femminismo e comunismo - Partito Comunista dei Lavoratori

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femminismo e comunismo - Partito Comunista dei Lavoratori
3° Congresso del PCL
DOCUMENTO FEMMINISMO E COMUNISMO
FEMMINISMO E COMUNISMO
Premessa
La relazione tra femminismo e comunismo è una traccia di discussione che nasce da subito
nella storia del pensiero marxista e nella storia del movimento operaio. Compagne e compagni
consapevoli della reale condizione delle donne nella società capitalista, non tardano a elaborare
analisi e indicazioni di organizzazione, di obiettivi e azioni di lotta specifici per battere questa
oppressione, esattamente come per tutte le oppressioni determinate dalla società divisa in
classi. Engels con "Origini della famiglia, della proprietà privata e dello stato" lega
indissolubilmente questa oppressione alla divisione classista della società. Con la seconda
internazionale ci sono esperienze d’intervento, di organizzazione e di riflessione sulle donne,
delle donne: è centrale in questo la figura di Clara Zetkin.
Le rivendicazioni delle donne nei partiti socialdemocratici prima e comunisti poi, non sono però
un fatto acquisito, né entrano a far parte stabilmente della linea di questi partiti. L'ideologia
dominante ha avuto il suo ruolo anche in questo caso, e per le caratteristiche peculiari della
questione (oltre che per il confronto con tendenze borghesi con carattere radicale
sull'oppressione delle donne, ma completamente contrarie a una lettura sociale materialista)
anche nel movimento operaio ci sono stati approcci negazionisti sul ruolo sociale delle donne.
Eppure la prima e più conseguente rivoluzione comunista, la rivoluzione russa, esprime un gran
numero di leggi che chiariscono e determinano il suo orientamento per la liberazione delle
donne dal giogo della dipendenza economica e sociale dagli uomini, da un ruolo di secondo
piano e a favore di un loro ruolo attivo e reale nella società. La rottura di questo possibile
sviluppo della relazione stabile tra liberazione della classe e liberazione delle donne avviene
sulla strada del tradimento delle premesse della rivoluzione, con l'involuzione burocratica
avviata da Stalin e dalla nascente burocrazia sovietica. La rappresentazione di questo è
particolarmente chiara, a partire dalla cancellazione delle normative a favore delle donne e nel
recupero di norme legislative patriarcali, che ricollocano le donne sovietiche sotto il controllo
sociale degli uomini.
Malgrado il femminismo nasca come istanza ideale borghese, il quadro in cui si presenta è, non
casualmente, quello dello sviluppo tumultuoso delle forze produttive, così tumultuoso da portare
in produzione anche le donne, quindi le proletarie. Il ruolo sociale sin lì negato, assieme alla
negazione dell'importanza sociale della "produzione quotidiana della cura", affiora nella
coscienza delle donne. Quello però che poteva essere un approdo positivo delle loro lotte,
un'alleanza stabile con il proletariato, che è già un risultato difficile a causa dell'influenza
dell'ideologia patriarcale anche nel movimento operaio, infine viene allontanato nella storia
dall'incontro infausto tra quest'ultima e lo stalinismo.
La società borghese dei paesi imperialisti così verrà scossa dall'esempio rivoluzionario per
ancora tutta la seconda metà del secolo scorso, ma solo sul versante dello scontro di classe.
L'Unione Sovietica resta in virtù del diverso assetto strutturale, la proprietà statale dei mezzi di
produzione, un punto di riferimento per la classe. Il recupero invece delle concezioni patriarcali
effettuato nella società sovietica dallo stato staliniano è più una nemesi per le donne, così la
scossa politica del periodo dal 68 in poi, vedrà muoversi ancora altri movimenti di liberazione
delle donne, ma li vedrà distanziarsi dalla classe.
Ancora una volta, questi movimenti emergono non casualmente in relazione a fasi sociali che
vedono le donne rientrare nella produzione di massa e in questo periodo nella scolarizzazione
di massa, quindi avere un ruolo sociale di cui il recinto della famiglia le priva.
