo’ il giorno dell’operazione di Fester. Mi disse in seguito che era allora convinto che non si sarebbe
piu’ svegliato. La notte prima dell’operazione si raccolse in preghiera e chiese perdono a Dio per non
averlo cercato nei momenti della vita in cui tutto sembrava andare per il meglio. L’operazione, ad ogni
modo, riusci’ perfettamente e dopo poco il ragazzo dovette sottoporsi ad un ciclo di cobaltoterapia. Si
salvo’… purtroppo pero’ le radiazioni della terapia gli fecero perdere i capelli e lo indebolirono
parecchio. Dopo l’operazione, mia sorella fu con lui tutti i giorni in ospedale. Mio padre e mia madre
mitigarono in quella circostanza ancora di piu’ i loro dissapori e non scoraggiarono piu’ mia sorella Amalia
nel frequentare Fester. Successivamente, Fester disse che aveva bisogno di un po’ di tempo per
schiarirsi le idee. Aver visto la morte in faccia lo turbo’ grandemente. Cosicche’ prese la decisione di
studiare con i testimoni di Geova ed in seguito divenne anche lui un testimone. E’ una fortuna che
Fester sia oggi ancora con noi. Amalia non penso’ mai di rinnegare i propri sentimenti, ebbe un grande
coraggio.
Capitolo 6
I MIEI CUGINI, GLI ZII E I NONNI MATERNI IN SICILIA
Sul finire degli anni ’40, dopo la morte dello zio Francesco, nonna Lucia faceva del suo meglio per
provvedere alla famiglia, aiutando nonno Lorenzo nel lavoro agricolo e negli allevamenti di polli, conigli,
maiali e bovini, nonostante il grande dolore che ovviamente portava nel cuore. In quegli anni la vita era
molto semplice, ci si aspettava che i ragazzi crescessero, lavorassero per aiutare la famiglia e che
questi a loro volta costruissero la propria; molto spesso tutto questo si verificava nel rispetto della
morale comune. Nonno Lorenzo e nonna Lucia rimasero con sette figli: Linuccia, Natale, Antonio,
Santino, Lucia, Lorenza e Serenetta, in ordine di eta’. Linuccia e’ di quindici anni piu’ vecchia di mia
madre Serenetta.
I miei zii si sposarono tutti ed ebbero vari figli; purtroppo non c’era molta fantasia per quanto riguarda
i nomi: Linuccia genero’ Lucia, Federico e Federica; Natale genero’ Lucia e Federica; Antonio genero’
Lucia e Federica; Santino genero’ Francesco e Deborah; Lucia genero’ Federica, Federico e Lucia;
Lorenza genero’ Francesco, Lorenzo e Natale; infine mia madre Serenetta genero’ Amalia e me, Ettore.
Non c’e’ nessuno che non sia “annomato” (forma dialettale che indica l’usanza di dare al nuovo bambino il
nome di un parente o di un santo). Se i nomi furono niente affatto originali, anche le usanze
matrimoniali si perdevano nella notte dei tempi: mia zia Linuccia, mio zio Natale e mia zia Lucia
sposarono rispettivamente Michele, Marisa e Franco, dove questi ultimi tre sono fratelli e sorella,
inoltre questi tre matrimoni furono celebrati nel medesimo giorno.
Io e mia sorella insieme ai miei genitori ci recavamo in estate a Catanniti, un piccolo borgo a cinque
chilometri dal centro di Pantelleria dove abitavano quasi tutti i parenti di mia madre. Questo avveniva
quasi sempre nell’intero mese di Agosto, come le imprese milanesi consentivano quasi senza eccezioni
tra gli anni ’60 e ’80. Mia nonna Lucia mori’ nel 1973, un anno prima che io nascessi. Per assurdo,
abbiamo frequentato molto piu’ assiduamente i parenti di mia madre a Pantelleria rispetto a quelli di mio
padre a Milano, dove abitavamo. Inoltre, a Solarino in Sicilia ci sono stato un’unica volta, quando avevo
solo tre anni. Ma mano che scorrerete le pagine di questo libro ne capirete i motivi.
La piu’ anziana delle mie cugine, Federica di Linuccia ha esattamente ventitre anni piu’ di me. Dopo di me
c’e’ solo una cugina, Deborah che ha tre anni meno di me. Tra i miei cugini, quelli che ebbero una
personalita’ piu’ forte e determinata furono Federico (figlio di zia Lucia e zio Franco) insieme a
Francesco e Lorenzo (figli di zia Lorenza e zio Matteo). Il giovane Natale fratello di questi ultimi,
invece, fu vittima di una debole personalita’ e di tutti quelli che di questo si approfittarono.
Un giorno Federico di Lucia si trovava in campagna durante la mietitura insieme a mia madre e agli altri
zii. A quel tempo aveva circa sei anni. Il piccolo era abituato a fare pipi’ nei posti meno opportuni e alla
vista degli astanti. Sebbene si fosse in campagna e non si ravvedesse alcun problema all’atto pratico, la
cosa parve molto sconvenevole agli zii, che volevano per i piu’ piccoli una buona educazione. La cosa era
stata piu’ volte discussa in famiglia come se ci si trovasse nel bel mezzo di un’assemblea condominiale.
La famiglia era divisa in due: c’era chi sosteneva l’opportunita’ di un intervento deciso e anche corporale
da adottarsi alla prima ulteriore buona occasione e chi preferiva non pronunciarsi. Ritornando
all’episodio citato, venne l’occasione. Mia zia Lorenza si trovava li’ dirimpetto accanto a mia madre e
cosi’ lo volle minacciare: “Guarda che te lo tiro!” – “E tirammillo che mi piace!” oso’ rispondere il
ragazzino. In quel momento ci fu prima silenzio e poi un boato di disapprovazione. Bisognava a tutti i
costi correggere la situazione e non certo perche’ Federico avesse cattiva mira. Zio Franco e zia Lucia
si accordarono per una punizione esemplare. Ciononostante, Federico dimostro’ di avere la testa dura,
come del resto molti da quelle parti. Federico divenne da adolescente un “capobanda” ed aveva un forte
ascendente sulla popolazione femminile. I principali componenti della banda erano Francesco, Lorenzo e
Ciccareo, un ragazzino che abitava nella stessa borgata.
Quando avevano circa sedici anni, Federico, Francesco, Lorenzo e Ciccareo in un pomeriggio d’estate
dovevano fare i conti con la noia. Per fortuna Federico e Francesco erano esperti in tale materia.
Federico se la prese con Ciccareo: “Averisti u ti ‘mbivi nu biccheri i birra frisca!”. “Non d’ave!” protesto’
Ciccareo. – “Si che ‘n’ d’ave, na a vidi ia’?” Quindi Ciccareo fu costretto a dirigersi verso un bicchiere
colmo. “Mbivi ch’e’ frisca!” “No, e’ cauda!”. Certo che era calda, la aveva appena prodotta di sua natura
Francesco. Infame destino per il povero Ciccareo.
Il giovane Natale, fin da tenera eta’ usciva poco ed era molto, molto timido. Parlava a denti serrati,
come se avesse paura che le parole da lui pronunciate potessero nuocere a lui stesso o a qualcun altro.
Subi’ molto l’esuberanza e la spigliatezza dei fratelli maggiori, con i quali non poteva sperare di
competere in alcun modo. In alcuni casi ho assistito a degli screzi tra lui e i suoi fratelli ai quali Natale
reagi’ con momenti d’ira esagerata. Ci fu poi un periodo, in eta’ piu’ matura, in cui Natale sembrava
essere cambiato, piu’ estroverso e intraprendente, voleva persino prendere la patente, trovare un
lavoro e comprarsi una macchina. C’era stata una ragazza, un’amica di famiglia che aveva pensato di fare
un’opera buona invitando Natale ad uscire per fare delle conoscenze e delle amicizie pensando di
potersi pregiare di salvarlo dalla depressione. Natale, come si intuisce, si illuse che quella bella ragazza
volesse sposarlo. Quando furono evidenti le vere intenzioni di questa che volle essergli amica, la sua
timidezza e la sua tristezza si trasformarono in una psicosi, sicche’ Natale ancora oggi, a distanza di
vent’anni e’ trattato con dei farmaci neurolettici.
La mia prima estate in Sicilia risale all’Agosto 1975, quando avevo esattamente un anno. Mi attirai ben
presto la simpatia dei miei cuginetti, forse per la presenza di un unico dentino: un incisivo inferiore, o
forse perche’ gia’ cosi’ prematuramente era evidente il mio strano carattere. Fino ad allora, la sola
parola che sapevo pronunciare in modo corretto era un secco e deciso “No!” che sapevo tirare fuori
come arma di difesa contro qualsiasi domanda e, con poca razionalita’, anche contro la sua esatta
negazione. Mia sorella Amalia si divertiva molto: “Ettore, hai fame?” e io “No!” – “Ettore, vuoi rimanere
digiuno?” e di nuovo “No!”, di conseguenza i cugini ridevano insieme a mia sorella.
Anno dopo anno, fino all’eta’ della scuola elementare, diventai sempre piu’ irrequieto. Ricordo che spesso
si andava a trovare la zia Lorenza, dove Francesco, Lorenzo e Natale mi dovevano sopportare. I tre
ragazzi vivevano grazie ad un’impresa edile alle dipendenze del cugino Federico e per arrotondare
coltivavano un modesto appezzamento di terreno e allevavano maiali, bovini, polli, tacchini e altri piccoli
animali. Natale, per via del suo carattere, non amava molto aver a che fare con gli estranei, percio’ man
mano che cresceva era evidente che fosse piu’ incline a occuparsi delle faccende di casa. C’e’ da dire,
comunque, che governava benissimo gli animali e divenne un esperto cuoco. Il ragazzo era complessato,
ma bastava parlare un quarto d’ora con lui per accorgersi che nascosta dalla timidezza c’era una mente
molto fine, tanto da non poter mai considerare sprecato quel piccolo lasso di tempo. Nonostante la mia
irrequietezza, apprezzavo molto la compagnia di Natale. Le occasionali litigate con i fratelli piu’ grandi
erano davvero gli unici momenti della mia vita in cui lo vidi arrabbiato. Con me e con gli altri bambini era
sempre molto dolce e gentile e grazie a lui ho passato molti momenti belli della mia infanzia. Fu paziente
con me anche in un’occasione in cui riuscii a centrare la testa di un povero tacchino a diversi metri di
distanza con una pietra. In quell’occasione, la zia Lorenza si diresse in fretta sullo sventurato animale
per tirargli il collo pensando di dover mangiare tacchino a cena per forza maggiore, ma appena il grosso
pennuto si rese conto del rischio che stava correndo, si rizzo’ in piedi e corse via simulando una salute
perfetta. In altri momenti, prediligevo gli allevamenti di tortore e fagiani di proprieta’ di Lorenzo. Un
giorno se li ritrovo’ tutti riuniti in assemblea sugli alberi secolari di fronte a casa, naturalmente le
gabbie dei pennuti erano aperte come per magia. Quel difficile incantesimo mi frutto’ cinque dita
stampate sulla faccia, che se ci penso mi bruciano ancora. Mio padre non mi tocco’, ma si fece capire
bene: “Se ti permetti un’altra volta ti spezzo le ossa!”. Per almeno una settimana, i cugini e le cugine mi
presero in giro quando mi incontravano: “Ettore, guarda che ti spezzo le ossa!”. Natale invece venne a
giocare con me e mi consolo’ per gli scherni dei cugini e le minacce di mio padre.
Le cose si complicavano molto quando dagli zii Matteo e Lorenza c’ero io in compagnia di Carlo, mio
cugino di secondo grado, figlio di mia cugina Federica di Lucia. Carlo e’ di due anni piu’ giovane di me.
Quando io avevo sette anni passammo l’intera estate insieme, allorchè mio padre mi spedi’ insieme a mia
sorella appena finita la scuola affidandoci agli zii Franco e Lucia, che sono anche i nonni di Carlo. Il
ragazzino dimostro’ in varie occasioni di avere un carattere dominante e molto piu’ forte del mio. Al
mattino presto mia sorella Amalia e mia cugina Lucia ci portavano al mare per gli effetti benefici a
livello di respirazione, infatti sia io che Carlo eravamo reduci da una brutta bronchite. In spiaggia si
faceva colazione, con latte e biscotti. Carlo urlava per mezz’ora sostenendo di non aver ricevuto la
tazza piu’ grande, credendo che chi mangiava di piu’ crescesse piu’ in fretta, menzogna propinata
dall’intera casata, in virtu’ della credenza popolare che il bambino grasso si ammalasse meno di
frequente. A Pantelleria si usa molto chiamare in causa una motivazione molto fantasiosa per non dover
citare le proprie vere intenzioni. A volte la cosa e’ molto eclatante ed e’ sorprendente come due
interlocutori si lavino la faccia a vicenda. Di conseguenza, Carlo per invidia nei confronti della mia eta’
anagrafica mi diceva spesso: “Io su grande, invece tu si ‘nninno!”. Penso di avergli addirittura creduto.
Non so se dipenda da qualche aspetto del mio subconscio, ma in due occasioni ho rischiato di uccidere
Carlo, forse mi ero reso conto del suo tentativo di farmi il lavaggio del cervello. Il primo tentato
omicidio ha avuto ubicazione nella spiaggia piu’ vicina a casa. Mi venne l’interessante e spesso
frequentata idea di giocare tirando sassi in acqua. A Carlo, venne la stessa idea e scelse di farlo
qualche metro proprio davanti a me. Probabilmente questo gli solleticava l’intelletto credendo di
riuscire a tirare le pietre piu’ lontano. Il piccolo ovviamente si ritrovo’ con un grosso bernoccolo in
testa. Io fui poco intelligente per averglielo procurato e lui fu poco intelligente pensando di me
altrimenti. Che dire della zia Lucia, di mia sorella e di mia cugina Lucia che ci stavano a guardare? Lascio
a voi il giudizio… comunque anche in quest’occasione mi ritrovai con cinque dita stampate in faccia,
stavolta da parte della zia. Bruciano anche queste! Il piccolo comunque non subi’ danni gravi, per cui
dovevo riprovarci. La seconda occasione in cui tentai il cuginicidio, fu a casa degli zii. Si giocava a girare
vorticosamente come intorno alla ruota di un mulino. Io mantenei a lungo l’equilibrio, mentre Carlo si
sbilancio’ e sbatte’ con una tempia su un battiscopa procurandosi un profondo taglio. Quando gli zii e i
cugini accorsero a sentire la ragione delle urla io mi scagionai: “E’ caduto!”. In effetti io non lo avevo
spinto, lo avevo pero’ istigato e ancora oggi il mio cuginetto me lo rinfaccia. Una volata in pronto
soccorso ed una modesta cucitura servirono a riparare il danno. Quando mia Cugina Federica e madre di
Carlo fu a casa, disse con aria intelligente: “Per fortuna u figghiu e’ bello pasciuto!”. Certo, certo…piu’
sei grasso e piu’ ti puoi permettere di perdere sangue. Si sosteneva anche che le forme tondeggianti
fossero provvidenziali contro le febbri improvvise. In eta’ adolescenziale Carlo non andava molto
d’accordo con le sue fattezze tonde. Di conseguenza si sottopose con disciplina ad una cura dimagrante,
con ottimi risultati, tanto da essere in buona forma ancora oggi. Ormai era cresciuto e raramente aveva
la febbre o si ammalava. Inoltre nessuno piu’ lo imboccava, percio’ per quale motivo avrebbe dovuto
esser grasso? Non tutte le cure mediche pero’ gli andarono a genio, specie nell’infanzia. Ricordo ad
esempio che odiava con tutte le sue forze il medico di famiglia. Pare che essendo facilmente incline alle
tonsilliti trovasse modo per esprimere tale odio. Per questo lieve disturbo la diagnosi, come tutti sanno,
si fa in due minuti con una breve ispezione, ma bisognerebbe convincere un bambino di cinque anni dal
carattere un po’ scontroso che le proprie motivazioni sono a fin di bene, per non andare incontro a
fastidiose conseguenze. Il dottore volle fare questa rapida indagine usando un semplice cucchiaio. Fu
forse facile? Niente affatto, il piccolo sembrava avere davanti agli occhi una pericolosa scimitarra.
“Vattinni, fituso!” e il medico si ritrovo’ sputato in faccia un biscotto masticato. Bisognava ritirarsi fino
ad eta’ piu’ conveniente. Nonno Franco ci resto’ male, aveva fatto una pessima figura con uno stimato
uomo di scienza di Sataria.
A dieci anni, Carlo sapeva guidare la vespa e la vecchia 500 di sua zia Lucia. Io sapevo a malapena
andare in bicicletta. Riuscii a convincerlo a farmi guidare la vespa, pero’ con la sua supervisione sul
sedile posteriore e solamente in piccoli tratti in carrettiere di campagna. Incominciammo ad avere
passione per le moto, ma entrambe le nostre famiglie non ci permisero mai di averne una. Piu’ o meno un
paio di anni prima ci accorgemmo anche della presenza femminile sulla faccia della Terra. La cosa fu
abbastanza sconvolgente, perche’ nessuno ci aveva preparato al riguardo. Eravamo ancora “due
criaturi”. Le prime timide amicizie esordirono nell’estate del 1984, quando io avevo dieci e Carlo otto
anni. Ogni anno tra Luglio e Agosto, Pantelleria – che è una nota localita’ balneare – e le citta’ limitrofe
si popolavano di famiglie di turisti, per cui c’erano anche bambini e ragazzi. Fu cosi’ che conoscemmo
Marika.
Una domenica mattina eravamo nella sala del regno dei testimoni di Geova con le nostre famiglie.
Eravamo seduti in fondo per chiacchierare senza essere scorti. A quel punto, Carlo fu preso da una
forte agitazione e si rivolse a me: “Votati, a vidi? Chi fimmina pulita c’e’ caffora!”. Carlo fu preso da un
colpo di fulmine. Purtroppo non sapeva ancora come fare a mantenere una famiglia, perche’ non aveva
ancora frequentato la terza elementare. Ma nulla vietava i buoni propositi. Una sera durante la cena
Carlo interruppe le conversazioni di zii e cugini: “Vogghio u mi maritu!” e tutti scoppiarono a ridere.
Durante l’inverno, io e Carlo ci scrivevamo e gli chiesi se pensava ancora alla bella Marika. Mi rispose
presto in bella calligrafia: “Se penso ancora a Marika o no non sono affari tuoi!”. Ci rimasi male, del
resto avevamo condiviso molti bei momenti della nostra infanzia. Dubito pero’ che quelle parole furono
solo farina del suo sacco.
Quando io e Carlo avevamo sedici e quattordici anni, Carlo si rese conto che mi stava capitando qualcosa
di strano. Scherzosamente mi chiamava “il professore” dopo aver visto la mia pagella scolastica.
Passavamo molto tempo insieme, un po’ giocavamo e un po’ lui mi parlava di quello che avrebbe voluto
fare da grande. Quando pero’ toccava a me parlare di queste cose c’era un sinistro silenzio. Col tempo
incominciai a parlare ancora meno ed era evidente che la mia mente era fatta piu’ di pensieri che di
parole. Il mio futuro non era fatto di progetti. Avevo molta paura ma non sapevo di che cosa.
Negli anni, quasi tutti miei cugini dell’Isola di Pantelleria abbracciarono ed in seguito abbandonarono la
religione dei testimoni di Geova, cosa che avrei fatto anche io dopo molti anni.
Capitolo 7
L’INFANZIA E I PRIMI ANNI A SCUOLA
Mia sorella aveva tra gli otto e i nove anni e si sentiva sola. Voleva una sorellina e confido’ piu’ volte a
mia madre questo suo desiderio. Non so perche’ i miei genitori avessero aspettato cosi’ tanto prima di
avere un altro figlio. Probabilmente il primo televisore in bianco e nero che acquistarono per la piccola
Amalia funzionava a dovere e intratteneva spesso tutta la famiglia. Ad ogni modo l’insistenza di mia
sorella fece decidere mia madre e mio padre e cosi’ anche io venni a far parte di questo mondo. In
quegli anni non era molto frequente la pratica dell’ecografia prenatale, percio’ fino all’ultimo momento
mia sorella aspettava una femminuccia della quale aveva anche deciso il nome: Ester. Sembrava la storia
di Lady Oscar ambientata a Casablanca, visto che i sessi in questione sono opposti. Mia sorella si
trovava a casa con nonna Amalia quando arrivo’ mio padre, poco dopo la mia nascita. La piccola era
trepidante di ansia: “E’ una femmina?” Apprendendo della nascita di un maschietto la piccola corse
nell’altra stanza piangendo. Dopo un minuto ritorno’ e chiese al papa’: “Com’e'? E’ bello?” Dopo un paio
d’ore nonno Ettore passeggiava sotto casa nostra e scorse la piccola che era affacciata al balcone. “Lo
sai che hai un fratellino?” ”Si, lo so! Quando arriva?” “Fra un giorno o due sara’ a casa.” Amalia era di
nuovo trepidante. Il fatto che al posto di Ester arrivasse il piccolo Ettore non importava piu’ nulla.
Mio nonno voleva un nipote con il proprio nome dagli altri fratelli di mio padre, ma questo desiderio non
fu esaudito nonostante che i due cugini in questione fossero piu’ grandi di me. Mio padre tento’ un gesto
d’affetto nei confronti di mio nonno “annomandomi”, purtroppo pero’ il nonno Ettore accolse la cosa con
sufficienza e distacco. La distanza che li divideva era troppa e cresceva ogni giorno di piu’. Non
riuscirono mai a capire perche’ non seppero amarsi.
Io avevo quindici giorni di vita. A casa nostra c’era uno degli amici piu’ cari che ebbe mio padre: Enric
Leconte. Enric si era trasferito dalla Francia in Italia per motivi di lavoro. Mi chiamava con insistenza
mentre io allattavo: “Ettore!!” Ci vedevo e ci sentivo bene evidentemente, infatti mio padre dice che mi
girai e lo osservai stupito. Questo amico fu una presenza costante nella mia vita e divenne importante
anche per me. Purtroppo pero’ molti anni dopo sono stato costretto a fare una scelta che gli fece molto
male. Molti altri soffrirono per questo, ma il tempo avrebbe dimostrato che avevo ragione, a scapito
della sua nipote Pamela.
Nel 1980, il terremoto che devasto’ l’Irpinia si senti’ anche a Milano. Non avevo ancora sei anni e non
andavo a scuola, per cui ero a casa con tutta la mia famiglia. Ricordo che mio padre era in cucina e
cantava spensieratamente. Io ero nella camera da letto dei miei genitori vicino a un piccolo tavolino sul
quale vi era la macchina per scrivere con cui si esercitava mia sorella. Ad un certo punto il lampadario di
casa incomincio’ ad oscillare e il tavolino tremo’ insieme ai vetri di balconi e finestre. Non erano le mie
prime allucinazioni, di quelle parlero’ altrove. Era tutto vero: il terremoto! Mio padre smise di cantare e
divenne bianco in faccia. Il terremoto era ondulatorio e si vedevano dalla finestra del tinello le strade
che si avvicinavano e allontanavano. Non duro’ molto, furono pochi attimi, ma di terrore. E il palazzo che
ci ospitava resto’ testimone dell’accaduto grazie a profonde crepe. Rimasi veramente colpito dall’evento
del terremoto, tanto da sviluppare la prima delle mie fobie: il crollo imminente del palazzo che ci
ospitava. La religione dei testimoni di Geova invita a sperare in un “nuovo mondo”, un po’ come “L’isola
che non c’e'” che ci ha cantato qualche anno fa il famoso Edoardo Bennato, non prima pero’ di una
distruzione totale del mondo civile che oggi conosciamo. Sembrava che questa credenza si incastrasse
benissimo con la mia paura del terremoto. In effetti sognai piu’ volte la fine del mondo dopo aver
interiorizzato queste idee, solo per svegliarmi di soprassalto nel cuore di tante notti agitate. Il mio
risveglio pero’ non era segnalato da urla o pianti, ma da un silenzio accompagnato da panico che mi
paralizzava, addirittura mi impediva di pensare. Il tema dominante del mio sogno era quasi sempre un
gigantesco terremoto o un’onda anomala di dimensioni apocalittiche. Sicche’ parecchie volte mi attirai la
derisione dei compagni di giochi nel comune di Novate, lungo le mura di quel povero palazzo di via
Bolzano. Sembra quasi che le paure dei piu’ deboli siano sintonizzate in maniera precisa sulle manie di
chi appare piu’ forte, per creare la massima risonanza possibile, infatti i miei amichetti amavano molto
picchiare con grosse pietre sull’intonaco di quella povera casa, come se fossero dipendenti di un’impresa
di demolizioni. Ovviamente io piangevo e loro ridevano. “No! Per favore! Lasciate stare il muro! Non
voglio che crolli il palazzo! Sopra al quarto piano ci sono mamma e papa’!” e gli altri ridevano sempre di
piu’ fino a dover scappare dalla mamma a farsi cambiare, dal momento che qualcuno di loro si era
pisciato addosso. Sarebbe stato cosi’ anche all’ospedale durante il mio primo ricovero, quando lo
psichiatra che mi prese in cura avrebbe detto: “…mi parli di cosa la spaventa in questo momomento…” lo
psichiatra serio, esplorativo nei confronti di un caso quanto mai interessante, e gli infermieri avrebbero
riso come a una puntata di Zelig. Ebbene si, sono malato! E se lo volete sapere ho anche il certificato!
Mi ricordo la prima casetta che mio padre riusci’ a costruire con tanti sacrifici suoi e di mia madre nel
1981. Stranamente non ebbi mai paura che potesse crollare, forse perche’ era composta da un piano
terra e un piccolo seminterrato e quindi non aveva piani alti. Da quell’anno riuscimmo sempre ad andare
in ferie a Pantelleria senza dover affidarci al buon cuore degli zii che ci hanno accolto parecchie volte
nelle loro abitazioni. Mi racconto’ mia sorella di aver visto in piu’ di un’occasione mio padre saltare sulle
solette in costruzione per testarne la resistenza e la solidita’. Fino ad oggi anche questa casa non è
crollata, infatti ci abita mio cognato Roberto da quando si è separato dalla moglie. Proprio in questa
casetta si consolido’ l’amicizia con mio cugino Carlo, grazie ad interminabili pomeriggi passati a giocare a
scacchi o a qualche interesse piu’ frivolo, come ad esempio tirare con la fionda dal balcone su cani e
gatti. Sebbene Carlo fosse dotato di un carattere ben piu’ forte del mio, ci fu una fobia che ci vide
perfettamente d’accordo e quanto mai uniti nella disgrazia. Nel 1984 la RAI proietto’ la pellicola “The
day after”. Rimanemmo ossessionati entrambi da quelle immagini rappresentanti corpi vaporizzati dalle
fissioni nucleari, come se per un istante fosse visibile la radiografia di milioni di persone le quali non si
rendevano nemmeno conto dello scoppio di bombe atomiche. E cosi’ Carlo fini’ per aver paura di tante
cose “normali” che si vedevano spesso in televisione, come per esempio il burattino Pinocchio. Io
sembravo piu’ calmo e razionale, ma tenevo la mia ansia nascosta dentro. Shreck mi avrebbe
saggiamente insegnato che e’ “meglio fuori che dentro”. Per restare in pace con me stesso dopo i
diciannove anni mi sono aperto molto, pero’ ho rischiato davvero di squartarmi. Invece Carlo crebbe in
modo piu’ equilibrato.
I primi tempi a scuola non furono affatto gloriosi. In una mattina d’autunno mio padre e mia madre
decisero inaspettatamente di vestirmi di buon’ora e di portarmi fuori, pensavo per qualche ora.
Andammo a piedi, cosi’ ero quasi certo di raggiungere il mercato distante poche centinaia di metri ed
ero anche abbastanza sicuro di me perche’ credevo di aver gia’ fatto tutti i vaccini – detto per inciso le
punture non mi piacevano affatto. Ciononostante quando arrivammo di fronte ad un edificio color blu
scuro che sembrava un’ospedale con davanti tanti bambini mi dissi: “Vuoi vedere che devo invece fare un
altro vaccino?” Vidi un bambino dall’aria fiera con una grande cartella sulle spalle e gli chiesi: “Ma tu hai
paura delle punture?” “Questi non sono fatti tuoi e penso che dovresti preoccuparti di altro!” Ci
portarono in uno stanzone insieme ad una donna alta e occhialuta sulla cinquantina, che riconobbi subito
come un’infermiera. Fecero l’appello e la cosa mi sembro’ strana. “Schmitz Ettore!” Io non sapevo cosa
rispondere, a dire il vero non ero neanche del tutto sicuro che fossi io quello che chiamarono.
Bofonchiai dei gemiti incomprensibili e tutti si misero a ridere. Quando li sentii ridere sospettai che
avessero capito che avevo paura della puntura, perche’ tutti ridono delle mie ansie. Poi mia madre e mio
padre se ne andarono insieme agli altri genitori. Chiesi allora ad un mio compagno: “Perche’ mamma e
papa’ se ne vanno? Mica devono farmi un’operazione?” “Veramente di operazioni ne faremo quattro in
tutto, me lo dice sempre mio papa’!” La cosa si faceva seria. Alle 12,30 uscimmo tutti e venne mia sorella
a riprendermi e mi chiari’ il grosso equivoco. All’inizio non fui molto responsabile, ma per lo meno avevo
trovato uno scopo nella vita. In particolare non mi impegnavo molto in matematica, forse per il grosso
trauma emotivo dell’operazione. Nel corso degli anni superai il trauma e amai la matematica e le scienze.
Dimenticavo: la donna alta e occhialuta sulla cinquantina era la maestra Frullino.
All’eta’ di sei anni e mezzo una femmina forse appartentente alla specie homo sapiens sapiens si accorse
del mio irresistibile fascino. Si avvicino’ a me durante un intervallo e mi disse queste semplici parole: “Ti
voglio bene”. Non so per quale sorta di incompatibilita’ , ma non riuscii affatto a capire il significato di
quelle parole, probabilmente cio’ era dovuto al fatto che era piu’ brutta di una piccola bertuccia. Pochi
anni fa la incontrai nel centro storico di Novate ed era diventata brutta come un orango. Ebbi per la
prima volta un esempio dell’incoerenza e dell’orgoglio femminili, infatti la mia ex compagna nego’ il suo
antico interesse per la mia persona e si difese dicendo che la ragione della sua menzogna era il
tentativo di spiegarmi la teoria dell’evoluzione. Capii in seguito il significato di quelle parole ed inorridii
al pensiero del rischio che avevo corso. Nel frattempo mi innamorai di una bella bambina bionda dagli
occhi azzurri di nome Ramona, pero’ lei mi fece capire in modo gentile ma risoluto che appartenevamo a
due classi sociali troppo distanti perche’ i nostri destini potessero incontrarsi. Il padre, infatti, era
direttore di banca.
Armando e Mauro furono i personaggi dominanti della sezione A durante la prima e la seconda
elementare. Armando era un bambino intraprendente e dalla vivace intelligenza ed era il piu’ bravo della
classe in tutte le materie. Fra le bambine eccelleva invece Ramona. Ramona era innamorata di Armando
e a sua insaputa si lasciava corteggiare da Mauro illudendolo senza pieta’. Armando era il “capo della
banda”, Mauro era il “vicecapo” e aspirava ad un’abdicazione di Armando in suo favore. Mauro mi odiava
con tutte le sue forze perche’ aveva idee pseudo-naziste, secondo le quali nella nostra classe non c’era
posto per gli psicopatici. Doveva essere un genio per essersi accorto cosi’ presto della mia diversita’,
ancor prima della maestra Frullino. L’unica cosa di cui si accorse la maestra Frullino era che confondevo
varie tonalita’ cromatiche, da grande avrei avuto una diagnosi di daltonismo (le disgrazie non vengono
mai da sole). Un giorno la maestra Frullino decise di intrattenersi qualche minuto con delle colleghe a
prendere un caffe’ e lascio’ incautamente incustodita la classe. Mauro decise di sfidarmi e mi invito’ ad
andare nell’atrio della scuola per un incontro di quello che lui chiamava Karate. Fu una semplice
azzuffata finita allorche’ niente di meno che il dirigente scolastico ci sorprese con le mani nel sacco. Ci
divise e ci condusse dalla maestra che divenne bianca in viso dalla vergogna. Il dirigente fu gentile con
la Frullino ma la redargui’ di sgridarci a dovere. Al che la temeraria donna occhialuta sulla cinquantina
decise di farci pagare l’affronto e lo smacco che le avevamo procurato. Ci porto’ in classe e ci ordino’ di
andare nel nostro banco. Poi disse: “Voi non mi avete mai visto furente! Venite qui!” dalle urla prodotte
penso che di sua iniziativa si procuro’ da sola una figura ben peggiore. Ci avvicinammo alla cattedra e ci
prese nervosamente per i capelli e poi fece sbattere rumorosamente le nostre teste una con l’altra
rischiando davvero qualcosa di peggiore per se stessa. Ho raccontato questo episodio per la prima volta
nella mia vita ad un dual-core da 2600 Mhz, tuttora non ho mai detto niente ai miei genitori. Mi rendo
conto che Shreck ha proprio ragione, non bisogna tenersi le cose dentro. Non fu l’unica volta che la
maestra mi mise le mani addosso, ma non raccontai mai a nessuno questi fatti.
