San Miniato al Monte- un libro di pietra
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San Miniato al Monte- un libro di pietra
! ! ! ! San Miniato al Monte: un libro di pietra ! (terza e ultima parte) “Noi possiamo immaginare l’Armonia Celeste a partire dalle cose che sperimentiamo di continuo”, scriveva il frate francescano Francesco Zorzi nella sua opera “De harmonia mundi”. Quest’affermazione ripropone l’antico pensiero ermetico -“com’è in alto così è in basso per compiere le meraviglie della cosa una”- impresso su Tavola di Smeraldo da Ermete Trismegisto, il “Tre Volte Grande Maestro”, depositario di una sapienza antica custodita e rivelata agli uomini dalle epoche più remote. L’arcaico assioma scritto su lastra di s m e r a l d o o Tavo l a S m e r a l d i n a , rinvenuta in Egitto tra il IV e il III secolo a.C., rappresentò il tema filosoficoreligioso innovativo al quale si rifecero le menti più illuminate del mondo orientale ed occidentale. Il grande Ermete raccolse e sviluppò quello stesso pensiero nel “Corpus Hermeticum” ed il suo trattato divenne la “dottrina-guida” da seguire per la salvezza dell’anima. Egli affermava che “tutte le cose terrestri non sono reali ma simulacri della Realtà”, parvenze periture soggette ad un continuo mutamento, però sosteneva anche che attraverso l’osservazione di ciò che ci sta intorno si può pervenire alla conoscenza di ciò che sta in Cielo, in una continua corrispondenza di analogie ed affinità. Il livello elevato dei suoi scritti, di chiara matrice spirituale e morale segreta, assunse una notevole importanza durante il Medioevo ed il Rinascimento. Due secoli più tardi Galileo Galilei, nel “Saggiatore”, affronterà quello stesso pensiero paragonando la natura ad un “grandissimo libro” continuamente aperto davanti ai nostri occhi, ma la cui decifrazione può rimanere impenetrabile se prima non si comincia a conoscerne i caratteri grafici con cui è stato scritto. Quanto a grafie che riproducono figure geometriche strettamente attinenti al mondo della natura, la storia dell’umanità ne è 1 piena, basti pensare a quei primi rudimentali segni impressi su pietra scoperti in parti differenti dei nostri due emisferi - risalenti ad epoche molto antiche; a quanto pare i primi uomini apparsi sulla terra erano già a conoscenza di un sapere che poi si è tramandato di civiltà in civiltà fino a giungere ai giorni nostri. Già nel Paleolitico si poteva parlare di una vera e propria “scrittura delle pietre” che all’inizio si manifestò con semplici linee geometriche dalle forme più disparate, ma che poi in epoche successive acquistò l’identità di “pittogrammi” destinati a fini comunicativi. Quei tratti geometrici-astratti divennero i segni convenzionali per trasmettere azioni e concetti, una specie di “lingua visiva” la cui decifrazione rimaneva però accessibile solo per coloro che avevano seguito una via conoscitiva di tipo iniziatico. Il grande Ermete sosteneva che la “conoscenza suprema è il sacro silenzio, l’inibizione di tutti i nostri sensi” e da questa affermazione possiamo ben comprendere che certi messaggi sapienziali non venivano mai trascritti su foglio, ma passavano da “bocca a orecchio” o venivano impressi su pietra. La pietra, antico simbolo della Terra Madre, era il luogo sacro sul quale la divinità poneva la sua residenza, simbolo di fertilità e di stretto connubio tra Cielo e Terra. Nelle Sacre Scritture si parla di una pietra che era stata scartata dai costruttori e che invece diviene la “pietra d’angolo” che sostiene tutta la struttura del Tempio, con chiaro riferimento a Gesù Cristo. Quindi è sulla pietra grezza che l’uomo può esercitare la sua maestria incidendola e “tagliandola”, per darle quella forma “cubica” così pregna di mistici significati. Se ci ricordiamo le cattedrali gotiche hanno la forma di un cubo dispiegato - o croce allungata - simbolo di stabilità, equilibrio e nuova vita. 2 Furono i Cavalieri dell’Ordine del Tempio a infondere un nuovo impulso