Le donne quindi con la "seconda ondata" si muovono ancora una volta in quello che poteva
essere un ambiente favorevole alla ripresa di un discorso sull'intreccio tra sessismo e
sfruttamento capitalista; in realtà si trovano entro breve allo scontro. Le coordinate di questo
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scontro sono l'assenza da parte anche della sinistra antisocialdemocratica (centristi, sinistra
radicale e di movimento) di una riflessione sul patriarcato (a parte alcune esperienze che non
riescono però ad ottenere la rilevanza necessaria per diventare riferimento di massa) e lo
sviluppo impetuoso di ideologie femministe borghesi, che riprendono come centrale lo scontro
tra i sessi, slegandolo da ogni elemento classista. Il filo che crediamo vada riannodato è proprio
questo. La riapertura di dibattito e intervento dei/lle comunisti/e è l'elemento indispensabile per
risolvere un dualismo che è utile solo alla borghesia, quello tra gli interessi dei lavoratori e gli
interessi delle donne.
1. Il femminismo classista
Il capitale se da un lato, al suo cospetto, rende il proletariato privo di differenze di sesso, di età,
di religione e di provenienza geografica, abbassa la condizione dei più garantiti a quella degli
ultimi. Mentre da una parte abbassa il salario dell’operaio a quello della donna operaia e di
entrambi a quello di un adolescente o di un bambino, dall’altra esso non è privo di
discriminazioni e contraddizioni razziali e sessiste, frutto delle influenze della sovrastruttura.
Questo fenomeno di discriminazione però, si verifica principalmente nella classe degli sfruttati o
comunque in quegli strati della società dove la condizione economica pone gli individui
sostanzialmente sullo stesso piano di povertà e/o di miseria, cioè laddove le condizioni
economiche non hanno permesso a un individuo di tamponare quella discriminazione attraverso
il potere economico e finanziario.
In particolare, nella borghesia, la condizione economica diventa ancor più determinante
nell’affermazione di un potere di un individuo rispetto ad un altro. Le discriminazioni sessiste
tendono a scomparire e sostituite dal rispetto che esercita la potenza del Dio denaro e in genere
del potere economico.
Mentre una proletaria migrante, un’operaia, una precaria, una schiava del sesso o una
disoccupata sarà trattata da pezzente e umiliata, una donna imprenditrice, una regina, verrà
trattata sempre con il massimo del rispetto. La condizione sociale delle persone tranquillamente
capovolge la tradizionale condizione di discriminazione e laddove la donna nelle fila del
proletariato era sottomessa, nelle fila della borghesia può permettersi qualunque atto
discriminatorio contro chiunque sia in una posizione economica a lei inferiore.
Le influenze sovrastrutturali che pur esistono, non sono sufficienti a modificare ciò che impone
la legge dell’economia e del denaro. In ogni caso le questioni determinate dall’influenza della
sovrastruttura e quindi anche quelle di discriminazioni di genere restano sempre secondarie
rispetto alla posizione di classe di un individuo.
Possiamo inoltre affermare che nella storia del genere umano, la condizione sociale economica,
cioè quella strutturale, quella del dominio economico, ha determinato le discriminazioni tra gli
individui e quindi anche quelle di genere. La mancanza di potere economico della donna così
come di quella di ogni individuo ne determina la sua discriminazione nella società.
“Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si
sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle
donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e
di età.”
[Karl Marx - Friedrich Engels – Il Manifesto del Partito Comunista]
1.1 Il “ruolo” della donna nella famiglia borghese
L’affermarsi del sistema capitalista porta, come conseguenza sovrastrutturale, l’esaltazione e la
salvaguardia (spesso fasulla e ipocrita) del nucleo familiare composto da marito – moglie –
figli/e, che diventa sempre più l’unica forma di unione “legittima” e degna di pubblica
approvazione. La famiglia borghese, infatti, era, ed è, la forma di unione indiscutibilmente più
adatta a garantire la trasmissione del capitale privato. E tuttalpiù la donna arriva ad assurgere al
ruolo di “collaboratrice” dell’uomo nella gestione dei beni di proprietà di quest’ultimo, almeno
negli anni in cui si diffonde il sistema capitalista, quando i beni e le ricchezze private non
potevano che essere appannaggio degli individui maschi.