In terza elementare Armando si trasferi’ in un’altra citta’ e Mauro gli successe come “capobanda”. Per
me furono tempi duri, perche’ Mauro voleva davvero farmi scontare il grosso bernoccolo che aveva
ancora in testa. Decise di applicare severe sanzioni a chiunque mi avrebbe prestato matite colorate o
altri articoli di cancelleria. Poi venne l’era dei videogames, parola che a quel tempo significava un
rudimentale display a cristalli liquidi fastidiosamente rumoreggiante senza nessuno scopo che andasse
al di la’ della paranoia. “Mauro mi fai giocare?” “Non lo faro’ mai! Neanche se mi paghi!”, ero davvero
tanto, tanto ingenuo. Il fenomeno esplose e tutti i bambini ne avevano uno, nonostante a quell’epoca
potessero costare ben centomila lire. Io ne ebbi uno solo all’eta’ di tredici anni, quando costavano molto
meno.
Purtroppo
non
mi
diede
affatto
la
soddisfazione
che
avevo
sperato.
La quinta elementare riservo’ dei mesi invernali terribili per tutta la classe. Era evidente che la maestra
Frullino fosse ansiosa e depressa, avra’ avuto i suoi problemi ma noi bambini non centravamo nulla. Si
riservava il privilegio di abbandonarsi a scene di isterismo lanciando con buona mira gessi e cancellini
per la lavagna su noi bambini, come bersagli mobili. A fine anno mi chiese di andarla a trovare di tanto in
tanto e mi lodo’ dicendo che il mio comportamento nel corso del tempo era migliorato. Non andai mai a
trovarla anche se mi cerco’ piu’ volte tramite amici e parenti. Oggi, non so piu’ se sia ancora in vita. Nel
frattempo mio padre incomincio’ a litigare con alcuni componenti della nostra parrocchia. Arrivai alle
soglie della scuola media con uno sguardo assente e ansioso.
Capitolo 8
LA MORTE DI MIO NONNO ETTORE
L’autunno del 1981 sarebbe stato una foriera di sventure per la famiglia Schmitz e quella di mia madre,
perche’ oltre alle foglie di betulle e cipressi sarebbero appassiti e andati via due uomini molto
importanti, anche se l’ultimo in questione, in ordine di tempo, non fu da tutti amato. Ricordo ancora il
periodo in cui nacque il mio cuginetto Giorgio, figlio di mia cugina Lucia di zio Natale. Venne ben presto
a casa mia in via Bolzano la giovane cugina insieme al marito Carmelo, persona dotata di straordinaria
intelligenza e bonta’ d’animo, a detta di tutti quelli che caramente lo ricordano. Era da qualche mese che
non vedevamo la coppia. Ci raccontarono del loro viaggio di nozze negli Stati Uniti, in particolare della
visita alle cascate del Niagara. Mia cugina era molto bella e negli occhi aveva la luce della piu’ raggiante
delle felicita’. Non sapeva ancora che nella vita i piu’ bei sogni possono durare davvero poco e che
bisogna tirar fuori molta forza per costruirne di nuovi. Anche Carmelo era visibilmente felice, non
sapeva che dentro di lui sarebbe di li a poco comparso un terribile mostro chiamato leucemia.
Puo’ sembrare retorico, ma a volte i ricordi dei tempi passati prendono il colore delle emozioni e delle
tragedie vissute in prima persona o dalle persone che amiamo.
Voglio percio’ provare a descrivere i luoghi e le situazioni di queste circostanze tragiche, non
pretendendo di essere fedele in ogni dettaglio a cio’ che accadde, ma sottolineando le percezioni che
possono parlare di me, di cosa sono stato e di quello che sono diventato.
Succede di frequente, in autunno, di soffermarsi con lo sguardo, a volte dalla finestra di casa propria,
sulle foglie ingiallite degli alberi e su quei pochi uccelli prossimi a migrare verso i luoghi piu’ caldi. Non
saprei dire di che uccello si trattasse, se un piccione o un corvo ma quel che ricordo bene e’ che da
oltre mezzora, verso le cinque, quando, dato il periodo, il sole era gia’ prossimo al tramonto e irradiava
una luce gialla e debole, era appollaiato uno di questi sulla struttura di un’antenna televisiva sul tetto
della palazzina dirimpetto a casa mia. Il piccolo animale teneva la testa in una posizione un po’
grottesca, quasi come se volesse nascondere il collo e sembrava evidente che avesse freddo. Tutto
questo mi ricorda la solitudine, lo sconforto e il disorientamento di chi per la prima volta nella sua vita
comprende che le cose vere, quelle per cui vale la pena vivere, non si vedono e non si sentono ma fanno
male da morire ogni qual volta per eccesso di autostima vogliamo far finta che non siano vive nel nostro
cuore. Ricordo che mia sorella, che ha dieci anni in piu’ di me soffri’ molto durante la malattia di
Carmelo. La nostra differenza di eta’ e l’attaccamento che avevo per lei mi portarono troppo presto a
percepire i sentimenti piu’ difficili della nostra esistenza, perche’ lei, essendo piu’ grande di me, gia’ li
aveva sperimentati, ma non essendo grande abbastanza non sapeva affatto spiegarli a me, e non lo
avrebbe fatto chi di dovere, sicuramente in parte per immaturita’ ed in parte per ignoranza.
Carmelo era morto da poco tempo e da qualche mese non vedevo mio nonno Ettore. La cosa sembrava
non molto strana, perche’ mio padre Antonio in vari periodi lascio’ passare anche sei mesi senza andare
a trovare il nonno, spesso per questioni banali e assurde incomprensioni. La nonna Amalia, invece,
frequentava casa nostra regolarmente. Ci confido’ che il nonno avvertiva un “fastidio, un piccolo dolore
interno” sulla schiena, poco sotto una spalla. Visto il carattere apprensivo di entrambi i nonni nessuno
inizialmente si preoccupo’ in modo serio. Poi successe una cosa che desto’ la preoccupazione dello stesso
nonno. Era un accanito fumatore, percio’ non era strano che soffrisse spesso di bronchite, ma da troppo
tempo il suo fazzoletto si colorava di rosso. Dopo alcune analisi i “marker” risultarono positivi. Un breve
ricovero in ospedale e poi fu informata per prima mia zia Margherita della presenza di un carcinoma
polmonare il quale non poteva assolutamente essere curato. Fu mio padre stesso a dirci cosa stava
accadendo. Aveva lavorato nel turno di mattina, poi verso le due e mezza torno’ a casa e ci disse tutto
d’un fiato quello che stava per accadere. La cosa strana fu che ci racconto’ la cosa con dei toni molto
distaccati e poi, immediatamente dopo, si mise a piangere disperatamente, come se nei due momenti
avesse provato sentimenti profondamente contraddittori. Prese la parola mia sorella, penso, per
consolarlo. Ma è allucinante quello che gli disse: “Non gli hai mai voluto bene! Perche’ adesso piangi?”. E
lui continuava a piangere, senza proferir parola. Si doveva parlare a nonna Amalia, ma non era facile
stabilire come e quando. Mia zia Margherita decise che si sarebbe fatto a casa sua. Siccome nessuno
aveva il coraggio di iniziare il discorso, fu chiesto un favore ad un professore di pneumologia che aveva
in cura il nonno. Nonna lo avrebbe chiamato per telefono e lui avrebbe pronunciato quelle tristi parole
mentre accanto a lei erano riuniti tutti i figli. Così incomincio’ l’amicizia tra mio padre e il professor
Ferrari.
Incominciai in quei giorni a sentir parlare del tumore ma non comprendevo appieno che cosa fosse. E non
capivo nemmeno perche’ si stabili’ che lo stesso nonno Ettore non dovesse saperlo. I medici
acconsentirono a mantenere il riserbo in merito alle sue reali condizioni. Ricordo un pomeriggio di fine
inverno all’ospedale durante l’ora di pranzo: il nonno non aveva ancora nessun sintomo grave e pensava
di essere ricoverato per una bronchite cronica. C’era tutta la famiglia Schmitz e il nonno e la nonna
bisticciavano per delle stupidaggini, per questo motivo tutto sembrava normale e tranquillo. Ricevetti
l’ordine di mostrarmi allegro, nonostante che nessuno avesse voglia di ridere. Anche quel giorno la luce
del sole era gialla e debole, inoltre faceva freddo. Tornando a casa mia sorella confido’ a mio padre che
aveva
paura.
“Prima
Carmelo
e
poi
il
nonno,
cosa
dovra’
capitarci
ancora?”
Ad ogni modo nonno Ettore ritorno’ a casa e per un tempo relativamente lungo non poteva immaginare
nulla della sua malattia. Cosicche’ nell’estate del 1982 riusci’ a trascorrere le vacanze a Pantelleria.
Colse l’occasione per vedere per la prima volta la casa che mio padre aveva costruito a Catanniti, dal
momento che l’anno prima avevano litigato. Era quella casa davanti alla quale oggi passo tutti i giorni, da
quando vivo in Sicilia. Anche in quell’occasione si sarebbe riunita tutta la famiglia. Arrivarono prima gli
zii. Di fronte agli zii e a numerosi vicini di casa, mio padre raccontava il verdetto dei medici, in modo
paranoico, come se ripetesse il ritornello di una canzone. Le parole ripetute erano: “il professor Ferrari
ha detto che non c’e’ piu’ niente da fare”. Poi arrivo’ il nonno e mio padre cambio’ ritornello: “Sei
sanissimo! Sei un malato immaginario!”. Il nonno in effetti non stava bene, si lamentava e si capiva che
non credesse a tutto quello che diceva mio padre. Si avvicino’ Marianna, una vecchietta che abitava nella
casa dirimpetto alla nostra, casa che undici anni dopo mio padre avrebbe acquistato e demolito per
edificare una palazzina di quattro piani. Si rivolse al nonno, dicendo: “Signor Ettore, come vi sentite?
Cosa dicono i medici?” “Maaa…, all’inizio dell’anno ho avuto una brutta bronchite, poi i medici mi hanno
trovato un’ulcera, infatti ho un dolore qui sul fianco…” In quello sfortunato momento, io mi trovavo
proprio di fronte ai due che parlavano. Di solito non interrompo mai due persone che dialogano tra loro,
ma quel giorno lo feci: “Ma non lo sai che mio nonno ha il tumore?” Mio nonno, abbasso’ lo sguardo, per
alcuni brevi istanti non parlo’, esattamente come tutti gli astanti. Si fece bianco in viso. La nonna si
rivolse al nonno e non a me: “Ma no!” Mia madre mi racconto’ in seguito che mio padre era in cucina con
le mani in acqua per lavare l’insalata e, sentendo tutto, le stesse mani incominciarono a tremare. Io
entrai in casa e papa’ Antonio era davvero furioso: “Ma perche’ glielo hai detto?” e poi ricevetti in
faccia lo schiaffo peggiore che io possa ricordare. Intanto mio nonno corse via piangendo, e si
incammino’ verso la strada di un dirupo. Mia madre si spavento’, pensando che volesse buttarsi di sotto.
Nel frattempo il nonno urlava piangendo: “Sono gli innocenti che raccontano la verita’!”
Io rimasi in
casa con mia sorella. Era piu’ spaventata di me: “Cosa hai fatto! Hai detto al nonno che ha il tumore! E
adesso cosa facciamo?” Poi venne mia madre, fu davvero l’unica che si interesso’ di come mi sentivo io in
quel momento. Si prese il tempo di spiegarmi che quello che avevo detto era vero e che purtroppo il
nonno sarebbe morto dopo poco tempo. Mi disse infine che questa realta’ non andava detta al nonno,
perche’ lo avrebbe fatto soffrire inutilmente e inoltre io stesso dovevo andare dal nonno per dirgli che
avevo capito male. Ricordo ancora la faccia che aveva il nonno verso sera, sdraiato sul letto e preso
dallo sconforto. “Nonno scusami! Non lo sapevo che non era vero!”
“Si, si…” fu la sua risposta.
Nei suoi occhi, oltre alla tristezza c’era tanta rabbia, non per me, ma per tutti gli altri che stavano
offendendo la sua intelligenza e non sapevano affrontare la realta’.
Quello era l’8 Agosto 1982, giorno del mio compleanno. Come regalo ricevetti un senso di colpa che
rischio’ di uccidermi verso la fine del 1993. Nei giorni a seguire mio padre fu intrattabile e aggrediva
verbalmente chiunque per delle questioni di poco conto. Tento’ di tirarmi su di morale mio zio Franco
insieme al cuginetto Carlo. Mi trovavo a casa loro e lo zio mi disse: “Ho saputo pero’ che hai detto una
cosa che non dovevi dire…” e cosi’ mi butto’ giu’ piu’ di quanto gia’ non fossi. Ad ogni modo, mi regalo’ un
mazzo di carte napoletane e mi ordino’ di giocare e divertirmi. Questo pero’ non poteva bastare, perchè
per tutta l’infanzia sono stato torturato con il ricordo di quel giorno, e se non ci pensavo qualcuno
sempre avrebbe trovato il modo per ricordarmelo. Rammento che mentre studiavo per l’esame di
geometria del primo anno all’universita’, mio padre e mia madre rievocarono per l’ennesima volta
l’episodio. Io non ebbi mai una stanza per studiare in tranquillita’, percio’ mi sono sempre preparato
mentre mio padre e mia madre discutevano, spesso urlando. Fu la prima volta, che i miei genitori si
resero conto che mi stavano facendo male. Non dissi una parola. Per la verita’ non distolsi nemmeno lo
sguardo dalle mie carte, ma ero molto scuro in viso e si notava che provavo rabbia… per la prima volta.
In effetti il mio sentimento, percepito come colpa per tanto tempo si stava trasformando in qualcosa di
diverso. Ma non espressi mai ne’ davanti a loro e tanto meno davanti ad altri quello che provavo, se non
quando mi resi conto che quel sentimento mi stava uccidendo. Per la prima volta mio padre disse: “In
effetti, non e’ stato prudente parlare di certe cose davanti ad un bambino.” Studiai tanto nella mia vita,
mi estraniavo, per non sentire quello che dicevano.
I miei genitori non approvarono il mio impegno nello studio, dicevano che “esageravo”.
Nei giorni a seguire l’8 Agosto 1982, mia madre mi faceva giocare a carte insieme a mia sorella. Mio
padre era nervosissimo e non riusciva ad essere gentile con nessuno. Sembrava che anche i nostri giochi
lo infastidissero. A volte andava su tutte le furie in momenti imprevedibili e senza apparenti
motivazioni. Ricordo un episodio, a pochi giorni dal rientro a Milano. Mentre si pranzava si alzo’ di scatto
come se un demone fosse dentro di lui e si mise ad urlare: “Chi ti ha dato queste carte?” Dopodiche’
prese il mazzo di carte che avevo ricevuto benevolmente in dono dallo zio Franco e incomincio’ a
strapparle tutte, una ad una e a buttarle nella spazzatura. Pensavo che mi odiasse.
Anche oggi, penso che in quei giorni mi abbia davvero odiato.
Il nonno rientro’ in ospedale ai primi di ottobre, mentre le sue condizioni rapidamente peggioravano. Gli
fu chiesto se voleva vedermi ed acconsenti’. Lo rividi una volta sola, lui mi saluto’, ma non mi parlo’ per
niente e non ho piu’ nessun ricordo di lui, oltre il giorno del suo funerale. Ogni domenica la nostra
famiglia si recava in ospedale e io restavo in sala d’aspetto, da solo e incustodito. Ben presto il nonno
non fu piu’ in grado di ricevere visite perchè l’assunzione di morfina gli procurava delle allucinazioni.
Davanti al suo letto c’era una parete bianca, mentre lui sosteneva che ci fosse una televisione e
commentava un immaginario telegiornale. Io, nel 1996 ebbi delle allucinazioni che si scatenavano
principalmente davanti al televisore. I medici non riuscirono mai a capire perche’ con la televisione
spenta tutto sembrava tranquillo, mentre in televisione continuavo a vedere cose che gli altri non
vedevano e sulla base di queste allucinazioni avevo costruito una storia immaginaria. Io non avevo preso
la morfina, ma i medici stessi mi avevano somministrato un potente neurolettico chiamato Serenase.
Tutto questo dopo mesi di estenuante lavoro al computer come programmatore, dove a volte la giornata
durava tredici ore. In quei giorni mio padre mi fece vedere una foto del nonno, di quando era trentenne.
“Mi somiglia…” gli dissi, “Si, e anche tanto!” rispose mio padre.
Arrivo’ il giorno della morte di mio nonno. Sapevo che sarebbe venuto mio padre a prendermi a scuola, in
macchina, invece venne mia sorella, a piedi. Mio padre, in realta’, era venuto qualche minuto prima ed era
stato raggiunto da mia madre. Quando la scorse, abbasso’ il finestrino della macchina e le disse: “Non
dire niente! Non dire proprio niente!” Il giorno del funerale nonna Amalia saluto’ il suo Ettore con
queste parole: “Non meritavi tutto questo!”
Fino ad oggi, dopo ventisei anni, non riesco proprio a ricordare quale emozione, quale sentimento mi
porto’ a dire al nonno qual era la sua malattia. Ricordo pero’ molto vivamente quel momento, come si
ricorda un incubo dal quale ci si sveglia improvvisamente. Il problema era che sognavo quello che
accadde nella realta’ e presi coscienza che la realta’ era peggiore del sogno. In tempi posteriori avrei
confuso la realta’ con il peggiore degli incubi. E ora scrivo tutto questo illudendomi che questa realtà
non sia piu’ nel mio cuore, bensi’ sulla carta o da qualche altra parte.
Capitolo 9
LO SCONTRO CON LA SCUOLA MEDIA
“Questo ragazzo ha l’espressione di uno che si impegna seriamente nello studio!”
Così mi elogiò la signora De Martinis, proprietaria di una cartolibreria situata nei pressi di via Bolzano.
Sebbene mio padre quando sentiva questi commenti andasse in brodo di giuggiole, evitava di esternare
la sua soddisfazione mentre era in mia presenza. Fu così anche nell’estate in cui mi diplomai all’ITIS.
Non ho ancora ricevuto un ‘Bravo!’ per via del risultato dell’esame di maturità mentre l’intera Sicilia ne
fu informata dal mio papa’, che era andato in avanscoperta sull’isola per acquistare il terreno su cui
edifico’ in seguito ‘Quella casa nella prateria’.
Durante il primo quadrimestre della prima media il mio impegno e anche il profitto nelle varie materie
scolastiche aumentarono notevolmente. Già in quel periodo, però, un osservatore attento avrebbe
potuto notare dal mio comportamento una personalità dalle molte facce. Alcune letture in cui mi sarei
cimentato con passione negli anni successivi mi avrebbero fatto riflettere molto. Non avevo ancora
letto ‘Uno, nessuno, centomila’ di Luigi Pirandello, in età più matura avrei certamente sperimentato che
la filosofia di Pirandello che descrive il carattere umano come una maschera, o per meglio dire una
maschera per ogni situazione è l’immagine diretta di una sofferenza che sempre più spesso colpisce
‘l’inetto del terzo millennio’. Qui, secondo me, si possono mettere in relazione i pensieri di Svevo,
Pirandello e Freud. L’inetto, per nascondere il proprio disagio usa una maschera occultando così il
proprio reale Ego, sapendo bene che vorrebbe dire esporlo al pericolo di un’aggressione da parte dei
propri simili, in una civiltà che costruisce un disagio, intorno alle persone che la costituiscono. “La
coscienza di Zeno”, di Svevo, descrive l’ipocrisia della società che porta a vivere come inetti, “Uno,
nessuno, centomila”, di Pirandello descrive una personalità dalle molte facce che viene costruita per
adattarsi ad una realtà disastrosa ed inaccettabile, “Il disagio della civiltà” , di Freud, parla
dell’effetto negativo sulla psiche delle tante regole che siamo costretti a seguire per via del progresso
costruito dalla moderna società occidentale.
Leggere queste pagine mi ha convinto di non essere poi cosi’ “anormale” come qualcuno ogni tanto mi
vorrebbe suggerire.
E’ esistito un Ettore che si manifestava a scuola e uno, completamente diverso, che si manifestava a
casa. Mio padre, per via di un litigio con il responsabile della locale congregazione dei testimoni di Geova
perse alcuni degli incarichi che da anni svolgeva con piacere a Bollate.
Quando percepii la sofferenza di mio padre e il turbamento della comunità nei confronti del suo
operato, giudicato eccessivamente turbolento e litigioso, non riuscii ad evitare un peggioramento, di
riflesso, del mio personale carattere.
Ettore era in principio un ragazzo timido, introverso e taciturno. Dopo la prima verifica di geografia, la
professoressa Antonia Pavesini si stupi’ della precisione del mio scritto. Ricevetti un bel voto, ma non
capii se il commento della docente fosse un elogio o una battuta sarcastica, per non dire una
canzonatura.
“Ettore, hai fatto un bel compito! E’ davvero strano: sembra che dormi durante le mie lezioni!”.
Cosa potevo risponderle? Dottor House potrebbe forse aiutarmi? “Non era sonno, ma coma indotto da
una lezione decisamente poco interessante”.
Quella volta sì che ero furbo, certe battute le pensavo solamente, quando incominciai a riferirle a viva
voce fui costretto ad usare neurolettici, antipsicotici e stabilizzatori dell’umore. Attualmente, mi rendo
conto che fu necessario ricorrere a tali farmaci, perché il mio cervello correva troppo, con frequenti
sbandamenti e collisioni. Se la vita è una corsa, e vediamo ostacoli immaginari è meglio andare da un
medico. Quando stiamo bene, concepiamo la vita come una gara di resistenza e non di velocità.
All’inizio del secondo quadrimestre, incominciai ad esternare in classe un certo nervosismo e la mia
condotta peggiorò. La prof Pavesini fu la docente che manifestava maggiore insofferenza per il mio
carattere.
Presi alcuni brutti voti, ciononostante conservai il titolo del “più bravo della classe”, titolo che persi in
seconda media all’arrivo di una nuova compagna, Luciana la quale non mi rubò soltanto il titolo ma anche
il cuore. Aveva occhi verdi e lungi capelli biondi, era molto, molto bella.
Aurora
Visentin,
una
nostra
compagna
dal
duro
carattere
ci
chiamò
entrambi
e
disse:
“Luciana! Perché non ti metti con Ettore?”
“Perché sono già fidanzata” replico’ la ragazza. Ricordo che le fui grato di non aver detto: “Perché mi fa
schifo!”.
Aurora, non voleva propriamente farmi “sentire inferiore” bensì “dimostrare inconfutabilmente e
formalmente la mia inferiorità’”.
Sapeva benissimo che Luciana non era single, ma volle affondare il coltello nella piaga. Comunque, la
discrezione di Luciana fece aumentare il mio insano amore per lei. Già a quell’epoca un osservatore
attento ma privo di fiducia nella psichiatria moderna mi avrebbe considerato un soggetto
irrecuperabile. Ero profondamente incoerente nel provare amore nei confronti di chi aveva il solo
merito di non avermi insultato: avevo fondamentalmente una scarsa stima di me stesso.
I ragazzi della mia classe mi avevano irrimediabilmente definito come un “lecchino” o “secchione”.
Capitò più volte, dopo che ebbi ricevuto un voto mediocre, di ricevere anche gli insulti e gli scherni dei
miei compagni. La mia colpa era di avere un carattere decisamente fragile.
L’inglese fu la materia in cui conseguii i migliori risultati durante la scuola media. Sebbene fossi seguito
da tre docenti diversi per i tre anni della scuola media insieme ai miei compagni, il mio entusiasmo per la
materia crebbe durante gli anni che trascorrevano. La professoressa Sonia Nucera aveva soltanto
ventiquattro anni quando da neolaureata occupò la cattedra della prima classe della sezione ‘C’ della
scuola media di Bollate. Non era una grande bellezza ma aveva il grande fascino di una mente sveglia e
brillante. Grazie a lei incominciai a prendere dei buoni voti e a migliorare anche per quel che riguarda la
pronuncia inglese, cosa insolita durante le prime lezioni del primo anno.
Tutti questi risultati dovevano per forza di cosa costituire “reati” passibili del massimo della pena per i
miei cari compagni.
Ricordo in particolare il mio compagno Mario Beltrame: non ci vide più dopo il risultato assegnatomi
dalla
prof
Nucera
di
un
dettato
per
il
quale
ebbi
il
voto
migliore.
Ecco il verdetto del compagno Mario: ‘Ettore! Ti aspetto fuori!’
Davvero non capivo il motivo di quella infame sentenza. ‘Mario, ma che cosa ti ho fatto?’ e Mario si
rifiutò di rispondere. Forse Mario aveva bisogno dei miei neurolettici in quel momento. Avevo in mano
una sola arma: la psicoanalisi. Ma le mie domande introspettive finalizzate ad investigare circa la causa
del malanimo di Mario che gli faceva percepire la mia persona come un difetto di natura nella società da
eliminare al più presto non riuscirono allo scopo che si prefiggevano, in parole brevi sapere la ragioni
della mia onta nei suoi confronti al fine di porre tra me e lui un’azione riparatoria. Ma quale azione
riparatoria? Quell’energumeno voleva soltanto spaccarmi la faccia in un modo tale da non poter più
essere riparata da nessuno!
Cosa potevo fare? Correre, correre…come Forrest Gump dall’Atlantico al Pacifico soltanto per tornare
indietro, senza una meta, sbandando e cercando di centrare la porta di uscita che conduceva all’atrio
della scuola…ci fu un attimo di panico, dietro di me c’era Mario che correva tanto forte da sbattere i
talloni contro le natiche e il suo naso aquilino pareva più brutto che mai ora che al posto di una cornice
adatta ad un quadro di arte moderna aveva due occhi color fuoco accigliati che contribuivano a
disegnare un’espressione decisamente cagnesca.
Avevo tanta paura! Cosa c’era dietro di me? Una scarica di cazzotti come minimo…e davanti a me? La
macchina di mio padre? Lui aveva l’espressione cagnesca quando era di buon umore!! O mio Dio! Cosa
sarebbe stata la mia salvezza? Dovevo trovare una soluzione! Ero terrorizzato al pensiero che mio
padre potesse prendersela con un mio compagno, perché il mio papa’ non era un campione di padronanza.
Mia madre mi aveva insegnato a trovare sempre una ragione logica per i comportamenti illogici di mio
papa’. Mario Beltrame mi vide salire in macchina e divenne più nero che mai. Aveva le orecchie accese di
fuoco, che andavano reclinandosi come se si stessero sgonfiando dopo essere state gonfiate dalla
rabbia nei miei confronti. Ed io ancora mi chiedevo: ‘Che cosa ho fatto di male a Mario?’
Mio padre mi vide strano e mi chiese: “C’è qualcuno che ti dà fastidio?”
“No! Davvero! L’ultima ora era di educazione fisica, è per questo che ho il fiatone!”
Nel frattempo le orecchie di Mario si erano del tutto sgonfiate e non apparivano più minacciose.
Imparai in seguito che per l’invidioso il bene altrui è un male per se stesso. Illogico, irrazionale ma vero.
La teoria dei giochi di John Nesh ci insegna che il bene di ogni singolo elemento di una popolazione si
raggiunge quando c’è equilibrio, il singolo che si arricchisce in fretta a discapito di un suo compagno non
favorisce l’economia generale e alla lunga provoca la rovina dell’intera popolazione, anche di se stesso.
Per fortuna, non ho tentato di intavolare questi discorsi in prima media, altrimenti sarei certamente
stato soppresso dai miei compagni di sventura.
Non capire i propri simili è una sventura, non parliamo poi del non capire se stessi. Tuttavia chi non si
arrende nemmeno di fronte alla più difficile delle partite ha per se stesso il migliore dei trofei. La
serenità. La libertà. La felicità e la gioia.
Capitolo 10
LA PIU' BRAVA DELLA CLASSE
“L’anno scorso eri il migliore ma quest’anno ti fai proprio bagnare il naso!”
Con queste parole fredde e ciniche la professoressa Pavesini decretò il passaggio del testimone del “più
bravo della classe” da Ettore Schmitz a Luciana Gregorace.
Luciana era una bella ragazza dai lunghi capelli biondi e gli occhi verde chiaro. Si impegnava molto nello
studio e aveva ottimi voti in tutte le materie. La prima prova scritta che sancì il suo primato era
relativa alle lezioni di storia. Proprio la professoressa Pavesini assegnò a lei un bell’ “ottimo” e a me un
vergognosissimo “quasi ottimo”. La pavesini sottolineò più volte il suo disprezzo nei miei confronti e usò
parole e una mimica che si riserverebbe ad un adulto che ha dilapidato tutte le sue risorse con i video
poker.
L’anno prima Luciana era inserita nella sezione A della mia stessa scuola, non capii mai la ragione del suo
trasferimento. L’avevo già adocchiata in più di una occasione, ma non avevo mai avuto il coraggio di
avvicinarla. Ora era il momento di fare il passo, perché ci saremmo visti ogni giorno per un lungo periodo
di tempo. La prof Pavesini mi assegnò il posto in un banco molto vicino a quello di Luciana. Capii in
seguito che quella mossa non sarebbe certo servita a favorire il nostro dialogo, ma a sfigurare
moralmente la mia persona ogni volta che il mio voto non era il migliore della classe.
Si dice che questo trattamento serva a rafforzare il carattere. Ma io credo che con un ragazzo che ha
buone capacità ma non rende si debba stimolare un costruttivo dialogo, per smontare gli ostacoli
emotivi e creare le corrette motivazioni. Qualcuno potrebbe obiettare che i professori a scuola non
sono necessariamente psicologi. Io gli farei notare che la laurea in lettere ha diverse specializzazioni,
dove una di queste è in psicologia. Un professore che non è capace a motivare gli studenti dovrebbe
cercare un mestiere più appropriato alle proprie capacità e competenze emotive.
Luciana non era migliore di me soltanto in inglese e, comunque, anche in questa materia il suo
rendimento era molto buono.
Un giorno cercai di attirare la sua attenzione. La Pavesini cercava in tutti i modi di metterci in
competizione, ma non riuscì nel suo intento. Io ero infatuato, lei non si era nemmeno accorta della mia
presenza.
“Luciana! Che lavoro fanno i tuoi genitori?”
“Mio padre è un biologo del servizio sanitario e mia madre è laureanda in matematica.”
Mi aveva ucciso nei sentimenti! Non avevo il coraggio di dire che mio padre e mia madre erano dei
semplici operai. Tuttavia cercai di ingoiare la sofferenza di quel momento senza farla trasparire.
Questo però provocò una tensione crescente nel profondo del mio animo, che stupidamente lasciai
allentare in un momento pessimo.
Si va a casa dopo le lezioni di uno squallido lunedì nebbioso e freddo. Aspettando l’autobus che ci
avrebbe portato alle nostre vicine abitazioni, una centoventisette blu da autentico zarrone si ferma
prima del semaforo rosso, abbassa il finestrino tramite una manovella che procurava uno sforzo come
quello del film “Balle spaziali”, e si rivolge con queste parole a Luciana:
“Figghia! Ricogghiti subbeto pa a casa!”
Non avevo ancora formulato un pensiero cosciente nella mia mente, ma già nella mia bocca era
stampigliate queste stupide parole:
“E questo sarebbe il biologo?!”
“Perché, cos’hai da dire contro mio padre?”
“Nulla! No davvero!”
Luciana ora si era accorta di me. Certe volte nella vita non dovremmo preoccuparci di come appariamo ai
nostri simili, ma per prima cosa di come siamo veramente. Fu così che il legame emotivo fino ad allora
presente
tra
me
e
Luciana
non
era
più
indifferenza,
ma
fastidio.
Ancora non mi arresi, ma ci vollero dei giorni prima che riuscii a tentare un nuovo approccio.
