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Lowry
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Traduzione di Sara Congregati
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A Will e Sophie Clark,
e ai loro bibliotecari di fiducia.
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La Principessa
A
l risveglio, cinque mattine prima del giorno del suo
compleanno, il primo pensiero della principessa
Patricia Priscilla non fu: “Oh, tra non molto avrò un anno
in più, non sono più una bambina ormai!”, oppure: “Son
curiosa di vedere i fantastici doni che mi verranno offerti
al Ballo di Compleanno, fra sei sere!”.
No. Il suo primo pensiero fu: “Che noia, che noia,
che noia”.
Sbattendo le palpebre la principessa si tirò su, appoggiandosi alla federa di seta dei sette cuscini (in sette
impercettibili sfumature di colori regali che andavano
dal lavanda pallidissimo, al porpora, intensissimo) sparsi
lungo la testata del suo magnifico letto di pioppo e noce
intarsiati.
Schioccò le dita per svegliare la gatta dal lungo pelo
giallo che ancora dormiva della grossa ai suoi piedi.
Deliziosa aprì un occhio ambrato e con uno sbadiglio
mise in mostra i bianchissimi denti affilati, poi, stiracchiandosi come ogni mattina, allungò gli artigli delle
quattro zampe e, conficcandoli in un girasole ricamato
sul ricco copriletto, ne tirò i fili uno a uno.
«Ti prego, non essere così viziosa, Deliziosa» disse la
principessa in tono di leggero rimprovero.
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«Fai venir voglia anche a me di sciupare uno di quei
girasoli tirandone i fili. Muoio dalla noia».
La gatta alzò lo sguardo con gli occhi socchiusi in due
fessure scintillanti e subito la principessa, che le leggeva
nel pensiero, vi scorse un qualche imperativo del tipo:
“Dammi da mangiare”.
«Va bene» disse la principessa, allungandosi verso il
campanello d’oro massiccio con la corda penzoloni accanto al letto. Dopo averla tirata, schioccò un tenero bacio in direzione della gatta e tirò una seconda cordicella
facendola oscillare accanto alla prima.
Di lì a poco, molti piani più giù, l’immenso castello
cominciò ad animarsi.
Tre piani sotto, nella stanza dei campanelli, un’anticamera della cucina nello scantinato del castello, i
due campanelli iniziarono a suonare. Il primo era un
delicato campanello d’ottone con un piacevole suono
melodico, l’altro era invece il semplice tintinnio di un
campanellino di stagno. L’addetto ai campanelli, un
giovanotto del villaggio appena assunto, era rannicchiato lì per terra che giocava con un logoro set di domino.
Quando udì i deboli suoni, alzò lo sguardo sul tabellone
dei campanelli. Non sapeva leggere, ma ogni campanello era affiancato da una sagoma ben definita.
Vide il campanellino d’ottone, che continuava a vibrare, e accanto la sagoma di una giovane donna coi
boccoli e la corona.
«Principessa!» chiamò a gran voce, come richiesto
dal suo incarico.
Sotto, vide il campanello di stagno e la rispettiva sagoma dalla lunga coda.
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«E gatta!» gridò. Poi tornò al suo domino, alle tessere
che stava allineando.
Accanto, in una fredda stanza con pavimento in marmo e lunghi tavoli con sopra accatastate le provviste di
cibo, una donna in grembiule dai capelli grigi e arruffati
stava mettendo in fila dei muffin.
«Principessa e gatta!» gridò questa in direzione della
cucina principale.
«Principessa, signorsì!» gridarono all’unisono tre cameriere, gemelle identiche di parto trigemino.
Rispondere all’unisono non rientrava nei loro compiti, ma ci stavano lavorando, nella speranza, un giorno o
l’altro, di uscire da quella cucina triste e umida grazie ai
progressi fatti con la musica.
La prima, il soprano, ruppe subito due uova in una
padella in cui il burro stava già sfrigolando sopra l’enorme piano cottura del castello. La seconda, la mezzosoprano, con fare esperto, versò il latte in una brocca
d’argento. La terza, il contralto, ancora canticchiando,
mise sul tavolo un vassoio con sopra un vasetto di fiori
appena colti dal giardino del castello.