all’architettura sacra dando vita, grazie alla loro conoscenza di antiche e segrete formule matematiche, a costruzioni che si elevano verso il cielo in uno slancio di vitalità che mai più si è saputo riprodurre. Fulcanelli nel suo libro “Il mistero delle cattedrali” raccoglie parte di quelle conoscenze utilizzando un linguaggio che resta assolutamente sconosciuto a chi non è addentro al simbolismo della Dottrina Ermetica. Così Eugène Canseliet, scrittore ed alchimista francese della fine del XIX secolo commenta l’opera di Fulcanelli: “Grazie a lui la Cattedrale gotica ci confida il suo segreto” e in quest’affermazione vi è tutta la conoscenza alchemica che quegli antichi “libri di pietra” nascondevano. Mentre l’arte gotica in Francia e nel resto d’Europa verso la fine del XII secolo si esprimeva in un’architettura nuova, che alleggeriva la massa muraria per dar vita a pareti di luce, vetrate, archi rampanti e pinnacoli in uno slancio verticale che toccava altezze al limite della staticità, in Italia ed in particolare modo in Toscana, l’arte prendeva caratteristiche differenti che si rifacevano a consolidati e antichi canoni costruttivi. In quel periodo storico l’architettura toscana, pur risentendo fortemente del modello romanico-gotico e degli insegnamenti dettati da San Bernardo da Chiaravalle che rimandavano alla costruzione di chiese dalle linee pulite fondate sulla proporzione aurea e sui rapporti musicali, vide l’introduzione non solo di archi a sesto acuto, rosoni e pilastri, ma anche di tutta una serie di simbologie ermetiche proprie dell’arte Templare. Il termine “gotico” deriva dalla radice “goth-gut” con il significato di “divino, sacro” ed ogni elemento decorativo doveva rispondere a quella stessa bellezza ed armonia secondo un rapporto “ben accordato” di tutti gli elementi geometrici e musicali, che avrebbero dato vita alla realizzazione di quell’opera muraria. All’inizio del XIII secolo si parlò di 3 “monaci-operai”, veri architetti del Tempio, che si ispiravano alle forme costruttive delle chiese francesi, pur mantenendo una consolidata struttura in perfetta armonia di rapporti e proporzioni: così è avvenuto per l’ideazione e la progettazione della Basilica di San Miniato al Monte la cui facciata fu realizzata con elementi geometrici in marmo verde e bianco. Quel nome “Joseph” impresso su marmo all’interno della navata centrale della Basilica, fa pensare ad un “monaco-operaio”, maestro costruttore e detentore di un sapere architettonicoermetico di grande livello. Di questo personaggio si sa solo la data del termine della sua opera (1207), ma pensando a quanto l’Ordine dei Cavalieri del Tempio si stava diffondendo in Firenze, sembra impossibile che “l’artista” non fosse in linea con il loro pensiero. Lo Spedale del Santo Sepolcro, situato sull’angolo tra il Ponte Vecchio e Borgo San Iacopo, la Chiesa di S. Iacopo in Corbolini in via Faenza ed il Lungarno del Tempio, dalla Zecca Vecchia verso l’Albereta, sono i luoghi più noti legati all’insediamento dei Templari e quindi come non pensare che le loro conoscenze non abbiano influito sulla struttura architettonico-simbolica di San Miniato al Monte? Le chiese a loro assimilate contengono tutte un significato simbolico-alchemico di non facile decifrazione. Si parla di un linguaggio “senza parole e senza voce” che si esprime attraverso dei simboli impressi su pietra che divengono più loquaci di qualsiasi annotazione lasciata su manoscritti e stampati. Così afferma J. F. Colfs nel suo “La Filiation généalogique de toutes les Ecoles gothiques”: “La lingua di pietra parlata da questa nuova arte è contemporaneamente chiara e sublime. E quindi essa parla all’anima dei più umili come a quella dei più colti”. Guardando San Miniato al Monte non può non venire in mente che tutte quelle precise decorazioni geometriche presenti sul prospetto anteriore, nelle navate interne, sul pavimento e nella parte absidale della Basilica non abbiano un serio riferimento a