“Luciana, dove vai quest’anno in vacanza?”
“A Reggio di Calabria, il paese nativo dei miei genitori”.
“I miei sono Siciliani, andrò nell’Isola di Pantelleria. Ho paura che sia un po’ distante da Reggio”.
“Non ti preoccupare, tanto non avevo alcuna intenzione di incontrarti pure nelle vacanze, già sei noioso
durante l’anno scolastico!”
Visto che culturalmente la ragazza sembrava irraggiungibile, tentai l’approccio tramite un ingenuo gioco.
Tirai la molletta che raccoglieva i suoi morbidi capelli, uno stupido scherzo. Non l’avessi mai fatto!
“Non ti permettere mai più di toccarmi! Hai capito!”
Ecco
perché
andava
meglio
di
me
a
scuola.
Aveva
un
carattere
forte…
Ora Luciana non era più soltanto infastidita dalla mia presenza, ma provava rabbia nei miei confronti.
Ho già citato l’episodio in cui Aurora Visentin mi mise in ridicolo davanti a Luciana. Immediatamente
rimasi deluso, senza però accettare il rifiuto. Poi mi rassegnai. Tutto sommato, ero un uomo dai sani
principi.
Capitolo 11
STORIA DI UNA SPIRITUALITA’ TORMENTATA
“Questi si chiamano ‘pensieri intrusivi’ ”.
Questa fu la formale definizione che il Dottor Fiorentino diede a un turbine di pensieri che in certi
momenti della giornata appesantiscono la mia mente.
Non ricevetti però nessun consiglio su come liberarmi di tali pensieri, ma soltanto l’ordine di proseguire
con
la
terapia
farmacologica
così
come
era
già
stata
impostata.
Uno di questi ‘pensieri intrusivi’ nasce quando sento qualcuno imprecare. La prima volta che mi sentii
schiacciato dal ricordo dell’imprecazione di qualcun altro risale a quando avevo quattordici anni e
frequentavo il primo anno dell’ ITIS. Immaginavo che il solo ricordo di ciò che fosse stato detto
costituisse
un
peccato
imperdonabile
contro
Dio
di
cui
io
ero
responsabile.
Passavo
il
tempo
a
chiedere
perdono
a
Dio.
Per
che
cosa?
“…per quella cosa che ho sentito…” riaffiorava nella mia mente il ricordo di quella cosa, e quindi un altro
peccato di cui chiedere perdono. Non finivo mai, era un corto circuito mentale. Se il mio cervello fosse
stato un computer, avrei voluto staccare la corrente per avere anche solo pochi attimi di pace.
Cercavo di fingere di essere libero da pensieri tanto futili, tuttavia alcune volte non ci sono riuscito. Al
secondo anno delle scuole superiori fui sorpreso da un compagno di nome Davide Trio, in un momento in
cui
ero
raccolto
in
preghiera
e
pensavo
di
non
essere
scorto
da
nessuno.
“Ma
cosa
fai,
stai
pregando?”
e
proruppe
in
fragorose
risa
di
scherno.
“Dimmi un po’, ma di che religione sei? Sei forse buddista? Stai cercando di raggiungere il ‘Nirvana’?” e
di nuovo rideva, più forte di prima.
Quando furono informati gli altri compagni, ricevetti, dopo un voto unanime, il soprannome “Ettore
Siddharta Gautama”, dietro suggerimento del mio ‘amico’ Jonatan Pretoriano.
Conobbi Jonatan quando ancora frequentavo il primo anno della scuola media, più o meno nello stesso
periodo in cui incominciai a frequentare Orlando Rights. Entrambi frequentavano la congregazione dei
testimoni di Geova, a poca distanza dalla mia abitazione di Bollate.
Orlando era un ragazzo molto sveglio ed aveva molti interessi, ma a scuola non si impegnava molto.
Amava lo sport in generale, specialmente il calcio e il tennis. Conosceva a memoria le formazioni delle
squadre di calcio italiane e la classifica mondiale dei più forti tennisti del mondo. Sebbene fosse alto un
metro e sessanta era convinto di essere un adone. Sosteneva, inoltre, che qualsiasi ragazza si sarebbe
innamorata di lui a prima vista.
Io gli volli molto bene, ma non mi innamorai di lui.
Orlando aveva bisogno di una spalla per costruire una forte e carismatica personalità, trovando me, che
sembravo spesso addormentato ed annoiato dalla vita, aveva ottenuto ciò che di meglio poteva. Quando
incominciammo a frequentare alcune ragazze del quartiere diventò spietato e trovò spunto dai lati
contorti del mio carattere per mettermi in ridicolo in ogni occasione in cui la sua operosa fantasia glielo
consentiva.
Un giorno incontrammo Sergio Esposito, un ex vicino di casa di Orlando, che indicando me senza
nemmeno salutarmi domandò:
“Come lo chiamate in questo periodo?”
“’Testa di porco’ è il mio nome preferito, ma a volte anche ‘stupido addormentato’”.
Ricordo un’occasione in cui sorpresi Orlando mentre parlava di me proprio con Sergio, dicendo: “…dorme
un pochino, però è un bravo ragazzo…” non presi la palla al balzo per difendermi da quello che concepivo
come un insulto, ma progettai un futuro riscatto per la mia vita. Volevo dimostrare quello che potevo
fare con la forza della mia intelligenza. Questo mi portò a rendermi conto sempre di più di quanto
Orlando e Ettore fossero distanti, fino a quando decisi di non frequentarlo più.
Jonatan aveva invece le mie stesse manie, tuttavia si dimostrò più forte di me e non andò mai in crisi
fino al punto di ammalarsi. Mi accorsi di quanto eravamo simili soltanto dopo la fine delle scuole
superiori, durante una vacanza a Pantelleria che trascorremmo insieme subito dopo la maturità. Jonatan
era convinto che per via della mia fragilità emotiva la votazione finale dell’esame sarebbe per me stata
una delusione, ma così non fu.
Per essere precisi, fu proprio Jonatan a rivelarmi la nostra somiglianza mentale. Ma lo fece in un modo
molto subdolo.
“Ma sei pazzo proprio come me!”
Si riferiva al fatto che impiegavo un tempo biblico per convincermi di aver chiuso i fornelli della cucina
e
le
tapparelle
delle
finestre
e
dei
balconi
prima
di
uscire
di
casa.
Mi aveva comunque dato una definizione, ‘pazzo’. Questa parola faceva molta più paura a me e questo lui
lo aveva capito molto bene.
“Ormai conosco tutto di te” mi disse al ritorno a Milano, sotto intendendo che avrebbe potuto usare
questa sua conoscenza come meglio credeva.
Spesso io, Jonatan e Orlando uscivamo insieme. Quando avevamo vent’anni divenni più alto di entrambi.
A prima vista le ragazze si accorgevano di me, ma dopo aver assistito agli scherni dei miei ‘amici’ e,
soprattutto, dopo aver notato che io non rispondevo ai loro insulti, perdevano subito l’interesse per me
dopo avermi giudicato “…noioso e poco interessante…”.
Una di queste ragazze fu Marika Calza, una bella ragazza che incontrai nella sala del regno dei
testimoni di Geova poco dopo il suo trasferimento da una città vicina. Passarono un paio d’anni senza che
io la vedessi. Orlando e Jonatan la frequentarono per un mese ma non me lo fecero mai sapere
direttamente. Scoprii che i due ragazzi si mettevano d’accordo per provare ad abbordare le ragazze a
turni regolari. Jonatan aveva il suo turno per conoscere Marika, che rimase totalmente indifferente. Il
suo orgoglio gli impedì di parlarmi di questa storia andata male. La regola del gioco impediva ad Orlando
di frequentare Marika.
Lo fece qualche anno più tardi, dopo che io l’avevo invitata ad uscire e mi ero interessato a lei.
Orlando fece finta di non capire il mio interesse e incominciò ad uscire da solo con Marika, dopo averla
convinta che io ero più noioso di un professore di matematica senza però uguagliarlo in intelligenza e
inneggiando all’amore libero con la musica di Ligabue sparata a tutto volume dallo stereo della sua Alfa
33 color grigio metallizzato.
Era proprio uno zarrone! E io feci finta di non capire nulla, che andasse tutto bene. Progettavo però un
riscatto, una liberazione. Volevo essere più forte, migliore. Gli altri non mi accettavano, finii per non
accettare io me stesso. Jonatan qualche anno prima, mi aveva paragonato a Orlando Visentin, un
ragazzo più grande di noi che si era allontanato dalla fede dei testimoni di Geova e si era dato all’alcol e
alla droga.
“Secondo me, Ettore diventerà come Orlando Visentin. Dovrebbe fare chiarezza nella sua vita prima
che sia troppo tardi” disse Jonatan.
Io reagii freddamente a queste parole ancor più gelide. Di nuovo feci finta di non sapere, di non capire.
Quando Orlando Visentin si tolse la vita scoppiò una simbolica ‘bomba ad orologeria’ nella mia emotività.
Capitolo 12
I MIEI DUE AMICI PIU' STRETTI
“Rita! Scendi presto che dobbiamo prendere Elena e Tina fra un quarto d’ora nel centro di Bollate!”
Con queste parole Orlando Rights rivelò per la prima volta una notevole confidenza con Rita Ruggeri,
una bella ragazza che conoscemmo nell’estate del 1993. Io Jonatan e Alberto Travaglia restammo
attoniti per alcuni minuti mentre guardavamo Orlando con degli occhi sgranati che facevano paura.
Orlando invece gongolava e si sentiva proprio un dio, non “quasi un dio” come Max Spezzali afferma nella
sua canzone dal titolo “Come mai”.
Arriva Rita, che correva giù dalle scale in preda all’ansia. Mi lancia uno sguardo e un furtivo “Ciao
Ettore!” senza darmi il tempo di rispondere. Corre da Orlando dicendo “Ti ho portato un regalo!”
Il regalo era un orologio Swatch. Un gesto di amicizia misurato, praticamente come dire: “…mi piaci, ma
non mi butterò tra le tue braccia senza essere sicura di quello che tu provi per me…”
Io e Jonatan ci guardammo per un istante, la sua espressione non mi convinceva affatto ma distolsi
subito lo sguardo per non darlo ad intendere. Sembrava che nascondesse una certa sofferenza per
l’intimità che Rita e Orlando avevano ostentato.
In un momento in cui eravamo da soli io e Orlando, gli dissi:
“Ma
della
storia
con
Marika
Calza
non
se
ne
è
fatto
più
nulla?”
“Non se ne poteva fare proprio niente, aveva un carattere troppo perfettino, io voglio essere libero!”
“Ma
come
potresti
mai
essere
fidanzato
e
libero
allo
stesso
tempo?”
“E’ possibile, certo che lo è, resta nei miei paraggi per un po’ e vedrai che lo capirai anche tu!”
Questo discorso mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Continuavo a pensare che un fidanzato non era
libero e che le due cose si contraddicessero in termini. Poi Orlando mi prese in disparte e divenne simile
ad un professore di “Pubbliche relazioni”:
“Caro Ettore, speravo che potessi capire con un esempio pratico, ma vedo che con te ci vuole la teoria.
Dimentica per un attimo la tua amata trigonometria e i tuoi stupidi spazi vettoriali e stammi a sentire.
Una qualsiasi persona può essere ‘single’, ‘fidanzata’, ‘coniugata’ o ‘divorziata’. Ma c’è anche un’altra via,
quella della ‘relazione aperta’. Le persone comuni si avventurano in queste categorie nell’ordine che ho
elencato. Le persone intelligenti, invece, passano subito alla ‘relazione aperta’ e non cambiano mai
opinione.”
La cosa strana è che sembrava un discorso logico. Ma per me era deprimente. Non capivo come Orlando
potesse conciliare le idee dei testimoni di Geova con questo ideale di libertà.
La prima volta che mi sentii veramente depresso, Orlando Rights venne a trovarmi a casa e mi confidò
di aver patito molto dopo aver conosciuto Graziella, una ragazza di Rozzano. Era la prima volta che
stava insieme ad una ragazza e pensava di essere innamorato, poi lei lo lasciò con una motivazione che
sembrava una banale scusa. Orlando la incontrò dopo pochissimo tempo con un altro ragazzo, più alto e
più bello di lui. Il mio caro amico ostentava una forza che non aveva prendendo in giro chi lo circondava
e si vergognava della sua debolezza. Parlandomi di questa sua sofferenza dimostrò di volermi bene.
L’Alfa 33 di Orlando sgommava, con me davanti al lato ‘passeggero’ e Rita sul sedile posteriore. Rita
volle misurare ancora i suoi passi, specie di fronte a Elena e Tina non sedendosi davanti, accanto ad
Orlando.
Elena e Tina Germani erano sorellastre. Le conoscemmo per via della loro amicizia di lunga data con Rita
Ruggeri.
Arrivammo nel centro di Bollate, più o meno vicino agli edifici comunali. Elena era davanti al portone che
aspettava con queste parole in bocca:
“Alla
buon
ora!
Orlando!
Ma
tu
per
attraversare
bollate
quanto
ci
metti?”
“Veramente ho lasciato le gomme per strada dalla corsa che ho fatto, che ti devo dire…ci sono anche i
semafori!”
“Bravo!
Bravo!
Quando
vuoi
le
rispetti
le
regole!
Se
ti
fa
comodo…”
Elena era una ragazza intelligente e sensibile. Aveva pure un bellissimo fisico, purtroppo però aveva i
denti incisivi tutti storti che sfiguravano un volto che sarebbe stato altrimenti abbastanza attraente.
Un giorno mentre passeggiavo con Orlando gli confidai:
“…se Elena avesse i denti dritti probabilmente l’avrei sposata…”
Orlando mi guardò come se stessi delirando e probabilmente aveva ragione.
“Se proprio ci tieni, Ettore, mettiti da parte un bel po’ di soldi e regalagli un trattamento di un buon
odontotecnico. Vedrai che ti amerà per questo!”
E Orlando proruppe in una risata che aveva un po’ di sarcasmo e un po’ di pietà allo stesso tempo.
“Diciamoci la verità, mio caro Ettore! Probabilmente, anche Elena se avesse i denti dritti non è detto
che sposerebbe te!”
Orlando aveva ragione e io incominciavo a sentirmi piccolo.
La macchina di Orlando si ferma, salgono Elena e Tina. Io avrei voluto Rita sul sedile passeggero in
modo da sedermi accanto ad Elena. Bastava non guardarle i denti e tutto funzionava a dovere.
“Allora! Dove ci portate stasera?”
“Andiamo al Macumba!” rispose Orlando.
Quella sera dovevamo incontrarci con un gruppo di amici che Orlando si era fatto durante il servizio
militare.
“Una ventata di aria nuova!” pensai tra me e me, sperando di trovare la ragazza perfetta, che non esiste
come
l’isola
che
non
c’è
e,
se
ci
fosse,
con
me
non
ci
starebbe.
Il gruppo
di
amici
di
Orlando ci
fece
il
pacco.
Non si presentò
nessuno.
Orlando
era
visibilmente
nervoso
e
incominciò
a
rispondere
male
a
Rita.
Rita, dopo un paio di settimane, mi disse che non si sarebbe più interessata ad Orlando. Non capii subito
perchè lo disse proprio a me. I teoremi di Orlando sulla mia personale inadeguatezza avevano fatto
breccia nella mia mente.
Dopo un paio di week-end, Rita cambiò atteggiamento nei confronti di Jonatan. Incominciarono a
scambiarsi dei regali. La cosa strana è che si continuava ad uscire tutti insieme, compreso Orlando.
Incuriosito dalla cosa, chiesi a Jonatan: “…ma…tu e Rita?”
“Scordatevelo!” rispose Jonatan.
Era
davvero
strano
come
nascessero
e
morissero
in
fretta
queste
relazioni.
Orlando mi disse poi a denti stretti che “…Rita si sarebbe anche accontentata di uno come te, Ettore…”
Orlando voleva a tutti i costi dimostrare la mia presunta inferiorità. Io non ero ancora pronto per
accogliere l’indiretto invito di Rita e poi non volevo abbassarmi al rango di un premio di consolazione.
Capitolo 13
I PRIMI DUE ANNI DELLE SCUOLE SUPERIORI
“Ettore!
Passami
la
soluzione
del
terzo
esercizio,
altrimenti
ti
ammazzo!”
Era strano come Basilio Torrelli sapesse parlare a voce bassissima dando al contempo l’idea di urlare a
squarciagola, quando voleva essere aiutato durante i compiti in classe. Basilio a soli quindici anni era un
ragazzone di un metro e ottantaquattro centimetri, mentre io ero un povero mingherlino. Era bello e
cambiava ragazza più o meno una volta ogni due settimane. Purtroppo, pensava di ottenere le cose che
voleva con la forza.
Il primo giorno di scuola della prima superiore dell’Istituto Tecnico Industriale di Bollate, fu l’occasione
per un compito in classe di italiano. Ricordo ancora la figura di Basilio che attraversava al centro le due
file di banchi dopo aver consegnato il suo scritto. Sembrava un ragazzo tranquillo, ma rivelò ben presto
di non esserlo.
Si accorse della mia presenza quando divenne evidente il mio buon profitto scolastico.
Era una mattinata serena quella in cui fui interrogato per la prima volta. La professoressa di geografia
mi chiese di ripetere quello che mi era rimasto in mente sui Rift Valley, la lezione del giorno prima. Non
avevo neanche capito che si trattava di un’interrogazione ufficiale. La professoressa mi fece i
complimenti e registrò un “otto” sul registro dei voti. Io ebbi una reazione bizzarra: mi misi a ridere. Il
mio compagno di banco Jonatan rideva insieme a me. La motivazione era semplice: il giorno prima io non
avevo studiato la lezione perchè non ero ancora riuscito a procurarmi il libro di testo, quindi prima di
entrare in aula chiesi a Jonatan di farmi un veloce riassunto della lezione. Jonatan affermò che la mia
interrogazione era una fotocopia di quella che poteva essere la sua, quindi lui avrebbe preso di sicuro
otto e mezzo, se non nove. Sarà, forse…
Avevo smesso di ridere e c’era da piangere per via dell’espressione che aveva Basilio con gli occhi fissi
su di me. Le mie risa erano state interpretate come una spacconata.
“Ettore, sei uno sporco lecchino!”
Con queste parole Basilio si riferiva a me, se era di buon umore.
Il ragazzone giocava come portiere in una squadra giovanile dell’Inter. Amava il calcio, parlava spesso di
ragazze e non era interessato a seguire le lezioni dei professori.
“Ettore, dimmi, qual è la tua squadra di calcio?”
“Non seguo il calcio, mi interessano solo i mondiali.”
La mia risposta fece andare su tutte le furie Basilio.
“Non sei un tifoso? Avrei preferito che tu fossi uno Juventino! Non hai il diritto di vivere!”
E
si,
non
essere
tifoso
era
un
grave
peccato
per
Basilio.
Jonatan
capì
che
era
meglio
essere
amico
di
uno
come
Basilio.
“Jonatan, di che squadra sei?”
“Dell’Inter!”
“Bravo Jonatan, tu si che sei una persona intelligente!”
Bisogna dire che io e Jonatan avevamo un’intelligenza abbastanza simile, ma lui era molto più sveglio di
me. Sapeva gestire meglio i rapporti con le persone, era cresciuto libero di muoversi ed aveva molti
amici in un quartiere popolare di Bollate. Ciononostante i miei voti erano più alti e questo non gli faceva
affatto piacere.
Aveva imparato molto bene a fare i suoi interessi, del resto non aveva ricevuto molto aiuto da nessuno.
Passava il pomeriggio con gli amici, andava a lavorare con la madre in un’impresa di pulizie dalle otto di
sera fino a mezzanotte e studiava dopo, fino alle tre del mattino. La mattina faceva colazione con un
bicchiere colmo di caffè e correva a scuola. Si alzava un quarto d’ora prima di uscire.
Jonatan si comportava come se fosse un ammiratore di Basilio. Il mio comportamento nei confronti di
Jonatan era contraddittorio: era evidente che non si comportasse in maniera amichevole nei miei
confronti, ma ostinatamente continuavo a cercare la sua amicizia.
Tornando indietro con la mia memoria, ho cercato spesso di capire quale fosse la ragione dell’avversità
di Jonatan nei miei riguardi. Era una Domenica pomeriggio, Jonatan senza preavviso mi venne a chiamare
a casa. “Ettore! Scendi! Andiamo a giocare a pallone con dei ragazzi di Rozzano…”
Dopo la partita, Jonatan si intrattenne con me, nelle ore serali primaverili sotto un albero a guardare la
Luna crescente. “Ettore, sai cosa vuol dire la parola ‘bastardo’?” Non capivo la ragione di questa
domanda.“Dimmelo tu! “Vuol dire senza padre.” “Ma cosa dici, allora tu saresti tale…”
Jonatan aveva perso il padre a dieci anni. Era morto di meningite.
“Smettila Ettore!”
Con queste parole Jonatan si rivolse a me in tono supplichevole. Era la prima volta che si mostrava
debole nei miei confronti, e fu anche l’ultima. Non capivo che con quelle parole lo stavo ferendo. Come
non capii ad otto anni che non si doveva dire a mio nonno che aveva il tumore. Ero proprio un
addormentato. E così trasformai un amico in un avversario, che però cercava sempre la mia presenza.
Forse eravamo tutti un po’ psicopatici.
“Se succede qualcosa in classe la colpa è sempre di Ettore!” suggerì Jonatan.
La classe rispose con una ovazione. E Basilio annuiva con il capo in segno di solenne approvazione.
Jonatan aveva trovato il suo ruolo nella classe. Io invece ero considerato un intruso da espellere, ed il
mio amico ricopriva il ruolo di agente penitenziario.
Ma non tutti erano fedeli a Basilio. Daniele La Quercia, un ragazzo magrolino e dalla vivace intelligenza
mi suggerì un trucco per non essere più torturato da Basilio durante i compiti in classe:
“Devi andare incontro al professore di matematica prima che entri in classe dicendo: ‘Professore, per
cortesia mi potrebbe invitare ad occupare un banco davanti alla cattedra durante la verifica scritta?’ …
vedrai che il professore capirà al volo e acconsentirà. Sai, io se potessi ammazzerei Basilio. Non dirlo a
nessuno, ma a me dell’Inter non me importa proprio niente!” E così restando vicino alla cattedra durante
il compito avrei evitato le minacce di Basilio, che restava puntualmente in fondo all’aula per copiare
senza essere sotto gli occhi del professor Noquarto.
Il piccolo Daniele era considerato un pupillo da Basilio, che non sospettava affatto di essere odiato da
lui. Per quanto riguarda la mia persona, spesso mi chiedo come abbia fatto ad evitare per due anni di
essere picchiato da quell’energumeno.
La materia più odiata dalla maggioranza dei miei compagni era quella denominata “reparti di lavorazione”
o “aggiustaggio meccanico”. Questo, probabilmente, perché il professor Corto era il più nevrastenico
dell’Istituto. Il docente era reduce da un divorzio ed era molto incline alle urla.
“Ragazzi, cercate di non parlare ad alta voce nel reparto perché con la riverberazione che abbiamo
possiamo sentire pure le formiche, quando scorreggiano!”
La materia comprendeva l’uso delle lime nell’aggiustaggio di pezzi meccanici e degli strumenti di misura
come il calibro e il comparatore. A fine del secondo anno, qualcuno di noi era stato introdotto all’utilizzo
di strumenti più sofisticati, come il tornio a controllo numerico in previsione di un’iscrizione alla
specializzazione ‘meccanica’ del triennio.
Basilio non aveva nessuna voglia di lavorare con le lime, ma sapeva che c’era un modo per essere
promossi lo stesso. La materia comprendeva la stesura di relazioni e disegni tecnici in merito ai cicli di
lavorazione da elaborare a casa nelle ore pomeridiane. Non era una buona idea farli fare a me, per
arrotondare la media dei voti?
Non
potevo
dire
di
no
a
Basilio,
avevo
troppa
paura.
Il professor Corto esamina l’elaborato e storce il naso. “Questo lo fatto Ettore, non è vero?”
Basilio
negava
la
verità
urlando
e
dimenandosi.
Io
ero
in
preda
al
panico.
“Ettore, lo hai fatto tu?”
“Si.” risposi con voce flebile. Se avessi negato la verità sarebbe stato ininfluente, ce l’avevo scritta in
fronte.
Ebbi paura prima di essere bocciato e poi di essere picchiato da Basilio. Il ragazzone mi guardava
esterrefatto, ma sapeva bene che picchiandomi si sarebbe giocato l’anno scolastico.
Mentre tornavamo a casa, lungo le vie del centro di Bollate, Jonatan mi prendeva in giro.
Ad ogni incrocio, mi diceva: “Guarda! In fondo alla strada c’è Basilio! Sta venendo verso di te!” e poi
rideva della mia ansia e del mio spavento…
Il professor Noquarto mi stimava più per l’impegno che per i voti. Ad ogni modo, a fine del secondo anno
ebbi un sette di matematica in pagella. Non era poi così male. Negli anni successivi la matematica per
me divenne davvero un’ossessione. Volevo essere sicuro di non aver commesso errori durante le
verifiche, e trovai un metodo abbastanza soddisfacente. Una volta terminato un esercizio, prendevo i
risultati e li elaboravo con il procedimento inverso, se ottenevo i dati iniziali allora non c’erano errori.
Era quasi infallibile. Purtroppo, però, era necessario eseguire i calcoli ad velocità doppia rispetto a
quella richiesta dal professore, per non parlare del tempo necessario a correggere eventuali errori. Era
davvero pesante, un giorno avrei pagato con la mia salute tutto quello stress.
“Lavora Ettore! Lavora!”
Il professor Noquarto mi salutò con queste parole di incoraggiamento e augurandomi di diventare
qualcuno. Se fossi stato più sereno, probabilmente avrei fatto più di quello che ho fatto. O forse avrei
fatto tutt’altro.
Capitolo 14
I MIEI PRIMI DUE AMORI: AURORA E UN PERSONAL COMPUTER
“Ciao, uomo!”
“Ciao, donna!”
Aurora Visentin amava ostentare una notevole confidenza nei miei riguardi di fronte alla nostra classe,
la terza C specializzazione Informatica dell’ Istituto Tecnico Industriale statale di Bollate.
Non mi diede mai una reale gratificazione, pur sapendo molto bene che ero innamorato perso di lei.
Mentre ci dicevamo le parole sopra citate, mi spingeva con le sue piccole mani afferrandomi sui
pettorali e non risparmiava complimenti sulla mia forma fisica.
Aurora non avrebbe potuto fare la modella, perché non era molto alta. Questo era l’unico motivo,
perché era davvero molto carina. Aveva i capelli lunghi color castano lucente e occhi molto chiari. Era
solare e divertente, ma quando perdeva quella bellissima dote chiamata pazienza era meglio scappare.
Le piacevano gli uomini, ma se si sentiva soverchiata o controllata tirava fuori delle unghie affilate
come una bellissima gatta impazzita.
Io ogni tanto tiravo fuori un po’ di audacia, come quando le dissi: “…e se facessi io la stessa cosa sui tuoi
pettorali?”
“…e sì, e poi?? …sogna, sogna!”
Aurora era fidanzata, ma io a quell’epoca non riuscivo a far convivere degnamente ragione e sentimento
nel mio cuore. Continuavo a sognare che un giorno io le sarei entrato nel cuore, anche se era evidente
che lei mi cercava per risolvere i suoi problemi di studio e non per altro.
Dalla terza alla quinta superiore, i miei voti si alzavano sempre di più. Davo l’anima per lo studio e per
questo
il
nostro
compagno
Ciro
ebbe
l’idea
di
soprannominarmi
“l’automa”.
Aurora non poteva fidanzarsi con un automa, al massimo poteva comprarlo e rivenderlo se non ne avesse
avuto più bisogno. Non mi rendevo conto di quanto fosse evidente che le morissi dietro e spesso mi
rendevo ridicolo per questo. Il mio compagno Massimo Ariel osservò da vicino i nostri movimenti e volle
darmi dei consigli, non prima di avermi preso in giro, però.
Lui insieme al professor Spoletta, durante una lezione di educazione fisica mi dissero:
“Ettore, ma tu ti vuoi fiondare Aurora?” Io mi arrabbiai molto: “Ma quanto siete venali!” Però è vero,
volevo proprio fiondarmela. Nonostante questo, già a quel tempo commettevo i miei errori.In un Sabato
autunnale, Aurora si avvicinò a me e mi disse:
“Ettore, vieni a pattinare oggi pomeriggio?”
“Vorrei poterlo fare, ma Lunedì c’è il termine di consegna della relazione di laboratorio di elettronica e
non ho ancora testato il programma che costruisce i diagrammi di Bode. Sarà per un’altra volta.”
Preferivo passare il mio Sabato davanti a un freddo computer piuttosto che con la ragazza che mi
piaceva da morire. Fondamentalmente, ero un ansioso…che si stava preparando a diventare psicopatico.
Ero terrorizzato dall’idea di prendere cattivi voti, ad ogni compito in classe, durante l’assegnazione dei
giudizi provavo sempre la stessa ansia avvolgente e soffocante. Anche Jonatan Pretoriano era un
ansioso, ma era molto più furbo e non lo faceva capire. Aveva dei buoni voti, ma non mi eguagliava.
Passava tutto il pomeriggio con gli amici e studiava di notte, aveva un fisico forte e ce la faceva anche
con quattro ore di sonno. La compagna di banco di Aurora, Melania Calcoli si era invaghita di Jonatan
che la trattava con molto “riguardo”.Jonatan era un testimone di Geova, e aveva paura che io riferissi
agli anziani il suo comportamento a scuola. Ma io non ci pensavo proprio, perchè mi sentivo indegno di
tale azione. Non ero convinto delle dottrine dei testimoni, ma vivere in quell’ambiente, dove i miei
genitori mi accompagnarono fin dall’infanzia mi faceva sentire in colpa. In colpa perché preferivo
studiare matematica, piuttosto che andare a “predicare”. In colpa, per qualcosa di cui qualsiasi famiglia
sarebbe andata fiera.Tra me e i miei genitori non c’era continuità ideologica. Loro avevano poche idee in
mente, una cultura molto semplice e tutto gravitava intorno all’attesa dell’Armagheddon. Mi insegnarono
con insistenza che Dio presto distruggerà tutti i malvagi e, se non avrei rigato dritto, la stessa sorte
sarebbe capitata anche a me. In quinta superiore, quando avevo quasi diciannove anni, mio padre
acconsentì a farmi partecipare ad una gita scolastica di cinque giorni nella città di Roma. Quasi non ci
credevo,
non
avevo
mai
partecipato
ad
una
gita
con
i
compagni
di
scuola.
Nel viaggio di andata, Aurora si avvicinò a me con una dolcezza che non potrò mai dimenticare e mi
disse:
“Ettore, ma tu ci credi davvero a quello che dicono i testimoni di Geova?”
“…non lo so…”
“Ma Jonatan è come te, o è convinto?”
“Credo che lui sia convinto.”
Proprio in quei giorni a Roma, dissi ad Aurora che non potevo stare senza di lei, ma lo feci in un contesto
completamente sbagliato, mentre altre persone ci sentivano. Non avevo ancora letto “L’arte di amare”
di Eric Fromm. Aurora sorrise, ma prese la cosa proprio come uno scherzo, anche se sapeva bene che
non lo era. Massimo Ariel mi consigliò “…ti conviene cercarti un’altra ragazza, le avventure impossibili
sono
affascinanti,
ma
bisogna
stare
con
i
piedi
bene
attacati
alla
terra!”
Io seguii il consiglio quella notte stessa, dando prova di instabilità emotiva. Ci provai con Melania Calcoli.
Aurora mi diede del pazzo, una volta tornati a Milano…non per sua gelosia ma per mia incoerenza.
Durante gli ultimi tre mesi della quinta, quasi non ci rivolgemmo più la parola. Io portai all’orale
Matematica ed Elettronica, lei Sistemi di Automazione ed Italiano. Il nostro dialogo si interruppe, una
volta per sempre. Nel 2009 ci incontrammo su facebook, ma io non avevo finito di compiere follie e lei
mi tolse la sua amicizia.
Capitolo 15
L’ESAME DI MATURITA'
“Dio mio, ti prego, aiutami a prendere un punteggio di almeno 42/60 all’esame di maturità, così potrò
per lo meno essere ammesso a sostenere dei concorsi pubblici, e chissà, un giorno avere un buon
lavoro…”
Questa preghiera non è nata nei giorni precedenti l’esame di maturità, ma a dir poco verso la fine della
prima
superiore…era
quasi
un
rosario
che
ripetevo
e
ripetevo
negli
anni.
