Ma quella di Mo è davvero una lunga storia
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Ma quella di Mo è davvero una lunga storia
Ettore MO professione cronista RACCONTI DI VITA RANDAGIA Cameriere a Parigi, barista nelle Isole del Canale, insegnante di francese a Madrid, infermiere in un ospedale per incurabili a Londra, steward su un mercantile britannico. Il giornalista ricorda la sua infanzia e i suoi avventurosi lavori prima della svolta: l’assunzione a 30 anni al Corriere della Sera di Ettore Mo - foto Luigi Baldelli AFGHANISTAN Ettore Mo nell’ottobre 2001. Scrisse il primo servizio da inviato per il Corriere della Sera dall’Iran, nel 1979, dopo 17 anni di “gavetta”. 31 Ettore MO «Avevo comprato un’Olivetti 22 su cui avrei continuato a pestare per anni, raccontando storie lunghe e storie brevi. Finché non si è inceppata per limiti d’età, quell’Olivetti è stata la mia ragazza: poi ne ho prese altre, di ragazze, e sono invecchiato con loro», da Sporche guerre , Ettore Mo, Bur, 2000 S ono nato in una famiglia povera (il papà operaio, la mamma casalinga, ambedue con la pagella della terza elementare come supremo traguardo scolastico) e in essa sono cresciuto dall’infanzia alla prima giovinezza senza mai avvertire il peso dell’angustia culturale e dei disagi economici domestici. Abitavamo a Cicognola, una frazioncina di Castelletto Ticino sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, due stanzette al secondo piano di una casupola a pochi passi dal porticciolo dov’erano allineate le barche dei pescatori, tra cui La Pinta di Aurelio Besozzi che però tutti chiamavano Cristoforo e che continuava a puzzare di lucci e di anguille anche dopo il bagno nella tinozza. La mia scuola si affacciava sulla collina di Pezzuola, un paio di chilometri da casa, percorso che facevo a piedi ogni mattina, d’inverno con gli zoccoloni. Una sola aula per le prime tre classi elementari e una sola maestra – l’anziana signorina Bovio, dolce ma severa – che doveva gestire quel pigolante serraglio di maschietti e bambine in grembiule alle prese con l’alfabeto e i numeri. Correva l’anno 1938. Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza. Alla parete, il ritratto di Benito Mussolini in divisa da ufficiale, l’elmetto, le medaglie e quei suoi labbroni spinti in avanti che avevano inspirato a Winston Churchill la sarcastica definizione di “ranocchio delle paludi pontine”, che faceva imbestialire il duce. Il Corriere dei Piccoli non esitava ad alimentare l’odio infantile contro la perfida Albione, rivolgendosi ai suoi minilettori con la solita filastrocca: “Per paura della guerra/Re Giorgetto d’Inghilterra/chiede aiuto e protezione/al ministro Churchillone”. Guai, poi, a disertare il “Sabato fascista”, l’adunata settimanale delle scolaresche: come tutti, ci andavo vestito da figlio della lupa o da balilla, la camicia nera, le spalline, il fez, le giberne. E nell’euforia collettiva mi impegnavo anch’io a giurare che, se necessario, ero pronto a versare il sangue per Benito e per la Patria. Eia eia alalà. Al mattino, la radio ci teneva regolarmente informati 32 sull’andamento della guerra. Secondo i bollettini, le truppe dell’Asse agli ordini di Erwin Rommel avevano inflitto devastanti perdite all’Ottava armata di Bernard Montgomery lungo la costa del Nord Africa, dai deserti della Cirenaica a Tripoli, e non fu poca la sorpresa quando, soltanto un paio di anni dopo, i “pochi soldati sopravvissuti” della British Army sbarcarono in Italia con i fiori sull’elmetto. Ma il conflitto ce l’avevamo in casa, a Castelletto. Ricordo l’urlo delle sirene che (all’inizio degli anni Quaranta) preannunciavano l’arrivo delle Fortezze volanti con il ventre carico di bombe destinate alle baracche e alle caserme dell’aeronautica militare e ai capannoni della Siai, la Savoia Marchetti, schierati sull’altra sponda del lago, quella lombarda: anche se l’obiettivo principale restava sempre il ponte di ferro sul Ticino che consentiva il