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Il nuovo modello di società non nasce con l’affermarsi del sistema capitalista, ma eredita la
diseguaglianza tra i sessi che aveva dominato la storia precedente. Questa nuova forma di
subordinazione della donna rispetto all’uomo si sviluppa con l’affermarsi della famiglia
monogamica come elemento garante della proprietà privata. Infatti, nel corso della storia, gli
interessi della donna sono stati sempre subordinati a quelli dell’uomo.
“La monogamia nasce dalla concentrazione di più ricchezze in una mano sola – e precisamente
quella di un uomo – e dal bisogno di trasmettere in eredità tali ricchezze ai figli di questo uomo
e nessun altro. Per ottenere questo era necessaria la monogamia della donna, non dell’uomo,
sicché questa monogamia della donna non era affatto d’ostacolo alla poligamia scoperta o
mascherata dell’uomo”.
[Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884]
Nella società feudale, ad esempio, quando a dominare erano gli interessi familiari intesi come
interessi della stirpe, le donne non erano altro che lo strumento per portare avanti quest’ultima,
senza alcuna voce in capitolo nella scelta del proprio sposo, di cui diventavano “serve”.
Basterebbe ricordare l’assoluta normalità con cui veniva accolto il tradimento carnale da parte
dell’uomo, mentre la donna adultera veniva mandata con estrema facilità al supplizio dallo
stesso marito.
Tutto questo porta ad allontanare ed escludere la donna dalla produzione sociale, nella quale
torna, a piccoli passi, a riacquistare un ruolo con l’affermarsi del sistema della grande industria.
Il problema è che nella società capitalista, a differenza che nell’antica società comunista, la
dimensione “privata” esiste e come, e gode di una certa legittimità. Così nella costrizione
all’adempimento dei suoi “doveri” nell’ambito privato della famiglia si manifestano tutte le
difficoltà della donna a partecipare al processo della produzione, cioè in pratica a godere di una
propria indipendenza economica. Il “ricatto economico” non permette così alla donna di liberarsi
dalle proprie catene. Per dirla con le parole di Engels “la moderna famiglia singola si fonda sulla
schiavitù, patente o mascherata, della donna”. In pratica, continua il nostro, “nella famiglia egli
(l’uomo) è il borghese, la donna, il proletario”.
La liberazione della donna non può prescindere, in seguito ad un’eliminazione della società
divisa in classi, dal reinserimento di quest’ultima nella “pubblica industria”, con l’inevitabile
superamento del nucleo familiare isolato, baluardo dell’accumulazione del capitale in quanto
unità economica della società borghese. La donna sarà, così, inoltre, liberata dai compiti della
cura e dell’educazione dei figli diventate anche quest’ultime una “faccenda pubblica”, un
compito della società. Ciò non significa che nella società liberata dal dominio del capitale, la
società senza classi, regnerà la poligamia e scomparirà la monogamia eterosessuale. A
regnare sarà la libera scelta delle persone, le quali private finalmente di ogni costrizione
causata dalle necessità di tipo economico, potranno allora sì realmente assecondare le proprie
inclinazioni affettive.
“Una conclusione di matrimonio effettuata in piena libertà si può dunque avere in generale solo
allorché l’eliminazione della produzione capitalistica e dei rapporti di proprietà da essi prodotti
abbia allontanato ogni calcolo economico di rilevanza secondaria, di quelli che esercitano
tuttora un’influenza tanto autorevole nella scelta del coniuge. Allora non rimarrà davvero alcun
altro motivo se non la reciproca inclinazione”.
[Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884]
1.2 Lo stalinismo e l’oppressione delle donne
La rivoluzione russa dell'ottobre '17, a cui parteciparono molte proletarie, produsse importanti
cambiamenti nelle condizioni di vita delle donne. La presa del potere da parte dei bolscevichi
rese possibile la conquista di spazi di libertà democratiche impossibili nella società capitalistica
di quel periodo. Le operaie russe, inoltre, furono coinvolte, all'interno dei soviet, nella gestione
diretta della produzione e dei servizi sociali. Si apriva la strada ad una vera emancipazione
femminile.
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Furono varate leggi affinchè le donne fossero maggiormente tutelate sul lavoro in modo da
rendere possibile il loro impegno politico. Il congresso delle operaie di Pietrogrado, svoltosi tra il
1917 e il 1918, propose un'avanzata legislazione sulla maternità, tra cui un decreto per
l'assicurazione in caso di malattia promulgato nel dicembre del 1917. Si istituì un fondo pubblico
assicurativo senza trattenute sui salari per le lavoratrici e per le mogli degli operai. Lo stato
operaio varò una normativa che finalmente riconosceva alla donna pari diritti rispetto all'uomo.
Nel primo anno della rivoluzione si istituì il matrimonio civile, fu varato un nuovo codice
matrimoniale che considerava eguali i due coniugi ed eliminava ogni distinzione tra figli legittimi
e illegittimi. Il divorzio diventava alla portata anche dei proletari con la semplificazione delle
pratiche per ottenerlo e con il pagamento degli alimenti per sei mesi al coniuge disoccupato o in
difficoltà economiche. Nel 1918 si diede vita al Dipartimento per la protezione della maternità e
dell'infanzia che istituiva ambulatori, consultori, cliniche per la maternità e asili per l'infanzia.
Esso, inoltre, garantiva alle partorienti l'aspettativa di quattro mesi prima e dopo il parto, le
esentava dai lavori pesanti e dal lavoro notturno, vietava il trasferimento e il licenziamento delle
donne in gravidanza. Nel 1919 fu creato il Genotdel, una sezione del Comitato Centrale del
Posdr rivolta a tutte le donne, iscritte e non al partito, con lo scopo di coinvolgerle nell'attività dei
soviet e dello stato operaio per quanto riguardava l'attuazione delle rivendicazioni delle donne
proletarie. Il Genotdel promosse numerose riviste femminili, organizzò riunioni di formazione
politica ed ebbe una funzione di primo piano nelle regioni orientali, dove intervenne in aiuto alla
lotta delle donne contro l'oppressione del velo e la loro segregazione nelle case.
La degenerazione stalinista diede un lapidario colpo di spugna al processo di liberazione della
donna così vitale per la continuità della rivoluzione socialista. Già con la Nep, varata nel 1922,
le condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici erano peggiorate notevolmente. Molti servizi
sociali, come le strutture per la maternità e gli asili per l'infanzia, erano stati drasticamente
ridimensionati. La Nuova Politica Economica, che introduceva elementi di economia di mercato,
era stata concepita come misura necessaria alla sopravvivenza dello stato operaio ma
provvisoria, nella consapevolezza che essa avrebbe comportato un arretramento del processo
rivoluzionario. Per Stalin tale processo doveva subire, invece, un arresto incontrovertibile in
nome della conservazione dei privilegi di una burocrazia che stava diventando un vero e proprio
corpo sociale in seno allo stato operaio, non più visto come istituzione transitoria bensì definitiva
e bisognosa di un progressivo rafforzamento in nome della grande fandonia del "socialismo in
un solo paese".
Nel 1928 Stalin dava il via al piano di industrializzazione forzata (il piano fu avversato
dall'Opposizione di sinistra di Trotzky). La disoccupazione diminuì molto, ma in assenza
dell'aumento dei servizi sociali che sarebbe servito a supportare il lavoro femminile fuori dalle
mura domestiche. Il piano, che interessava soprattutto l'industria pesante, occupò infatti poche
donne per lo più impiegate nell'industria leggera o nel lavoro domestico. Fu proprio in quegli
anni che venne soppresso il Genotdel, una palla al piede per l'attuazione di un piano che, nel
prevedere un livello minimo di servizi sociali, riproponeva nei fatti la storica divisione sessista
del lavoro. Dal momento che, a detta della burocrazia stalinista, lo stato "socialista" aveva ormai
raggiunto la piena emancipazione femminile perché, dunque, mantenere in vita un organismo
ormai inutile come il Genotdel?