«Gatta, signorsì!» borbottò un anziano servo sull’ottantina. Un tempo era stato maggiordomo, compito
assai più nobile, ma di recente lo avevano degradato a
servo (persino peggio, addetto agli animali domestici!)
dopo che, a causa di un’anca artritica, inciampando in
sala da pranzo, aveva versato la cioccolata calda sulla
gonna di taffetà della regina. Mal sopportava il suo ruolo e in special modo quel titolo – Servo, figuriamoci! –
ma non c’era nulla da fare, non intendeva certo andare
in pensione per rinchiudersi con la moglie isterica nel
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loro piccolo cottage che riecheggiava ripetutamente di
strepiti e lamenti. Si alzò dalla sedia con un lieve gemito
e, reggendosi il fianco, strascicò i piedi fino alla tavola
laterale dove su un grosso piatto di latta erano state adagiate due dozzine di sarde. Le scrutò attentamente e,
dopo averne scelte quattro più piccole, quelle meno lucenti (di cui una con l’estremità della coda sfilacciata),
le mise nella ciotola etichettata col nome DELIZIOSA.
Le altre ciotole, etichettate coi nomi degli altri gatti domestici, erano ancora vuote, in attesa di convocazione.
Il servo anziano mise la ciotola delle sardine sul vassoio proprio mentre la cameriera soprano, trillando tutta
per degli acuti che le stavano dando del filo da torcere,
impiattava le due uova appena cotte sistemandole accanto al vaso dei fiori e alla brocca del latte.
«Carrucolaio!» gridò il servo zoppicando verso la sedia a dondolo.
Il fratello maggiore dell’addetto ai campanelli si alzò
dalla sedia dove si era mezzo appisolato a furia di osservare le tessere del domino e corse in cucina a prendere
il vassoio. Quel compito gli era stato assegnato per la sua
velocità. Si erano candidati in quattro dal villaggio, ma il
giovane più veloce era lui.
Tenendo in equilibrio il vassoio, tanto da non far trapelare neppure una goccia di latte dal beccuccio della
piccola brocca, il carrucolaio attraversò di corsa il lungo
corridoio fiancheggiato da diciassette sportelli di legno
tutti in fila, ognuno con su dipinta una sagoma, appena
sopra il chiavistello.
Essendo ormai pratico del mestiere, il carrucolaio
non aveva più bisogno di esaminare le sagome. Recatosi
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immediatamente allo sportello designato come camera
da letto della principessa, lo aprì alzando il chiavistello,
appoggiò il vassoio sulla mensola di legno sospesa e tirò
la massiccia corda sollevandolo di tre piani talmente in
fretta da non far freddare nemmeno le uova.
«Principessa e gatta in arrivo!» gridò forte mentre il
vassoio saliva lungo gli spessi muri.
«Principessa e gatta in arrivo, signorsì» mormorava
l’intera popolazione della cucina del castello, annuendo con la testa e tornando ognuno al proprio lavoro. Il
carrucolaio si mise di nuovo seduto. Suo fratello minore,
l’addetto ai campanelli, accostata con cura l’ultima tessera del domino, le dette un colpetto e, guardando la fila
crollare, batté le mani compiaciuto. Ciò nonostante rimaneva vigile, in ascolto, aspettando il suono del prossimo
campanello, poiché in questo consisteva il suo lavoro.
Di sopra, nella camera da letto della principessa
Patricia Priscilla, una giovane cameriera con le lentiggini stava portando il vassoio della colazione dall’apertura nel muro al tavolino rotondo accanto alla finestra.
Salò le uova, versò il latte in un calice di peltro e sotto al
tavolino, sul pavimento, appoggiò la ciotola di sardine
per la gatta che, abituata a far colazione ai piedi della
principessa, balzò giù dal letto correndo verso la ciotola
per annusarla.
«È sostanziosa, Deliziosa» disse la principessa alla gatta. Si divertiva a ripeterlo ogni mattina.
«Buon martedì-prima-del-vostro-compleanno, principessa Patricia Priscilla» mormorò la cameriera porgendole una vestaglia di seta. La principessa infilò le braccia
nelle maniche e si sedette al tavolo.