traffico ferroviario (e quindi delle armi e dei mezzi) tra l’Italia e la Germania, e che alla fine venne spezzato in due. In realtà, uno degli avvenimenti straordinari della mia infanzia era il decollo degli idrovolanti che vedevo alzarsi in volo dalla spiaggia di Cicognola per raggiungere un’altra parte del mondo, sconosciuta a noi bambini. L’altra grande novità fu l’arrivo, in paese, di un reggimento di soldati tedeschi che avrebbero dovuto sostenere il regime nella lotta contro la Resistenza. Ed erano, quindi, per le autorità e la radio, “nostri alleati e amici”. Parole che facevano ghignare amaro l’Aurelio Besozzi, anzi, lo mandavano in bestia. Quei ragazzoni biondi ma con i capelli corti e gli occhi chiari che bivaccavano al margine dei villaggi, sempre con un sacco di ragazzini intorno, avevano stabilito un buon rapporto con la popolazione: e la sera, assaliti dalla nostalgia dopo una giornata solitamente vuota e noiosa, si intrufolavano nelle due o tre osterie e lì, sulle panche, naufragavano in sbronze tranquille mentre qualcuno intonava Lili Marlene. Altri, più audaci e intraprendenti, andavano a sollazzarsi con le Marlene locali, la più vistosa delle quali, detta la Maria Camminadora (perché adescava per strada) con seno e chiappe da schianto, si era addirittura fidanzata con un ufficiale delle KABUL, aprile 2007. Ettore Mo segue le vicende dell’Afghanistan fin dal 1979, anno dell’invasione sovietica. Per lui, lo scontro in atto è «l’ultima guerra coloniale del secolo». SS. Dopo la Liberazione la volevano rapare a zero come tutte le altre puttane del nemico: ma venne risparmiata perché, grazie alle sue incandescenti prestazioni, da più che qualche partigiano ebbe salva la vita. Sono forse in molti a chiedersi, a questo punto, come in un ambiente così modesto e lontano anni luce dal mondo dell’editoria sia maturata dentro di me la voglia di scrivere o comunque di viaggiare per scrivere: e come infine, così sprovvisto, sia riuscito a iniziare la professione in una testata quale il Corriere della Sera. In casa mia i pochi libri stavano sul tavolo della cucina, che la mamma rimuoveva all’ora del pranzo o della cena. Il Corsaro Nero, Mani nere e cuor d’oro, dove l’eroe era uno spazzacamino, Il piccolo lord, Il piccolo alpino… ma sulla Prima guerra mondiale la sapeva più lunga il mio papà Guglielmo, classe 1892, alpino del Battaglione Aosta, fatto prigioniero sul Pasubio e finito al Castello del Buonconsiglio, a Trento, dove impiccarono Cesare Battisti. Meritava rispetto. Disastrosa e inconcludente la mia carriera scolastica. Alle medie mi piaceva solo Omero, miseri i voti sulle pagelle, cinque in matematica ma bravo in italiano e disegno. Al liceo classico ho cominciato ad appassionarmi agli scrittori e poeti contemporanei (Italo Calvino, Cesare Pavese, Domenico Rea, Giuseppe Ungaretti, Corrado Alvaro, Eugenio Montale, Umberto Saba) che la scuola ignorava quasi del tutto, e leggevo La Fiera Letteraria su cui già spiccavano giovani talenti come Enzo Bettiza, sbarcato a Trieste da Spalato. Nel frattempo, rimediai un diploma da maestro elementare che mi permise di guadagnare qualche soldo facendo supplenze qui e là, nei dintorni. L’ambizione di diventare un vero scrittore (come Goffredo Parise, che a 22 anni aveva già scritto e pubblicato Il ragazzo morto e le comete) s’era affievolita per far posto a un’altra passione scaturita nell’infanzia: la musica o, più precisamente, il canto. Avevo una discreta voce da tenore (proprio quanto occorreva per le svenevoli romanze di Francesco Paolo To- 33 Ettore MO «Non è facile raccontare un fiume: ma se ti dai da fare, e alla fine in qualche modo ci riesci, è come raccontare la vita di una città, di un Paese. Niente di meglio per cercare la tragedia d’Israele che scendere sulla sponda del Giordano», da Fiumi, Ettore Mo, Rizzoli, 2006 sti) ma di estensione limitata. Il mio modello era Tito Schipa, mentre restavano irraggiungibili gli eroi del do di petto di allora, Franco