La burocrazia, sempre più corpo sociale indipendente, doveva estromettere gli operai dal
controllo sociale della produzione e, perciò, dall'attività politica. Essa si servì del modello
borghese della famiglia per confinare la vita economica e sociale dei lavoratori tra le mura
domestiche. Gli operai avrebbero dovuto affrontare i problemi economici che lo stato rifiutava di
risolvere nell'isolamento familiare opprimendo i figli e le mogli. Il culto della famiglia vista come
istituzione utile a gerarchizzare le relazioni sociali fu ovviamente accompagnato dal ritorno a
forme di diritto borghese e dall'abolizione di gran parte delle leggi dei primi anni della rivoluzione
volte a favorire l'emancipazione della donna. Nel 1934 la prostituzione e l'omosessualità
divennero reati punibili con un minimo di otto anni di prigione. Nel 1936 il divorzio fu reso più
difficile e costoso, l'aborto legale venne abolito da uno stato burocratizzato incapace di dare alle
donne costrette ad abortire l'assistenza medica necessaria. Nel 1945 una legge mise alla
berlina le unioni di fatto riconosciute nel 1920. La propaganda dell'Urss stalinizzata suonò la
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gran cassa ineggiando alla famiglia, al matrimonio e alle meraviglie della maternità.
Stalin, anziché tentare di espandere la rivoluzione oltre i confini dello stato sovietivo, preferì
esportare l'involuzione burocratica e i suoi influssi nefasti sulla classe operaia dei paesi
capitalistici e all'interno dei suoi partiti. Un chiaro esempio ci viene dall'Italia.
Qui, nel periodo del biennio rosso (1919-1920) l'opposizione in seno al partito socialista aveva
dato vita all'esperienza di Ordine Nuovo sul solco degli avvenimenti rivoluzionari in Russia,
esperienza che avrebbe portato di lì a poco alla nascita del partito comunista. In quel clima si
forgiarono le prime dirigenti comuniste che profusero un grande impegno nella battaglia contro
l'oppressione femminile. Le pagine di Ordine Nuovo riportavano notizie sulle conquiste delle
donne operaie in Urss. Si metteva spesso in risalto l'influenza negativa dell'ideologia borghese
nella classe operaia e anche "tra gli stessi compagni". Si denunciava il ruolo patriarcale
dell'uomo capo indiscusso della famiglia e la mercificazione del matrimonio e del rapporto di
coppia. Per la prima volta si affermava il diritto all'aborto denunciando come ipocrita l'apologia
della maternità in assenza del suo riconoscimento come valore sociale. Una posizione che sarà
obliata dal Pci del dopoguerra.
Nel 1944 la svolta di Salerno voluta da Togliatti sanciva "la via italiana al socialismo" che,
secondo i vertici del partito, doveva passare attraverso il rafforzamento della democrazia
borghese. Ai lavoratori il Pci non offriva più una guida per la presa del potere, ma la
Costituzione borghese e il suffragio universale. In questo quadro si inseriva la conquista del
diritto di voto alle donne del 1945. L'Udi fu l'organizzazione di cui il Pci si servì per canalizzare
la battaglia per la liberazione della donna in un alveo riformista e rispettoso delle compatibilità
capitalistiche. Spesso Togliatti parlava pubblicamente dei diritti delle donne, della lotta per
raggiungere la parità con l'uomo, ma erano solo parole smentite puntualmente dai fatti.