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«Grazie» rispose educatamente la principessa. Prese
in mano una forchetta e, assaggiato un bocconcino della
sua colazione, volse lo sguardo alla finestra, alle terre intorno al castello. Era una bella giornata di cielo azzurro
e senza nuvole, la campagna si estendeva su pendii verdi
e dorati, ogni campo era delimitato da siepi di un verde
più intenso. Vedeva le mucche pezzate, bianche e nere,
che brucavano l’erba, e sul sentiero polveroso bimbi piccoli che si divertivano a giocare con una grossa palla a
righe bianche e blu. L’aria era così tersa che il fragore di
quelle risa, simile alle note di una melodia, si librava in
alto, fino alla sua finestra.
Era l’inizio di una nuova giornata. La principessa
Patricia Priscilla sospirò, dicendo: «Che noia tremenda».
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Il maestro
G
iù al villaggio, il nuovo maestro stava preparando la
classe. Dopo aver disposto i banchi in file parallele,
ne osservò l’allineamento, pensoso, poi, scuotendo la testa, spostò i banchi un’altra volta mettendoli a semicerchio di fronte alla cattedra. Decise che così gli piaceva
di più.
Il giovane si chiamava Rafe. Gli abitanti del villaggio,
tutti contadini, avevano nomi corti, distinguendosi in
questo dai nobili e dalla stirpe reale. Lord, sir, conti, duchi, dame e principesse di nomi ne avevano o se ne davano a bizzeffe, lunghi, molto lunghi, persino inventati,
con risultati assai prolissi, invadenti, difficili da tenere a
mente. Una volta, alla cerimonia organizzata dalla regina per tributare tutti gli onori a un cavaliere distintosi
in atti eroici, si era verificato un incidente diplomatico.
«Alzatevi!» aveva gridato la regina all’uomo inginocchiato al suo cospetto. Dopo avergli toccato la spalla
con lo scettro di pietre preziose gli aveva infilato al collo una fascia decorativa da cui pendeva una medaglia.
«Alzatevi, Sir…»
Seguì un attimo di imbarazzante esitazione. Il cavaliere si chiamava Mortimer, e lei lo sapeva perché lo conosceva da anni. Ma negli ultimi mesi si era dato nomi
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aggiuntivi che lo qualificavano come “il Virile” e “il
Magnifico” e “il Più Mascolino”. La regina fece semplicemente un buco nell’acqua. Lo guardò e lui ne ricambiò lo sguardo, limitandosi a risollevare appena la testa,
poiché sarebbe stato indecoroso parlare nel bel mezzo
di una cerimonia solenne, e in ogni caso era talmente
confuso dall’esitazione della regina da non riuscire a coglierne il senso.
Il re, che aveva assistito alla scena dal suo trono accanto alla moglie, le bisbigliò, a voce molto bassa: «Sir
Mortimer il Virile, il Magnifico, il Più Mascolino». Sapeva
però che era del tutto inutile. La regina infatti era un
po’ dura d’orecchi, congelati entrambi a un Carnevale
d’Inverno quando, da giovane, per troppa vanità, si era
rifiutata di indossare il cappello di pelliccia; il suo udito
da allora era molto peggiorato. Non sentì affatto il bisbiglio propizio del marito.
La regina poteva contare però su una discreta prontezza di spirito, il che molto spesso ne compensava i difetti, come la mancanza di un udito perfetto. In questa
circostanza si limitò a un atteggiamento regale e dinnanzi alla nobiltà lì riunita annunciò: «Intoniamo tutti
insieme il nome del nostro cavaliere appena insignito.
Pronti?». Sollevò lo scettro.
«Sir…» iniziò, rivolgendosi agli astanti con sguardo
carico di attesa.
Il re, con una potente voce da baritono, intonò: «Sir
Mortimer…».