Corelli, Giuseppe Di Stefano e Mario Del Monaco. Dovevo contentarmi di “belare” sugli spartiti del Don Pasquale, de L’elisir d’amore e de La sonnambula, considerati “roba da castrati” dagli interpreti dei Pagliacci, de Il trovatore e dell’Otello. E allora, conscio della mia inconsistenza vocale, chiusi in un baule i costumi che avrei voluto indossare a teatro e andai a piangere sulla tomba di Enrico Caruso a Napoli. A ltro che nel mezzo del cammin di nostra vita… E adesso, dove vado? Immatricolarmi all’Università Ca’ Foscari di Venezia (facoltà di lingue e letterature straniere) poteva essere una soluzione. Ma per mantenermi agli studi avevo bisogno di un lavoro part-time: che trovai al Configliacchi di Padova, un istituto per ragazzi non vedenti, studenti di musica o lettere presso il locale ateneo o nella vicina città lagunare. Fu un’esperienza incredibile. Ricordo furibonde partite di calcio su un terrazzo di cemento dove al posto del pallone c’era una latta, contesa alla cieca (è proprio il caso di dirlo) da decine di piedi kamikaze. E come posso dimenticare quel bimbo, cieco dalla nascita, che un giorno mi chiese nel suo incantevole dialetto: «Ciò, profesor, come xè un treno?». Durante il mio soggiorno patavino rimasi sorpreso dalla lievità e del sense of humour con cui questa piccola comunità condannata a brancolare per sempre nel buio riusciva a scherzare sulla propria disgrazia: come avvenne quella volta che Pietro, scontrandosi nello stretto corridoio dell’edificio con Paolo (faccio ricorso al nome dei due santi nel tentativo di conferire a un banale episodio la suggestione di una parabola evangelica), gli disse a bruciapelo: «Ma cosa fai? Non ci vedi? Sito orbo?». Con l’inglese me la cavavo discretamente. Tra le mie letture, in originale, l’intrigante romanzo di David Herbert Lawrence, Lady Chatterley’s Lover, e il vivido racconto 34 della rivoluzione messicana nella nitida prosa di Graham Greene, The Power and The Glory. Allo stesso tempo, non potevo dimenticare il consiglio di quel tal che, tornando a Treviso dopo 30 anni di Cina, sentenziò solennemente che «per imparare le lingue non c’è cosa migliore che andare sul posto»: ma per sua sfortuna era finito in un’azienda agricola dove si ciacolava solo nell’idioma di Carlo Goldoni. Sembrerà superfluo sottolineare che per far pratica d’inglese non c’era posto migliore dell’Inghilterra. Ma negli anni Cinquanta l’ingresso nel Regno Unito, spesso con l’intenzione di trovare un lavoro e soggiornarvi a lungo, non era facile. Per noi “continentali” la Manica era invalicabile come il fossato di un maniero. Se nel passaporto non avevi la precisa richiesta di un datore di lavoro britannico (fosse un albergo, un ristorante, un ospedale, un’agenzia turistica) i funzionari e la polizia di frontiera di Dover o Folkestone ti bloccavano e gentilmente ma inesorabilmente ti rispedivano a Calais o Le Havre con il primo battello. Lo giuro. È toccato anche a me. È successo una mattina di dicembre di tanti anni fa. Nel passaporto avevo, sì, la lettera di un amico italo-inglese, un compagno di scuola al ginnasio che si era trasferito a Londra e mi voleva ospite, per qualche settimana, nella sua abitazione di Shepherd’s Bush. Ma non bastava. «Sorry, sorry», dissero i poliziotti strofinandosi le mani: ma ero molto più “sorry” io con quel magone che mi scendeva giù in gola, perché l’Inghilterra che tanto volevo conoscere (la mia fidanzata straniera) mi aveva respinto. In quegli anni Londra stava soppiantando Parigi come capitale-metropoli dell’Europa. I teatri del West End erano stati presi d’assalto dai “giovani arrabbiati”, in testa John Osborne che aveva colto di sorpresa e sconcertato il pubblico tradizionale con Look Back in Anger (da noi tradotto Ricorda con rabbia). Seguirono le commedie di Harold Pinter (teatro dell’assurdo, venne definito il suo, tutto centrato sulle ansietà della società contemporanea) e quindi di Arnold Wesker e Shelagh Delaney