non profit e riforma dello stato

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non profit e riforma dello stato
NON PROFIT
E RIFORMA DELLO STATO
PARTE I
REGIONALISMO E SOLIDARIETÀ
CAPITOLO I
DIRITTI SOCIALI, SERVIZI PUBBLICI E NON PROFIT
SOMMARIO: 1. Da bisogni sociali a diritti sociali. – 1.1. L’Italia “sociale”
dell’Unità e del Ventennio. – 1.2. L’Italia “sociale” della ricostruzione e
dell’avvento della Costituzione. – 1.3. Il Welfare italiano. – 2. Non di soli
interessi, ma anche di valori vive (o muore) il Welfare. Vedi alla voce “partecipazione”. – 2.1. Vedi alla voce “pluralismo”. – 2.2 “Fini pubblici” e “Servizi pubblici”: il viaggio di una parola. – 3. Assistenza e beneficenza. La
“questione sociale” secondo Welfare. – 4. La crisi di Welfare si avvita. L’assistenza si fa in tre: Stato, enti religiosi e volontariato. – 4.1. I lineamenti
della crisi di Welfare. – 5. Quale “Stato” quali “privati”. – 6. Questione sociale e ruolo dello Stato. Il monopolio pubblico che non c’è. – 7. Prima e
seconda regionalizzazione. – 7.1. I due modelli di sicurezza sociale della
regionalizzazione. – 7.2. Il posto dei privati nel riassetto regionale dell’assistenza. – 7.3. L’assistenza tra Stato e Regioni: privato sì/privato no.
– 7.4. Il riordino regionale dell’assistenza e l’erosione della categoria degli “interessi nazionali”. – 7.5. Le premesse del decennio successivo. – 8.
Volontariato: vederlo da vicino.
1. Da bisogni sociali a diritti sociali.
Perché il contenuto di questa parte dia ragione al suo titolo e appaia chiaro il legame 1 che tiene uniti gli elementi che lo compongono
è essenziale partire dai diritti sociali 2 e dalla relativa nozione.
Se non l’origine, quanto meno l’evoluzione dei diritti sociali 3, per
1
Lo mette bene in evidenza C. AMIRANTE, I servizi pubblici fra ordinamento comunitario e ordinamento interno: regole di mercato e funzione sociale, in AA.VV.,
Stati nazionali e poteri locali, a cura di S. GAMBINO, Rimini 1998 e ID., La coesione
economica e sociale. I servizi pubblici e i diritti sociali, in http://www.luiss.it/secost/
euro-pa/amirante/index.html.
2
Cfr. A. BALDASSARRE, voce Diritti sociali, in Enc. giur. Treccani, Roma 1991 e
ID., Diritti della persona e valori costituzionali, Torino 1997, pp. 304-305.
3
In parallelo a quella nel diritto dello Stato vi è stata una evoluzione dei diritti sociali anche in ambito comunitario. Ad esempio, nella Carta dei diritti fondamentali adottata dal Consiglio Europeo di Nizza del 7 dicembre 2000 viene sancito
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non parlare della loro inclinazione presente, ha di fatti parecchi punti
di contatto con la storia degli enti religiosi e con quella più complessiva del non profit.
Sono, nel loro insieme, “pezzi” di una più larga vicenda culturale
e normativa che un po’ contiene tutte le altre. Quella collegata alla
riforma dello Stato. Occupa, l’ultima, i due più corposi capitoli della
nostra storia normativa recente. La regionalizzazione ne costituisce il
primo. Quanto al secondo: la trasformazione in senso federale dello
Stato che ne è la odierna modalità di sviluppo, si va perfezionando e
completando sotto i nostri occhi e con il nostro più, o meno, consapevole contributo.
È bene ricordare che nella lingua di taluni paesi è totalmente assente il termine “sviluppo” che abbiamo adoperato. Nel vissuto degli
abitanti, nella loro cultura e nell’immaginario collettivo – così spiegano la cosa filosofia e antropologia insieme 4 – è venuta a mancare questo tipo di esperienza, non se ne conserva memoria né si forma il relativo concetto di sintesi.
Non così da noi, nel nostro Paese e, più in generale, nell’area europea occidentale di comune riferimento.
Nel nostro lessico il termine, infatti, esiste. Anzi, dal secondo dopoguerra in poi, come quello di progresso cui spesso lo si associa, è venuto assumendo una fisionomia ben precisa. Anche se è dalla seconda
metà degli anni ’60 in poi che si è andato anche caricando di significati assai determinati. Anche in ambito giuridico.