L'imperativo era quello di non fare nulla che potesse turbare la Dc e il Vaticano. Ecco dunque il
Pci esaltare il valore "alto" della famiglia e votare nel marzo del 1947 l'inserimento dei Patti
Lateranensi nell'articolo 7 della Costituzione, patti siglati nel 1929 tra lo Stato fascista e il
Vaticano con gli annessi privilegi per la Chiesa. Togliatti si fece vanto di questo abominio
dichiarando che "questo voto ci garantisce un posto al governo per i prossimi venti anni". Fu
poco profetico il "Migliore", visto che già nello stesso anno il Pci fu cacciato dal governo e per
almeno altri venti anni la classe operaia subì una durissima e violenta repressione!
Nel 1971 il dibattito sulla legge Baslini-Fortuna per il divorzio, con i cattolici impegnati nel
promuovere un referendum contro di essa, vide i dirigenti del Pci profondersi in uno sforzo atto
a convincere i lavoratori che il voto popolare sul divorzio avrebbe diviso il paese in un momento
in cui, secondo loro, la destra avanzava pericolosamente. Meglio, a lor dire, sarebbe stata una
revisione della legge Baslini-Fortuna con la speranza di ottenere dalla Dc un'apertura in tal
senso in cambio dei voti del Pci a favoro di un presidente della repubblica democristiano (si
pensava a Moro). Essi furono anche qui cattivi profeti perché a presidente venne eletto Leone
con i voti fascisti e il referendum non solo fu scongiurato, ma i cattolici furono nettamente battuti
con il 59,26% di voti favorevoli al divorzio. Lo stesso spostamento a destra non si verificò, tanto
che nelle elezioni amministrative del 1975 il Pci ottenne uno straordinario successo grazie alle
attese di cambiamento radicale riposte illusoriamente nel partito da milioni di lavoratori e
lavoratrici. La vocazione al cedimento del partito comunista non tardò a manifestarsi anche in
occasione della legge 194, che nel 1978 concesse diritti molto limitati all'aborto. Basti dire che
tra le numerose concessioni fatte dal Pci alla Chiesa cattolica in questa legge, vi fu
l'introduzione del limite di 90 giorni per poter effettuare l'aborto e della clausola che permette ai
medici di rifiutarsi di eseguire l'aborto per "motivi di coscienza".
2. La situazione attuale
Con la globalizzazione il capitalismo avanzato ha raggiunto il controllo dei mezzi di produzione
nell'intero pianeta. Per le donne l’imposizione del nuovo ordine mondiale è corrisposta ad una
frenata generalizzata a livello planetario dell'espansione dei diritti, esattamente come per tutti gli
oppressi.
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La crisi economica che si è scatenata nel 2008 ha aggravato la condizione lavorativa, già di per
se grave nei periodi di espansione del capitale, del proletariato femminile, rendendo drammatica
la sua già misera esistenza. Ha determinato, infatti, una crescita della disoccupazione tra le
donne proletarie. Il tasso di disoccupazione delle donne appartenenti al proletariato e senza figli
in Italia, di età compresa tra i 25 e i 54 anni, nell’anno 2011 è stato pari al 36,1%. Questo dato
cresce ancor più se si restringe la fascia di età, prendendo ad esempio come campione una età
compresa tra i 18 ed i 35 anni. La situazione diventa molto più drammatica se il campione preso
in considerazione si riferisce al Sud dell’Italia, dove superiamo tranquillamente il 50%. A questi
dati già di per sé drammatici va aggiunta quella parte di proletariato femminile che non cerca più
lavoro e che spesso non è considerata nei censimenti ufficiali.
Oltre alla condizione di mancanza di lavoro, si aggiunge, laddove il lavoro si riesce a trovare, la
condizione di doversi accontentare quasi sempre di lavori precari e sottopagati.