che, abbandonati i salotti della middle-class, rivolsero la loro CUBA, maggio 2009. Ettore Mo sull’isola per il cinquantenario della Rivoluzione castrista: «È un Paese immiserito e senza scampo. Cuba ora punta tutte le sue speranze sul petrolio». attenzione ai disagi quotidiani della povera gente. Le chiamarono kitchen sink dramas, i drammi del lavandino: e non ci poteva essere definizione più azzeccata. Sul traghetto di ritorno in Francia, già prima che la costa si appiattisse in una striscia, avevo il cuore in subbuglio ma non mi arrendevo alla rassegnazione. Quella che avevo subito era solo una sconfitta momentanea ma sapevo che ci sarei tornato e che gli inglesi non avrebbero potuto chiudermi la porta in faccia per sempre. Stato d’animo condiviso da una decina d’altri ragazzi che avevano tentato la stessa sorte: uno di loro s’era rifugiato in cambusa con una bottiglia di Pernod e farfugliava e bestemmiava in francese: impossibile la conta dei bon Dieu infilati tra un bicchiere e l’altro. La sosta, nel bacino minerario del Pas-de-Calais, durò qualche giorno. Mi ero sistemato nella locanda più squallida del circondario, altro non mi potevo permettere. Ricordo neri villaggi che si chiamavano Béthune, Douai, Valenciennes, al confine con il Belgio. Dal sottosuolo che ai primi del Novecento misurava 128 ettari si estraevano 26 milioni di tonnellate di carbone fossile l’anno: attività che dava lavoro a un milione e 200mila minatori. Alla fine degli anni Cinquanta se ne contavano solo 500mila. Il Pasde-Calais produceva ricchezza e benessere ma al tempo stesso disastri e morte. La storia mineraria della Francia e del Belgio è segnata dalla sconfitta del febbraio del 1884, quando 12mila minatori dei pozzi di Anzin, per protestare contro il governo di Parigi che aveva respinto “brutalmente” le loro richieste, fecero due mesi di sciopero. I gendarmi arrivati dalla capitale per difendere i crumiri, ricordano le cronache del tempo, furono presi a sassate dalla folla che li sbeffeggiava con insulti osceni. Uno di questi “insulti” è stato immortalato da Émile Zola nel suo romanzo Germinal dove racconta lo sciopero di Anzin con un linguaggio così crudo da suscitare la riprovazione e lo sdegno della stampa benpensante francese: «Ma più che il sangue», scriveva Zola, «dava fastidio, alle sofisticate 35 Ettore MO «Nella foresta tropicale cambogiana ci si può imbattere nel fantasma di quel gentiluomo di Pol Pot, mentre nello Sri Lanka, ai primi del giugno 2009, i bombardamenti dell’aviazione militare di Colombo hanno fatto una strage di civili nella terra dei tamil», da Lontani da qui, Ettore Mo, Rizzoli, 2009 narici dei critici di Le Figaro, il deretano che, in un eccesso d’ira, la prosperosa Mouquet aveva esibito, prima del massacro, ai militari… Ella aveva sputato tutte le sue grosse parole e non trovava altre ingiurie più basse, allorché, bruscamente, mostrò il suo culo, sollevando una tempesta di risate. “È per voi: ma per voi è anche troppo pulito, manica di porci”». Ecco – dissi a me stesso – questo è il modo di scrivere e lascia perdere il miele degli aggettivi. Il Pas-de-Calais era un paesaggio di detriti (i terrils), di torri di pietra e d’acciaio e ti sembrava di vivere quasi sempre di notte. Nella tragedia di Marcinelle, l’8 agosto del 1956, i morti furono 262, di cui 136 italiani, quasi tutti sepolti nel cimitero dietro la miniera. Ma nella locanda di Douai nessuno parlava più di queste cose, neanche René, ex minatore, cui avevo appena confidato la mia angoscia di emigrante respinto: «Erano tempi duri», diceva rievocando il passato, «quando noi non avevamo neanche un nome, eravamo soltanto numeri. Io, per esempio, ero il 577 e per 17 anni sono rimasto sempre e solo il numero 577». È proprio il caso di ricordare, a questo punto, quanto scrisse George Orwell nel suo famoso saggio The Road to Wigan Pier sulle comunità minerarie dei bacini carboniferi dello Yorkshire e del Lancashire: «Qualsiasi cosa accada in superficie, i