questo linguaggio. La suddivisione su tre livelli sovrapposti della facciata, che si ripete con precisa sintonia anche all’interno della Basilica, indica un forte messaggio 4 sapienziale che ci riporta a tre precisi “stati” dell’anima che gli alchimisti chiamavano Opera al Nero, Opera al Bianco e Opera al Rosso: tre significati allegorici per definire un percorso all’interno della proprio cuore, scoprirne gli anfratti più reconditi, affrontare le lotte più difficili per poi arrivare alla vera ricchezza, l’ “essere divino” celato in noi, possessore di ogni Virtù e Sapienza. La prima cosa che notiamo è che le geometrie decorative presenti sul prospetto della Basilica ed al suo interno, nascono tutte dallo sposalizio ordinato di due tonalità di marmi: il marmo bianco luminoso e il verde scuro o “marmo serpentino”. Nella Dottrina Ermetica il colore verde è assimilato al nero: il seme deve marcire, morire dentro la zolla per poi dar vita al tenero virgulto; simbologia ben evidenziata da questa tipologia di marmo, detto anche “marmo di Prato” perché tipico delle aree pratesi. La caratteristica di questa roccia metamorfica è che la sua tonalità verde presenta sfumature scurissime che tendono al grigio ed addirittura al nero. Il nome “serpentino” gli deriva da un’antica credenza che abbinava questa qualità di marmo con impurità minerali, alla sinuosità del serpente. La costante alternanza del bianco e del verde ci riporta all’eterno conflitto tra “luci” ed “ombre”, quel continuo gioco degli opposti tra “bene” e “male” che vorrebbe imprigionare l’anima per non farla spiritualmente progredire. Il marmo bianco, chiamato anche “pietra splendente”, per la sua caratteristica luminosità, può trovare relazione con “l’Intelligenza Luminosa” divina, mentre il verde-serpentino-scuro con “l’intelligenza senza saggezza” propria dell’istintività che tiene ancorati ai più bassi piani dell’esistenza. Premettendo che ogni simbolo può essere suscettibile di interpretazioni differenti che non si escludono tra loro ma che fanno parte del bagaglio conoscitivo di ognuno, cerchiamo adesso di dare una lettura alchemica di questo grande “libro di pietra” che i maestri costruttori di San Miniato al Monte hanno voluto per noi immortalare. La prima cosa che notiamo è che numerose geometrie architettoniche e decorative della Basilica sono in “sezione aurea”: proporzione geometrica perfetta che si fonda sul principio matematico della Bellezza e dell’Armonia e che conferisce ancora maggiore sacralità all’edificio. 5 Se guardiamo l’ordine inferiore della facciata, vediamo che è un grande parallelepipedo solido e ben basato - in rapporto aureo - sul quale si aprono cinque portali, incorniciati da semicolonne, sormontati da altrettante arcate cieche a tutto sesto. E’ interessante notare che anche quelle porte, con la loro cornice, sono in perfetta proporzione aurea; stessa cosa per quei piccoli rettangoli formati da listelli orizzontali e verticali che vanno a decorare l’interno dei cinque archi. Il cinque è un numero evocatore che ci riporta ad antichi simboli come la stella a cinque punte, o pentagramma, utilizzata dai pitagorici come loro segno di riconoscimento; simbolo che verrà riproposto da Vitruvio e dallo stesso Leonardo da Vinci come emblema dell’Uomo perfetto. Il cinque è formato dal numero due - la dualità o “antinomia” da vincere e superare - e dal tre, il numero perfetto simbolo di luce, ordine e volontà divina. I portali che si aprono su quel rettangolo sono cinque, ma solo tre introducono all’interno della Basilica, gli altri due sono ciechi, ben chiusi da listelli di marmo serpentino. Questa particolarità che sembra più che altro decorativa può nascondere un chiaro messaggio: quelle due porte cieche potrebbero ricordare che la “dualità” o contrapposizione va combattuta e vinta perché non conduce a niente e va sostituita con il numero tre - i tre ingressi che danno l’accesso alla Basilica simbolo della Trinità divina che scende in aiuto