Emerge in questo clima di disperazione sociale un fenomeno, non proprio nuovo per le donne
appartenenti alla classe dei proletari; l’affiancamento della prostituzione al lavoro precario. Lo
scambio di natura sessuale, a cui sono costrette le donne proletarie, viene a svolgere un ruolo
di mantenimento e di mezzo intermediario per l’ottenimento di un lavoro, quale che sia, che le
permetta una certa sopravvivenza. In una pelletteria di Scandicci, un Comune vicino Firenze, le
operaie venivano puntualmente rese oggetto delle attenzioni del proprietario. Palpeggiamenti
nelle parti intime, carezze e baci furtivi, comportamenti morbosi, commenti e apprezzamenti a
sfondo sessuale. Tutto questo era diventato quasi una regola aziendale. Non bisognava
parlarne mai con le altre operaie, premi e aumenti di stipendio per le "più disponibili”. I fatti
coprono un arco di tempo abbastanza ampio, dal 2005 al 2010, fin quando tre lavoratrici non
hanno preso coraggio e denunciato tutto ai carabinieri. E’ questo uno dei tanti episodi che si
verificano regolarmente e che, nella maggior parte dei casi, non vengono denunciati e passano
sotto silenzio. Il motivo è sempre lo stesso la paura di perdere il posto di lavoro. La regola è il
ricatto, ormai accettato sotto silenzio anche dal sindacato e, nel caso di licenziamenti di
personale per crisi o per altri motivi addotti dall’azienda, le prime ad essere licenziate sono le
operaie.
Il caso OMSA - fabbrica assorbita dalla Golden Lady un marchio che produce calze per donne con il licenziamento delle 239 operaie, è emblematico della condizione delle donne che
lavorano in fabbrica. Esse sono state licenziate nella quasi indifferenza delle istituzioni borghesi.
Le operaie sono considerate da sempre un elemento da non tutelare o da tutelare parzialmente,
in quanto secondo una morale reazionaria possono benissimo tornare ai fornelli di casa.
La mancanza di servizi e di assistenza è un ulteriore dramma per i proletari. Anche qui vengono
colpite in maniera forte proprio le donne. Le proletarie sono costrette a provvedere alla cura
della prole e, quindi, al lavoro domestico oltre a quello da svolgere nell’industria. In Italia solo
l’11% dei bambini va all’asilo nido, privato o pubblico che sia. In Emilia la percentuale sale al
25,2%, in Sicilia non supera il 5,1%. Percentuali così basse si spiegano con il costo dell’asilo
nido, sia esso pubblico che privato, spesso insostenibile per molte famiglie. Anche qui la
condizione economica divide in due l’Italia con un Sud praticamente alla fame e con pochi
servizi gratuiti. Non si dimentichi poi che alla cura della prole si aggiunge quella verso i familiari
non autosufficienti (con gravi malattie fisiche o mentali, portatori di handicap, anziani). I continui
tagli ai fondi per le politiche sociali hanno sempre più diminuito i pochi servizi di assistenza
gratuita o semi-gratuita che esistevano in passato. Conseguentemente, un sempre maggior
numero di donne del proletariato sono costrette a rinunciare al proprio lavoro per trasformarsi in
badanti/infermiere, o a fare sforzi disumani per gestire contemporaneamente lavoro ed
accudimento dei familiari. Il problema non si pone invece per la classe borghese, la quale può
ricorrere a cliniche private o allo sfruttamento delle badanti, in maggior parte immigrate e nella
stragrande maggioranza costrette a lavorare a nero, sottopagate e senza nessuna tutela.
Nulla è lecito aspettarsi da associazioni filantropiche o dalle istituzioni borghesi, in particolare in
tempo di crisi. Tutto quello che la classe operaia ha il diritto di ottenere da questa società lo può
solo strappare alle classi dominanti con la forza. Nulla le verrà concesso per pietà cristiana.
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2.1 Il dibattito femminista in corso
Le rivendicazioni dei movimenti della seconda ondata abbracciavano a tutto campo la vita
quotidiana delle donne: dalle primarie richieste sul diritto alla casa, alla salute, all’indipendenza
economica, sino alla libertà di determinare il corso della propria vita, la libertà di gestire il
proprio corpo senza interferenze, il diritto ad essere pienamente attive nei rapporti sociali, di
decidere a pieno titolo del particolare e del generale.