colpi di piccone devono continuare senza sosta… in modo che Adolf Hitler possa far marciare l’esercito, che il Papa denunci il bolscevismo, che i giocatori di cricket si radunino a Lord’s Cricket Ground… il carbone dev’esserci. Tu e io e il direttore del supplemento letterario di The Times e i Nancy poets e l’arcivescovo di Canterbury e il compagno X, autore del marxismo per bambini, dobbiamo la relativa decenza della nostra vita ai poveri sgobboni sottoterra, neri fino agli occhi». In quel momento l’idea di seguire l’esempio dello scrittore inglese che era sceso, lui altissimo, nei tenebrosi cunicoli di Wigan per raccontarne l’esperienza, mi tentava non poco. Tra l’altro mi trovavo in condizione di estremo disagio, con pochi franchi in tasca. René, che quella sera m’ave- 36 va invitato a cena (minestrone e vino rosso), l’aveva intuito: «Che fossi un po’ matto», borbottò, «l’avevo capito… Ma calarti nel pozzo, proprio no. Non farlo. Potresti restarci». La stessa raccomandazione di papà, poco prima che partissi. «Vai dove vuoi, fa’ ciò che vuoi, ma in miniera no, mai e poi mai». Due giorni dopo ero sul treno. Per Parigi. Dandomi il viatico per la Ville Lumière alla stazione di Calais, un tale mi disse: «Vai tranquillo, a Parigi non si muore mai di fame». In realtà sarebbe potuto capitare il giorno stesso del mio arrivo, a Capodanno, mentre vagavo per rue de Magenta e nessuno sentiva, nel fragore dei mortaretti, gli sos del mio stomaco. Poi trovai un posto come sguattero-cameriere in un ristorante di place de La Sorbonne che si chiamava Saint-Bernard per via di un cagnone dal manto bianco pezzato che scodinzolava fra i tavoli annusando da intenditore le vivande. Ed ebbi i pasti assicurati per nove mesi. I l ristorante si trovava nel sesto arrondissement, nel Quartiere latino, e dalla piazza si scendeva verso la Senna lungo il boulevard Saint-Michel (detto BoulMich) che era un incredibile, festoso viavai di gente di tutte le razze, lingue e colori, i bianchi, i neri, i gialli e le mezze tinte indefinibili, scaturite da chissà quali incroci. Nel giorno di riposo e talvolta la sera, dopo il turno, m’incamminavo lungo il boulevard Saint-Germain nella speranza di intravedere, dietro i vetri del Deux Magots o del Flore, le sagome di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, o magari gli idoli della canzone, Juliette Gréco, Yves Montand, Maurice Chevalier. E che dire dei pellegrinaggi, la domenica, a Montmartre, sulla place du Tertre, e sedere nel bistrot dove Maurice Utrillo si ubriacava regolarmente disegnando la butte e la cupola del Sacré-Cœur? Ho un ricordo vivissimo di Marcel, il cuoco del Saint Bernard, un bretone massiccio e senza collo, la testa avvitata direttamente nel busto. Con la sua collaborazione, combinavo uno scherzetto a danno dei clienti che, se scoperto, avrebbe comportato il licenziamento in tronco per ambe- LIBERIA, dicembre 2006. Ettore Mo ha raccontato la vita delle centinaia di diseredati della capitale Monrovia, che vivono tra le tombe del cimitero fumando marijuana e cocaina. due. Nell’acquario della sala-pranzo guizzavano una dozzina di trote che era un incanto solo a guardarle: al cliente che avesse voglia di pesce bastava indicare proprio quella che avrebbe voluto nel suo piatto. Io, svelto, la raccattavo nella reticella e la portavo giù in cucina per immergerla, temporaneamente, in una bacinella d’acqua, dove giacevano, immobili, alcune consorelle già morte: erano proprio quelle che finivano nell’assiette di monsieur Dupont (tanto per fare un nome) che prima ancora di assaggiarle ne decantava la fragranza e la freschezza. Non aveva avuto una vita facile, Marcel. Durante la guerra s’era fatto due anni di carcere per reati non commessi, grazie alla denuncia di un amico che era innamorato della sua donna, Yvonne, e gliela voleva “soffiare”, come infatti avvenne. L’epilogo della storia me la raccontò un pomeriggio, cucinando un’omelette: «Per due anni, ogni giorno ogni