dell’anima di colui o colei che vuole intraprendere un itinerario mistico-iniziatico. Il cinque nasce dunque dallo sposalizio del due e del tre, e ricorda l’antico numero delle “ierogamie” ovvero del matrimonio tra il mondo Celeste e quello terrestre. Non dimentichiamo che sullo scalino del portale d’entrata di sinistra, guardando la facciata, vi è la scritta “HAEC EST PORTA COELI” frase chiara che vuol ricordare che è da quella porta “sinistra” che ci si introduce nel 6 Tempio. Nella dottrina cabbalistica la sinistra e la destra rappresentano le Potenze delle due “mani” di Dio: Timore e Rigore, Grazia e Misericordia, due aspetti divini inevitabili che accompagnano l’uomo e la donna nel loro percorso conoscitivo. L’ Anfora verde, simbolico riferimento all’“athanor” degli Alchimisti, posta sulla sommità del portale principale, invita ad introdurci in quel Tempio metafora del proprio cuore - e da lì cominciare un itinerario prima in discesa (Opera al Nero o piano inferiore) poi in salita (Opera al Bianco o piano mediano) per poi arrivare all’aspetto d’amore più elevato (Opera al Rosso o piano superiore). I due quadrati, che intersecandosi tra loro sembrano voler preservare l’Anfora da ogni tipo di intrusione esterna, danno vita ad un ottagono che ripropone l’antico connubio ermetico del Cielo che si riflette sulla Terra: simbolo chiaro di quest’eterna relazione che mai abbandonerà il genere umano. Se l’aspetto di “timore e rigore” può essere evidenziato da quelle cinque porte d’entrata, quello della “grazia e misericordia” possiamo leggerlo nel simbolo che si ripete puntuale al centro dei triangoli che separano le cinque arcate superiori; quei tre piccoli cerchi che si intersecano tra loro dando vita ad un’unica figura geometrica, fanno pensare al Principio Trinitario divino che scende in aiuto di chi si appresta a farsi coraggioso “ricercatore” della Verità. Il secondo ordine della facciata è separato dal primo da una solida cornice che segna il passaggio tra un piano e l’altro della Basilica, come a sottolineare l’idea del “cambiamento di stato” che l’uomo e la donna devono realizzare. Il rettangolo che lo contraddistingue è anch’esso in proporzione aurea, ma per la sua dimensione più contenuta, dà l’idea di una “leggerezza” nuova; ai fianchi presenta due elementi a “maglia reticolare” che sembrano non legare c o n i l re s t o d e l l a struttura dell’edificio, ma che al contrario conferiscono ancor più l’idea di armonia e dinamicità. 7 L’“opus reticulatum” era un’antichissima tecnica muraria romana, risalente al I e II secolo a.C., che si basava sull’utilizzo di “cubilia”, a base perfettamente quadrata, disposti in file oblique regolari tali da creare un solido effetto rete. Il reticolo riporta all’idea di un “recinto sacro”, simbolo di realizzazione evolutiva stabile e duratura e quindi di “dimora divina”, concetto che sembra ben legare con quei quadrati perfetti disposti diagonalmente che chiudono il livello mediano dell’edificio, quasi a preservarlo da ogni intrusione; ipotesi confermata dalle due piccole teste di pietra che come “ g a rg oy l e s ” e s c o n o d a l l a cornice esterna del reticolo e si affacciano su quel livello. Lo stessa “rete”, anche se di dimensione inferiore, si ripete nella decorazione della finestra rettangolare, posta al centro di quel piano, sormontata da un timpano finemente decorato, sulla quale poggia il mosaico raffigurante il Cristo benedicente con ai lati la Vergine e San Miniato. Quella finestra, anch’essa in perfetta proporzione aurea, rappresenta il “cuore” di tutta la struttura e fa pensare ad uno spiraglio aperto sui mondi superiori. Se infatti proviamo ad inserire l’intera Basilica dentro ad un ipotetico quadrato ed andiamo a tracciarne le diagonali, ci accorgiamo che il loro punto d’incontro si ferma proprio al centro di quella finestra. Dice il Cristo: “Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita eterna” (Giov. 8:12) e quel mosaico dorato con al centro