Finalmente l’intera folla lì riunita – quaranta conti,
ventidue duchi, molte consorti e concubine, tre buffoni di corte e un principe del Foro – realizzò cosa ci si
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aspettava da loro. «Sir Mortimer il Virile, il Magnifico,
il Più Mascolino!» intonarono, e il cavaliere si alzò in
piedi. Un simile inconveniente non si era mai verificato
tra la popolazione contadina. I loro nomi, come quello
del giovane maestro, erano brevi e facili da pronunciare:
Nell, Jack, Will. Di fatto, furono proprio quelli i nomi
che il maestro Rafe, il primo giorno di scuola, scrisse in
bella calligrafia su delle targhette, insieme a tutti gli altri
nomi dei suoi alunni:
Nell
Jack
Will
Fred
Liz
Mick
Beth
Anne
Kate
Ben
Appoggiò quindi ogni targhetta su ciascun banco di legno. Dopo di che dette da mangiare al piccolo porcospino in gabbia nell’angolo. L’aveva portato in classe per
insegnare ai bambini il rispetto per gli animali e per
ogni essere vivente.
Il grosso cappello arancione da somaro lo sistemò in
alto, in bella vista, così da scoraggiare chiunque intendesse comportarsi male.
Rafe tornò con la mente all’infanzia e ai tempi della
scuola, ricordando quanto fosse umiliante indossare il
cappello da somaro. Nonostante si fosse sempre distinto
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come eccellente scolaro, diligente nel fare i compiti, di
tanto in tanto si era lasciato andare al suo istinto di bambino vivace, divertendosi in modi che il severo maestro,
Herr Gutmann, aveva disapprovato. Come punizione gli
aveva ordinato d’indossare davanti a tutta la classe l’umiliante cappello arancione.
Ora, pensò Rafe, essendo lui il maestro, toccava proprio a lui punire ogni condotta disdicevole. Temeva il
momento in cui avrebbe dovuto mettere il cappello da
somaro in testa a un suo alunno, uno qualunque di quei
bambini a cui tanto piaceva divertirsi.
Erano lì fuori, li sentiva, i bambini del villaggio che
giocavano a palla sul sentiero. Presto sarebbe stata ora
d’entrare in classe. Era un tantino nervoso adesso, al suo
primo giorno di lavoro. Aveva studiato Metodi d’Insegnamento in accademia, e con profitto anche, eccellendo nella Scrittura e nell’Oratoria. Si riteneva molto bravo nei Giochi d’Immaginazione e discretamente esperto
nei Proverbi. Ma sapeva che i Calcoli Matematici non
erano il suo forte, per non parlare poi della severità, in
cui scarseggiava parecchio.
«Devi contenere i tuoi modi affabili» gli aveva detto
il professore di Metodi d’Insegnamento nella sua valutazione. «Lavora sulla tua severità».
«Ci proverò» disse allora Rafe.
«La tua faccia non ti facilita le cose, lo so» disse il professore in tono compassionevole.
«La mia faccia?»
Nessuno aveva mai fatto commenti sulla faccia di
Rafe, a eccezione di sua madre. Ricordava vagamente
che lo aveva sempre definito il più bello dei suoi figli,
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una simpatica trovata dal momento che lui era l’unico
figlio maschio.
A dire il vero la sua faccia era piuttosto ordinaria. I
luminosi occhi marroni erano screziati di giallo, e aveva
una fronte alta su cui spesso ricadevano i capelli castani,
anche se con la mano li ravviava all’indietro così spesso
da farne un tic.
«Una faccia severa» spiegò il professore «richiede che
la bocca formi una linea retta. Così». Gli fece vedere tirando forte le labbra contro i denti. Nel far ciò aveva
assunto in realtà un’aria piuttosto minacciosa, e Rafe si
era un tantino innervosito.
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«E la fronte dovrebbe stare corrugata» proseguì il
professore. «Con la fronte corrugata, le sopracciglia ricadono quasi spontaneamente in uno stato di fiero cipiglio. Così».
Gli fece vedere di nuovo, stavolta impostando la bocca e aggrottando allo stesso tempo la fronte.
«È uno sguardo estremamente severo» concordò
Rafe, sentendosi quasi a disagio alla sola vista.
«Sì. Bene. Lavoraci».
«Sì, signore».
«La tua faccia tende ad avere lineamenti affabili. Gli
angoli della tua bocca sono rivolti all’insù. Non va bene
per un maestro, disorienta i bambini».