notte, non ho fatto altro che pensare a quel bastardo. Appena uscito di prigione, nell’aprile del 1945, andai a cercarlo, su e giù per il Boul-Mich ed ecco che lo vedo, le salaud, e anche lui mi vede e comincia a correre giù per il boulevard in mezzo alla gente cercando di seminarmi. Ma io non perdo di vista quella sua nuca di letame che a un certo punto s’infila nella prima entrata del metrò. Ma la saracinesca era chiusa. Così lo trovai davanti, in ginocchio, che implorava “Marcel, Marcel, je t’en prie”. Io tenevo la rivoltella nella tasca del trench e non l’ho neanche tolta. È partito un colpo. Mi è caduto con la testa in mezzo ai piedi». L’omelette au fromage (o al sangue) era pronta. Anni dopo ho saputo che Marcel aveva raggiunto il suo obiettivo: tornato in Bretagne, s’era accampato “sur un rocher”, sopra una roccia, come aveva sognato di fare al Saint Bernard, eremita e pescatore davanti al mare della sua infanzia. Fu poi Jersey, regina delle isole anglo-normanne, a riempire e a rallegrare le quattro estati successive della mia esistenza: poiché, a differenza dell’Inghilterra che sigillava le sue frontiere, l’isola favoriva il flusso della manodopera straniera stagionale per 37 Ettore MO «Come tutte le storie d’amore, la mia storia d’amore con l’Afghanistan ha avuto i suoi alti e bassi: ma si è trattato di un rapporto vissuto sempre ad alta tensione e nutrito di sentimenti profondi», da Kabul, Ettore Mo, Bur, 2003 far fronte, negli alberghi, all’invasione dei turisti inglesi e continentali. Io lavoravo come barista al Tartan bar, uno dei locali più frequentati e popolari dell’isola dove, specie il sabato, la serata finiva in una sbronza collettiva che esplodeva in rutti omerici, risse, canti, latrati, ettolitri d’urina e di vomito mentre neri delle Antille e irlandesi dell’Ulster, di Dublino e della West Coast, fradici di Guinness e di whisky Jameson, facevano stridenti cocktail di ritmi africani e ballate gaeliche. I due poli d’attrazione erano soprattutto Conrad e Denis: al pianoforte il primo, piccolo, gracile e di età quasi indefinibile, sbarcato a Londra dalla nativa Ceylon e sopravvissuto a devastanti delusioni sentimentali grazie a una quattro zampe fulva di nome Gypsie e alla bottiglia di Rémy Martin, sempre piena e sempre vuota; alla batteria il secondo, venezuelano cinquantenne che si era esibito in night club di cinque stelle accanto ai fenomeni come Shirley Bassey, Nat King Cole e Louis Armstrong e nelle trasferte si faceva accompagnare da una giovanissima entraîneuse con spacchi vertiginosi sulle cosce. S heila (chiamiamola così), la moglie di Johnny, guardiano del faro, era la regina di quelle notti insonni. Una bellezza technicolor, la sua, davanti a cui le altre donne sembravano schizzate in bianco e nero: rosso rame i capelli, azzurri come i fiordi gli occhi e una manciata di efelidi sul volto indorato dal sole estivo della Manica. S’era subito capito, da come lo guardava mentre lui dipanava il suo repertorio canoro, che era cotta di Denis. Ma nessuno sentì mai il grido di Johnny quando, tornando dal faro a notte fonda, la trovò a letto con lui e scoppiò a piangere, singhiozzi misti a bestemmie, you fucking whore… fottuta puttana… E anch’io, che mi ero un poco innamorato di Sheila e più di una volta m’ero sdraiato con lei sulla spiaggia di Saint Brelade non solo per ammirare il tramonto, me ne andai dall’isola per sempre, bastonato come un cane. Ma alla fine, dopo tanti Paesi ed emozioni, era fatale che la mia escursione giovani- 38 le nel Continente Europa si concludesse al sud, in Spagna, affascinato com’ero dal suo folklore, dalle sue corride e dai suoi toreri, primo fra tutti quell’Ignacio Mejías celebrato da Federico García Lorca nella poesia che inizia con «A las cinco de la tarde», alle cinque della sera. A Madrid trovai subito un impiego presso il Colegio de Nuestra Señora de las Maravillas, frequentato dai rampolli della borghesia madrilena, dove per quasi un anno insegnai