Ero davvero convinto dell’esistenza di un Dio personale. Oggi, invece, penso che anche a questo
proposito bisognerebbe non escludere nessuna ipotesi, per capire quale sia la “verità”.
Il mio rapporto con questo “Dio personale” non era dei migliori, mi sentivo giudicato perché passavo
troppo tempo sui libri e poche volte al mese andavo a “predicare” con i testimoni di Geova, ma questo
era più che altro l’effetto dell’appartenenza a questo gruppo per nascita, non certo per una attenta
riflessione personale. La mia mente, man mano che cresceva il mio rendimento scolastico, si faceva
sempre più “divisa” e crescevano in modo smisurato le mie tensioni emotive.
Jonatan Pretoriano mi accompagnava lungo questo cammino e non poche volte mi mise degli ostacoli
davanti. In questi giorni, mentre già molte volte sono stato “ospite” di strutture psichiatriche
specializzate, mi sono accorto durante le sue puntuali e generose visite del fatto che abbia provato dei
sensi di colpa nei miei riguardi. Vorrei potergli dire che per me è stato un prezioso amico, ma non posso
perché lui è ancora un testimone di Geova, mentre io non lo sono più. A volte mi prendeva in giro per la
stranezza del mio carattere e questo gli serviva per mettersi in buona luce davanti al resto delle
compagnie, ma era sempre presente e non mi ha mai abbandonato nei momenti più bui.
Passarono gli anni e mi ritrovai in quinta superiore, preparato ma emotivamente instabile.
I professori tentavano di dare un supporto quasi “psicologico” per l’orientamento, la scelta degli studi
all’università.
Il professore di matematica fu quello più attento e perseverante.
“Ettore, che cosa pensi di fare dopo la maturità?”
“Penso di cercarmi un lavoro…”
“Ma no…sarebbe uno spreco di risorse!” ribatté convinto e deciso il professore.
Dopo questo scambio di battute, il professore di matematica ritornò più volte sull’argomento facendo
leva su motivazioni, sentimenti e ragionamenti molto forti che avevano relazione con l’obbligo morale di
essere utili alla società nella misura in cui la natura ci ha dotato. Poi, durante le adunanze di
congregazione dei testimoni di Geova, sentivo commenti e ragionamenti totalmente opposti. Il padre di
Orlando Visentin, durante un’assemblea di circoscrizione si avvicinò a me alla vista di diversi giovani e
rivolgendosi a me con un tono di voce comprensibile a molti mi disse:
“Ettore, so che ti impegni molto a scuola, mentre per la verità non fai quasi nulla, non pensi che stai per
diventare il capitano di una nave in procinto di affondare?”
Questi discorsi mi facevano molto male. Dentro di me c’era un furioso combattimento, vedevo delle
contraddizioni in queste argomentazioni, ma queste erano le credenze dei miei genitori che non volevo
fare soffrire.
Nel mondo in generale, le questioni religiose sono considerate personali, ognuno è libero di scegliere in
cosa credere. Fra i testimoni di Geova si fa continuo riferimento all’imminente giorno in cui Dio
interverrà sugli affari umani, distruggendo tutte le persone cattive e ponendo il fondamento per un
nuovo mondo di pace e giustizia. Se un testimone di Geova si sente chiedere: “Ma voi pensate che solo i
testimoni si salvano?” molto probabilmente darà risposte evasive. La mia mente si faceva divisa perché
era sollecitata da forze uguali in “modulo”, nella stessa “direzione” ma di “verso” opposto. Stavo in piedi
perché queste forze si annullavano nella risultante, ma era un sottile e debole equilibrio che si sarebbe
spezzato facilmente, pochi mesi dopo la maturità. Se fossi stato più sereno, probabilmente avrei reso in
modo uguale ma con minore sforzo. Fra i testimoni, se qualcuno abbandona il culto si crea un’atmosfera
simile ad un lutto.
Negli anni diventai anche un pochino ambizioso. La mia preghiera era diventata più audace:
“Dio mio, ti prometto che se uscirò con il massimo dei voti alla maturità, il resto della mia vita la
dedicherò a te…” Questa era una promessa, un voto. Arriva l’esame. Nei giorni precedenti la tensione
nervosa era arrivata alle stelle, ma accadeva anche a tanti altri ragazzi…
Qualche settimana prima avevo sentito sbraitare mio padre in questo modo, davanti a mia madre:
“…la deve finire di studiare, è sempre buttato sui libri!”
Arrivai quindi all’esame con la voglia di dare il massimo e con il sentimento di apprensione dei miei
genitori che mi condizionava…in realtà anche loro erano “divisi” perché quando parlavano dei miei voti
alle persone “del mondo” (i non testimoni) lo facevano con orgoglio.
Gli scritti, italiano e “informatica generale” andarono bene. Il mio elaborato tecnico risultò il migliore
dell’istituto e gli orali furono i migliori a pari merito con Jonatan Pretoriano.
Il voto finale fu quello che avevo sperato.
Mi recai in Sicilia durante l’Agosto del 1993 insieme al mio compagno Jonatan. Ero stanco, mentre
Jonatan era ancora carico di energie. Mi mancava la presenza di Aurora, dopo la gita scolastica ci
eravamo poche volte rivolti la parola, ma in quel momento realizzando che probabilmente non l’avrei mai
più rivista, mi si stringeva il cuore.
Orlando Rights cercava di organizzare il mio tempo libero facendomi incontrare con varie persone,
soprattutto ragazze. Cercava sempre di essere il più “simpatico e geniale” e quando non ci riusciva
prendeva in giro chi aveva osato contro di lui, però non mi lasciava mai a casa.
In quell’anno Orlando affrontò la “prova della neutralità cristiana”. Con questa espressione, i testimoni
si riferiscono al passo evangelico in cui Cristo esorta a “non fare parte di questo mondo” e “a non
imparare a fare la guerra”. Per questo Orlando, come tanti altri giovani di allora fu affidato per alcuni
mesi
ai
servizi
sociali
del
comune
di
Candelo,
in
provincia
di
Biella.
Orlando, era ospite in un edificio dell’amministrazione comunale insieme ad altri due testimoni.
Incontrai nel centro di Bollate la madre di Orlando, in lacrime. Avevano in casa un bellissimo gatto
soriano, a cui erano riservate molte cure. Il felino amava salire sul bordo di una finestra e fare
l’equilibrista, finché un giorno la donna distrattamente chiuse la finestra, il povero animale fece un volo
di cinque piani. Defuius, dopo due giorni di agonia.
Mi arrivò una lettera di Orlando, mi raccontò di quando aveva saputo che il suo gatto era morto. Era una
sera
di
pioggia
battente,
era
solo
in
quel
momento.
Piangeva
e
piangeva.
Decisi di andare a trovarlo, insieme al nostro amico Alberto. Mi confidò di aver trovato una ragazza,
era
la
sorella
minore
di
un
suo
compagno
di
affidamento
ai
servizi
sociali.
Conobbi varie persone. Una ragazza di nome Elena mi chiese se potevamo frequentarci. Apprezzo molto
le donne così intraprendenti. Ci vedemmo però solo un paio di volte, il mio cuore era rimasto nel ricordo
di
Aurora.
Le
ragazze
mi
chiedevano
se
avevo
finito
di
studiare.
Orlando puntualizzava che chiunque uscirebbe con 60/60 alla maturità, se solo fosse così pazzo da
studiare abbastanza. Lui era stato bocciato due volte. Va bene divertirsi, ma è meglio non esagerare.
Capitolo 16
COSA FARO' DA GRANDE?
Avevo più o meno sette anni. Bruno Giorgi si avvicina a me, nella allora modesta sala del regno dei
testimoni di Geova di Bollate e mi chiede:
“Ettore, cosa vuoi fare da grande?”
ed io, senza esitare: “Il pioniere speciale!”, espressione che si riferisce a chi impiega tutto il suo tempo
ad andare a predicare l’imminenza dell’armagheddon.
Nel culto dei testimoni di Geova, il conformismo è all’ordine del giorno, altrimenti si viene presto bollati
come un individuo dalla cattiva attitudine spirituale. A sette anni non capivo bene cosa volesse dire fare
il pioniere, ma sentivo di dover rispondere così per non fare una brutta figura.
All’età di quattordici anni avevo già maturato la mia “cattiva attitudine spirituale”.
Natale Lunetta, che aveva da qualche anno abbracciato la fede dei testimoni dopo aver studiato la
bibbia con mio padre, si rivolse a me così:
“Cosa farai adesso che hai concluso le medie?”
“Andrò alle superiori, altrimenti cosa potrei fare?”
“Potresti fare il pioniere…”
Ma io ero cambiato.
Da quando mia sorella aveva incominciato a frequentare un “ragazzo del mondo” (un non testimone), la
freddezza con cui la congregazione incominciò a trattare l’intera nostra famiglia mi mise davvero in
crisi. Spesso durante le adunanze, si sentivano commenti del tipo: “sposare una persona del mondo
equivale a sposare un morto, perché questa è la condizione spirituale delle persone del mondo”.
Un paio di anni fa, mio cognato Fester, che oggi è un testimone, mi raccontò un curioso aneddoto.
Lui si trovava sul podio per leggere un articolo della Torre di Guardia, mentre la sorella Nebbiolo
commentò
per
l’ennesima
volta
in
merito
a
sposare
i
morti.
Fester mi disse che avrebbe voluto alzare la mano per dire: “Scusate tanto, ma io sarei uno di questi
morti!”
Sullo sfondo di questi drammi emotivi, la mia spiritualità si distorceva, anno dopo anno. Credevo in Dio,
ma mi sentivo spinto a dare il massimo a scuola e non in congregazione. Questo perché – probabilmente –
a scuola ricevevo molte più lodi.
Passavano gli anni e ricevevo voti sempre più alti. Nacque dentro di me una passione smisurata per la
matematica che mi portò ai limiti dell’autismo. Contemporaneamente, però, avevo un grande bisogno di
affetto…mi bastavano le attenzioni di Aurora, anche se era evidente che non sarei mai stato il suo
ragazzo. A volte le sue effusioni sfioravano il limite del flirt, ma era tutto misurato e circostanziato
agli aiuti nelle varie materie che da me riceveva.
Non avevo chiaro nella mente cosa avrei voluto fare da grande, in quei giorni passavo tutta la giornata a
studiare, di notte sognavo il calcolo differenziale e gli integrali definiti. Nella mia mente non c’era
unione,
non
c’era
ordine,
non
avevo
dei
chiari
obiettivi
da
raggiungere.
Alle soglie della maturità era abbastanza chiaro dentro di me che avrei voluto trovare in seguito un
buon lavoro. I professori della mia classe criticarono però aspramente questa mia idea.
“Ettore: non sia mai che tu prenda una decisione di questo genere! Sarebbe uno spreco di risorse!”
diceva il professore di matematica. Il professore di “sistemi di automazione” si esprimeva invece in un
tono più informale: “Ettore! Tu devi andare all’università! Se no, ti prendo a calci nel sedere!”
Il professor Farina aveva un rapporto molto amichevole con me, apprezzava la mia intelligenza. Spesso
faceva battute ironiche sul mio impegno nello studio, del tipo: “Guardate, questo ragazzo è sempre in
output!” oppure durante le interrogazioni: “Ragazzi, pensavo di riuscire a tartassare Ettore, invece è lui
che sta tartassando me!” Ricordo con piacere il professor Farina, era una persona piena di interessi,
lavorava al mattino a scuola e al pomeriggio in uno studio di registrazione come tecnico del suono.
Grazie al suo contributo mi sentii spinto ad approfondire la teoria dei segnali e la sua base matematica
(la serie di Fourier), argomenti topici della tesina che presentai alla maturità. Farina fu il membro
interno della commissione d’esame e mi aiutò ad ottenere il massimo dei voti.
La mia vita era quindi contesa tra due forze opposte che si facevano la guerra, come due cani che si
contendono
un
osso,
prendendolo
a
morsi
e
riducendolo
a
brandelli.
Lo stesso significato della parola schizofrenia, ha a che fare con due parole greche rese “mente divisa”.
La mia mente era divisa da due obiettivi: realizzare la mia vita e non deludere i miei genitori.
Oggi penso di poter fare entrambe le cose, anche se non sarà facile far capire il senso delle mie
decisioni.
Capitolo 17
I PRIMI MESI ALL'UNIVERSITA'
Roberta era una ragazza minuta, alta poco più di un metro e cinquanta. Aveva un bel fisico ed era carina.
Scoprii il suo nome perché era chiamata dalle sue amiche, mi piaceva…forse perché mi ricordava
Aurora…ma non riuscii mai ad annullare il mio timore, la mia timidezza…non riuscii mai a parlarle. Io mi
giravo e la guardavo, lei faceva altrettanto…finché uno dei due, a turno abbassava lo sguardo
imbarazzato, solo per rialzarlo un attimo dopo nella medesima direzione. Mi sorrideva, non seppi mai se
voleva incoraggiarmi o farmi sentire ridicolo. Dalla disuguaglianza triangolare fino all’integrazione per
parti, mentre la rigorosissima prof spiegava, il suo sorriso mi accompagnava e questo bastava ad
allentare le mie fatiche mentali.
Nell’aula c’erano un centinaio di studenti e la prof per farsi sentire usava un microfono. Al mattino
sveglia alle sei, un’ora di studio per la teoria della scuola guida, poi di corsa a prendere il tram, sei ore
di lezioni (geometria, algebra, analisi I), pranzo…di corsa a scuola guida, poi a casa: lezioni private a
studenti in difficoltà, poi in serata qualche ora di studio.
La cosa incredibile è che non capivo affatto che mi stavo caricando troppo di lavoro. Pensavo che il
cervello fosse come un muscolo, che se è allenato si fortifica. Non tenevo conto degli strappi muscolari
e della naturale stanchezza. In sei mesi le mie energie si esaurirono…pensai dapprima a un male fisico…
quando il medico mi definì “depresso” (come lo sfortunato Orlando), scoppiò il panico dentro di me,
temevo di impazzire.Era da troppo che tiravo la mia simbolica “corda” e si stava davvero per spezzare.
Dopo il primo mese di lezioni universitarie, incominciai a distinguermi fra i compagni di corso, anche se
non ero il migliore. La prof di Analisi I, davanti alla cattedra e alle quattro lavagne a scorrimento
verticale, si rivolse così agli studenti: “Allora, avete capito la dimostrazione di ieri?”
Nell’aula gli sguardi erano incerti.“La prof mi guarda fisso negli occhi, in direzione del mio posto in
prima
fila…:
“Lei ha capito la dimostrazione?”
“S-s-sìii…”
“…e allora venga alla lavagna e la esponga ai suoi compagni di corso!”
“…ma…devo proprio??” l’aula scoppiò a ridere all’unisono…
“…certo…venga subito…e non faccia il timido, non la mangio mica, al massimo la boccio!”
Non era certo incoraggiante, ad ogni modo esposi la dimostrazione e ricevetti dei complimenti.
Sostenni l’esame scritto, voto: 28/30. Colpa di due banali errori di calcolo. All’orale potevo dare il
massimo,
ma
non
ci
andai…ero
sotto
l’effetto
dello
Xanax
(ansiolitico).
Ricordo la notte in cui mi svegliai di colpo in preda ad un grandissimo panico. Avevo dato ripetizioni ad
un ragazzo che frequentava il terzo anno dell’ITIS. Durante la sera avevo guardato un vecchio film
americano…tutto mi sembrava insolito, incominciavano a sopraggiungermi delle strane percezioni.
Nel cuore della notte mi svegliai: avevo il cuore che mi batteva forte fino a ad avere un dolore nel
petto, lo stomaco sembrava contratto da un pugno chiuso e vibrante, tutto il corpo mi sembrava
attraversato
da
una
forte
corrente
elettrica,
era
come
un
fuoco
ustionante.
Continuavo a ripetere a mia madre, con voce debole e sofferente: “Mamma aiutami! Non voglio fare la
fine di Orlando!” Orlando si era tolto la vita un paio di mesi prima, seminando sgomento nella comunità
dei testimoni di Geova. Un paio di anni prima aveva lasciato il culto dei testimoni, aveva cercato una sua
verità senza però salvarsi dai suoi conflitti interiori.
La sua mente doveva essere ancora più “divisa” della mia. Il padre era un testimone di Geova con elevati
incarichi di responsabilità nella congregazione, la madre era cattolica e di idee completamente opposte
a quelle dei testimoni. Orlando soffriva, anche perché da bambino fu completamente calvo. E poi la
tragedia di crescere senza riuscire a rappresentare dentro di sé la realtà in modo sereno e soprattutto
a modo suo. Un genitore maturo e sano aiuta il figlio a crearsi dentro il proprio ideale e i propri valori.
Un genitore immaturo tenderà ad imporre in tutto il proprio modo di vedere le cose, senza stimolare il
ragionamento, senza crescere insieme al figlio. Ancor peggio di questo, Orlando aveva davanti a sé due
modelli che si facevano la guerra e la sua sensibilità lo uccise. In quel periodo, la madre di Orlando era a
sua volta depressa, e per questo il padre organizzava spesso delle vacanze all’estero.
Qualche mese prima Orlando era scappato di casa. Fu trovato un paio di settimane dopo in uno
scantinato, in condizioni pietose e quindi fu messo in cura da uno psichiatra. Il padre non sapeva più a
chi dare la precedenza.
Padre e madre partono per una vacanza a Palma di Maiorca, vacanza dalla quale dovettero tornare in
anticipo.
Orlando
era
rimasto
a
casa
insieme
al
fratello
più
grande
Fabrizio.
Fu lasciato solo per un paio d’ore, poi Fabrizio rientra in casa e trova Orlando, si era impiccato usando
una cintura fissata alla porta della stanza da bagno. Il fratello cerca disperatamente di aiutarlo, di
rianimarlo,
ma
non
c’era
più
niente
da
fare:
Orlando
era
morto.
Al funerale erano presenti le congregazioni dei testimoni di Geova di una vasta zona, erano centinaia e il
cimitero di Bollate era invaso. La bara non entrò nella sala dei testimoni di Geova, perché Orlando non
era più un testimone. Tuttavia al cimitero un anziano della congregazione fece un discorso…tentò di
dare una spiegazione del dolore che tanti giovani purtroppo sono costretti a sopportare e presentò il
credo dei testimoni come una salvezza da queste cose.
La bara era pronta per essere sotterrata, la madre si avvicina e saluta così Orlando: “…amore mio,
ciao…” La folla si allontana, le amiche del cuore accerchiano la madre in lacrime che dice: “…che cosa
volete che vi dica, la mia vita è finita!” Si toglierà la vita anche lei otto anni dopo. Diceva che non voleva
invecchiare.
Durante la mia crisi d’ansia, era esplosa dentro di me una frase di Jonatan Pretoriano, pronunciata
qualche anno prima: “Ettore farà come Orlando…si farà ingannare dalla filosofia!”
E così il mio cervello incominciò a correre, purtroppo nella direzione sbagliata.
Incominciai a pensare alle parole del padre di Orlando, di non diventare il capitano di una nave che stava
per affondare, dal momento che i testimoni di Geova credono che il mondo estraniato da Dio stia per
finire.
Non era stata la nave ad affondare, come mi diceva il padre dello sfortunato Orlando, ma un marinaio
novizio
era
stato
gettato
in
mare…e
rischiava
di
annegare.
Così, dopo essere “tornato a riva”, pensai di dover impostare la mia vita in un modo diverso…lasciai
l’università e abbracciai la fede dei testimoni, ma dopo alcuni anni arrivai a delle contraddizioni ancora
più pesanti.
Capitolo 18
IL PRIMO TRAUMA VORREI ESSERE PERFETTO
Il professore di matematica Eugenio Matera aveva un carattere molto forte e sapeva dominare con
decisione la quinta sezione C specializzazione informatica, che nella primavera del 1993 si stava
preparando
per
superare
il
tanto
temuto
esame
di
maturità.
“Ettore, voglio dirti una cosa…tu mi assomigli molto, sono convinto che tu uscirai da questa scuola con
60/60…ne sono sicuro al novanta per cento!” Con queste parole il caro professore voleva incoraggiarmi,
vedendomi depresso dopo un compito di matematica andato “male” (si fa per dire: avevo preso solo sei e
mezzo). Nella mia infanzia, avevo maturato una profonda insicurezza emotiva, parlavo pochissimo e le
poche parole che proferivo erano estremamente misurate, avevo paura di fare male con il mio dire.
Questo perché ricordavo di avere fatto molto male a mio nonno Ettore, proprio con i miei detti.
Cercavo l’affetto delle persone dando meno fastidio che fosse possibile, la mia presenza nel gruppo era
quasi un’ombra. Anche oggi nel gruppo appaio come una persona taciturna e silenziosa. Nel dialogo faccia
a faccia, invece, parlando a tu per tu emerge un’emotività nascosta, un imprevedibile universo di
pensieri. Nel gruppo, ancora oggi ho timore di esprimere liberamente il mio pensiero. Nel lavoro cerco di
dare il massimo…sono un tipo che esegue gli ordini senza mai discuterli…ci metto molta voglia nelle cose
che faccio e cerco sempre di dare il meglio di me stesso.Il professore di matematica era uno
stacanovista convinto e pretendeva di preparare al meglio la classe per la prova scritta di matematica,
ma quell’anno (per la terza volta consecutiva) uscì la prova scritta di informatica. Ci sentimmo tutti
presi in giro e delusi, più o meno come i testimoni di Geova nell’anno 1975, una delle tante date
promulgate
dalla
setta
per
indicare
la
venuta
della
fine
del
mondo.
E
così
dovemmo
preparaci
in
fretta
e
furia
per
lo
scritto
di
informatica.
Io nel frattempo avevo maturato una passione abnorme per la matematica. Non dormivo quasi mai, nella
notte i miei sogni erano un impasto di equazioni, derivate e trasformate di Laplace…cercavo di essere
perfetto nei compiti in classe e spesso ci riuscivo, se il voto massimo era nove e io prendevo otto e
mezzo io mi sentivo male per giorni.Mentre venivano distribuite le pagelle l’indifferenza dei miei
genitori mi mortificava. Non lo facevano per cattiveria, ma per ignoranza. Non sapevano se una media
dell’otto e mezzo era molto o poco. Io però ci stavo male, non avevo una maturità emotiva sufficiente
per
guardarmi
dentro
e
scorgere
la
causa
scatenante
del
mio
malessere.
Oggi io ho fatto delle scelte molto dure e coraggiose. Ho abbandonato il culto dei testimoni di Geova,
ho creato un muro ideologico tra me e la mia ex moglie, i miei ex suoceri…i miei genitori, che comunque
mi
hanno
fatto
sapere
che
non
rinnegheranno
i
nostri
vincoli
familiari.
Oggi non sento più l’esigenza di essere perfetto, ma di essere felice vivendo ogni attimo della mia vita
come se fosse il primo e anche l’ultimo, facendo progetti ma solo per dare un ordine e un indirizzo alla
mia vita e sapendo fare il giro largo ogni volta che trovo un ostacolo troppo grande per le mie forze.
So molto bene che non sarò mai capito da queste persone. Per via della dottrina dei testimoni di Geova,
la mia ex potrà risposarsi solo se io avrò un’altra donna. Per questo spesso lei mi chiede se ho
conosciuto altre persone. Le ho promesso che quando il mio comportamento la renderà libera sarà la
prima ad essere da me informata. Spero che Ester possa essere felice, ma ancor di più tengo alla
piccola Ludovica. Finisce l’esame di maturità…il mio voto fu davvero 60/60. Questo scatenò in me una
reazione euforica, che però durò pochissimo tempo. Mio padre si trovava in Calabria quando io seppi il
risultato dell’esame. Stava comprando il fondo per costruire “Quella casa nella prateria”, casa dove io
oggi vivo e sto scrivendo questo libro. Mio padre raccontò a tutto il paese del mio risultato, forse
arrivando a diventare ridicolo.Avevo dato prova di saper dare il massimo, ma dentro di me ero teso
come una corda di violino, estremamente fragile. Come ho raccontato, i primi sei mesi all’università mi
portarono quasi a rovinare in modo irreparabile il mio sistema nervoso. Dopo aver lasciato l’università,
mi resi conto che dovevo dare prova di forza e impegnarmi per uscire fuori dal mio stato di malattia.
Nonostante fosse davvero grande la mia sofferenza, credevo di poter essere ancora felice. E così è
stato in molte occasioni. Tuttavia i testimoni di Geova riuscirono a convincermi che la mia malattia era
prevalentemente il risultato di una carenza spirituale. In particolare si parlava spesso di Orlando
Visentin in questi termini: “se non avesse lasciato la ‘verità’ non sarebbe arrivato al suicidio”.
Queste parole non mi incoraggiavano, perché ero convinto di essere carente dal punto di vista
spirituale. Quando avvenne il suicidio di Orlando Visentin io stavo frequentando le lezioni universitarie
da
due
mesi.
Ricordo
un
commento
di
Jonatan
Pretoriano:
“Il papà di Orlando è davvero una persona matura…si è espresso così: Orlando ha voluto morire e non
continuare a vivere…” Non saprei davvero a chi dare fra queste persone il primo premio per freddezza
e cinismo. L’unico pensiero che mi fa rivalutare queste persone è che quando succedono queste cose si
rimane profondamente scioccati e si tenta in tutti i modi di trovare un anestetico contro il dolore
emotivo.
Gli
ultimi
anni
della
madre
di
Orlando
Visentin
furono
terribili.
Sosteneva che Orlando la salutasse ogni sera con un “toc toc” proveniente dal soffitto. Una sera, il
padre di Orlando restò sveglio per sincerarsi dello stato di salute emotiva della moglie. Con grande
timore sentì anche lui il saluto di Orlando. Cosa significhino esattamente queste cose nella realtà è per
me ancora irrisolto. Curiosità e timore sono sentimenti contraddittori che si contendono il predominio
del mio cuore in relazione a cosa succede dopo la morte. Tra tutte le spiegazioni possibili sull’origine
della vita e cosa succede dopo la morte, la reincarnazione è quella che mi lascia i minori quesiti irrisolti.
Albert Einstein, con la teoria della relatività e la formula di trasformazione massa-energia, ci ha
spiegato che una piccola quantità di materia si può trasformare in una grande quantità di energia,
durante il fenomeno della fissione nucleare. Quindi la materia si può trasformare in energia. Ma la
materia si può trasformare in una diversa forma di materia, nelle reazioni chimiche. L’energia si può
trasformare in altra forma di energia, ad esempio quando una macchina frena l’energia cinetica si
trasforma in energia termica, per effetto dell’attrito delle pastiglie sui dischi dei freni. Quindi
esistono le seguenti trasformazioni:
•
energia/energia;
•
energia/massa;
•
massa/energia;
•
massa/massa.
Esiste poi il principio di conservazione di massa/energia, che recita: “nulla si crea e nulla si distrugge,
ma tutto si trasforma”. Questo vuol dire che un qualsiasi oggetto si può trasformare, passare anche ad
un’altra dimensione ma non distruggersi. Il fatto che nulla si possa creare implica anche che tutto è
sempre esistito, materia, energia, ma io credo anche la vita! La nostra vita è eterna, è sempre esistita e
sempre ci sarà, non abbiamo bisogno di salvezza ma di crescita. La vita si può trasformare da materiale
a spirituale. Non esiste un unico Essere Supremo ma infiniti esseri spirituali uno più potente e antico
dell’altro. Dio è quindi un concetto limite, una realtà irraggiungibile, una grande forza non personale ma
costituita da infinite persone che ordina e tiene in piedi l’universo. L’universo stesso si può intendere
come un unico organismo, dove ogni persona (fisica o spirituale) è paragonabile ad una cellula. Ognuno di
noi è per natura divino, facciamo tutti parte di un macro-cosmo/essere vivente. Le nostre vite passate
sono state dimenticate, alla morte del corpo l’anima sopravvive e viene trasferita. Questo potrebbe
spiegare in parte lo straordinario progresso tecnologico e scientifico degli ultimi duecento anni, esiste
una memoria collettiva nel nostro subconscio che non si cancella, di generazione in generazione. Si
questo è ora il mio ideale di perfezione: non più rendere al massimo,piuttosto conoscere come funziona
il mondo meglio che sia possibile, imparare le regole per vivere una vita più pacifica che sia possibile.
Uno dei miei obiettivi più ambiti è capire come ricordare le mie vite passate e scoprire se è possibile
iniziare la prossima vita nel ricordo di questa e delle precedenti. Ma sono disposto a rivedere tutte le
mie credenze se qualcuno me ne fornirà un motivo logico.
Capitolo 19
DIO MI PUO' AIUTARE?
Mia madre era una cattolica praticante, secondo la dottrina insegnatale dai rispettivi genitori. Mio
padre era pressoché privo di cultura religiosa, anche se era stato battezzato come cattolico.
Avevano ventotto anni ed erano in piena crisi. Mio padre aveva un brutto carattere: era spesso nervoso,
imprevedibile, burrascoso e non riusciva a tenere la mente fuori dai problemi. Mia madre spesso
conteneva le crisi di mio padre, ma un giorno quasi non ce la fece.Si ripresentò per l’ennesima volta un
caso da copione: “Serenetta, domani andiamo a trovare tuo fratello”. Il giorno dopo, mentre mia madre
si stava preparando ad uscire, mio padre incominciò ad urlare contro di lei: “Non è possibile! Tutti i fine
settimana mi costringi ad andare dai tuoi parenti!” I suoi sbalzi d’umore gli provocavano una effettiva
distorsione del pensiero. Mia madre non ne poteva più. Davanti a mia sorella, che aveva solo quattro
anni, aprì la finestra del soggiorno e minacciò mio padre di buttarsi dal quarto piano. Questa esperienza
segnò
per
sempre
la
vita
di
mia
sorella,
sei
anni
prima
che
io
nascessi.
L’anno dopo, nel 1969, in una freddissima Domenica mattina di Novembre, i miei genitori ricevettero per
la prima volta una inaspettata visita. Era un signore che si presentò come “Antonucci Pietro”,
accompagnato da una bambina di sette anni, Franca, la sorella maggiore di Pamela che diventò molti anni
dopo la mia seconda fidanzata. Antonucci era un testimone di Geova. Disse a mio padre che era venuto
da lui per portare una buona notizia: presto Dio sarebbe intervenuto negli affari umani per creare un
mondo perfetto, di pace e giustizia in cui tutte le persone buone sarebbero vissute in eterno in
condizioni paradisiache. L’altra faccia della medaglia era l’eterna distruzione dei malvagi, nella guerra
dell’Armagheddon.
Mio padre ricevette un libro dal tema: “La verità che conduce alla vita eterna”, un manuale che
descriveva le credenze basilari da accettare senza dissentire per diventare un testimone di Geova,
dedicato senza riserve e battezzato. Questo libro era soprannominato “la bomba blu”, per il successo
conseguito nel fare nuovi proseliti. Antonucci sosteneva che seguire i precetti dei testimoni avrebbe
avuto tra i tanti effetti la soluzione dei problemi coniugali. Mia madre rimproverò mio padre: “…potevi
farli
entrare,
fuori
fa
un
freddo
cane
e
c’era
pure
una
bambina!”
Mio padre lesse tutto il libro in poco tempo, prima di ricevere la seconda visita di Antonucci.
Il
testimone,
tornò
la
seguente
Domenica
e
mio
padre
lo
stava
aspettando.
“Signor Antonucci, ho letto questo libro come se fosse un romanzo. Volevo farle alcune domande…chi è
Satàna?” “Si dice Satana, con l’accento sulla prima ‘a’. Satana è il governante di questo sistema di cose.”
“Capisco. Anche Geova è un politico?” “Ma no! Ci siamo capiti male! Satana e Geova non sono uomini, ma
esseri spirituali! Satana è la creatura che si è ribellata a Dio e Geova è l’Iddio Onnipotente, il creatore
di tutte le cose.” Questi dialoghi cambiarono per sempre la vita di mio padre e di mia madre e diedero
un indirizzo a quella mia e di mia sorella. Nel 1969, mia sorella festeggiò per l’ultima volta il compleanno,
il Natale, la Pasqua e qualsiasi festa definita “pagana”. I miei genitori divennero testimoni di Geova
l’anno dopo, nel 1970. Per tutta la mia infanzia mio padre e mia madre non mi portarono mai al mare, in
montagna o in una pizzeria se non durante le vacanze estive in Sicilia. I fine settimana erano tutti spesi
nei gruppi di studio e nella predicazione dell’arrivo dell’Armagheddon. Bisognava fare in fretta, perché
erano in gioco delle vite umane, soltanto i testimoni di Geova si sarebbero salvati. In quegli anni c’era
molta aspettazione, perché secondo alcuni calcoli arbitrari la fine del mondo sarebbe avvenuta nell’anno
1975. Dopo quell’anno i testimoni subirono un fenomeno di dissociazione in massa. E’ buffo vedere come
i testimoni negano questa credenza dicendo “si salva solo chi adora il vero Dio” mentre le loro
pubblicazioni dicono chiaramente che solo i testimoni adorano il vero Dio come lui vuole.