In questa sede, l’alta definizione del concetto deve parecchio al
modo in cui si è svolta in questo arco di tempo l’esperienza storica e sociale del nostro paese e ai valori cui si è ispirata, al suo interno, la funzione ordinatrice, prima solo garantista e poi promozionale/interventista fatta propria dal diritto. Uno dei motori decisivi del nostro tipo di
sviluppo.
il principio della indivisibilità dei diritti fondamentali dai diritti sociali. Cfr. R. BIFULCO M. CARTABIA-A. CELOTTO, L’Europa dei diritti, Bologna 2001, pp. 22-26. Peccato però che nonostante la Commissione, il Parlamento Europeo e taluni stati (tra
cui l’Italia), puntassero ad un inserimento esplicito della Carta nel corpus dei Trattati dell’UE, e benché anche l’organo incaricatosi della sua redazione, avesse lavorato sul presupposto della sua efficacia vincolante così non è stato. La Carta è quindi “non” giustiziabile, nel senso che non costituisce parametro diretto di giudizio
né per la legalità del diritto europeo né per quello nazionale. Quindi né per le Corti Costituzionali degli Stati né per la Corte di Strasburgo o per quella di Bruxelles.
4
«… In diverse società africane la parola “sviluppo” non ha alcun equivalente
nella lingua locale perché è totalmente assente l’immaginario che la sottende». Cfr. G.
LATOUCHE, Sviluppo, una parola da cancellare, in Le monde diplomatique, maggio
2001.
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Dalla metà degli anni ’60 in poi infatti, sviluppo economico e sviluppo democratico inteso come attuazione della Costituzione e delle
sue garanzie sociali fondamentali, hanno proceduto insieme, con
strappi e frizioni, ma in genere appaiati. I due percorsi inevitabilmente intrecciati hanno rappresentato la strada attraverso cui si è perfezionato il passaggio culturale oltre che strutturale dallo Stato di diritto allo Stato Sociale come oggi lo si intende. Tanto in senso positivo,
quanto, e più spesso, in senso critico.
La “forma” di Stato Sociale che si insedia al tempo nel nostro ordinamento, al pari del modello nord-europeo di Welfare State 5 che tende ad emulare, prevede che i pubblici poteri, nel rispetto del diritto di
iniziativa privata e quindi, sostanzialmente, del principio liberista,
puntino a realizzare un complesso di interventi intesi a migliorare la
condizione della parte meno abbiente della società, a favorire un’equa
distribuzione delle risorse disponibili e, insieme, a realizzare un equilibrato sviluppo del sistema anche giuridico.
La variante italiana di questa forma di organizzazione sociale rappresenta il risultato del lungo braccio di ferro e delle infinite mediazioni giuridiche che sono corse tra la carica di innovazione insita nell’idea di Welfare e la resistenza che hanno saputo opporvi il peso, la
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L’atto di riferimento per i paesi europei è il piano Beveridge (1948) approvato in Inghilterra. Esso era ispirato ai principi dell’universalismo egualitario. A tutti
i cittadini era garantito un trattamento minimo uniforme, per far fronte alle necessità della vita. Lo Stato del Welfare opera secondo due modelli distinti o secondo
una qualche forma di sincretismo tra i due. I modelli sono quello universalistico e
quello particolaristico. Nel modello universalistico (tipico di molti Paesi del Nord
Europa) esso si preoccupa di assicurare a tutti i cittadini uno standard minimo di
benessere, mediante la predisposizione di un insieme articolato di Servizi Sociali. I
benefici vengono a essere distribuiti in relazione ai bisogni, secondo i principi di
eguaglianza e di solidarietà tra tutti i consociati. Il finanziamento dei Servizi Pubblici è affidato in gran parte alla c.d. fiscalità generale (ossia alle imposte che tutti i
cittadini sono tenuti a pagare in ragione della loro capacità contributiva e che lo
Stato destina all’uno o all’altro dei compiti/fini generali che persegue). Nel modello
particolaristico il finanziamento è in buona parte di tipo contributivo (cioè affidato a forme di prelievo individualizzato). I benefici sono accordati in netta prevalenza sulla base dell’appartenenza dei cittadini a determinati status, con particolare rilievo per lo status di lavoratore occupato. Cfr. M. FERRERA, Il Welfare State in
Italia, Bologna 1984; ID., Modelli di solidarietà, Bologna 1993; ID., Le trappole del
Welfare, Bologna 1998; M. PACI-A. MELONI, Welfare State. Chi ha beneficiato dello stato sociale, a chi andrà la nuova solidarietà, Roma 1997; M. GIROTTI, Il Welfare State.