francese agli alunni delle elementari, per i quali io ero semplicemente Monsieur Bonjour, mentre il professore d’inglese veniva riverito quale Mister Good Morning. Il fatto che non fossi munito di diploma o di laurea non suscitò apprensione nel direttore dell’istituto, un austero, piccolo, prete di origini galiziane al quale parve sufficiente garanzia il nostro primo, breve colloquio nella lingua di Molière. Lo rassicurai comunque che dopo aver studiato il francese al ginnasio e aver seguito un corso all’università l’avevo ulteriormente perfezionato nel mio recente soggiorno parigino, evitando tuttavia di rivelargli che ciò non era avvenuto alla Sorbonne, bensì nei fumosi bistrot della Rive Gauche, dove si parla l’argot. Non mi ero fatto illusioni sulla Spagna. Già prima di mettere piedi alla stazione di Atocha, sapevo che non era più quella di Mejías o Manolete. Immobilizzata nella camicia di forza franchista, era la Spagna della Santa Crociata, dell’Opus Dei e di Cristo Re, il Paese più rigidamente cattolico dell’Europa sui cui campanili il vento faceva garrire a migliaia bandiere con il colori del Vaticano e nelle cui chiese trovavi inginocchiatoi di prima e di seconda classe mentre la povera gente seguiva le funzioni in piedi, in fondo alla navata. Francisco Franco era stato praticamente canonizzato e la sua effigie appariva ovunque tra i gagliardetti della Falange. Erano stati messi al bando García Lorca e Antonio Machado e, facendo strage di poeti del Siglo de oro, il regime aveva mandato in esilio, in Sudamerica, anche Juan Ramón Jiménez, cantore dell’ineffabile asinello andaluso Platero, poi decorato con il premio Nobel. Quasi impossibile, in quei RUSSIA, aprile 2010. Ettore Mo nella casa-museo di Boris Pasternak a Peredelkino, un complesso di dacie, appartenute a scrittori, 25 chilometri circa a sud-ovest di Mosca. giorni, andare in pellegrinaggio alla pietraia di Viznar, vicino a Granada, dove sono sepolte le ossa di Lorca, fucilato dai franchisti; e altrettanto rischioso pronunciare il nome di Guernica, la cittadina basca sbriciolata il 26 aprile del 1937 dall’aviazione nazifascista e ridotta in meno di un’ora nel più grande obitorio del mondo con 1.654 cadaveri. Al mattino, le scolaresche del Maravillas, schierate nel cortile, iniziavano la giornata al grido di «Viva Franco, Arriba España», la mano tesa nel saluto fascista. Abitavo in un condominio alla Colonia de El Viso, un buon quartiere di periferia sul paseo de la Habana, a ridosso dello stadio Santiago Bernabéu del Real Madrid dove allora giocavano Ferenc Puskás e Alfredo di Stéfano, due idoli del calcio internazionale. La sera si cenava sotto casa da Herrero, una trattoria alla buona che metteva in tavola un ottimo jamón serrano (prosciutto di montagna) e il venerdì, giorno di magro, baccalà del golfo di Biscaglia. Herrero era un vecchio d’indole burbera ma quand’era di buon umore allungava sul bancone la bottiglia di Carlos Primero. Con l’amico Manuel S. Moran si raggiungeva in autobus il centro, a Puerta del Sol, poi giù, la passeggiata classica dei turisti, fino alla Gran Vía e alla plaza Mayor. Sulla Gran Vía – l’avenida – c’erano solo locali di lusso e un calvados al tavolino costava un triplo che da Herrero. Però lì, venti o trent’anni prima, s’erano dati appuntamento poeti, scrittori e intellettuali da ogni parte del mondo, da Wystan Hugh Auden a Stephen Spender, da Arthur Koestler a Il’ja Ehrenburg, da André Malraux a Georges Bernanos a Antoine de Saint-Exupéry. Ernest Hemingway, mandato in Spagna nel 1937 dal North America Newspaper Alliance per raccontare la guerra civile, soggiornava all’hotel Florida, scomparso dopo il conflitto. «A lui», mi confidò un giorno a Roma il poeta Rafael Alberti, «piaceva la Spagna dei toreri e dei gitani. Beveva ed era molto simpatico. Aveva sempre una buona scorta di vino e di carne di cavallo che gli riforniva il quartier generale. Però al fronte andava spesso, fosse l’Ebro o Guadalajara: 39