Io personalmente sono entrato per la prima volta in un disco-pub all’età di ventisei anni. Dovevo stare
attento a non farlo sapere a nessuno dei miei amici testimoni, perché sarei stato in tal caso bollato
come persona “poco spirituale”.
Mi accorsi ben presto, tuttavia, che i “poco spirituali” erano tantissimi, forse la maggioranza e molti
conducevano una stressante doppia vita. Molti hanno sviluppato delle patologie psichiche per colpa di
questa sofferenza, qualcuno si è anche ammalato gravemente. Mia sorella all’età di venti anni incominciò
a porsi delle domande a cui i testimoni davano delle risposte che a lei non piacevano. E’ risaputo che
spesso i testimoni di Geova si sposano molto giovani. Questo è, secondo me, dovuto al fatto che secondo
il loro credo i rapporti prematrimoniali sono un peccato contro Dio. La conseguenza è che molti
divorziano per incompatibilità sessuale, dopo anni di sofferenza. Da giovani si sforzano di seguire una
rigida regola che infrangeranno in età matura, rischiando l’esaurimento delle energie emotive.
Avevo diciannove anni e mezzo quando rischiai l’esaurimento per la prima volta. Dovetti ricorrere ad un
ansiolitico denominato Xanax. Decisi di abbandonare l’università: mi convinsero che la mia crisi di ansia
era dovuta al fatto che la mia coscienza mi accusava per aver seguito una strada che diverge dalla
volontà divina. Mio cugino Carlo era dello stesso avviso. Due anni dopo, Carlo si iscrisse alla facoltà di
giurisprudenza. Io rimasi perplesso, lui disse che poteva farlo perché era spiritualmente forte mentre
io non lo ero. Dopo alcuni anni, ad un’assemblea dei Testimoni di Geova si parlò dell’opportunità di
interrompere gli studi universitari perché l’istruzione superiore favorisce l’insorgenza di uno spirito
critico che può portare a mettere in dubbio i dogmi della fede dei testimoni. Nonostante questo, Carlo
proseguì fino alla laurea, mentre divenne un anziano di congregazione che aveva la responsabilità di
scoraggiare i fedeli a proseguire con gli studi universitari. I testimoni si difendono da questa accusa
dicendo che molti testimoni sono laureati, ma non c’è nessuna loro pubblicazione che esorta ad
impegnarsi in una carriera lavorativa. Molti sono esortati a cercare un semplice impiego part-time per
avere
il
tempo
di
predicare
in
modo
continuo
il
veniente
Armagheddon.
Per alcuni anni, le credenze dei testimoni mi regalarono una certa serenità emotiva. Ma poi,
l’atteggiamento di distacco dal mondo lavorativo che i testimoni mi esortavano a portare avanti mi
logorò mentalmente. Il lavoro come sviluppatore di software presuppone una forte passione per il
mondo dell’informatica. Io ce l’avevo, ma percepivo un senso di colpa alle adunanze, quando sentivo che
Geova non è contento quando un suo servitore dedica poche ore al mese alla predicazione. Mi sentivo
mancante, il lavoro era pesante e mi lasciava poco tempo per la predicazione e lo studio della Bibbia. Ma
allo stesso tempo qualcosa, dentro di me, mi diceva che tutto questo sistema era poggiato su
fondamenta contraddittorie. La questione del sangue fu un pilastro della mia crisi di coscienza, a
seguire l’impegno civico e l’istruzione. Sviluppai in seguito un bisogno spirituale fatto di armonia con il
mondo e con i miei simili, di percezione dei propri talenti e il bisogno di avere dei principi universali e
unificatori per capire l’origine della vita, infine trovare una logica spiegazione sia del bene che del male
che c’è stato, che c’è e sempre ci sarà nel mondo. La credenza in un Dio che vuole rivendicare la sua
sovranità universale non trova posto in questa dimensione perché un unico Dio perfetto non avrebbe
bisogno di dimostrare niente a nessuno. Credere in infiniti esseri presenti in altre dimensioni, uno più
forte e antico dell’altro e in una grande forza che regola l’universo mi dà molte più risposte delle
credenze che avevo un tempo. Credo che tutto questo sia più concorde con la scienza, come ho spiegato
nel precedente capitolo. La credenza nell’avvento dell’Armagheddon e l’osservanza di rigide e austere
regole di vita mi regalarono uno stress sempre più soffocante, posto in risonanza durante la
frequentazione di Marlène, una bellissima ragazza che stava affrontando la mia analoga crisi di
coscienza. Eravamo come due ciechi che cercavano di indicarsi l’un l’altro la strada da seguire per
essere felici. Ora sia io che lei non siamo più testimoni di Geova ed entrambi siamo genitori. Ma di lei
non so più niente, la vidi per l’ultima volta nell’estate 2007, non potei salutarla perché io ero ancora un
testimone.
Capitolo 20
IL LAVORO
“Signor Fracazzo, buongiorno. Aio nu problema subba u compiutu pi caricari li dati du u bilancio, sparti
non mi funziona nenti!!”
“Mi scusi cara signora, innanzitutto mi chiamo Fracasso e non Fracazzo, mi dica esattamente il
messaggio d’errore che restituisce il programma di tesoreria…” L’applicazione DOS per l’automazione
dei servizi di tesoreria era installata su 120 filiali dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino, da Trento
fino a Trapani. Il caro Lavandri, dopo un anno di lavoro in sede nella Software House, mi aveva messo in
una posizione di isolamento rispetto agli altri colleghi. Vivevo di fatto in mezzo ai dipendenti della
Banca, nell’ufficio Sistemi Informativi…questi però non mi trattavano come un loro collega a tutti gli
effetti.
Avevo dimostrato in più di una occasione di non considerare il lavoro come l’interesse più importante e
questo non mi era stato perdonato. Tra i testimoni di Geova è molto diffusa l’idea secondo la quale
impegnarsi troppo nel lavoro possa portare a perdere i valori spirituali. Il mio compagno di scuola
Jonatan, divenuto anche compagno di lavoro, riusciva perfettamente ad avere due facce a questo
proposito. Aveva una salute di ferro e spesso riusciva ad andare avanti con quattro ore di sonno.
Quando notava le divergenze tra me e il Lavandri, probabilmente pensava “morte tua vita mia”.
Il compagno di lavoro Massimo Fabrizzi, ricopriva la mansione di analista programmatore in San Paolo,
prima che subentrassi io. Aveva un carattere volubile, sbalzi d’umore che facevano paura dovuti
all’insoddisfazione lavorativa…non gli piaceva lavorare con il linguaggio Clipper, voleva lavorare in C e
questo gli causava una serie di disturbi emotivi. Umberto Fracasso, invece, era un generatore di
disturbi per i colleghi che gli stavano vicino. Ricordo che nell’arco di un anno e mezzo riuscì a
distruggere due volte il suo telefono fisso e prendeva regolarmente a schiaffi il monitor del suo
computer quando qualcosa secondo lui andava storto, urlando al cielo indicibili bestemmie. Però era un
sentimentale e più volte dimostrò di volermi bene. Mi invitò un paio di volte a giocare a calcio con i suoi
amici, ma rifiutai, temendo di essere scoperto dai testimoni di Geova e considerato una persona “poco
spirituale”.
Fracasso,
come
capo
progetto,
aveva
la
responsabilità
di
motivare
il
gruppo…
“…Ettore, vieni che ti spiego cosa devi fare oggi: è un lavoro di merda…”
Io avevo un carattere molto chiuso e riservato, non dimostravo mai le emozioni che provavo. Le mie
emozioni, ad un anno e mezzo dall’inizio del lavoro in San Paolo, si fecero sempre più cupe. Ogni tanto i
colleghi mi incoraggiavano a scambiare qualche battuta e a sorridere un po’ di più…ma io proprio non ce
la facevo, ero parte di un sistema che mi impediva di avere le soddisfazioni che ho oggi, come un uomo
libero. Quando conobbi Marlène, una bellissima ragazza che stava vivendo più o meno la mia crisi, le mie
condizioni di salute peggiorarono grandemente nel giro di quattro mesi. Quando uscii dall’Ospedale,
dopo una degenza di settanta giorni e una diagnosi di “sindrome dissociativa”, il mio posto in San Paolo
era stato coperto da un altro programmatore. Il Lavandri mi propose di lavorare quattro ore al giorno
come tecnico hardware e io accettai. Dopo un anno, però, mi disse che secondo lui non ero abbastanza
motivato. La separazione da Marlène mi aveva causata una leggera depressione residua, per questo non
ero sempre presente sul lavoro. Così fui licenziato e iniziò il periodo peggiore della mia vita, a soli
ventitre anni.
Per due anni continuavo a fare colloqui di lavoro, chiedendo di fare il tecnico hardware. Tutti i datori di
lavoro, visto il mio curriculum, mi offrivano un posto come programmatore ma io puntualmente rifiutavo,
spaventato dallo stress che avevo subito. La terapia che assumevo era sbilanciata, spesso ero assonnato
e mi sentivo depresso, per questo non riuscivo ad impegnarmi con continuità. Ciononostante, rimaneva
dentro di me la speranza di un futuro felice. Dopo la prima crisi psicotica, in cui durante le mie
allucinazioni ero convinto che fosse arrivato l’Armagheddon, segretamente concepivo la mia felicità non
più in un nuovo mondo di pace e giustizia ad opera di una divinità, ma come un periodo di maggiore
benessere, di armonia con il mondo e le persone…tutto questo in rigoroso segreto. Ora credo di avere
raggiunto
questo
equilibrio
e
molti
si
stupiscono
di
sentirmi
dire
“sto
bene”.
Dopo che ebbi una ricaduta nella malattia, a distanza di un anno dalla prima crisi psicotica, mio padre mi
consigliò di fare una visita davanti ad una commissione medica per ottenere un’invalidità civile.
Dopo la prima visita, ottenni un punteggio di invalidità del 46%. Questo mi dava diritto ad un
collocamento lavorativo facilitato. Dopo poco tempo, fui contattato da una software house che mi offrì
un lavoro come analista programmatore. Accettai, pensando che come invalido sarei stato trattato con
rispetto e che ce l’avrei fatta a lungo nel tempo. Purtroppo però, con la terapia che mi causava una
leggera depressione residua, non riuscivo ad essere sempre presente sul lavoro e a causa di questo dopo
due mesi mi fu comunicato che non avevo superato la prova. Ci rimasi molto male, per un anno non ebbi
neanche voglia di cercare un nuovo lavoro.
Dopo l’estate del 2000, una azienda edile denominata Ainatac S.p.A., mi contattò per un colloquio, parlai
con uno degli amministratori delegati dell’azienda, l’ingegner Federico Moschini. La famiglia Moschini
gestiva l’azienda dal 1860, prima dell’unità d’Italia. Parlai della mia esperienza come programmatore e
mi fu offerto un impiego come sistemista informatico, alle dipendenze dell’ingegner Filippo Etienne,
responsabile del centro elaborazione dati dell’azienda.Mi fu illustrato nei primi giorni di lavoro, quella
che sarebbe stata la mia mansione nei successivi cinque anni, data in cui l’azienda chiuse i battenti.
Negli uffici della direzione c’erano sessanta computer collegati in rete, gestiti dalle segretarie
direttive, dal centro di contabilità, dall’ufficio tecnico di progettazione, dai responsabili di cantiere e
infine dai dirigenti dell’azienda. L’ingegner Etienne aveva una raffinata intelligenza, ma era
emotivamente instabile. Nei primi due mesi di lavoro, io funzionai come un perfetto ingranaggio di
orologio, sempre presente e correvo sul lavoro, dimostrai una spiccata capacità nel problem solving. I
dipendenti dell’azienda mi presero in simpatia e io ero soddisfatto. Pensai che con una buona posizione
economica sarei riuscito a trovare una fidanzata, ma mi andò male…fui rifiutato. Questo mi fece
sprofondare nella depressione. Di recente ho conosciuto un maestro di Yoga, che mi ha detto più di una
volta: “la vita è un gioco, ma non è uno scherzo”. Non riuscivo a cogliere il profondo significato di simili
parole. Per me la vita era una scommessa e soffrivo per la paura di perdere.
Fui ricoverato per un mese, e quando tornai al lavoro non riuscii per lungo tempo ad avere un impegno
continuo. Ogni tanto fui ripreso per questo motivo. Ciononostante il mio lavoro veniva apprezzato.
L’ingegner Etienne, nei mesi mi affidava incarichi sempre più complessi. Era entusiasta dei miei lavori di
programmazione e spesso mi elogiava per questo. I lavori più interessanti che feci ebbero un impatto
sul lavoro di altre persone. Realizzai un’applicazione windows per l’automazione di parcheggi pubblici e
fui contattato per decidere quale soluzione tecnica doveva essere adottata per realizzare un web
application server, in parole semplici per realizzare un programma e una banca dati centralizzata ad uso
dei responsabili di cantieri, il tutto accessibile tramite la connessione Internet.
L’ingegnere era considerato “strano” dagli altri colleghi, ma era semplicemente una persona molto
sensibile. Un giorno lo sorpresi nel suo ufficio con i lacrimoni che scendevano giù con dei rigagnoli sul
suo viso dai tratti somatici regolari. Solo due mesi dopo appresi che aveva perso il padre. Di queste
cose, non parlava quasi con nessuno.
Capitolo 21
QUELLA CASA NELLA PRATERIA
I pionieri del far west percorsero migliaia di chilometri dall’Atlantico al Pacifico, per occupare nuove
terre
che
avrebbero
regalato
un
sogno
di
felicità,
serenità
e
amore.
Molti di loro avevano passione e testardaggine ma non conoscevano l’orgoglio. Ma noi, purtroppo,
l’orgoglio lo conosciamo. E come un fantasma che appare quando meno te lo aspetti, l’orgoglio è pronto a
colpirti di spalle, quando sei indifeso.
“…corri e fottitene dell’orgoglio, ne ha rovinati più lui del petrolio…” – Vasco Rossi.
Dovremmo avere il coraggio di affrontare la vita un passo alla volta, non è sbagliato fare progetti anche
complessi, ma emotivamente parlando nel nostro intimo dovremmo essere come bambini. Si può essere
appassionati di scacchi, ma la vita non va presa troppo sul serio come in una partita, per non rovinarla.
Correva l’anno 1989, mio padre andò in pensione per via dell’enfisema polmonare, patologia contratta
dopo decenni di lavoro in fonderia. Aveva quarantanove anni e ancora tanta voglia di vivere e fare
progetti. Contrasse anche il diabete e viveva pensando di star bene fino a quando questa malattia smise
di essere asintomatica.
Fin dai primi tempi del suo matrimonio, papà aveva il sogno di vivere in Sicilia, sull’Isola di Pantelleria,
ma non ebbe mai il coraggio di abbandonare il lavoro e la sicurezza economica che aveva a Milano.
Essendo in pensione le cose erano cambiate, ritornò in mio padre la voglia di andare in Sicilia.
Mia madre non ne voleva sapere, si era abituata allo stile di vita del Nord.
“Vedrai che ti costruirò un palazzo, e allora verrai con me in Sicilia!”
“E costruiscilo dai, così poi ci vengo!”
Mia madre considerava la cosa davvero impossibile,
Il palazzo fu costruito davvero. Ora ve ne racconto la storia.
ma
sottovalutava
mio
padre.
Era il 1991, mio padre e mio cugino Federico di zio Franco erano alla ricerca di un fondo da acquistare
per costruire. Mio cugino è un costruttore edile e cercò di aggiudicarsi il lavoro commissionato da mio
padre.
“Antonio, ma dove stai andando?”
“Serenetta, devo trovare una casa vecchia per demolirla e tirarla su nuova…”
“Ma tu sei pazzo!”
Mio padre non era solo pazzo, era anche testardo. Oggi io vivo in questa casa, quindi non fu totale follia.
Purtroppo però, mio padre oggi ha dei seri problemi di salute che gli impediscono di trasferirsi da
Milano. Lavorò quindi per quindici anni ad un progetto ambizioso, ma fino ad ora non è riuscito a godersi
il risultato per più di un mese all’anno, durante le vacanze estive.
Mio padre ebbe un colpo di fortuna. Il fondo adiacente ad una nostra piccola proprietà fu messo in
vendita ad un basso costo. Questo voleva dire poterlo acquistare a condizioni agevolate per la vicinanza
e poter costruire senza la distanza di dieci metri dalla proprietà più vicina, perché anche questa nostra.
Mio padre acquistò la terra e la vecchia casa per soli sessanta milioni di lire nel maggio 1993.
Mio cugino Federico fece un preventivo a mio padre per la costruzione della struttura di una palazzina.
Papà giudicò il prezzo troppo alto e questo incrinò l’amicizia con mio cugino Federico.
Purtroppo mio padre non fu dolce nelle parole e si rivolse ad un altro costruttore. Quando mio cugino
abbandonò il culto dei testimoni di Geova, lo perdemmo completamente di vista. Ma io non smisi mai di
salutarlo quando lo incontravo.
Fu così che conoscemmo l’imprenditore Massimiliano Albatros, che seguì i lavori di costruzione fino alla
sua morte, per tumore polmonare avvenuta nel 2003. Albatros fu davvero un caro amico per la mia
famiglia, sempre pronto e disponibile. Ogni volta che finivamo un settore della costruzione,
organizzavamo una cena nel ristorante Rupe Montana, gestito dai miei cugini Federico e Salvatore
Celestini. Federico aveva anche uno studio tecnico di progettazione edile e lavorò per regolarizzare la
costruzione con il catasto. Albatros portava il vino al ristorante, dalla sua cantina personale. Con noi
c’erano tutti i muratori dell’azienda. Furono dei bei momenti.
Ma il fantasma dell’orgoglio apparve davanti a mio padre.
Una volta finito il progetto, alcuni nostri vicini di casa ci chiesero di tenerci più bassi di un piano per
non rovinare la loro vista sul mare. Mio padre, oltre a rifiutare con freddo cinismo indicando di essere
in regola con la legge fu davvero molto scortese. Altre amicizie rovinate. Arrivò l’euro, con la nostra
forza non riuscimmo a completare il progetto, attualmente ci sono quattro alloggi finiti su sette. Se
avessimo fatto un piano in meno, se non fosse comparso il fantasma dell’orgoglio, avremmo finito tutto e
avremmo oggi delle amicizie migliori. E mio padre, per non aver finito l’opera, non è sereno, per orgoglio.
Mio cugino Carlo, nipote di Federico dello zio Franco, mi disse che mio padre era stato una persona
incoerente
con
le
persone.
Prese
le
parti
di
suo
zio.
Ricordo un’occasione in cui ero a casa sua e nel mentre arrivò una vicina di casa senza salutarmi. Carlo si
avvicina a me, sorridendo e dicendo: “Ettore…ma sembra che non vi saluta più nessuno sull’Isola!”
In effetti stava esagerando. Poi, molti anni dopo, quando eravamo entrambi sposati, ci trovavamo sul
suo
balcone
di
casa…un
suo
inquilino
estivo
gli
chiese:
“Di
chi
è
quel
palazzo
qui
di
fronte?”
“E’ di mio cugino Ettore, sembra proprio una casa delle api, non è vero?”
Si riferiva al fatto che un lato della casa era incompleto, senza infissi e dentro era vuota.
Mi è capitato spesso nella vita di essere attaccato per primo e ogni volta è stata una delusione.
Era opinione generale che senza la direzione di Albatros, non saremmo riusciti a realizzare questa
impresa.
Fu proprio Carlo a telefonarmi per avvertirmi della morte di Albatros. Subito dopo mio padre telefonò
alla vedova…dicendo di avere perso un caro amico. Oggi mio padre non ha più il fantasma dell’orgoglio
davanti, perché non ha i mezzi per andare avanti nella sua impresa, ma ne sente la presenza…soffrendo
per non aver ancora realizzato i suoi sogni…io continuo a ripetergli che un bicchiere può essere visto
mezzo vuoto o mezzo pieno…ma non serve a molto.
Capitolo 22
STORIA DI UNA ORDINARIA PSICOSI
Non vi racconterò quello che sanno tutti gli psichiatri o gli psicologi e gli psicoterapeuti. Non vi
racconterò di come i pensieri umani si corrompano per via di anomalie della serotonina o della dopamina
e nemmeno di traumi e proiezioni, che tuttavia si possono evincere dalle pagine che vi ho già propinato.
Vi racconterò invece di come si arrivi a credere di aver scoperto l’origine dell’universo, di come
compaiano angeli messaggeri, di come si navighi senza far naufragio lontano, molto lontano dalla realtà
che i più credono di percepire, di come improvvisamente un angelo ti sbatte in faccia una realtà orribile:
ti ha ingannato; in realtà è un demonio e ti ha convinto a praticare le vie del peccato proponendoti una
soluzione disastrosa nella realtà per un problema che invece abita nell’immaginario, di come si possa
camminare per strada in mezzo alla gente senza provare più alcun sentimento e credere di aver
commesso un peccato imperdonabile e quindi essere un corpo senz’anima destinato alla distruzione. Non
vi racconterò COME questo avvenga, ma il punto di vista di chi vive questa esperienza, quel punto di
vista per secoli ignorato perché la medicina non permetteva ancora un ritorno alla vita normale e
soprattutto quello che può diventare chi ha vissuto un’esperienza così sconvolgente e allo stesso tempo
straordinaria. Vi racconterò cosa si prova, cosa si sente dopo aver aperto ‘quella porta’ , la porta delle
verità nascoste.
Mia madre venne a conoscenza del fatto che mi piaceva una testimone di Geova battezzata di recente
dai testimoni e cresciuta come cattolica. Si chiamava Gisella.“Ettore! Tu sai che Gisella aveva il ragazzo
quando era nel mondo, vero?” “Si lo so, e allora?” “Non pensi che Gisella possa avere avuto delle
esperienze sessuali?”
Io non avevo mai ponderato questa eventualità, e fino ad allora credevo che non fosse importante. Però
già da un anno lavoravo come programmatore e lo stress del lavoro mi rendeva estremamente ansioso.
Si insinuò quindi nella mia mente un pensiero inutile quanto dannoso: “Se Gisella non fosse più vergine, la
cosa mi lascerebbe indifferente oppure no?”
In effetti non sono mai stato geloso e consideravo la gelosia regressa una malattia.
Ma questo pensiero era sottile e si potrebbe tradurre in questi termini: “Io, sono come i miei genitori
oppure no?”
In effetti c’era un conflitto interiore dentro di me, che non sapeva risolversi, i miei genitori volevano
che io fossi un testimone di Geova, io nel mio intimo non lo volevo…ma non volevo ammetterlo neanche a
me stesso, il pensiero di far soffrire i miei genitori mi gelava il sangue, in più il pensiero di peccare
contro un Dio di giustizia e vendicativo mi incuteva un grandissimo timore nel profondo dell’anima che mi
impediva di rendere evidente la mia reale personalità.
Vedevo Gisella ogni fine settimana insieme a tanti amici testimoni, fra loro c’era anche Massimo il suo
ex fidanzato. Massimo era diventato testimone prima di Gisella. Quando apprese che il fidanzamento
fra i testimoni era una cosa molto seria e aveva ragione di essere solo in vista del matrimonio, decise di
lasciare Gisella. La lasciò inscenando una specie di crisi emotiva, una insicurezza per non apparire un
mostro agli occhi di lei.
Io sapevo tutte queste cose ma non tenevo conto del fatto che Gisella amava ancora Massimo. Gisella
era una ragazza molto in gamba. Aveva frequentato con profitto l’istituto commerciale e lavorava come
ragioniera in uno studio amministrativo. Sentimentalmente era insoddisfatta e diceva di essere molto
stressata. Mi raccontarono che sperava di tornare con Massimo e allo stesso tempo aveva paura di
essere da lui presa in giro. Era molto intelligente ed anche molto sensibile. Dava molto nell’amicizia ed io
fraintesi tutto, credetti che potesse amarmi, ma dovevo capire che un cuore impegnato non ha posto
per una terza persona. Resta il fatto che Gisella quando uscivamo amava intrattenersi con me isolandosi
dal resto del gruppo. Amava esternare i suoi sentimenti e le mie parole la incoraggiavano…il suo cuore
però
batteva
per
Massimo,
io
ero
un
ottimo
amico
ma
niente
di
più.
Una sera di Maggio andai a prendere Gisella e una sua amica con la macchina, dopo di che raggiungemmo
il resto del gruppo. Massimo fece una scenata di gelosia. Non voleva sposare Gisella e non voleva che
fosse di qualcun altro. Tanto più non voleva che stesse con me, non aveva un buon rapporto con la mia
persona, e si coalizzò insieme ad Orlando Rights nel cercare ogni occasione nel gruppo per rendermi
ridicolo
di
fronte
a
molti.
Orlando
però
mi
voleva
bene
e
mi
avvertì:
“Ettore, guarda che devi stare attento! Gisella ama Massimo! Il mondo è pieno di donne, non rovinarti
per lei!”
Non volli ascoltare.
Mentre mi logoravo emotivamente con pensieri inutili…”ama me o Massimo? Se ama Massimo perché ci
tiene tanto alla mia amicizia? Avrà avuto un’esperienza sessuale? Se si la cosa è importante oppure no?”
decisi di parlare chiaro a Gisella…
Eravamo tutti a cena in un ristorante di Milano quando io ebbi la geniale idea di dichiararmi.
“Gisella, io vorrei frequentarti più spesso da solo per conoscerti meglio, per…” fui fermato da Gisella.
“Ettore! Ho capito tutto! Fermati, ti dico che il fatto che tu ti interessi a me mi lusinga. Ma io ti
considero un amico e niente di più. Un caro amico devo dire, purtroppo però io ho avuto di recente una
delusione dall’amicizia e dall’amore e non mi sono ancora ripresa. Mi dispiace farti soffrire…vorrei però
che io e te rimaniamo amici, se ce la fai senza più fraintendere…te la senti?”
“Si certo, me la sento”.
Si vedeva che stavo soffrendo e Gisella era preoccupata. In quell’istante arrivò Massimo:
“Perché siete da soli?”
Gisella si giustificò e ritornò al suo posto in sala da pranzo. Ci vedemmo un paio di volte nei successivi
week end e poi ci perdemmo di vista per alcuni anni.
Anche Orlando Rights era preoccupato per me. Lavoravo molte ore al computer. Nella mia mente c’era
un precario equilibrio di forze antagoniste. Mi piaceva programmare, ma avevo la vista e la mente
stressate. Pensavo che il lavoro fosse importante, ma mi sentivo in colpa perché le poche energie che mi
rimanevano il Sabato e la Domenica non mi consentivano di fare tutto quello che era necessario per
essere un buon testimone di Geova. Dovevo lavorare ma ero spaventato da tutto ciò che potesse
significare lo stress, avevo paura di soffrire come durante la crisi di ansia e panico avvenuta quando
frequentavo l’università, pregavo Dio ogni giorno per non far accadere un simile fatto di nuovo nella mia
vita.
Cercavo di fuggire dallo stress, senza calcolare che questo significava ansia e quindi stress inutile.
Il lavoro al computer mi faceva accumulare energia negativa che non scaricavo in nessun modo.
Oggi penso che avrei dovuto frequentare una palestra e magari un centro di benessere, farmi dei nuovi
amici e non fare coppia fissa con nessuno…ma tutti i giorni quando tornavo da lavorare mi buttavo sul
divano, non avevo voglia di fare nulla ed ero spesso intrattabile.
Un anno di lavoro al Centro Contabile San Paolo. Si avvicinarono le vacanze estive. Passai il mese di
Agosto sull’Isola di Pantelleria, che era frequentata da molti turisti, molti di loro erano testimoni di
Geova e soggiornavano in un residence costruito da Armando Carrapipi, un testimone di Geova dell’Isola.
Il residence ospita tuttora la “sala del regno dei testimoni di Geova” dell’Isola.
Era
l’estate
del
1996.
Feci amicizia con un ragazzo di nome Alex, di origine Siciliana ma cresciuto a Pisa.
Mi presentò Marlène, una ragazza tanto bella quanto insicura. Presi un appuntamento con Marlène nel
centro storico dell’Isola e ci frequentammo per due settimane, dopo di che tornammo al Nord per
andare a lavorare. Marlène entra nella mia orribile Fiat 124 color grigio chiaro, prima di arrivare sul
sedile
mi
dice:
“Quando
torniamo
a Milano
ci
possiamo
incontrare
di
nuovo?”
Io feci una strana faccia di stupore e lei:
“Non pensare male però!”
“Stai tranquilla, non penso male…è bello avere dei nuovi amici!”
Arrivammo nel centro storico e poi passeggiammo per un po’, chiacchierando. Marlène era più alta di me,
con i suoi tacchi alti mi superava di molto.
“Marlène che tipo di musica piace a te?”
“A te?”
“A me piacciono quasi tutti i generi…e a te Marlène?”
“Pure a me.”
“Ti piace il cinema?”
“A te Ettore?”
“Si mi piace, ma ci vado di rado, e tu?.”
“Si Ettore anche a me piace molto, ma non ci vado spesso.”
“A me piace molto la disco-music, Marlène”
“Anche a me piacciono le discoteche, Ettore.”
“Però io in discoteca non ci sono mai andato”.
“Scusa! Mi sono espressa male, nemmeno io vado mai in discoteca!”
Qualcosa non mi quadrava perfettamente. Pensai: “…qui ci deve essere un imbroglio…sarà…”
Ci addentrammo in alcuni discorsi “spirituali”.
Marlène attendeva l’Armagheddon con ansia…non sopportava più questa vita. Mi confidò che aveva già
meditato più volte il suicidio, solo non aveva avuto il coraggio di metterlo in atto. Mi disse che aveva
visto un film che trattava il complesso tema della schizofrenia paranoide, ed era uscita da questa
esperienza con estrema ansia.
“Ho paura delle malattie mentali Ettore! A volte lo stress protratto nel tempo può costituirsi come
causa scatenante!”
“Lo so Marlène, ma non dobbiamo avere paura di queste cose, noi abbiamo Geova che ci protegge e una
meravigliosa speranza per il futuro! Dopo l’Armagheddon ci sarà un magnifico nuovo mondo di pace e
giustizia!”
Marlène mi disse che parlare con me era confortante e rassicurante. Nei quattro mesi che la frequentai
cercai di darle tutto l’amore che ero in grado di provare per lei con tutta la mia forza, ma non era
abbastanza…dovevo fare i conti con la sua insicurezza moltiplicata per la mia che cercavo di
nascondere. Cercavo di nascondere meglio che potevo il mio malessere, senza considerare che un
rapporto funziona bene solo se si condivide tutto, sia i sentimenti positivi che quelli negativi. Mi
confidavo con una terza persona, mio cognato Fester. Fester mi dava certamente dei buoni consigli, ma
cercare un consiglio ad un terzo per capire cosa provavo nel mio intimo fu un errore madornale.
Sicuramente non ero ancora abbastanza maturo per affrontare una storia sentimentale così
importante, ed in più con una persona disturbata emotivamente che cercava in me il contenitore di
tutte le sue ansie. Nella mia adolescenza pensavo solo a studiare e non mi ero mai divertito come un
ragazzo avrebbe avuto bisogno.
“Ettore, ma tu fai sul serio o vuoi soltanto divertirti con me?”
Eravamo nel centro di un parco, ingiallito dalle foglie autunnali…e passeggiavamo…risposi: “Sono
serissimo, di divertimento ne ho avuto abbastanza”. “Caro Ettore, io non mi sono mai divertita con
nessuno!
Sai
cosa
vuol
dire
questo,
non
è
vero?”
“Certo, Marlène!”
Mi stava dicendo che non aveva mai avuto un rapporto con un uomo e non intendeva averne prima del
matrimonio. Questo in parte mi rassicurava, ma mi chiedevo: “voleva dire proprio questo, è ancora
vergine? Ma la cosa è importante per me?” Continuavo a logorarmi senza motivo.