Storia modelli e critica, Roma 1998; U. ASCOLI (a cura di), Welfare State all’italiana,
Bari 1984. Cfr. M. PACI (a cura di), Le dimensioni della disuguaglianza, Bologna
1993; ID., Welfare State, Roma 1997 e U. ASCOLI (a cura di), Welfare State all’italiana,
Bari 1984.
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portata e la vischiosità degli interessi e delle esperienze ereditate rispettivamente dalla proto-storia sociale dell’Italia post-unitaria, poi da
quella del ventennio fascista e infine dalle letture della Costituzione risultate prevalenti fino agli anni ’60 in cui questo complesso processo
entra nel vivo.
Come vedremo fra breve la strada percorsa e che qui sintetizziamo
è lunga, tutta tornanti e rimonte tra il diritto che declina e quello che
sopravviene.
1.1. L’Italia “sociale” dell’Unità e del Ventennio.
L’Italia unita era economicamente e socialmente arretrata e mancava anche dell’idea di Servizi Pubblici. Il paese, poco industrializzato
– le industrie erano presenti nel solo Nord-Ovest – aveva una popolazione in età da lavoro impegnata prevalentemente in attività agricole
ed artigianali condotte per di più con metodi tradizionali.
La politica sociale restò nelle sole mani della Chiesa cattolica anche quando fecero la loro comparsa le prime forme di associazionismo
operaio, che costituiranno poi la base delle organizzazioni sindacali a
venire. Fra di esse le Società di mutuo soccorso, sorsero per garantire
una qualche forma di tutela ai lavoratori in caso di malattia, di infortunio o di licenziamento. Le stesse finalità perseguivano Opere pie,
Casse rurali e Casse di risparmio, che però facevano capo ad istituzioni
religiose.
Lo Stato, da parte sua, non contribuì se non in minima parte alla
realizzazione di un sistema di protezione sociale generale. Le poche
misure adottate erano indirizzate ai soli lavoratori delle concentrazioni industriali del Nord. Il “mercato” regolava la restante parte dei lavoratori italiani impegnati nel settore agricolo, artigianale, o del lavoro a
domicilio.
L’avvento al potere della “sinistra storica” cambiò la fisionomia
e la politica sociale dello Stato. Un primo segnale in questo senso è
l’introduzione nel 1877 della istruzione obbligatoria. È però con la
comparsa sulla scena politica di Francesco Crispi che la gestione ed
organizzazione dello Stato, soprattutto negli ultimi due decenni del
XIX secolo, assume un carattere decisamente centralistico. Vennero
sì introdotte misure intese a rendere più organiche le diverse forme
di protezione sociale esistenti 6, ma il loro scopo parallelo era di eser-
6
Tra i provvedimenti si ricordano la istituzione della Cassa nazionale contro
gli infortuni sul lavoro (1883); il riconoscimento giuridico delle Società di mutuo
soccorso (1886); una delle prime leggi a tutela del lavoro minorile (1890); la ristrut-
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citare per tale via un controllo politico sulle categorie protette.
In sostanza, la questione dell’assistenza non fu mai affrontata seriamente dai governi dell’epoca, anche se più di un’inchiesta (famosa
quella Jacini del 1884, sulla povertà e la disoccupazione nel Mezzogiorno) non mancò di rivelare le precarie condizioni di vita della popolazione italiana, in particolare nelle aree del Centro-Sud del Paese.
L’intervento pubblico in Italia, ormai avviata a collocarsi tra i Paesi
economicamente avanzati d’Europa, crebbe sicuramente con Giolitti 7,
ma la tendenza verso tutele sociali particolari e categoriali, non estese
quindi alla intiera collettività, sopravvisse.
Una caratterizzazione decisamente “sociale” e interventista acquisì invece lo Stato nella seconda fase del ventennio fascista. La prima,
continuista rispetto alla politica giolittiana, ne aveva riprodotto le resistenze rispetto a misure organiche di protezione sociale. Il fascismo
“maturo” superò questa impostazione creando un sistema pubblico di
protezione sociale e un modello di Stato sociale fascista che costituirà
il format cui si sovrapporrà, senza cancellarlo, il modello particolaristico sopravvenuto nel periodo repubblicano successivo.
Gli anni 1926-27 furono perciò portatori di provvedimenti sostanzialmente finalizzati a “fascistizzare” lo Stato. Tra questi lo scioglimento dei sindacati operai e la loro messa al bando (unitamente ai
partiti politici), sostituiti dalle corporazioni, emanazione e strumento
di controllo dello Stato. I rapporti fra capitale e lavoro gestiti in precedenza dalle organizzazioni dei lavoratori e dai datori di lavoro, e quindi non soggetti all’influenza dello Stato, con l’avvento del sistema corporativo divengono di competenza esclusiva dello Stato.