«Oh, non voglio certo prendermi la responsabilità di
disorientare i bambini!» aveva detto Rafe, accalorandosi molto per questo. Adesso era il suo primo
giorno da maestro, incarico in cui si era
imbattuto prima del previsto, a causa
dell’improvviso pensionamento del
precedente insegnante, che aveva
svolto quel lavoro per molti anni. Nel
preparare la classe, Rafe cercò anche di prepararsi la faccia. Aggrottò
le sopracciglia e allineò la bocca.
Tenerla così era difficile, persino un
po’ doloroso e, senza accorgersene,
gli angoli della bocca avevano ripreso
a cedere accennando un sorriso.
Herr Gutmann, l’insegnante di Rafe
quand’era bambino, aveva i capelli
grigi e la barba. Rafe, al contrario,
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era giovanissimo, aveva solo diciott’anni. Appena terminati gli studi, si preparava a svolgere l’apprendistato in
un regno lontano quando, inaspettatamente, l’avevano
richiamato al villaggio, proprio quello in cui era nato, a
causa dell’improvvisa partenza di Herr Gutmann.
(Non gli avevano detto perché Herr Gutmann se n’era andato. Si vociferava però che l’amore della sua vita,
una donna di nome Gertrude, fosse rimasta vedova e gli
avesse mandato una triste lettera, dal lontano regno in
cui viveva per fargli sapere che era sola).
Pensando a questo, Rafe si domandò come sarebbe
stato trovare l’amore della vita. A lui non era mai successo. E inoltre, cos’era l’amore? Non ne era sicuro. Pensò
alle donne che conosceva bene.
Sua madre? Oh, sì! Le aveva voluto bene. Si ricordava di quando da piccolo gli cantava le ninnenanne per
farlo addormentare. Ma era morta poco dopo aver dato
alla luce la sorella minore, quand’era ancora molto piccolo. Adesso era sepolta al cimitero, sul sentiero che correva giù dalla scuola.
Proprio quella mattina si era toccato il cappello in
segno di rispetto passandoci davanti.
E sua sorella? Le aveva voluto bene, ma purtroppo
aveva perso per sempre anche lei. Era scomparsa nel
nulla mentre lui era via da casa a studiare. Quando
Rafe, tornato dall’accademia per insegnanti, aveva chiesto al padre dove fosse finita sua sorella, l’uomo corpulento dalla voce stentorea, passandosi la mano sulla
barba per ripulirsi dall’unto della colazione, aveva urlato: «Robaccia, le ragazze! L’ho venduta!» senza dare
nessun’altra spiegazione.
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Era da allora che piangeva l’amata sorella, e senza
neppure una tomba davanti alla quale potersi toccare
il cappello.
Altre donne? Be’, aveva una cugina, una ragazza
sciocca con la tendenza a parlar troppo, e spesso a vuoto, raccontando lunghe storie noiose senza mai arrivare
al punto. Poi c’era zia Chloë, che lavorava come cuoca al
castello. Ma aveva i baffi e le verruche. Rafe sapeva che la
bellezza era una qualità interiore, ma quando l’esteriore
aveva i baffi e le verruche, era dura avventurarsi oltre.
Ad ogni modo, nessuna di queste, pensò, aveva niente a che vedere con l’amore della vita. Era un concetto
che probabilmente non avrebbe mai capito. Sospirando,
Rafe smise di pensare all’amore e al suo possibile significato, rendendosi conto che forse lui non vi si sarebbe
mai imbattuto. Avrebbe amato l’insegnamento e i suoi
alunni, forse sarebbe bastato. Disponendoli l’uno sopra
l’altro, sistemò sulla scrivania tutti i suoi fogli in una pila
ordinata. Si pulì ancora una volta le unghie delle dita
con una limetta che teneva in tasca e, tirato fuori il fazzoletto, si spolverò di nuovo le scarpe.
“Farò del mio meglio per essere un bravo insegnante”.
Si ripeté altre due volte.
“Farò del mio meglio per essere un bravo insegnante”.
“Farò del mio meglio per essere un bravo insegnante”.
Poi guardò l’orologio intarsiato a cucù, sul muro della classe. (Era di sua madre, ma non voleva pensarci,
quel pensiero lo rattristava). L’orologio gli disse che era
ora. Fece un respiro profondo e andò all’ingresso a suonare la campanella che richiamava a scuola i bambini
del villaggio.
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