Marlène mi telefonò sul lavoro: “Ettore, ho bisogno di parlarti con urgenza. Possiamo vederci questa
sera? Molti ci hanno visto insieme e dobbiamo prendere una decisione seria.”
Mi preparai con grande entusiasmo per dirle che l’amavo e non l’avrei mai lasciata.
Ci incontrammo e incominciammo a parlare davanti ad un piatto di pasta e una buona birra.
“Ettore, io non so come dirtelo!”
“Te lo dico io Marlène…”
“No fermati! Io ti voglio molto bene ma non sono ancora sicura di amarti!”
Era evidentissimo che era in preda ad una crisi di ansia… Cercai di incoraggiarla, di comprenderla, di
aiutarla…ero abile con le parole. Mi disse che per lei ero una persona speciale, e che sperava di potere
presto dirmi che mi amava. Passavano però le settimane e lei non si decideva.
“Marlène io ti amo e ti voglio un mondo di bene!” “Anch’io ti voglio un mondo di bene Ettore! Ma non so
ancora se ti amo. Io in questa storia non riesco ad ingranare la quarta. Ma non voglio neanche fare
inversione di marcia…sono sicura che presto le cose cambieranno.” Passano alcune settimane. “Ettore,
ormai
tutti
sanno
che
stiamo
insieme!
Dobbiamo
deciderci!”
Ci
incontriamo
nel
solito
parco,
le
foglie
erano
tutte
cadute
a
terra.
“Marlène cosa mi dici?” “Che dobbiamo aspettare ancora qualche settimana. Amore è una parola
impegnativa.”
Ci vedevamo tutti i Sabati e le Domeniche, passavamo il pomeriggio e la sera insieme. Io aspettavo che
nel suo cuore nascesse quella scintilla, che si accendesse il fuoco dell’amore.
Mentre aspettavo, però, si era formata una valutazione della personalità di Marlène improntata sul
pessimismo, la ritenevo debole, senza carattere. La amavo, ma avevo paura che la mia personalità non
fosse abbastanza forte da aiutare chi era così debole, cosi fragile e insicura.
In altre parole mi stavo esaurendo, l’ansia cresceva sempre più nel mio cuore quando questo fu
attaccato nuovamente dal panico…ma in una forma completamente diversa dalla prima volta, durante i
mesi all’università. Avevo un perfetto controllo del mio corpo. Non avevo nessuna manifestazione
psicosomatica, questa volta era il mio pensiero e non il mio fisico che si stava corrompendo.
Sveglia alle sette, otto e trenta sul lavoro.
Avevo terminato da poco un lavoro davvero molto impegnativo senza commettere quasi nessun errore in
merito al programma di tesoreria per il CED del San Paolo a Moncalieri (Torino), e il mio capo progetto
Umberto
Fracasso
mi
aveva
onorato
con
dei
generosi
elogi.
Neanche un attimo per respirare però, subito un altro lavoro molto impegnativo. Mi sentii perso, a fine
giornata mi ero reso conto di non aver neanche impostato il lavoro, non avevo più la forza di pensare.
Mi diressi a casa di Marlène. Lei vide la strana luce dei miei occhi e si spaventò.
Incominciò a massaggiarmi, a scuotermi e poi urlò: “Cosa ti sta succedendo Ettore?”
“Ascolta Marlène, forse è meglio che io vada a casa a dormire…il film guardalo da sola…vedrai che
domani starò bene…” Mi metto su strada, pregando e piangendo…cercavo di capire se la storia con
Marlène doveva durare, se ce l’avrei fatta a superare il mio panico…pensavo tra me e me: “…se la lascio
muore…ma se continuo così muoio io! E’ da quattro mesi che ascolto solo miserie!”
Arrivai a casa, mia madre mi disse che Marlène aveva già chiamato tre volte.
Metto
un
piede
in
casa
e
squilla
il
telefono,
era
Marlène:
“Ettore, mi hai piantato a casa come una cretina! Cosa vuol dire guardati il film da sola? Tu mi vuoi
lasciare!
Ce
l’hai
il
coraggio
di
dirmelo?”
“Ascoltami Marlène, ti prego! Io non ci sto più con la testa, ho accumulato troppa tensione!”
“Verrai Sabato? Ti ricordi che dobbiamo annunciare in famiglia il nostro fidanzamento??”
“Non lo so…”
“Fatti vedere di nuovo da queste parti Ettore, così ti mollo un cazzotto in faccia!”
Il panico divenne terrore e poi una sensazione di morte. Cercai di dormire, ma erano settimane che non
dormivo. Mentre si dorme si sogna, si vedono oggetti immaginari, io non dormii più per diversi giorni…ma
con gli occhi aperti sognavo vedevo ciò che mi spaventava a morte e ciò che desideravo ardentemente.
Arriva una telefonata, era mancata una cugina di mia madre. La mia mente era chiusa in un circolo
vizioso fatto di terrore, i dialoghi tra mia madre e mia zia entrarono in questo circuito subendo una
pericolosa distorsione. Pensavo che i miei genitori mi nascondessero la verità e che Marlène si fosse
suicidata.
Incominciai a sentire e vedere cose che gli altri non vedevano. In televisione apparivano personaggi che
parlavano e interagivano direttamente con me, di notte sentivo voci che mi sussurravano nelle orecchie
messaggi contraddittori e malefici, mi ordinavano di farmi del male…dicendo che come Gesù ha dato la
sua vita perfetta in cambio di molti io, morendo, avrei riscattato la vita di una sola persona che valeva
quanto la mia, e questa poteva essere quella di Marlène, la quale nella realtà, quella squallida realtà che
la mia mente per immaturità emotiva non sapeva ancora accettare, mi aveva abbandonato al mio destino,
dicendo che con questo problema non poteva più stare insieme a me, che era giovane e non poteva
sprecare la sua vita…pensando, come gli stessi medici asserivano, che non mi sarei mai ripreso. Cercai di
tagliarmi
le
vene
ma
non
ero
più
lucido
e
mi
feci
solo
dei
graffi.
Finii
al
reparto
di
psichiatria,
in
una
gelida
serata
di
Dicembre.
Restai senza farmaci per un giorno, poi il primario del reparto in base al mio comportamento e alle mie
dichiarazioni impostò un piano di cure. Ci provarono prima col Serenase, poi con il Risperdal. Le mie
allucinazioni peggiorarono a dismisura.
Ero convinto che i fuochi d’artificio a capodanno fossero bombe che esplodevano, che fosse scoppiata
una guerra, la guerra dell’Armagheddon. In televisione vidi il funerale di Marlène e poi diversi talk-show
dove si parlava di un nuovo reato, dal nome “istigazione al suicidio”. Io quel reato lo avrei commesso per
la prima volta ad otto anni, ai danni del mio nonno paterno, Ettore. Lo avrei commesso di nuovo in quei
giorni ai danni di Marlène, che secondo la mia paranoica convinzione non era riuscita a difendersi.
Comparve mio nonno Ettore, nel reparto di psichiatria. Passeggiava lungo il corridoio del reparto, non mi
parlava. Aveva un espressione di stupore, mi guardava con aria investigativa…il suo sguardo era quasi
ironico…sembrava quasi che volesse dirmi: “ce la farai ad uscirne fuori?”…poi scomparve…fino al luglio
2009, quando sentii la sua presenza con un abbraccio di incoraggiamento e mi salutò con poche semplici
parole: “Ettore non hai colpa di quello che è successo, la colpa è di chi mi ha nascosto la mia malattia!
Hanno offeso la mia e la tua intelligenza…stai tranquillo! Vivi la tua vita!”
Poi in ospedale mi apparve il nonno di Marlène, un uomo molto alto dai lunghi capelli color neve.
Mi disse: “Tu vorresti salvare Marlène? Morendo forse? Tu non devi avere il coraggio di morire, devi
avere il coraggio di vivere! Non devi aspettare che qualcuno costruisca un nuovo mondo, devi costruire
qualcosa di nuovo dentro al tuo cuore! Vivi la tua vita tranquillo!” Io avevo paura di aver commesso il
cosiddetto “peccato imperdonabile” per non aver avuto abbastanza fiducia in Dio, il quale poteva
aiutarmi a preservare il rapporto con Marlène. La presenza del nonno di Marlène con le sue parole mi
incoraggiò molto…mi fece capire una realtà che nascosi per molto tempo, fino a quando decisi di non
essere più conosciuto come testimone di Geova.
Provarono infine il Serdolect, che fece l’effetto sperato. Le allucinazioni e i deliri scomparvero quasi.
Fui dimesso dopo settanta giorni di degenza. Il mondo fuori non era cambiato, io invece ero un’altra
persona. Dissi che non volevo abbandonare la congregazione dei testimoni di Geova, ma la mia fede fu
gravemente compromessa. Cercavo di capire se quello che avevo visto e sentito aveva un senso o era
solo frutto di uno squilibrio chimico nel mio cervello.
So per certo che ci sono diverse teorie, anche in ambiente scientifico, che spiegano queste cose in modi
profondamente contraddittori. Molte persone colte credono che ci siano prove rigorosamente
scientifiche di una vita dopo la morte. La fisica quantistica suggerisce l’esistenza di “universi paralleli”.
Ad ogni modo, incominciò un periodo buio della mia vita. Fino ad allora avevo condotto una una vita
normale, con diversi interessi, nonostante il profondo stress. Ora le cose erano cambiate, ero
considerato “malato di mente” ed ero in cura presso un CSM. I medici per almeno due anni ebbero paura
di darmi degli antidepressivi perché possono causare dei periodi di euforia e mania, un tono dell’umore
esageratamente elevato e nei casi peggiori aggressività. Nel 1999 cominciai ad assumere un
antipsicotico di nuova generazione, lo Zyprexa. Stavo meglio di quando assumevo il Serdolect, ma
permaneva una leggera depressione cronica. Ero emotivamente instabile e dormivo decisamente troppo.
Ero spaventato dall’idea di un impegno lavorativo costante e davo la colpa del mio esordio schizofrenico
a cose che non erano assolutamente implicate. Intanto Lavandri, il proprietario della Software House
che mi dava lavoro, decise di licenziarmi. Il motivo era che non ero abbastanza motivato. Grazie a
questo, le mie motivazioni crollarono almeno per due anni, due lunghi anni in cui tutto è stato inutile,
passavo il tempo a dormire, non avevo interessi seri. Continuavo però ad uscire con gli amici nei week
end. Tuttavia, facendo una vita poco significativa e poco attiva spesso mi rendevo ridicolo.
Nel 1998 mi fu suggerito di rivolgermi ad uno psicanalista, oltre che usufruire della terapia
farmacologica. Contattai una terapeuta, che dopo otto sedute affermò che grazie alla terapia che
seguivo nel mio comportamento non si ravvisavano segni di squilibrio. Mi suggerì però di imparare la
tecnica del training autogeno, per riuscire ad alleviare la tensione e lo stress. In quel periodo, andai
insieme a mio padre in Sicilia, non avendo lavoro volevo rilassarmi un pochino. Ritornando a casa a
Milano, dimenticai le mie medicine. Rimasi qualche giorno senza medicine, fu sufficiente a provocarmi
una crisi psicotica. Mi alzai nella notte sentendo voci demoniache, mi affacciai alla finestra e al posto
delle normali luci vedevo dei bagliori e una forma di “energia” che esalava da terra e si innalzava verso il
cielo…chiamai i miei genitori spaventato a morte…avevo un quaderno con degli appunti che insegnavano
le tecniche del training…lo bruciai e le voci non ci furono più, tutto tornò calmo. Credetti di essere
stato vittima dello spiritismo, sulla base di quello che lessi in seguito in un articolo di una rivista dei
testimoni di Geova, che, come al solito diceva senza dire. La scienza chiama queste cose “scariche
nervose” e “scariche emotive” in relazione al training…ad aggravare la situazione ci fu la crisi di
astinenza dai farmaci.
Ci volle un nuovo ricovero e una terapia mirata per la depressione (mi sentivo in colpa nei confronti di
Geova per aver fatto il training), ma mi ripresi bene. Ogni tanto facevo un colloquio di lavoro e rifiutavo
l’offerta di lavorare come programmatore, pensando di essere “allergico” al monitor del computer.
Arriva l’anno 1999, il mio medico psichiatra riuscì a farmi ottenere un’invalidità con punteggio pari al
46%,
dandomi
la
possibilità
di
ottenere
un
collocamento
lavorativo
facilitato.
Nell’autunno del 1999, nella stessa serata venni contattato da due aziende che avevano l’obbligo di
assumere
un
invalido.
Erano
l’Alenia
divisione
Aerospazio
e
la
Ainatac
S.p.A.
La prima è l’azienda spaziale che collabora in progetti di ricerca con la NASA e con altri centri spaziali
di tutto il mondo, la seconda era (avendo oggi chiusi i battenti) un’appaltatrice pubblica che eseguiva
lavori nel campo dell’industria edile. Entrambe cercavano un sistemista informatico.
Durante il colloquio con l’Alenia mi presentai come testimone di Geova e affermai di non poter
accettare lavori che avessero a che fare con la guerra. Questo mi penalizzò. Invece alla Ainatac tutto
filò liscio e fui assunto dopo due giorni dal colloquio con l’Ingegner Moschini, uno degli amministratori
delegati dell’azienda, costituita per la prima volta dalla famiglia Moschini nel 1860.
I primi due mesi di lavoro costituivano la prova contrattuale. L’Ingegner Etienne, dirigente EDP,
sicurezza e qualità dell’azienda mi dava ordini tutti i giorni ed era responsabile del mio lavoro.
Tirai come un matto per due mesi, dopo di che fu perfezionata la mia assunzione a tempo
indeterminato.
In quei giorni avevo parecchie amicizie con ragazze che frequentavano la congregazione dei testimoni di
Geova. Pensavo che una di queste sarebbe diventata la mia fidanzata…ma ebbi un comportamento
incoerente. Non sapevo decidere quella che mi piaceva di più e fui da tutte considerato una persona
poco affidabile. Alla fine persi tutte queste amicizie e sprofondai di nuovo nella depressione, anche
sotto l’effetto dello stress lavorativo. In quegli anni andavo spesso “in servizio” (a predicare
l’imminenza dell’Armagheddon) con Paolo Lupacchiotto, un simpatico ragazzo più grande di me di alcuni
anni. Mi confidai con lui: “sento il dovere di fare tante cose…ma non ne percepisco più la motivazione, mi
sento
davvero
esausto…non
so
più
il
perché
devo
fare
certe
cose…”
“Non dire così Ettore…sì che lo sai!”, si accorse che stavo cadendo in depressione.
Il giorno dopo mi svegliai esausto, andai lo stesso a lavorare ma i miei pensieri erano sempre più cupi.
Chiamai
la
dottoressa
Lupis,
il
medico
psichiatra
del
CSM
di
Bollate.
“Dottoressa, ho paura mi sento in pericolo!”, queste parole provenivano da uno dei bagni della Ainatac.
Mi rendevo conto che il male oscuro stava prendendo il sopravvento e la mia volontà e il mio
attaccamento alla vita stavano per soccombere. “Stai tranquillo Ettore, cerca di controllarti…vai dal tuo
capo e digli che non ti senti bene…te la senti di arrivare a Bollate?”
“Si, dottoressa penso di farcela…”
“Allora Ettore, vieni subito…ti aspetto…”
Telefonai anche ai miei genitori…non si aspettavano di trovarmi in quello stato e si spaventarono
tantissimo. Cercai di minimizzare, ma si vedeva che ero sconvolto. Dissi che salendo sul treno per
andare al lavoro provavo l’istinto di buttarmi sotto le rotaie con il treno in corsa…la dottoressa Lupis:
“Ma riesci a trovare una motivazione per questo pensiero?”
“No dottoressa, non riesco più a capirlo…”
“Cerca di controllarti Ettore, hai bisogno di un ricovero…imposteremo una cura contro la depressione in
un ambiente protetto…”
Venni ricoverato nel centro crisi di Bollate. Alla cura che prendevo di solito venne aggiunto un
antidepressivo, mi ripresi in fretta ma venni tenuto in osservazione per un mese.
Nel frattempo successero molte cose. In ospedale conobbi Maria Teresa, durante le uscite di permesso
conobbi Pamela. Non sapevo quale delle due mi piaceva di più. Era evidente che avessi una doppia
personalità. Maria Teresa era senza regole, Pamela era schiava delle sue regole di vita.
Mi innamorai di entrambe, ma cercai Pamela per rispettare le convinzioni dei miei genitori, Pamela era
una fervente testimone di Geova. Finché fui ospite del centro crisi, tuttavia, trattai Maria Teresa come
se fosse una fidanzata. Incominciai a parlarle durante una sua crisi di pianto. Capii che era solo un
pretesto per farsi consolare…perché smise subito di piangere. Mi ritrovai dopo due minuti tra le sue
braccia e mi baciò, poi scappò via nella sua stanza. La sera dopo cena venne a cercarmi, era solare…non
sembrava affatto depressa. Guardammo un film insieme, mi baciò di nuovo e mi chiese:
“Adesso cosa ti piacerebbe fare?” io esitai e subito dopo lei: “…ora ho sonno, ci vediamo domani…” Dopo
alcuni giorni, mi chiese se volevo fare l’amore con lei. Io avevo paura, ma cercai una scusa: “…non temi di
rimanere incinta?” “Ma dai Ettore, cosa dici?” La verità era che capivo che queste erano le sue abitudini
e
avevo
paura
di
contrarre
una
qualsiasi
malattia
sessualmente
trasmissibile.
Lei lo comprese e mi propose di usare i preservativi, io di nuovo esitai…mi sentivo in colpa nei confronti
di Geova. Un giorno mentre entrambi potevamo usufruire di alcune giornate di permesso mi chiese di
fare una passeggiata. Lungo la strada c’erano tre farmacie, ma non ci fermammo mai, io tiravo dritto e
lei mi seguiva. Era una persona simpatica, ma io avevo paura…e poi, pensavo che forse Pamela,
provenendo dal mio stesso ambiente doveva essere la persona giusta per me.
In quei giorni la mia depressione sembrava scomparsa come nebbia al sole. Ragionavo di nuovo in maniera
lucida e ponderavo le cose. Maria Teresa mi scrisse una lettera che diceva e non diceva, parlava in modo
vago e indiretto di “amore”. Io le dissi che potevamo essere solo amici e che avrei sposato Pamela.
“Ma se non la conosci per nulla?”
“Avrò tutto il tempo per conoscerla, sposerò Pamela”, le risposi.
Non ero più depresso, ma ero matto da legare. La storia con Pamela fu un tira e molla esasperante, ma
non mi ammalai per lei. Avevo rotto con Pamela da un mese, quando conobbi la ragazza che divenne mia
moglie. La mia amica Deborah mi consigliò di conoscerla: “…provaci perché è davvero una brava ragazza,
non lo dico solo perché è mia cugina…” Eravamo nel centro di Milano, passeggiavamo tra amici…Deborah
aveva un appuntamento con Ester, sua cugina. Io uscivo da un bar dopo aver usufruito dei servizi, e
salutai tutti presentandomi…mi presentai da solo a Ester, avevo uno sguardo allucinato…e lei pure…io
stavo pensando: “…chissà se mi piacerà…” come se tutto fosse già stato deciso. Deborah mi chiese come
mai ci avevo messo così tanto…e ridemmo tutti quanti. Davanti a una pizza e una birra, chiacchierai con
Ester e capii che l’avrei rivista. Venne in congregazione a Bollate, in seguito incominciammo a
frequentarci e l’anno dopo, il 19 Giugno 2004 ci sposammo nella sala del regno dei testimoni di Geova di
Bollate. Credevo che non ci saremmo mai lasciati. I primi due anni di matrimonio furono molto belli,
riuscimmo a risolvere alla grande molti spinosi problemi, sempre insieme, sempre decidendo solo io e lei.
Quando la Ainatac S.p.A. Chiuse i battenti ed ebbi difficoltà a trovare un nuovo lavoro, decidemmo da
soli, quasi contro il giudizio di tutti, di trasferirci sull’Isola di Pantelleria. Dopo un anno si trasferirono
con noi, andando ad abitare al piano di sotto i miei suoceri ed anche mio cognato, reduce dalla
separazione legale con la moglie. Il 14 luglio 2007 nacque mia figlia Ludovica. Ancora un anno tranquillo,
ma molte cose stavano cambiando. Secondo l’opinione di alcuni, potevo vivere senza psicofarmaci.
Addirittura il mio medico psichiatra, mi disse che potevo sostituire il neurolettico con uno
stabilizzatore dell’umore, ma per farlo dovevo seguire un lento e progressivo programma…riferendo
ogni cambiamento del mio comportamento. Dopo un anno e mezzo prendevo una dose di Zyprexa che lo
stesso psichiatra affermava non poter evitare un attacco psicotico. Il 15 Gennaio 2009 decisi
autonomamente di non prendere più alcun farmaco. Il mio comportamento cambiò notevolmente. Tono
dell’umore decisamente più alto, più sicuro, a volte un po’ arrogante…avevo il vizio di dare consigli a chi
non voleva ascoltarli. Incominciai a dimagrire. In due anni persi 15 kg, avevo un aspetto migliore. Tutto
questo a qualcuno non piaceva…fui accusato di desiderare una vita diversa da quella che avevo la
responsabilità di condurre. Se prima scrivere questo libro era un mio piacevole hobby ben visto da mia
moglie, poi incominciò ad essere considerato un ostacolo al nostro rapporto. Passavo tante ore davanti
al computer. Al mattino mi impegnavo molto nel mio lavoro come cantoniere comunale, questo mi faceva
scaricare molta tensione emotiva. Però io e Ester incominciammo a litigare per questioni caratteriali…
diceva che ero cambiato e che dovevo ricominciare ad assumere il neurolettico per tornare ad essere
quello che lei aveva conosciuto. Io le dissi di provare a prenderlo lei e dirmi poi se le piaceva.
Telefonò al dottore, gli disse che avevo abbandonato la terapia da cinque mesi di nascosto. Disse anche
che minacciavo di diventare violento. Lo considerai un tradimento morale, decisi di lasciarla. Quando
incontrai il medico, mi ordinò di riprendere la terapia minacciando di chiamare le forze dell’ordine per
eseguire un trattamento sanitario obbligatorio. Nel frattempo mi ero trasferito due piani sopra, con i
miei genitori che erano in vacanza. I miei notavano che dormivo sempre di meno e capirono che non
assumevo più i farmaci. Mia moglie andò dal medico di famiglia e mi fece scrivere venti giorni di mutua
perché secondo lei dovevo riposarmi. Il giorno dopo, scappai letteralmente di casa per andare a
lavorare. Ma erano 48 ore che non dormivo per la forte ansia che provavo e avevo incominciato ad avere
delle allucinazioni. Ero al computer, e scrivevo su una pagina web una richiesta di aiuto indirizzata ad
uno psicanalista conosciuto tramite facebook. Scrissi di aver avvertito la presenza di mio nonno Ettore,
e di altre strane “voci”. Questo fu usato contro di me. Ero per strada, con la divisa da cantoniere e le
scarpe antinfortunistica volevo percorrere a piedi i 5 km che mi separavano dal comune. Incontrai due
colleghe di lavoro, che si fermarono e mi accompagnarono in comune. Dissi a loro:
“La mia famiglia mi vuole ricoverare!”
“Ma stai parlando seriamente, Ettore? Quale sarebbe il motivo?”
“Il motivo principale è che non voglio essere più un testimone di Geova, con mia moglie non faccio altro
che litigare e non riesco più a dormire…ho avvertito la presenza di mio nonno stanotte…forse sono
matto davvero…”
La collega più anziana mi disse: “Io sento molto spesso la presenza di mia madre…nessuno vuole
ricoverarmi per questo!”
Arrivai in comune, parlai con il sindaco e con il responsabile della ragioneria…feci vedere la mia pagina
web e tutti incominciarono a preoccuparsi…intanto il medico psichiatra aveva omologato il TSO e
stavano arrivando le forze dell’ordine e un’ambulanza.
Il sindaco mi disse che secondo lui avevo bisogno sia delle medicine che di uno psicanalista, il quale mi
avrebbe aiutato a vivere con una dose minima di farmaci. Fui scortato dalla polizia municipale, fino al
reparto di psichiatria di un vicino ospedale. Il medico che mi visitò mi disse:
“Abbi
pazienza,
lo
so
che
non
servirebbe,
ma
ti
dobbiamo
legare…”
Ero steso sul lettino, a pancia in giù, con le mani legate dietro la schiena, quando scesi dall’ambulanza
però mi slegarono per umanità. Quando entrai in ospedale, il caposala comunicò al medico di guardia:
“…il paziente è apparentemente tranquillo…” e pensarono di poter aspettare un giorno prima di
pianificare
la
terapia.
Quando
arrivò
mia
moglie,
però,
le
dissi:
“Grazie di aver messo in dubbio la mia sanità di mente!” e volarono insulti, lei non parlava…stava zitta.
Così la sera mi fecero una puntura e mi ordinarono di coricarmi subito. Mi svegliai il giorno dopo, volevo
andare in bagno mentre scendevo caddi dal letto e pensai:“…non mi sento molto in forma…”
La terapia: 60 gocce di Haldol al giorno e 150 mg di deposito (puntura) una volta al mese.
Gli stati allucinatori peggiorarono, comunque dopo un mese fui dimesso. Una volta a casa nei giorni
incominciavo a perdere forza, mentre faceva effetto la puntura a rilascio prolungato.
Sprofondai nella depressione, ad ottobre dopo un altro ricovero senza soluzione e dopo che il mio
medico psichiatra mi disse che avrei passato più o meno altri quattro mesi in quello stato, tentai il
suicidio. Mio cugino Carlo aveva passato un’oretta con me e poi scese dai miei suoceri, dicendo che
sembravo abbastanza tranquillo. Quando chiuse la porta inserii la chiave ma dimenticai di dare il giro,
avevo ancora in casa due scatole di Zyprexa e ingerii quasi tutte le compresse. Poi, tre bicchieri di
Vodka. Mi adagiai sul letto mentre sotto erano tutti tranquilli, pensando che “…un viaggio ha senso solo
senza ritorno se non in volo…” Ester cercò di aprire la porta, inserì la sua chiave e dall’altro lato cadde
quella che avevo inserito io, entrò nel soggiorno e vide scatole di Zyprexa lanciate a destra e a sinistra,
sul tavolo un bicchiere con un fondino di Vodka e la bottiglia vuota…chiamarono subito il 118…
Salì mia suocera…mi prendeva a schiaffi per evitare che mi addormentassi: “Ettore…perché lo hai fatto!
Hai una bambina!” Poi i miei ricordi sono frammentari, un’infermiera mi inserisce il saturimetro…entro
nell’ambulanza e poi all’ospedale…lavanda gastrica…al reparto di psichiatria…mi sveglio dopo diverse ore
ancora più sedato… Mia moglie decide di portarmi a Milano dai miei genitori, dopo la degenza. Si fa
accompagnare da un amico, un infermiere diplomato. “Ti porterò a Milano, in aereo.”
“E sei poi mi viene una crisi di ansia?” “Non ti preoccupare Ettore! Ti diamo le gocce di Valium”
Prendevo il Valium da diversi mesi, e ormai mi procurava un leggero delirio.
Arrivai
a
casa
dei
miei
genitori,
dopo
cinque
minuti
mia
moglie
andò
via.
Ero sottoposto ad una terapia con Risperdal e Leponex. Avevo frequenti allucinazioni e non ricordavo
nemmeno il motivo per cui ero a Milano. Mia moglie non si fece sentire nella successiva settimana, fui io
a chiamarla per primo, dopo aver sostituito il Riperdal con l’Abilify, su ordine di un medico psichiatra di
Milano che mi prese in cura. Nel frattempo mia moglie affermava di volere la separazione. Poi fui
ricoverato nello stesso centro crisi in cui ero stato ospite nel 2001, dove avevo conosciuto Maria
Teresa. I medici sostituirono il Leponex con lo Zyprexa. Alla fine la terapia era Zyprexa 20 mg,
Depakin 500 mg e Abilify 10 mg. Le mie condizioni migliorarono. Mia moglie disse di aver cambiato idea
e di rivolermi a casa. Fui dimesso e tornai a casa. Dopo aver sentito dire che i miei genitori sono stati
sleali nascondendo le possibili conseguenze della mia malattia, decisi di separarmi senza tornare più
indietro nella mia decisione.
Capitolo 23
LE MIE DELUSIONI
“Ma che le fai a questa ragazza, Ettore?” mi disse Gisella in una delle serate passate in compagnia di
una squadra di almeno una ventina di ragazze e altri quattro ragazzi, rivolgendosi alla mia amica Elena.
Non mi sono mai spiegato come mai, ma fra i testimoni di Geova le donne sono sempre state molto più
numerose degli uomini. Fra le persone sposate, molte sono le “sorelle” con il marito “incredulo”, sono
pochi i “fratelli” con la moglie “incredula”. Anche fra gli adolescenti e i giovani c’era questa situazione
pesantemente sbilanciata. Di conseguenza, molte sorelle venivano “segnate” (provvedimento disciplinare
meno grave della disassociazione, dove non sono consentiti i contatti sociali diversi da quelli finalizzati
alla spiritualità, come la predicazione e la frequenza alle adunanze) per il fatto di aver frequentato
ragazzi “del mondo” (non testimoni di Geova). In quel periodo, l’amico che frequentavo più di frequente
era Basilio, figlio di Natale Lunatico. Natale era diventato testimone di Geova dopo aver studiato la
Bibbia con mio padre, nel 1982. Basilio aveva all’epoca (nel 2000) ventidue anni e io ne avevo ventisei.
Feci fatica in quel periodo ad entrare nel gruppo perchè Deborah Spoleto, una bella ragazza coetanea
di Basilio, decise di boicottarmi, in parole povere mi aveva cercato sospinta da una iniziale simpatia e poi
si era messa (quasi fidanzata) con Dario, un ragazzo poco più grande di me, pensando di evitare che la
mia presenza potesse in qualche modo nuocere alla loro amicizia. Poi si lasciarono, lui non era molto
convinto di questa unione e lo fece capire bene facendo il cascamorto con altre ragazze durante un
soggiorno estivo in Puglia, alla presenza della “quasi fidanzata” furibonda.
Elena era una ragazza Albanese, prima di venire in Italia abitava nella capitale Tirana. Il primo giorno
che la incontrai capii che sarebbe scoccata una scintilla fra noi due, forse non di amore ma sicuramente
di forte attrazione reciproca. La prima serata feci una gaff terribile: “Elena, in Albania ci sono i
semafori?” “Come sarebbe ci sono i semafori? Guarda che l’Albania non è mica il Terzo Mondo!!”
“Non volevo dire questo, scusa! Sai in Sicilia ci sono dei piccoli centri dove i semafori sono abbastanza
rari…”
“Beh, ti posso dire che a Tirana ci sono molti più semafori che a Bollate” sbottò Elena guardandomi in
cagnesco.
Dovevo recuperare. Comprendevo che dopo una battaglia persa, per vincere la guerra, può essere
indispensabile ritirarsi temporaneamente. Passarono un paio di settimane, Elena mi osservava da
lontano. Capivo di essere da lei studiato e per questo non mi comportavo secondo la mia natura. A volte
avrei voluto parlarle chiaro, dirle che mi piaceva e avrei voluto che fosse la mia fidanzata, ma la mia
posizione era troppo complicata per potermi esprimere in maniera semplice e libera. Non avevo un
lavoro, sentivo il dovere morale di avvicinarmi ad una donna solamente potendo mantenere una famiglia o
almeno contribuendo in maniera cospicua a questo proposito. Cercavo un lavoro ma la mia ultima crisi
psicotica era passata da poco tempo, non mi sentivo ancora in forma al 100%.
Gisella osservava le nostre mosse e a volte provava piacere nel fare la burattinaia.
Deborah Spoleto aveva conosciuto Dario per via dell’amicizia con Alessia e Michele Benso, due testimoni
di Geova (fratello e sorella) di Rozzano, la stessa città di Dario. Alessia dimostrò di avere una certa
simpatia per me e questo mi destabilizzò notevolmente. Non avendo ancora definito un rapporto serio
con nessuna, mi ritrovai a sentirmi incerto ed insicuro. Michele Benso mi diede del pazzo in almeno due
occasioni, ma poi avemmo un chiarimento e riuscimmo ad avere una migliore comprensione reciproca. La
ragione del suo dissenso è da ricercare in un fatto avvenuto nell’estate del 2000. Io ero partito
assieme a mio padre per la Sicilia, passai due mesi e mezzo sull’Isola di Pantelleria. Invece di godermi il
soggiorno in Sicilia, magari cercando di conoscere altre persone passavo il tempo a mandare SMS a
destra e sinistra tra le mie amicizie in Lombardia. I principali bersagli erano Gisella, Alessia ed Elena.