Fu in seguito che il regime elaborò un’accorta strategia di “penetrazione” istituzionale dello Stato nella sfera sociale, in modo da raggiungere ulteriori rilevanti obiettivi fra di loro collegati. L’eliminazione di ogni spazio di iniziativa privata sul terreno sociale, incompatibile peraltro con la logica accentratrice perseguita dallo Stato, si accompagnò alla utilizzazione dell’intervento pubblico nel sociale come stru-
turazione del settore caritativo con la sottoposizione delle Opere pie al controllo
dello Stato (1890); l’introduzione della assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (1898). Cfr. M. PACI, La struttura sociale italiana: costanti storiche e
trasformazioni recenti, Bologna 1987.
7
La spesa pubblica lievitò, passando dal 13,6% del prodotto interno lordo del
1900 al 14,7% del 1913. Tale livello era superiore a quello di Paesi come l’Inghilterra (12,7% del Pil), la Francia (ferma a un modesto 9,3% del Pil) e persino la Germania (14,2% del Pil). Cfr. M. FERRERA (… il periodo giolittiano si conferma ... come
una fase decisamente espansiva dell’intervento pubblico a fini civili e sociali …), in
Modelli di solidarietà: politica e riforme sociali nelle democrazie, Bologna 1993.
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mento di propaganda politica e, quindi, di ampliamento del consenso
al regime. Entrambe funzionali alla creazione di condizioni atte a dare corpo al “sogno imperiale” dell’Italia attraverso una politica coloniale espansionistica.
Esemplare fu la disciplina adottata per il mondo del lavoro. L’amministrazione della previdenza fu centralizzata in tre enti, l’Infps (Istituto nazionale fascista della previdenza sociale), l’Infam (Istituto nazionale fascista di assicurazione contro le malattie) e l’Infail (Istituto
nazionale fascista di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), tutti controllati dallo Stato. Tali organismi non assicuravano, però, lo
stesso trattamento a tutti i lavoratori, ma li differenziavano, rendendone taluni – come quello riservato ai pubblici dipendenti – decisamente “privilegiati”. Ciò serviva ad acquisire il consenso di singole categorie di lavoratori e, nel contempo, a mantenere diviso il fronte della forza lavoro, impedendo che si creassero, fra i lavoratori, interessi
rivendicativi comuni 8.
Il passaggio successivo fu quello di “selezionare” la disoccupazione concentrandola su certe fasce della popolazione e non altre.
L’espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro, che
dal 28% del 1920 si ridusse al 18% nel 1931, conseguì a provvedimenti posti a tutela del lavoro femminile (esenzione, per la donna lavoratrice, da alcuni lavori pesanti e dai lavori notturni ecc.). Tali disposizioni rendevano infatti più gravoso il costo del lavoro femminile 9. Il processo di “maschilizzazione” del lavoro dipendente e di penalizzazione di quello femminile si completò con la determinazione di limiti massimi all’assunzione delle donne nella pubblica amministrazione e in imprese private.
Accanto a questi comparvero provvedimenti diretti a realizzare
una politica di incremento demografico, funzionale alla logica espansionista del regime 10. Fu migliorata la condizione igienico-sanitaria
della popolazione, introdotte misure quali la tassa sui celibi ultraventicinquenni, i premi di nuzialità e prestiti familiari per le giovani coppie
e la previsione per le lavoratrici madri del diritto all’astensione prima e
dopo il parto unitamente al divieto di licenziamento in caso di gravidan-
8
Afferma M. FERRERA: «(…) il periodo fascista pose … le basi di quel sistema
“particolaristico-clientelare” di Welfare che si sarebbe poi sviluppato e intensificato nel
dopoguerra …», in Modelli di solidarietà: politica e riforme sociali nelle democrazie, cit.
9
L. GAETA, Infortuni sul lavoro e responsabilita civile: alle origini del diritto del
lavoro, Napoli 1986.
10
“Molti, sani e forti”, “tante braccia per il grano e per il fucile”, “trenta milioni di baionette” e altri erano i ricorrenti slogan dell’epoca.
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za. Al mantenimento e all’allargamento delle basi del consenso nei confronti del regime provvide anche l’istituzione di organizzazioni per
l’occupazione del “tempo libero” quali l’Opera nazionale balilla (poi
sostituita dalla Gioventù italiana del littorio), l’Opera nazionale dopolavoro e l’Opera nazionale maternità e infanzia.