Gesù Cristo radioso e benedicente richiama alla Luce. Infine un’altra cornice separa la parte mediana della facciata dall’ultimo livello, quello superiore, che chiude a triangolo, in una tarsia di 8 piccoli motivi decorativi, l’estremità del frontone. Due esili figure dall’aspetto umano sembrano reggere il timpano scandito da tre file sovrapposte di elementi ornamentali. Quelle piccole cariatidi ricordano gli “oranti”, antiche forme umane schematizzate ritratte con le braccia alzate in atto di preghiera, impresse sulle pietre della Val Camonica: simbologia che ribadisce il concetto che alcuni simboli parlano in tutte le epoche lo stesso linguaggio. Anche i nove archetti a tutto sesto con al centro un fiore ad otto petali riportano a mistici significati. Nella Dottrina ermetica il numero nove corrisponde all’Iniziato, il saggio “pellegrino spirituale” che dopo aver riportato ogni tipo di vittoria sulle prove umane, si appresta a vivere nuove esperienze. Sono nove le Gerarchie angeliche di cui parla Dionigi l’Aeropagita ed altrettante quelle che guarda estasiato Dante Alighieri quando si trova con Beatrice nell’Empireo. Anche quel fiore dagli otto petali assume nel contesto un analogo significato. Il fiore evoca per la forma del suo calice l’idea di “ricettacolo”, una simbolica “coppa” che contiene il “sacro nettare”. Gli otto petali disposti a raggiera come un piccolo Sole alludono al numero otto o “doppio quaternario” emblema di equilibrio, perfezione e Visione Estatica. Al di sopra di quegli archetti vi è una serie di formelle finemente intarsiate riproducenti al centro due figurine sottili nelle quali possiamo riconoscere l’uomo e la donna che reggono in una mano un piccolo fiore e nell’altra un pesce che sembrano portare in prossimità della bocca. Il pesce nella tradizione Veda rappresenta colui che “salva dal diluvio” e consegna, a chi ha meritato una tale grazia, i libri sacri che contengono la vera Scienza; nella tradizione mesopotamica invece è l’Oannes, il “Signore delle grandi acque” dalle sembianze di uomo-pesce, fonte di ogni Sapienza; 9 nel Cristianesimo è invece il “Salvatore”, Gesù Cristo, vero “nutrimento” per tutta l’Umanità. L’uomo la donna sembrano rigenerati da quella presenza cristica ed entrambi appaiono immersi in una fitta vegetazione di virgulti e fiori, divenendo loro stessi “tralci” dello stesso Albero. Sopra di loro una croce bianca su fondo verde, la cui forma ad otto cuspidi ricorda l’antico emblema templare che riconduce alla simbologia del “numero otto” ed al Mistero dell’Ottavo Giorno della tradizione cristiana. Accanto a quella croce bianca vi sono sei piccoli candelieri, tre per parte, perfettamente allineati. Nel simbolismo ermetico il cero, per la sua for ma caratteristica, rappresenta il Padre (la cera pura), il Figlio (il cordoncino che alimenta la combustione) e lo Spirito Santo (la fiamma ardente), ma al tempo stesso può rappresentare il Corpo, l’Anima e lo Spirito di chi ha raggiunto l’esperienza trasformante di “sublimazione” e si è fatto affine al Principio Trinitario. Così quei sei candelieri, dalle piccole fiammelle accese, ricordano le sei luci che nella tradizione ermetica illuminano il Tempio: una fiamma ardente, simbolo di purezza e di perfezione, che sale verso alte vette spirituali. Sulla sommità del pinnacolo che sovrasta la Basilica, vi è un’aquila ad ali spiegate come una “vigilante”. Poiché l’aquila è l’unico uccello capace di innalzarsi sopra alle nuvole e di fissare il sole, la sua maestosità vuol ricordare che la vera Sapienza si ottiene solo se ci si avvicina al Cristo-Sole con la purezza del cuore. 10 “Io sono la Via, la Verità e la Vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” afferma Gesù Cristo nel Vangelo di Giovanni (14:1-6) e quel Cristo benedicente immortalato al centro del frontone della Basilica di San Miniato al Monte sembra voler chiamare l’anima verso quella Realizzazione. 11
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