Ma non sapevo decidere, Gisella in fondo era rimasta nel mio cuore negli anni successivi al suo rifiuto,
Alessia era una persona molto intelligente ed istruita, Elena aveva il fascino ed il mistero delle donne
dell’Est Europeo…ed io un ero un grandissimo cretino che non sapeva quale donna lo avrebbe scelto.
Con Elena ci sentivamo spesso, non ci limitavamo agli SMS. In Agosto mi chiese di incontrarla.
“Ma io sono in Sicilia, adesso…come possiamo?”
“Vienimi a prendere, voglio passare un po’ di tempo con te…in questo momento sono sola!”
Non sapevo proprio che pesci prendere.
Ne parlai con mia madre, la quale andò su tutte le furie. A quel tempo non avevo ancora il diritto di
prendere decisioni importanti in maniera del tutto autonoma.
“Tu sei malato nel cervello! Ma chi è questa Elena, cosa sai di lei? E se ti stesse soltanto prendendo in
giro?”
Ora, dopo tanti anni, capisco a pieno le parole di alcuni miei amici: “…meglio una delusione che un
rimpianto…”
Nel frattempo ebbi una discussione con Alessia, sempre tramite SMS. Da alcuni giorni non si faceva più
sentire. Io ero da solo con mio padre, mia madre era ancora a Bollate per lavoro. Mia madre mi telefona
e mi dice che ha visto Alessia che si teneva per mano con un ragazzo alla assemblea di distretto dei
testimoni di Geova. Mia sorella sostenne in seguito che quella era semplicemente una allucinazione.
Sembrava una coincidenza perfetta…chiesi ad alessia di essere sincera e di dirmi perché non voleva più
sentirmi. Lei molto seccata mi disse: “Scusami! Non volevo che tu fraintendessi la mia amicizia!”
Così finì tutto. Una sera ci incontrammo in un disco pub, Alessia mi chiese di ballare insieme a lei,
dimostrando che la donna è un po’ più instabile emotivamente dell’uomo. Io rifiutai, dimostrando di
essere inutilmente orgoglioso e quindi un po’ cretino. Una volta tornato a Milano, il fratello di Alessia mi
diede del “pazzo” davanti a tutti i componenti del gruppo:
“Secondo te, uno che va a mille km di distanza e si innamora di una ragazza che abita qui durante il
viaggio può essere sana di mente?”
“Certamente no…ma cosa hai mangiato per fare delle battute così acide?”
La
discussione
finì
li,
io
non
lo
attaccai
ulteriormente…
Nel frattempo Elena mi chiese di uscire da solo con lei. Io rimasi sorpreso…sentivo che dovevo dirle
qualcosa, ma ero spaventato ed insicuro…il mio carattere non si era ancora formato.
Mi chiese di uscire una seconda volta…mi mise quasi in bocca quelle semplici parole…che io non
pronunciai mai… La settimana dopo eravamo in compagnia, un ragazzo a me sconosciuto di nome Davide,
del centro di Milano decise di offrire da bere e da mangiare ad Elena, lui se lo poteva permettere
perché lavorava come caporeparto di un supermercato da quindici anni e ne aveva le giuste motivazioni,
era un uomo molto più maturo di me…capii che la avevo persa, non la meritavo, ero ancora troppo
bambino.
Non feci nulla per impedirlo. Dopo quattro mesi uscii con Basilio per andare alla “fiera della cioccolata”.
A metà strada mi dicono che non si andava alla fiera ma a casa di Elena, perché pioveva.
Non
potevo
scendere
dalla
macchina,
sarebbe
stata
una
figura
troppo
magra.
Scoprii che Elena abitava in un alloggio di proprietà di Davide, dove avrebbero abitato dopo il
matrimonio. Davide prese in giro la mia inezia: “Mi dispiace per chi non è riuscito a combinare qualcosa
di serio nella vita!” guardandomi dritto negli occhi e scoppiando a ridere…Perché tanta cattiveria,
davvero non lo comprendevo. Mi fermai a riflettere: chi era rimasto intorno a me? Gisella, forse? Ci
pensai e ci pensai, ci pensai decisamente troppo…mentre ci pensavo mi chiamò un’ infermiera…
“…signor Schmitz, è l’ora della sua terapia…” ero di nuovo ricoverato, questa volta per depressione, non
ebbi allucinazioni, ma dovetti ricostruire un pezzo alla volta la mia vita.
Capitolo 24
DIRTY PAMELA
Dirty Pamela. Maledetto il giorno in cui ti ho incontrata. Avevo dieci anni quando ti conobbi, Pamela,
mentre tu ne avevi diciotto. Mi trattavi come una mammina premurosa, mai avrei pensato che un giorno
saresti stata la mia donna, mai avrei pensato che tra di noi ci sarebbe stata una passione tanto
travolgente quanto distruttiva. A volte penso che stare insieme a te sia stato inutile, a volte invece
penso che mi hai insegnato a vivere in un anno e mezzo, e poi mi hai lasciato libero di volare nel cielo
della vita, proprio come fa una madre…mai ho pensato di tornare da te, concepirei la cosa come un
incesto.
La nostra relazione pur restando platonica per via delle idee dei testimoni di Geova in fatto di sesso, fu
carica di passione e di tensione.
Quando avevi diciotto anni, ci incontrammo in Sicilia, sull’Isola di Pantelleria, in quella casa dove feci
tanto male a mio nonno Ettore con le mie inutili parole. Eri una bellissima ragazza, capelli corvini, bei
lineamenti…un
corpo
ben
fatto…ma
per
me
eri
grande,
irraggiungibile…
Nel carattere eri molto ostinata e ottenevi sempre le cose che desideravi. Ma avevi un difetto: se gli
altri ti sbarravano la strada facevi delle scenate plateali, cercavi di spaventare gli altri manifestando
un malessere ipocondriaco, un male oscuro non meglio definibile, e ti comportavi come farebbe una
bambina.
Quando ti incontrai di nuovo io avevo ventisette anni e te ne avevi trentacinque. Avevi conosciuto in
modo
superficiale
molti
uomini,
ma
non
ti
eri
mai
fidanzata
ufficialmente.
Io ero ricoverato in un ospedale per una depressione nell’Aprile del 2001. Potevo uscire per un paio
d’ore al giorno perché mi stavo riprendendo abbastanza bene. E così, per le vie di Bollate, spesso
incontravo te, Pamela, mentre eri “in servizio”. Eri una “pioniera regolare” da diciassette anni e sognavi
di sposare un uomo che un giorno diventasse molto importante fra i testimoni di Geova, una persona
dotata di intelligenza e fortemente motivata. Ti accorsi di me e scrivevi di me nel tuo diario da mesi. Io
inizialmente non capii nulla. Poi quando uscii dall’ospedale realizzai che qualcosa era cambiato.
Tu abitavi al Sud dell’Italia ed eri venuta in Lombardia per alcuni mesi a trovare zii e cugini. Questi
mesi furono sufficienti a far scoccare la scintilla d’amore tra noi due. Un giorno ti incontrai nel parco
pubblico di Bollate, e mi dicesti che ti saresti trasferita al Nord per un unico motivo. Io pensavo che ti
riferissi ad un eventuale matrimonio. Compresi che mi stessi dando carta bianca e che dovevo
incominciare a scrivere e ad agire nel concreto.
Nella primavera del 2001 soffrii molto per via dell’allergia alle graminacee. Ebbi una crisi di asma
durante un’adunanza dei testimoni di Geova, e tutti credettero che fosse un crollo emotivo. Chiesi le
chiavi di casa a mia madre e andai via con la mia Ford Fiesta blu, verso casa. Mentre salivo in macchina
Massimo Scordamaglia, il sorvegliante della congregazione che prendeva la direttiva si avvicinò a me e
mi disse:
“Ettore, ricordati che qui tutti ti vogliamo molto bene!”
“Lo so, Massimo.” risposi.
Un altro anziano mi seguì fino a casa per assicurarsi che non stavo per fare una sciocchezza. Scesi dalla
mia auto e lui mi chiamò:
“Ettore! Come stai? Prenditi una camomilla…”
“Ma io sono calmo” gli dissi.
Quando mia madre rincasò, non mi trovò e si spaventò a morte. Poi trovò un biglietto sul tavolo del
tinello: “Ho chiamato il 118, non riuscivo a respirare. Appena so in quale ospedale mi portano ti chiamo
per dirtelo.”
In ospedale mi fecero una puntura di cortisone per liberare le vie respiratorie che erano quasi occluse.
Ma non sapevano e nemmeno io sapevo di essere allergico anche al cortisone.
Ebbi una crisi ipertensiva. Il medico del pronto soccorso mi chiese come mi sentivo, io dissi:
“Mi sento leggero, mi sembra di sollevarmi da terra”.
Il dottore mi controllò la pressione e mi disse di rilassarmi. Poi prese il telefono nella stanza accanto,
parlava a bassa voce ma io origliavo:
“Sono in difficoltà, scendi per favore, ho un ragazzo di 27 anni con 120 di minima e 160 di massima e
continua a salire, ho paura di perderlo…”
In quel momento ebbi paura.
Arrivò un altro medico, mi fecero un’altra puntura e mi sentii meglio. Dopo tre ore rincasai, mio cognato
Fester mi riportò a casa. Era convinto che mi avessero dato dei calmanti, gli parlai del Bentelan
(cortisone) ma lui continuò a credere in un mio crollo emotivo.
Il giorno dopo mi telefonasti a casa. Era la prima volta che ti interessavi direttamente a me e me lo
dimostravi.
“Ettore, cosa ti è successo? Come stai?”
Ti descrissi il mio problema di allergia.
“Un po’ d’ansia c’è stata e c’è tuttora…” le dissi.
Tu reagisti d’impulso, eri molto sensibile ai disturbi emotivi perché anche tu eri sofferente, tagliasti
corto e mi congedasti. Ti invitai ad uscire in servizio con me. Parlammo di tante cose. Mi resi conto che
eravamo molto simili nel carattere, non capii invece che avevamo obiettivi molto diversi da raggiungere
e che questi un giorno ci avrebbero diviso. Tornasti a casa al Sud. Mi telefonasti un paio di volte, mi
dicesti che noi due “dobbiamo rompere il ghiaccio”. Ti piacevo, ma mi confrontavi con altre persone,
capivo questo di te ma volevo far finta che non fosse vero.Ti scrissi una lettera in cui ti dicevo che
volevo capire se potevamo passare insieme il resto della nostra vita. Mi dicesti che ci dovevi pensare.
Ci
incontrammo
di
nuovo
sull’Isola
di
Pantelleria.Incominciammo
a
frequentarci.
Quasi dall’inizio incominciammo a litigare sul posto dove andare a vivere da sposati. Tu a Milano non
volevi più venire e non mi dicesti mai il vero motivo. Volevi fare carriera come pioniera e volevi che io
diventassi come minimo un anziano di congregazione. Compresi che questa vita non mi apparteneva.
Litigavamo e il tuo malessere si faceva più acuto.Ti accompagnai a fare degli esami, da vari medici. Ti
raccomandarono di consultare uno psichiatra e ti consigliarono di troncare la nostra relazione.
A fine dicembre 2002 ci lasciammo definitivamente.I tuoi parenti mi consigliarono di insistere per farti
trasferire a Milano e che dovevo dimostrare più forza di carattere, altrimenti sarei sempre stato
dominato da te, Pamela. Ma ero ancora troppo “acerbo”, non ce la facevo proprio.
Minacciasti di lasciarmi e io compresi che non mi amavi. Ti dissi “va bene, lasciamoci”.
Tu tornasti su tuoi passi, ma capii che non avremmo smesso mai di litigare. Non volli tornare con te
Pamela.
Cara Pamela, pensò che tra te e me probabilmente le cose avrebbero funzionato se le nostre vite non
fossero state influenzate dalla religione. Mi sono sposato e dopo sei anni il mio matrimonio è finito.
Volevo dirti che ho conosciuto una donna che mi sta regalando delle emozioni estremamente intense,
che credo di avere trovato soltanto ora il vero amore, il mio più grande amore. Ha dei grandi sogni da
realizzare e mi sta incoraggiando a rincorrere i miei, insieme a lei, per sempre. La amo davvero e fra
due settimane la incontrerò, farò di tutto per conquistarle il cuore. Spero che oggi tu, Pamela, sia felice
almeno quanto lo sono io.
Capitolo 25
I miei amici Deborah e Daniele
“Hai avuto una vita molto intensa, Ettore. Potresti scrivere un libro!” mi disse Deborah. “Chissà, forse
un giorno lo farò…” le risposi. Eravamo davanti al bar della palestra denominata “Pianeta Benessere” di
Bollate.
Deborah e il suo fidanzato Daniele apprezzavano la mia compagnia e mi aiutarono a superare il momento
in cui lasciai Pamela. Devo dire che grazie a questi due ragazzi evitai di soffrire inutilmente la
solitudine.
Daniele e Deborah si erano conosciuti nel Gennaio 2002, esattamente un anno prima della mia rottura
con Pamela. Io la chiamavo scherzosamente “Birba”, perché mi ricordava la pestifera gatta di
Gargamella. Fu una cara amica per me. Nella primavera del 2002 mi confidai con lei del fatto che di li a
poco, precisamente l’ottavo giorno di Maggio, mi sarei fidanzato ufficialmente con Pamela. Mi chiese se
l’avevo mai tradita.
”…no, mai…” risposi.
A novembre del 2002 mi trasferii temporaneamente a casa di Pamela, per cercare casa e lavoro nella
sua città. Mio papà era furibondo per questo. Avevo chiesto alla Ainatac due mesi di aspettativa, ma in
ogni caso per accontentare Pamela stavo lasciando un lavoro fisso per andare allo sbaraglio. Nel
soggiorno con Pamela mi resi conto che era impossibile starle accanto senza litigare, nel momento in cui
lei arrivò alle minacce decisi di lasciarla. Ritornai al mio lavoro come sistemista informatico, alla
Ainatac. E trovai Deborah e Daniele come amici. Raccontai la storia del mio fidanzamento a Deborah, fu
una delle poche persone ad ascoltarmi con pazienza e lo stesso fece più volte Daniele.
Daniele era un testimone di Geova, Deborah non lo era ma stava studiando la Bibbia con i testimoni.
Daniele fu ripreso più volte dagli anziani perché stava frequentando una non testimone.
Era molto testardo, voleva sposarla a tutti i costi…entrambi avevano poco più di vent’anni.
Vissi
insieme
a
loro
questa
vicenda
personale
e
soffrii
con
loro.
Ricordo un pomeriggio in primavera, eravamo soli in macchina…io e Deborah, lei mi disse: “…vorrei che
Daniele avesse un altro tipo di carattere…” eravamo carichi di tensione, le dissi subito: “…ti
riaccompagno a casa…”
Deborah era davvero una bella ragazza, ma le volevo bene come una sorella…ciò che contava di più era
che volevo bene anche a Daniele, come un fratello. Daniele aveva ereditato dalle sue origini siciliane la
forte gelosia. Devo dire morbosa gelosia. Un giovane ragazzo di nome Alessandro si mostrava molto
gentile con Deborah e pretendeva di salutarla con un bacio sulla guancia. Era un ragazzino sensibile e
delicato. Daniele era furioso e lo accusò di essere omosessuale. Daniele aveva molti pregiudizi nei
confronti degli omosessuali. Io più volte cercai di calmarlo…notai con piacere che da me accettava i
consigli e le critiche. Eravamo diventati davvero amici. Una sera in pieno inverno dimenticai di portare il
costume da bagno per entrare nella sauna, lo dissi a Deborah…la sua contro risposta davvero non era da
me aspettata. “…beh, puoi restare con le mutande…se non ti togli l’accappatoio non se ne accorgerà
nessuno…stasera ci siamo solo tu ed io…” altro che tensione, sembravo una corda di violino che sta per
esplodere. Quel giorno imparai cosa vuol dire avere un amico vero, come per me è stato ed è tuttora
Daniele…un amico di cui mai mi sarei approfittato, della sua incondizionata fiducia, un amico per cui
portavo rispetto tanto da non cercare mai di portare via quello che era suo e solo suo.
“Ettore…non credi che se entriamo insieme nella sala del regno dei testimoni di Geova tutti penseranno
che ci stiamo frequentando?”
…ed io: “…non credo proprio, tutti sanno che il tuo ragazzo è Daniele!”
“…certo, hai ragione…” disse Deborah.
Nella vita ho affrontato diverse prove di forza. Per alcuni sono stato molto debole, per altri molto
forte…per molti semplicemente “pazzo”!.
Ma io non mi pento quasi di nulla di quello che ho fatto. L’unico fatto di cui davvero mi pento ha a che
fare con Maria Teresa, la ragazza che conobbi nel centro crisi di Bollate. Non la vidi mai più, non so più
nulla
di
lei,
mi
chiedo
se
sia
ancora
viva
e
se
le
ho
fatto
del
male.
Di recente ho trovato un account su facebook con nome e cognome identici ai suoi, ma non so se si
tratta di lei.Se un giorno dovesse leggermi le auguro di essere felice almeno quanto oggi lo sono io, ed
anche molto di più.
Era l’inizio Agosto del 2003. Fu fatto l’annuncio che Deborah era una “proclamatrice non battezzata”
della congregazione cristiana dei testimoni di Geova di Bollate. Con questo, s’intendeva che era
autorizzata ad accompagnare i testimoni battezzati nel predicare l’imminenza dell’Armageddon. Quando
fu fatto l’annuncio, quasi nessuno dei testimoni era presente, molti erano in villeggiatura. A settembre,
mentre tutti erano presenti fu fatto l’annuncio che Daniele era stato disassociato (scomunicato) e
Deborah non era più una proclamatrice. Questo voleva dire che Deborah era da considerarsi una
“persona del mondo”, mentre a Daniele non andava più rivolto il saluto. Soffrii molto per la mancanza di
Daniele. Dopo essermi dissociato, ho ritrovato molti amici che avevo perso per vicende simili a queste,
Daniele è stato uno di questi.
Nel frattempo Deborah mi presentò quella che divenne mia moglie. Nacque subito una forte attrazione
fra di noi…mi attirava la sua semplicità…dal momento che avevo avuto a che fare con persone
estremamente complesse. Purtroppo, ci rendemmo conto dopo molti anni di avere sogni e aspirazioni che
viaggiavano su diversi binari. L’amore fra noi due finì, oggi però le voglio bene come una sorella.
Io ed Ester ci sposammo nel 19 Giugno 2004. La lasciai definitivamente e con convinzione nel 5 Aprile
2010, dopo un anno di vicende estremamente dolorose che misero a dura prova persino la mia salute,
fino al punto di
rendere necessario il mio
ritorno
alla terapia farmacologica.
Deborah e Daniele si sposarono nell’Agosto 2005. Dopo il viaggio di nozze alle Maldive, scesi dall’aereo
si
rivolsero
subito
agli
avvocati
per
una
causa
di
separazione.
Daniele si chiese più volte il vero motivo per cui Deborah lo sposò. Deborah aveva le idee chiare solo sui
motivi
per
cui
lo
lasciò,
sul
resto
desiderava
sorvolare.
Oggi penso che il matrimonio sia solo per le persone davvero mature…credo che questo a vent’anni sia
davvero poco probabile.
Capitolo 26
IL MIO MATRIMONIO
Era una sera del Febbraio 2003, quando incontrai per la prima volta quella che sarebbe in seguito
diventata mia moglie, circa un anno e mezzo dopo. Mi chiedevo tra me e me: “Mi piace oppure no?”…c’era
qualcosa che mi sfuggiva, forse dovevo provare a conoscerla, senza dare troppo nell’occhio. Ma lei capì
subito che la stavo osservando da vicino, non dico che fosse infastidita dalla cosa, ma anche lei mi stava
analizzando con un certo sospetto e, a tratti, con indecisione.
Ester era una bella ragazza di circa venti tre anni, quando la conobbi. Eravamo in compagnia con Daniele
e Deborah, più altri amici miei e suoi. Ci recammo quella sera a Stresa, sulle rive del lago…in una
gelateria.
Io
ero
seduto
dirimpetto
a
Ester
e
si
chiacchierava.
Decisi di fare una prova…per capire l’atteggiamento di Ester a livello emotivo nei miei riguardi.
Si parlava delle nostre esperienze lavorative…arrivammo a parlare degli stipendi e mi espressi in questo
modo: “…mio padre si lamenta del fatto che prendo pochi soldi…” ed Ester disse subito: “perché quanto
prendi?” ed io “…circa due milioni e tre cento mila lire al mese…” Ester era indignata: “…e questo
sarebbe poco? Ma cosa pretende tuo padre da te? Dovrebbe vedere il mio stipendio!”
Capii che era schierata a mio favore. Un buon inizio. Passarono alcune settimane, non la vidi ma la pensai
molto. Ester aveva un carattere semplice, una dote che ormai, purtroppo, poche ragazze possiedono…
specialmente se sono single dopo una certa età. Ci incontrammo quasi per caso in una zona industriale…
circa un mese dopo, da come mi guardava capii che anche lei mi aveva spesso pensato, che non ero
passato inosservato. Mi disse: “…ci incontreremo altre volte…” ed io lo speravo davvero.
Dopo alcune settimane, ci incontrammo in una birreria…fu Deborah, la mia amica, nonché cugina di
Ester, a combinare l’incontro. Ero seduto lontano da Ester e poco comunicativo. La osservavo da lontano.
Pensai: “…per capire se la cosa funziona, devo incontrarla non dico solo ma senza tutta questa
baraonda…”
Nella
primavera…ci
organizzammo
per
andare
al
mare
in
Liguria.
Nella prima occasione le “tirai il pacco”, non mi presentai e avvertii all’ultimo momento Deborah e
Daniele.
Mi
dissero
che
Ester
fece
più
o
meno
la
stessa
cosa.
Poi una seconda occasione. Fummo tutti presenti: Daniele e Deborah, Ettore ed Ester.
Eravamo in Liguria, ad Alassio.La sera ci fermammo in una pizzeria. Daniele regalò un fiore a Deborah, e
io feci lo stesso con Ester. Fu contenta del gesto. Quando la madre di Ester…Teresa…vide il fiore,
decise di accompagnare la figlia in alcune occasioni mentre usciva con me per vedere che tipo di persona
le si stava interessando. Teresa ebbe una buona impressione…questo dissipò i dubbi e le incertezze di
Ester, ci parlammo in modo schietto e decidemmo di fidanzarci ufficialmente di li a poco tempo.
Parlai a Ester della mia malattia, ma non fui capito…alcuni aspetti del mio male furono giudicati come “…
spiritismo…qualcuno ti ha fatto qualcosa…” a causa di un certo retaggio culturale e delle credenze dei
testimoni di Geova, religione che tutta la famiglia di Ester praticava con convinzione.
Durante il fidanzamento passammo dei momenti felici. E furono felici anche i primi tre anni di
matrimonio. Ciononostante, la terapia farmacologica che assumevo era sbilanciata e mi causava dei
problemi…per evitare l’euforia e le allucinazioni, a quel tempo assumevo 10 mg di Zyprexa al giorno, e
niente altro. Soffrivo di una leggera depressione cronica, una volta alla settimana, quasi con regolarità,
passavo una giornata in mutua. A casa, al buio…mi dava fastidio la luce…era spenta anche la mia forza di
volontà, poi il giorno dopo ripartivo. Tutto questo mandava in crisi mia moglie. Avevo un carattere
mansueto e accomodante, purtroppo però non aiutavo mia moglie nelle faccende di casa, ogni tanto
Ester si sentiva oberata dalla responsabilità e me lo faceva capire chiaro e tondo.
“Ettore! Uno di questi giorni mi porteranno via in barella!”…spesso mi ripeteva questa frase…
fisicamente non avevo forza, cercavo di avercela per lo meno a livello emotivo, pensando: “…fra poco le
passerà…”
Passano i primi due anni di matrimonio. Dalla Ainatac S.p.A una pessima notizia: l’azienda, che aveva
maturato 145 anni di storia, decide di chiudere i battenti liquidando tutti i creditori, per evitare il
fallimento. Ad ogni modo rimasi senza lavoro. Trovai lavoro in un call center di una grossa banca, un
contratto di quattro mesi. Si lavorava otto ore al giorno con il computer e il telefono che non dava mai
tregua…alla fine del contratto ero esaurito. Durante i colloqui non ero più razionale, dicevo cose che
andavano contro i miei interessi. Mi resi conto che per salvarmi dovevo prendere una decisione forte.
Il mio medico psichiatra decise di aggiungere alla mia terapia il Depakin, dicendo che mi avrebbe aiutato
a superare i momenti di estrema ansia. Il giorno stesso che incominciai ad assumere questo farmaco mi
sentii meglio, non se era solo placebo o qualcosa d’altro a farmi star bene.
Con una migliore stabilità emotiva, d’accordo con mia moglie, presi una decisione coraggiosa: andare a
vivere in Sicilia, sull’Isola di Pantelleria. E grazie a questa decisione, la mia stabilità emotiva si consolidò
ulteriormente, perché avevo un importante obiettivo per cui lavorare e da raggiungere. Nel frattempo
contattai mio cugino Ciccio, che è titolare di una scuola privata per il recupero degli anni scolastici delle
scuole
superiori.
Con
mia
grande
gioia,
mi
disse
che
poteva
farmi
lavorare.
Dopo un paio di mesi, purtroppo, ci furono dei contrasti tra di noi a causa di alcune mie assenze per
visite mediche. In più, non eravamo d’accordo sullo stipendio. Rinunciai ad un lavoro che mi piaceva
svolgere, questo fu un errore che mi costò caro. Ottenni la pensione d’invalidità, ma la mia salute
peggiorò notevolmente. Le giornate di depressione non erano più sporadiche, erano diventate la norma.
La situazione tuttavia era stabile ed Ester si adattò. Ester era incinta della piccola Ludovica ed io la
seguii molto, la accompagnai ogni volta al corso di preparazione al parto. Per un lungo periodo di tempo
non lavorai. Alla nascita di mia figlia mi resi conto di avere un’importante ragione per vivere, mi dedicai
al benessere della piccola Ludovica. Quando la piccola aveva un mese, mio cognato Robert si trasferì con
noi in Sicilia, in un alloggio di nostra proprietà. Tentò di svolgere un lavoro di rappresentanza, senza
successo e questo gli causò dei problemi economici, ma unimmo le nostre forze e superammo tutto. Un
anno più tardi i miei suoceri, Teresa e Salvatore, si trasferirono a loro volta in Sicilia, in un altro
alloggio di nostra proprietà. Eravamo tutti vicini di casa, una famiglia allargata, una realtà a cui io non
ero preparato e per cui soffrii. Loro non soffrivano, perché erano genitori e figli, membri della stessa
famiglia d’origine, per me le cose erano diverse, avevo bisogno dei miei spazi e non ce li avevo più, si
stava sgretolando la privacy tra me e mia moglie ed il fatto che lei percepisse la cosa in un modo
completamente diverso dal mio ci divideva. Nel frattempo il mio psichiatra mi comunicò la sua
convinzione di potermi fare andare avanti senza psicofarmaci. Incominciò con l’eliminare il depakin, poi
ridurre progressivamente lo zyprexa. Poi cambiò idea e decise di aggiungere il lamictal e lasciarlo per un
certo periodo. La cosa mi indispose e decisi di non prendere il lamictal. Rimasi senza farmaci per diversi
mesi e lui non si accorse di nulla, lo ingannai. A casa però le cose non andavano per niente bene. Litigavo
con mia moglie e mia suocera. Per questo volevano che riprendessi lo zyprexa, perché stessi buono e
lasciassi che fossero loro a comandare, per questo facevo fatica a dormire la notte e sempre per
questo persi di nuovo la salute. Mia moglie decise di telefonare allo psichiatra e gli comunicò che ero
senza farmaci da mesi, su consiglio dei miei familiari più stretti. Allo psichiatra fu riferito che
rischiavo di essere violento, cosa mai avvenuta. Il medico era furibondo con me per il fatto, che doveva
imputare
solo
a
se
stesso,
di
non
aver
capito
che
ero
senza
farmaci.
“Se
non
la
smetti
subito
ti
convalido
un
trattamento
sanitario
obbligatorio!”
Mi chiesi: “…se non la smetti di fare che cosa? …”, ero così tranquillo seduto su quella sedia mentre
ricevevo
insulti
e
minacce.
“Questo
atteggiamento!
Non
lo
posso
sopportare!”
Un po’ mi accusava di essere gravemente malato, un po’ dell’esatto contrario…un impostore che
prendeva la pensione senza averne diritto…insomma cercava di causarmi l’attacco psicotico.
“Non mi interessa la tua amicizia! Non mi interessa che tu sia felice o che tu stia bene! Voglio solo che
tu assuma la mia terapia, hai capito?” Mi prescrisse 7,5 mg di zyprexa al giorno. Vista la mia totale
calma mi salutò cordialmente, se fossero venute le forze dell’ordine forse avrebbero portato via lui.
Ma la mia calma durò poco. A casa dovetti fare i conti con i miei familiari che erano venuti in ferie.
Soltanto mio padre capiva i miei ragionamenti, ma sembra che anche lui sia un po’ pazzoide…almeno così
dice la gente. Incominciai a dormire sempre di meno e per questo mia moglie si preoccupava sempre di
più, quando mi incontrava alle cinque del mattino ed ero già davanti al computer si arrabbiava molto.
E io mi sentivo sempre più soffocato. Ma c’era dell’altro che mi faceva perdere il sonno.
Da quando nacque mia figlia Ludovica, avevo incominciato a riflettere sul comando dettato dal Corpo
Direttivo dei testimoni di Geova di astenersi dalle trasfusioni di sangue. Avendo una figlia e analizzando
le motivazioni in gioco capii che per me questa dottrina era inammissibile. Col tempo feci delle lunghe
riflessioni, di cui questo libro che sto ora scrivendo fu un potente generatore.
Uno dei pilastri: l’atteggiamento dei testimoni di Geova in merito all’Istruzione Universitaria,
quell’atteggiamento che ha distrutto i miei anni che potevano essere i più belli e spensierati facendoli
sprofondare per sempre nelle crisi di ansia e negli attacchi di panico, senza ricorrere ad uno psicologo
perché “…la psicoanalisi si avvicina pericolosamente allo spiritismo…”, così si ostina a dire ancora mio
padre, per ignoranza. Un po’ per volta mi ritrovai ad essere un finto testimone di Geova. Mentre andavo
a “predicare” ero più interessato a sentire quello che la gente aveva da dirmi. Quando incontravo una
persona di cultura intraprendevo delle conversazioni che per me erano appassionanti. Puntualmente il
mio compagno mi chiedeva come mai perdessi tanto tempo con chi era “irrecuperabile”.
Ero molto forte emotivamente, ciononostante non avevo il coraggio di parlare apertamente delle mie
convinzioni perché volevo garantire una vita tranquilla a mia figlia e sapevo che i miei familiari non
avrebbero mai cambiato idea in merito alla religione.
Intanto continuavo a dormire sempre di meno…lasciai per la prima volta la casa di mia moglie per
occupare l’alloggio dove mio padre e mia madre trascorrevano le vacanze. Incominciai a litigare con loro,
che
volevano
che
tornassi
con
mia
moglie,
questo
non
lo
avevo
previsto.
Passai quarantotto ore senza dormire…chiesi aiuto ad uno psicoanalista tramite facebook che
ovviamente non poteva fare niente per me. Intanto i miei familiari riescono a convalidare il mio
trattamento sanitario obbligatorio. Il sindaco, per cui avevo lavorato per un anno mi parlò per
convincermi che era la cosa migliore…mi disse che avrei avuto un’assistenza psicologica, cosa che non
avvenne affatto. Quella notte erano successe delle cose molto strane…forse solo nella mia testa…
Sentii la voce di mio nonno che era venuta a consolarmi, per documentare il fatto scrissi un documento
di trenta pagine che pubblicai sul mio sito web e poi fui convinto, sotto sedativi, a cancellarlo…sentii un
cane che si avvicinava alla mia finestra, abbaiava mentre la sua voce pian piano si faceva simile a quella
di un uomo che chiamava a gran voce…”Gesù! Gesù!”, che cosa voleva dire tutto questo? Forse era solo il
mio cervello completamente privo di melatonina che non voleva più dormire e sognava per non
dissolversi? Forse non lo capirò mai… Descrissi la fede cristiana come una cosa tanto probabile quanto
l’esistenza degli dei sul monte Olimpo, questo fu considerato un grave peccato, ma mi fu mostrata
misericordia perché “avevo un grave disturbo psichico”. Tornai a casa con una diagnosi: “Schizofrenia
paranoide”. E una cura: 60 gocce di Haldol al giorno, nulla per proteggermi dalla depressione.