1.2. L’Italia “sociale” della ricostruzione e dell’avvento della Costituzione.
Nel secondo dopoguerra, lo Stato, nel quadro della politica sociale, sviluppa due tendenza parallele, ma opposte. La prima, di tipo universalistico e presente in Carta costituzionale, solo più tardi: sul finire
degli anni ’70, otterrà una parziale traduzione normativa. La seconda,
caratterizzata dal sovrapporsi di provvedimenti ispirati a logiche categoriali e particolaristiche, condizionerà irresistibilmente il modello del
Welfare italiano che più tardi emergerà. Essa conserverà alle distinte
misure adottate la fisionomia di provvedimenti calati discrezionalmente dall’alto e quindi concessi, ma svolgerà però una funzione non
sottovalutabile di sedazione del conflitto e di collettore di consensi.
Ricordiamo come nel ’47, contestualmente all’Assemblea Costituente fu insediata una Commissione, presieduta dal senatore Ludovico D’Aragona, con il compito di delineare i principi dell’intervento pubblico nella sfera sociale. Le proposte che vennero elaborate avevano indubbi connotati universalistici 11, che ritroviamo in numerose disposizioni del testo costituzionale. In particolare negli artt. 31 12, 32 13, 36 14,
37 15 e 38 16 della Carta.
Tali principi restarono a lungo inattuati. O meglio, verranno rein-
11
Nella Relazione D’Aragona conclusiva si proponeva “l’estensione delle misure di sicurezza sociale allo scopo di assicurare un reddito minimo e un’assistenza sanitaria completa a tutti coloro che hanno bisogno di tale protezione”.
12
L’art. 31 Cost. impegna la Repubblica ad agevolare «la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose», nonché a proteggere «la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli
istituti necessari a tale scopo».
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L’art. 32 considera la salute «fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività».
14
L’art. 36 sancisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione «in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
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L’art. 37 tutela la donna lavoratrice e il lavoro minorile.
16
L’art. 38 garantisce l’avviamento al lavoro degli inabili e dei portatori di
handicap.
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terpretati per dare vita a quella legislazione sociale che è poi fiorita
mantenendo intatti i tratti categoriali e particolaristici ereditati dalle
precedenti esperienze normative. Come la serie dei provvedimenti varati negli anni ’50 e ’60 i quali sono visibilmente pensati per soddisfare
le istanze di singoli gruppi e categorie di cittadini 17. Le conseguenze di
questa prassi normativa le misuriamo oggi attraverso la inestricabilità
della c.d. “giungla retributiva” che si è formata. L’espressione indica la
sensibile disparità dei compensi al lavoro dipendente presente nella
nostra struttura salariale. Alla prima giungla ha corrisposto la formazione di una inevitabile seconda: quella pensionistica. Parimenti difficile da disboscare.
L’unico ingenuo tentativo di politica sociale in senso universalistico portato a buon fine, va rintracciato nella istituzione (nel 1965) della pensione sociale che mirava ad assicurare, a quanti risultavano
sprovvisti di pensione, un compenso minimo anche in assenza di attività lavorativa in precedenza svolta 18.
1.3. Il Welfare italiano.
È sul finire degli anni ’70 che queste tendenze involutive si invertono e si assiste al tentativo forte, anche se incompiuto ed imperfetto,
di correggerle orientando le scelte di politica sociale dello Stato e la domanda sociale dei cittadini secondo una lettura complessiva e non parziale dei principi della Costituzione e del suo programma.
Il modello composito di Stato sociale che le precedenti esperienze
storiche hanno cucito addosso al Paese si rivela improvvisamente un
abito inadatto, un rivestimento troppo stretto e soprattutto inadeguato a coprire e contenere il cambiamento di valori, le nuove energie intellettuali, il mutamento di assetti sociali e di stili di vita che l’irruzione del Welfare provoca nella poco industrializzata e culturalmente conservatrice società italiana.
Il primo effetto tangibile è quello di accelerare e rendere visibile la
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Tra i provvedimenti che hanno questo segno vedasi l’estensione della tutela
mutualistica ai coltivatori diretti (1957), agli artigiani (1959) e ai commercianti
(1966); l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro estesa alle categorie artigiane
(1963), l’assicurazione contro le malattie per i pensionati (1953-55) e per i disoccupati (1966), le pensioni per le casalinghe (1963), gli assegni familiari per i coltivatori diretti (1967) e i disoccupati (1968). Si moltiplicano in parallelo gli enti previdenziali affiancati dalla creazione di altrettante Casse: quella dei medici, degli ingegneri, degli architetti, dei giornalisti.
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A. VISCOMI, Lavoro e produttività nelle pubbliche amministrazioni (a cura di
Antonio VISCOMI), Soveria Mannelli 1994.
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