Quando il mio medico psichiatra mi disse che avrei impiegato quattro mesi per riprendermi capii che
non ce l’avrei fatta. Una scatola intera di zyprexa e un bicchiere di vodka per dormire per sempre, quel
sonno che avevo perso da tanto tempo, mi mancava. Chiamarono il 118, subito con la lavanda gastrica. Ho
ricordi frammentari. Tornato all’ospedale, venni trattato con clozapina e risperidone, un’altra terapia
completamente sbagliata che mi causava allucinazioni. Fui portato a Milano in aereo da mia moglie, a
casa dei miei genitori. Dopo cinque minuti se ne andò via, per almeno una settimana non ci sentimmo. Mia
moglie disse di non voler più soffrire per causa mia, i fratelli della congregazione cercarono di farle
cambiare idea, le dissero che mi sarei ripreso, che sarei ritornato quello che ero.
Mia sorella mi fece conoscere a Milano un ottimo psichiatra. Nel giro di poco tempo fu impostata la
terapia che oggi assumo. Ripresi in mano la mia vita, Ester decise di cambiare idea perché Ettore era
ritornato dentro se stesso. Ma non si rendeva conto che quello che faceva era dovuto principalmente
alla piccola Ludovica. Restava dentro di me la sensazione di essere un finto testimone di Geova, di
vivere una vita finta e per questo senza senso. Ma non era abbastanza per prendere una decisione
drastica, ci voleva dell’altro, che purtroppo avvenne. Mio suocero Salvatore telefonò a mio padre e gli
disse che la mia famiglia era stata scorretta non informandolo dei rischi che poteva comportare la mia
malattia, che se avesse saputo tutto non mi avrebbe dato in moglie sua figlia. Si poteva anche
perdonare questa sparata, visto che anche lui è malato (disturbo bipolare) ed era ricoverato in quel
momento. La cosa imperdonabile era però dovuta al fatto che questo pensiero era stato oggetto di
conversazione di tutta la loro famiglia, con generale convinzione. Non fu difficile capirlo, mi fu riferito
tutto, chiesi spiegazione a mia moglie che disse che suo padre aveva ragione. Passai un mese senza
tornare su quell’argomento, poi mia moglie espresse di nuovo lo stesso pensiero. Ma non era ancora
abbastanza. Mia moglie si rendeva conto che non credevo più a certi insegnamenti dei testimoni di
Geova. “Se cambi idea…non me la sento più di andare avanti!” I tempi erano maturi. Il vero Ettore
doveva
saltare
fuori,
per
non
fare
di
nuovo
guerra
a
se
stesso.
Ester mi sorprese mentre esternavo per telefono la mia insoddisfazione a mia madre. Le dissi tutto
quello che volevo fare. Ci trovavamo a casa di suo fratello Robert, trasferitosi in un’altra città per
“servire dove c’era più bisogno”, come “anziano” e “pioniere regolare”. Al ritorno, fui subito visitato da
due anziani della congregazione, che dopo avermi ascoltato mi dissero: “ce ne possiamo anche andare”.
Ma a mente fredda tornarono più volte, per cercare di “recuperarmi”. Non ci riuscirono. Fecero
l’annuncio della mia dissociazione, in base alle cose che scrivevo su Internet.
Oggi la mia vita è fatta di lavoro e volontariato, nella Protezione Civile. Vedo mia figlia una volta alla
settimana e la mantengo.
“Papà, ma perché non vuoi più bene alla mamma? Perché non rimani a mangiare con noi?”
Cuore mio…un giorno lo capirai!
Capitolo 27
ARTE DI VIVERE CONTRO FILOSOFIA
Arte di vivere contro filosofia. Non è una guerra; non è una battaglia. Non c’è un vincitore, non c’è un
perdente. Ci sono due perdenti e vince una nuova entità, che dà vita ad un nuovo essere. Quando si
affronta la psicoanalisi, qualcosa di noi muore e qualcosa di nuovo nasce , quasi ad anticipare nella vita
attuale, senza morire fisicamente, il ciclo delle rinascite e la reincarnazione. Non è una nuova persona
nella sua interezza che entra dentro di noi, ma parte di quella forza che tiene in piedi l’intero universo,
che ricostruisce con una nuova forma ciò che è andato distrutto per sempre nell’edificio della nostra
anima.
Questo e gli ultimi capitoli di questo libro vogliono spiegare come, nel viaggio della psicoanalisi, quattro
coppie di entità astratte si siano scontrate dentro di me lasciando il posto a quattro entità che sono il
frutto di una intensa e sofferta rielaborazione.
“La filosofia è quella cosa con la quale e per la quale tu rimani tale e quale”.
Con questa incredibile banalizzazione, ricordo un “sorvegliante di circoscrizione” dei testimoni di Geova
in occasione di un importante discorso facente parte di una delle periodiche assemblee.
Mio
padre
commentò
così
le
parole
di
questo
sorvegliante:
“…mi ricordo un proverbio siciliano: sono partito da Palermo e sono arrivato a Monreale, sono partito
porco e sono arrivato maiale…” e mio padre rideva. Anche io ridevo. Ma non ridevo della filosofia e
nemmeno dei filosofi, questo lui non lo sapeva. Migliaia di anni di storia e di cultura, perché screditare
tutto
questo?
I testimoni di Geova indicano una ragione scritturale, citando le parole di un’epistola di San Paolo, il
quale definì la filosofia “un vuoto inganno”. Le parole di San Paolo vanno rispettate, come dottore della
legge ebraica e come intellettuale sapeva bene cosa fosse la filosofia. Purtroppo però, queste parole
sono state troppo spesso usate in maniera impropria, per esaltare uno dei tanti credi e impedire il
confronto con altri modi di pensare e vedere le cose e per togliere la possibilità di formulare delle idee
antitetiche
a
quelle
del
Corpo
Direttivo
dei
testimoni
di
Geova.
La filosofia è un metodo per mettersi in viaggio, niente è più lontano della filosofia da un punto di
arrivo.
E’ uno strumento per imparare a porsi delle domande e poi cercare delle risposte, sapendo però che
queste non potranno far altro che generare ulteriori domande, stando bene attenti a non logorarsi in
una attività che se presa con razionalità ed equilibrio può dare indicibili soddisfazioni ma se affrontata
senza equilibrio può uccidere sia l’anima che il corpo.
La filosofia è la ricerca della verità, l’arte di vivere è la coerente applicazione della “personale verità”
nella vita di tutti i giorni. Tutti siamo filosofi e tutti siamo artisti. Pochi se ne rendono conto
pienamente.
Io personalmente non credo più nella necessità di una salvezza eterna. Penso semplicemente che questa
mattina sono stato “salvo”, perché mi sono alzato dal letto e ho avuto voglia di fare tante cose. Se fossi
rimasto nel letto a rimuginare i problemi del precedente giorno, in una visione ottimistica non sarei
stato io come persona ad essere perduto ma soltanto una delle mie giornate.
Molte religioni hanno osannato un “profeta” come redentore di qualcosa che abbiamo perduto. Io invece
penso che non abbiamo perduto qualcosa ma abbiamo dimenticato quello che può renderci salvi, in
questa
vita.In
questo
contesto
si
inscrive
il
concetto
di
“inconscio
collettivo”.
Ognuno di noi ha dimenticato una serie di immutabili verità. Non ho la pretesa di convincere qualcuno di
ciò che dico.
Le mie verità sono più o meno queste:
•
non esiste un unico Dio personale che ha creato tutte le cose. Pensarla così non risolverebbe le
cose, perché mi dovrei chiedere: “chi ha creato Dio, si è forse creato da solo?”, sarebbe come
spostare più in la il problema senza risolverlo.
•
esistono infinite forze e persone spirituali una più potente e antica dell’altra, quella che nella
nostra mente genera l’illusione di un unico Dio come Essere Supremo è la grande forza che
genera e tiene in piedi l’universo, come un immenso e infinito essere vivente, un macro-cosmo,
dove
ognuno
di
noi
ha
un
posto
e
una
funzione
prestabilita.
Questa grande forza, questo Dio irraggiungibile al di fuori dello spazio e del tempo, è un
segnaposto costruito nella nostra mente per non impazzire, nella matematica gli studiosi usano
questo
simbolo:
(un
otto
rovesciato)
per
indicare
l’infinito.
L’infinito è qualcosa di più grande di tutti i numeri, ma non è un numero perché distrugge e
rende insensate tutte le regole che descrivono le relazioni tra i numeri. Per “catturare” il
concetto di infinito e renderlo comprensibile si usa il concetto di “limite”. Ma il limite, lo dice la
parola stessa, ci dice come una funzione si comporta avvicinandosi sempre di più ad un punto del
piano cartesiano o spingendosi via via a valori sempre più grandi, senza mai raggiungere la
destinazione, dove la funzione potrebbe anche “non esistere”, in altre parole la destinazione
(nel caso in cui sia un numero finito) può essere un punto esterno al “Campo di esistenza della
funzione”.
Se ammettiamo che una funzione matematica in un punto limite possa non esistere, possiamo
anche ipotizzare che non esista un solo Dio, ma infiniti Dei e che noi stessi siamo fatti della
stessa sostanza degli Dei, analogamente a come la fisica con la formula: E=mc^2 ci insegna che
massa ed energia sono equivalenti.
•
il concetto di “bene” e “male” non può limitarsi agli interessi di un’unica persona. Il famoso
matematico americano John Nash con la “Teoria dei giochi” (anche detta “Teoria delle
dinamiche dominanti”) ci ha insegnato che in un sistema economico se un elemento si arricchisce
a scapito degli altri, questo renderà instabile il sistema creando una condizione di generale crisi
che si ripercuote a lungo nel tempo anche in quell’elemento arricchito. Questo vale anche per
tutti gli aspetti della vita sociale degli esseri umani. Il concetto Cristiano: “Fai agli altri ciò che
vorresti che gli altri facciano a te” è più che attuale, ed è dimostrabile con gli strumenti della
matematica. Ogni essere umano farà bene a cercare il bene per se stesso, senza recare danno
ad altri, tenendo presente che la nostra libertà finisce nel punto in cui minaccia quella degli
altri. Un’applicazione perfetta di questa regola è auspicabile, ma è anche utopica. Lo dimostra
l’attuale crisi economica frutto di manovre finanziare che nulla hanno a che fare con la
razionalità e l’equilibrio.
Questo
è
un
frammento
della
mia
filosofia
di
vita.
La mia arte di vivere e la mia vita di tutti i giorni sono pesantemente condizionate da questi
ragionamenti.
Ho trovato risposta ad una angosciante domanda: “Se Dio esiste, perché nel mondo c’è tanta malvagità?”
E’ abbastanza semplice, non esiste un unico Dio che comanda su tutti… altrimenti a seconda della sua
natura ci sarebbe solo il bene, oppure solo il male. Ci sono infiniti Dei, alcuni buoni e altri cattivi.
Vedendo le condizioni del mondo, nonostante tutto il male, finché sarò sano di mente penserò che sia
prevalente il bene, sia fra gli uomini che fra le infinite intelligenze superiori che abitano infinite
dimensioni parallele alle nostre. In relazione a questa eventualità (l’esistenza di universi paralleli) viene
in aiuto la fisica quantistica. La ragione della mia calma è quindi il non credere in un unico Dio con cui
arrabbiarmi quando le cose vanno storte. Per vivere bene bisogna farsi tanti amici, la base dell’amicizia
è il rispetto e la devozione, mettere a disposizione il frutto del proprio lavoro.
Dal momento che le intelligenze superiori popolano altre dimensioni (almeno io la penso così) ,
probabilmente un giorno la scienza dimostrerà che cosa sono esattamente i fenomeni allucinatori.
Questo, quando nascerà un uomo con due importantissime doti: l’intelligenza e il coraggio.
Il più grande bene che possiamo fare ad una persona è aiutarla a realizzarsi. Questo è il fondamento
della psicoanalisi Junghiana: la realizzazione del sé.
Molto spesso le persone vanno solo ascoltate, per mostrare a loro empatia, partecipazione emotiva. Non
è detto che ci sia bisogno di consigli. Questo lo possono fare tutti. La psicoanalisi è un’altra cosa.
Personalmente, provo piacere quando qualcuno mi rende partecipe di un proprio disagio, attuale o
passato. Non è masochismo, credo che mostrare empatia ad una persona in crisi sia una buona azione
che rende sensata la vita di chi la compie. Aiutare gli altri in modi pratici, si anche questo è buono. Ma
bisogna essere preparati all’ingratitudine.
Capitolo 28
PSICOLOGIA CONTRO PSICHIATRIA
La lotta fra queste due entità è qualcosa che riguarda la mia mente e la mia psicosi, evidentemente, dal
momento che psichiatri e psicologi lavorano in equipe nei CSM del servizio sanitario nazionale, in un
rapporto di collaborazione. Ma qualcosa di reale in questa lotta ci deve essere. Lo psichiatra e lo
psicologo tenderanno sempre a cercare di curare con mezzi diversi il generico “disagio psichico”.
Il fine della psicoanalisi è quello di razionalizzare il disagio, non di rimuoverlo con uno scontro frontale.
Paradossalmente, il lavoro analitico provoca un aumento del disagio in certi momenti di un cammino, che
con alti e bassi dovrebbe condurre il paziente ad una migliore comprensione di se stesso, dei propri
limiti e dei propri talenti al fine di acquisire maggiore sicurezza e benessere emotivo. In particolare, mi
sono impressionato molto quando ho sentito parlare di “fase del lutto” e “fase della elaborazione del
lutto”. Non si tratta della morte di una persona, ma della morte della “vecchia personalità”, per fare
posto ad una nuova, più forte e più matura personalità. Tutte le energie psichiche oppongono una
naturale resistenza a questa morte. La psichiatria classica, invece, predilige un approccio farmacologico
fondato su una spiegazione biochimica e genetica della predisposizione al disagio, e sottolineo:
predisposizione – che porta al disagio in un modo non disgiunto dalle condizioni sociali dell’individuo.
Questo approccio, tende a risolvere il disagio apportando delle correzioni all’equilibrio chimico del
cervello, equilibrio che si suppone perso nel momento in cui una persona assume comportamenti
riconducibili ad una qualsiasi patologia psichica. Io personalmente sono stato avviato all’approccio
farmacologico, da subito dopo la prima avvisaglia di disagio psichico, che voglio succintamente
raccontare. Era pressappoco metà Febbraio del 1994. Vivevo da sei mesi in un contesto di forte stress
in cui mi ero inscritto per mia personale ignoranza. Gli anni delle superiori mi regalarono pagelle con voti
sempre più brillanti e, alla maturità, un punteggio di 60/60. Parallelamente un’ansia sempre più
opprimente. Non mi divertivo quasi mai. Uscivo con gli amici solo al Sabato e alla Domenica sera e anche
in quelle occasioni il mio ossessivo monologo interiore era correlato a concetti come “Serie di Fourier”,
“Trasformata di Laplace”, “Algebra di Boole” e relative applicazioni nell’elettronica analogica e digitale
e nell’informatica. Dopo la maturità, mi iscrissi al corso di laurea in Informatica, della facoltà di
Scienze Matematiche Fisiche e Naturali. Il mio atteggiamento emotivo nei confronti dello studio era
profondamente contraddittorio: mentre le mie motivazioni si indebolivano le ore che dedicavo allo
studio aumentavano sempre di più. Così in breve tempo mi trovai senza forze, con un tremendo
malessere fisico. La mia settimana si spendeva tra lezioni universitarie, studio, scuola guida e
ripetizioni che impartivo ad altri studenti per incominciare ad avere qualche soldino in tasca.
Quella sera di metà Febbraio un po’ alla volta intuivo cosa stesse succedendo. A fine giornata crollai
come un sacco di patate sul divano e tenevo lo sguardo fisso sul soffitto. Guardai mio padre e gli dissi:
“Questo
è
proprio
stress!”
Mio
padre
era
spaventato.
E
io
pure.
Guardai un vecchio film americano in televisione, dopo un’oretta come umore ero abbastanza tranquillo
ma avevo delle strane percezioni. Tuttavia riuscivo a criticare la cosa e la attribuivo al fatto che il mio
cervello stesse correndo esageratamente.
Cercai di dormire.
Mi svegliai nella notte, con una sensazione di panico incredibile e fortissimi dolori psicosomatici
addominali. Il mio cuore correva così forte da farmi male. Fui visitato da uno psichiatra che mi
prescrisse una terapia ansiolitica. Riconosco che in quel frangente era la cosa migliore da fare. Poi fui
visitato da un neurologo. Questo medico mi disse che non ero affetto da una malattia mentale, ma che
avevo un problema di comportamento che poteva essere risolto tramite un adeguato lavoro
psicoanalitico. Il dottore secondo me aveva ragione. Se lo avessi ascoltato, mi sarei risparmiato quello
che successe tre anni dopo. Ma i miei genitori avevano forti pregiudizi sulla psicologia e li hanno
tuttora. In particolare, i testimoni di Geova con statistiche alla mano, ritengono molto probabile che chi
si avvicina ai metodi della psicoanalisi corra il grosso rischio di allontanarsi da quella che loro chiamano
“la verità”, cioè dall’impalcatura dottrinale e amministrativa promulgata dal loro “Corpo Direttivo”,
interamente ubicato con storia secolare a Brooklyn negli USA.
In quel periodo, mi ripresi in fretta dall’ansia e pensai di avere costruito un carattere più forte.
Mi recai di mia spontanea volontà nel CSM di competenza, credetti di parlare con uno psicologo, invece
era un medico psichiatra. Questo medico, nella persona della Dott.ssa Lupis, mi vistò per quattro volte e
ascoltò la mia versione dei fatti. Raccontai le vicende che mi erano capitate con uno spirito molto
critico, ma era nascosto dentro di me il desiderio di mostrarmi sano. Il risultato fu che il medico si
convinse che non avevo più bisogno degli ansiolitici.
“Signor Schmitz, si cerchi una lavoro e si faccia una ragazza!” Era una raccomandazione e un augurio
allo stesso tempo. Sembrava un banale “raffreddore”, ma a ventidue anni ebbi una vera “polmonite”.
Il lavoro analitico sarebbe davvero servito. Ma mi avrebbe portato via dalle credenze dei testimoni di
Geova. Abbracciai il credo dei testimoni di Geova con una partecipazione emotiva incredibile, ero
davvero convinto dell’imminenza dell’Armagheddon, e più tardi il mio disagio emotivo fu pesantemente
influenzato da questa credenza.
Come ho già raccontato, dopo aver frequentato Marlène per alcuni mesi mi rifugiai in una serie di
convinzioni paranoiche, per sfuggire ad una realtà che non riuscivo ad accettare.
Purtroppo, a distanza di un anno dalla prima crisi psicotica ebbi una ricaduta. Per questo motivo la mia
malattia fu dichiarata cronica, non più un episodio. Questo fu la mia rovina. Per lungo tempo i medici
pensarono che con me la psicoanalisi non serviva, che non mi sarei mai ripreso al 100%.
Se avessi avuto una visione più equilibrata del problema, dopo la prima crisi psicotica avrei seguito la
terapia farmacologica e allo stesso tempo avrei seguito un percorso analitico, sperando di poter ridurre
la dose dei farmaci.
Oggi, grazie a dei cari amici e ad uno in particolare che svolge la professione medica, ho conosciuto un
bravissimo psichiatra che dirige un CSM definito dalla stampa locale “polo di eccellenza”.
Ho
conosciuto
uno
psicoterapeuta
che
dovrebbe
seguirmi
nei
prossimi
mesi.
Probabilmente scrivere questo libro mi ha aiutato a risolvere dei problemi e me ne ha creato altri. Una
cosa è certa: mi ha tenuto impegnato rendendomi più consapevole. Mentre scrivevo però, dentro di me è
scoppiata una vera rivoluzione. Sono cambiato tantissimo, il risultato è che sono separato legalmente e
che non sono più un testimone di Geova. Quest’ultimo cambiamento non è dovuto ad un comportamento
censurato dai testimoni, se non quello di dichiarare con mezzi telematici di non riconoscermi più nelle
loro
dottrine.
Mi
sono
separato,
ma
non
per
adulterio.
Mi sono allontanato dai testimoni, ma sono rimasto coerente con le loro credenze fino al giorno in cui ho
deciso di dissentire pubblicamente. E’ vero, ho covato il mio dissenso senza confidarmi con nessuno per
lungo tempo, e questo è sembrato una follia a molti. Penso che le credenze in fatto di religione siano una
cosa molto personale, ho sentito l’esigenza di cercare “la verità” dentro me stesso, non volevo più dover
accettare
la
verità
di
qualcun
altro,
che
magari
l’aveva
a
sua
volta
subita.
Ettore Schmitz, a 34 anni si rende conto di avere numerosi nodi della personalità da sciogliere. Invece
di andare da uno psicoanalista, decide di scrivere un memoriale autobiografico, di pubblicarlo tramite
due blog e tramite facebook e di costruire una attività psicoanalitica dove non sarà uno psicoterapeuta
a dare consigli. A dare consigli sono stati gli utenti dei suoi blog e i suoi amici su facebook, tra i quali ci
sono anche degli psicoanalisti. Che ti po di trasformazione della personalità può generare un simile
esperimento psicosociale? Il romanzo dal titolo “Quella gran luce sulla via di Damasco” ce lo racconta
man mano che esso stesso prende forma. Potrò affermare con ragione che gli utenti dei miei blog e i
miei amici su facebook sono stati i miei analisti? E’ forse un nuovo modo di fare psicoanalisi reso
possibile dalle moderne tecnologie informatiche?
Capitolo 29
EMPIRISMO CONTRO MATEMATICA
La matematica è il fondamento di tutte le scienze serie, è il linguaggio con il quale si può parlare di
come è fatto e come funziona l’universo in cui viviamo e, forse, altri universi paralleli.
Il mio rapporto emotivo con la matematica è cambiato profondamente nel corso degli anni in cui ho
frequentato la scuola. Ricordo che in prima elementare non riuscivo ad imparare la tabellina del due…
mentre in quinta superiore fui presentato all’esame di maturità con giudizio “ottimo” in matematica.
La mia passione per la matematica cresceva man mano che comprendevo la sua utilità pratica, per
realizzare progetti. Quando incominciai a realizzare i primi programmi per computer, questa passione
esplose dentro di me. Ogni programma per computer è assimilabile ad una funzione, un concetto
principe della matematica.
Mentre questa passione cresceva, si rendeva focolaio di un fastidiosissimo disturbo psichico: la nevrosi
ossessivo-compulsiva.
Questa si originava dal desiderio di perfezione, dal timore di sbagliare e da tutta una serie di
accorgimenti atti ad eliminare ogni possibile errore dagli elaborati delle verifiche scritte. Ogni
esercizio veniva da me ripercorso dalla fine all’inizio per arrivare ai dati iniziali, se ciò non avveniva
cercavo l’errore, ovviamente per riuscire a fare tutto questo dovevo svolgere i calcoli a velocità almeno
doppia (nel caso in cui ci fosse un solo errore) rispetto a quella normalmente richiesta. Di riflesso,
affrontavo con la stessa ansia ogni aspetto della mia vita. Cercavo di essere perfetto in ogni cosa che
facevo. Nacque l’esigenza di elaborare dei rituali per eliminare l’ansia che mi soffocava nella vita di
tutti i giorni. Prima di uscire di casa: controllavo tre volte di avere spento i fornelli, chiuso finestre e
balconi…tre era per me il numero perfetto, nella mia mente aveva un significato mistico.
L’empirismo, banalizzando molto il concetto, è una corrente filosofica secondo la quale le scoperte
scientifiche dovrebbero basarsi principalmente sull’osservazione della realtà e non sul ragionamento
intuitivo.
Nel corso del tempo, ho cercato spesso di avvicinarmi di più all’empirismo, di scoprire la realtà tramite
l’osservazione, di spegnere questo ossessivo monologo interiore che cercava una perfezione teorica, a
priori e fondata su ragionamenti astratti e per questo lontani dalla realtà. Ma senza completo successo.
Molto mi è servito modificare il mio pensiero circa l’esistenza di un Essere Supremo. Ho molto rispetto
per chi ci crede, ma oggi non sono più schiacciato dal timore di offenderlo col pensiero.
Molto mi è servita la lettura del libro di Eckhart Tolle, “Il potere di adesso”. Questo libro, fin dalle
prime pagine promette di aiutare il lettore a percorrere il proprio cammino verso l’illuminazione
spirituale. Già dal primo capitolo mi sono sentito diverso, meno ansioso. Probabilmente è solo una sorta
di placebo, ma se funziona…ben venga! Non è vero?
L’empirismo pone la nostra mente in una situazione di maggiore relax, è più facile costruire un modello
della realtà osservandola e facendo esperimenti concreti, piuttosto che facendo leva sull’intuizione
astratta. In un anello di reazione, il maggiore relax così instaurato stimola la curiosità e l’intuitività, il
piacere di condurre indagini e quindi la soddisfazione di svolgere un lavoro intellettuale. Questo può
rendere piacevole la vita. Il lavoro è l’impalcatura principale della vita di un individuo, se è piacevole dà
senso alla vita.
Eliminando l’ansia, la nevrosi compulsiva sparisce. Questo quasi “miracolo” è avvenuto nella mia persona
dopo la lettura del primo capitolo del libro sopra citato di Eckhart Tolle. Questo capitolo spiega una
delle verità fondamentali che conduce all’illuminazione, che si può esprimere in questi termini:
- “noi non siamo la nostra mente intesa come materia, siamo un Essere di natura divina che sta al di
fuori del tempo e dello spazio, la vita attuale è un’esperienza”.
Al momento della stesura di questo capitolo, ho quasi abbandonato i miei rituali compulsivi. Sono sempre
preciso, controllo ad esempio la chiusura della portiera della macchina ma solo una volta, quando vado
via non mi chiedo più con angoscia se ho controllato o sono stato distratto.
In altre parole, non affronto più gli aspetti ripetitivi della mia giornata con il rigore di una
dimostrazione geometrica. La mia giornata è incentrata sulla ricerca della soddisfazione e non della
perfezione.
La perfezione di una teoria è un concetto astratto, si raggiunge partendo dall’intuizione che deve
essere confermata da dati sperimentali ripetibili da un qualsiasi scienziato in ogni laboratorio
attrezzato del mondo. La soddisfazione, si ottiene con l’osservazione di ciò che si realizza, degli
obiettivi man mano che divengono realtà. Senza la soddisfazione si impazzisce, la mente diventa
instabile e perde le sue motivazioni. La soddisfazione per un risultato è il carburante mentale per la
curiosità che spinge a porsi nuove domande, che originano nuovi teoremi da dimostrare, nella vita di
tutti i giorni nuovi sogni, nuovi obiettivi e nuovi interessi. Cosa prevale tra empirismo e matematica?
Si può affermare che siano entrambi da mantenere in vita. Come la filosofia può essere un’impalcatura
teorica per concretizzare un’arte di vivere personale, come la psichiatria eliminando un delirio può
mettere un individuo nella condizione di capire attraverso la psicoanalisi come si origina e, soprattutto,
come si evita il delirio, allo stesso modo la matematica è il linguaggio teorico con il quale si possono
mettere in ordine e comprendere le informazioni ottenute tramite l’esperienza diretta.
Nella vita di tutti i giorni, preferisco essere più empirico che matematico, la cosa mi diverte di più.
L’osservazione porta a essere soddisfatti. E’ un po’ come essere prevalentemente “epicurei” e non
“stoici”.
Queste riflessioni mi hanno portato a una condizione di serenità e calma. Che dire della paura della
solitudine, della ricerca dell’amore? Bene, non mi sento più una metà ma un essere completo. Se avrò una
donna non sarà per avere ciò che mi manca, ma per dare ciò che ho da offrire. E nel frattempo: “Vivre
la vie sans un amour”!
Capitolo 30
AGNOSTICISMO CONTRO RELIGIONE
Una delle possibili etimologie del termine “religione” secondo Tertulliano, Lattanzio e Sant’Agostino
sostiene che la parola derivi dal verbo latino “religare”, cioè “legare, vincolare”, nel significato di legare
l’uomo alla divinità.
La religione è quasi sempre identificata in una convenzione sociale, in una istituzione che determina un
sistema di regole che tendono a dare un ordinamento alla società. Questo mi convince del fatto che le
principali religioni siano sempre finite per diventare uno strumento della politica.
L’agnosticismo riveste la posizione di chi crede che la conoscenza intorno all’esistenza del divino e delle
forze soprannaturali non sia raggiungibile.
L’agnostico non sa se Dio esiste e crede che non sia possibile rispondere a questo quesito.
Diversa è la posizione dell’ateo, che è fermamente convinto della non esistenza di un Dio.
Nella mia vita sono passato più volte da una posizione all’altra, ma sempre con una costante inalienabile
dalla mia mente: il dubbio. Mi ricordo che già all’età di sette o otto anni, quando portavo a casa da
scuola libri di astronomia e di vari argomenti scientifici, scritti ovviamente per essere capiti da un
bambino, mi chiedevo con scetticismo se quello che sentivo alla “sala del regno” fosse davvero la verità
riguardo all’origine del mondo e della vita, mi chiedevo: “Ma chissà se Geova esiste davvero?”.
Parallelamente a questo scetticismo, cresceva il senso di colpa e la vergogna, perché il dubbio è
fortemente stigmatizzato tra i testimoni di Geova. Paradossalmente, è stata proprio la vergogna a
impedirmi di perdere il dubbio. Non parlando con nessuno dei miei dubbi essi rimanevano. Pian piano,
nella mia mente si instaurò il pensiero secondo il quale il dubbio non sia mai eliminabile, e addirittura il
dubbio sia caratteristica della persona sana. Per me chi ha solo certezze è malato. Questo perché la
persona prevalentemente erudita – in relazione al proprio contesto sociale – sa di essere ignorante, chi
crede di sapere ogni cosa è destinata a rimanere al proprio livello, prevalentemente ignorante, questo è
il destino di chi crede di avere scoperto tutto e di non avere dubbi con ragione. Sono religioso o
agnostico? Sicuramente non sono religioso, perché non ho la certezza dell’esistenza di un Dio.
Ma, analizzandomi bene, non sono neanche un agnostico! Come già detto, la posizione dell’agnostico
dubita l’esistenza di un Dio e delle forze soprannaturali, che io amo chiamare “intelligenze superiori”. Io
non ho la certezza dell’esistenza di un Dio e, comunque, credo che se esistesse sarebbe molto diverso
da come ci insegna una qualsiasi religione organizzata. Come ho detto altre volte, per me “Dio” è un
segnaposto nella spiritualità come “infinito” è un segnaposto nella matematica. Sono convinto invece
dell’esistenza di intelligenze superiori, che le forze soprannaturali siano quindi animate. Per il fatto di
essere intelligenze superiori alla nostra, sanno bene come mettersi in contatto con noi, come noi
sappiamo dare ordini ad un cane ben addestrato. Noi, invece, abbiamo problemi a decidere di metterci
in contatto con loro. Per questo, credo che i medium siano persone psichicamente iperdotate. Le
intelligenze superiori, se esistono devono avere un ambiente di vita. La teoria scientifica sull’esistenza
di universi paralleli, dettata come corollario dei principali teoremi della fisica quantistica dovrebbe
fornire
alle
intelligenze
superiori
questo
ambiente
indispensabile.
Dopo aver terminato la scrittura di questo libro, mi reputo una persona completamente diversa.
Non sono più sposato, ma cerco e cercherò sempre di mantenere in ottima salute il rapporto con mia
figlia. Non sono più una persona religiosa, ma sono attento ai valori spirituali secondo un’accezione molto
più ampia di questo termine e voglio rispettare chi è credente. Mi sento più sereno e più tranquillo. Amo
la vita e la considero un’esperienza. La mia vita è il mio Essere, non è il mio corpo fisico che la ospita.
Questo mi rende meno ansioso. Ho nuovi sogni ed orizzonti. Voglio continuare il mio personale cammino
spirituale, sapendo che non avrà mai fine. Come obiettivo più concreto in questa vita: vorrei laurearmi in
psicologia. Attualmente non mi è possibile studiare, ma spero che le cose cambino.