Di molto di tutto questo, prodotto da aree differenti e partendo con impostazioni differenti, la
rivincita del pensiero borghese e idealista ha fatto un sol boccone nei due decenni di fine del
secolo scorso, lasciandoci, in particolare nel mondo occidentale, con solo due risultati: la
battaglia sulla rappresentanza, in primo luogo istituzionale, e la deriva securitaria sulla difesa
dalla violenza alle donne.
Nel mondo della lotta tra culture, nel mondo che ha visto sconfitti nella maggior parte dei casi i
movimenti di liberazione nazionale, nel mondo della globalizzazione imperialista, che schiaccia
sotto il proprio tallone popoli e paesi e che nutre il nazionalismo, le religioni riemergono e
riaffermano fondamenti ideologici all'oppressione femminile. L'avanzare della destra in Europa
porta con sé politiche familiste, leggi contro l'aborto, leggi contro la libertà sessuale. Il massimo
risultato delle politiche di rappresentanza e riconoscimento sociale delle donne è l’ottenimento
di alte cariche istituzionali dalle quali partono politiche di aggressione alle lavoratrici e a i
lavoratori, quando non sono persino punte di diamante della guerra imperialista.
Nel panorama italiano di femminismo o di “parità di diritti” si parla ormai solo nella misura in cui
è utile per l’appunto al governo borghese e al mantenimento dello sfruttamento delle donne. La
deriva securitaria sulla questione della violenza diventa anche l'arma per rendere "accettabile"
uno stato con caratteristiche sempre più poliziesche. Con le leggi contro la violenza sessuale,
sullo stalking e sulla violenza di genere si riconferma solo la centralità della tutela da parte dello
stato (borghese ovviamente) e la cancellazione del concetto di autorganizzazione e autodifesa
delle donne.Questa tutela si rivela per il giogo che è quando usa "la parità dei diritti"
trasformandola in parità dei doveri: per realizzare opere di controriforma dei servizi sociali, della
previdenza sociale, dello sfruttamento al lavoro (precarizzazione dei contratti di lavoro, aumento
dell’età pensionabile, introduzione del concetto di sussidiarietà, caduta delle normative di
sicurezza sul lavoro notturno).
In questo senso anche il rafforzamento della rappresentanza femminile nelle istituzioni, che è
per la borghesia un atto necessario per garantirsi una maggiore accettazione delle politiche
concertative, è lo specchietto per allodole che vende illusioni di maggiore ruolo sociale con
l’esposizione delle poche privilegiate, tra le quali troviamo spesso femministe accasate presso
la borghesia e particolarmente attive nell’istituzionalizzazione delle richieste delle donne.
2.2 Il movimento LGBT
Nella società capitalistica di oggi, per quanto la tolleranza verso gli LGBT sia aumentata negli
ultimi decenni, l’oppressione nei loro confronti si esprime – come per il sessismo – in ogni
aspetto della vita quotidiana.
L’oppressione delle donne e quella degli LGBT hanno una provenienza diversa, ma sono
comunque legate entrambe al capitalismo. Questo da una parte permette alla donna, diventata
ormai forza lavoro salariata, di essere consapevole delle sue possibilità e, quindi, di lottare per
la sua liberazione, ma dall’altra parte, dipendendo dalla famiglia, esso dà alla donna un doppio
carico di lavoro salariato e domestico.
Allo stesso modo, l’incombere del capitalismo industriale comporta sia la creazione di
un’identità gay sia l’oppressione degli LGBT. Infatti, da una parte la diffusione del lavoro
salariato ha permesso agli LGBT di collegarsi al di fuori dell’ambito familiare, ma dall’altra parte
la dipendenza del capitalismo dalla famiglia come mezzo di riproduzione è stata alimentata da
un’ideologia che esalta l’eterosessualità e condanna le altre forme di sessualità.
La discriminazione si attua nel posto di lavoro, nella società e nella famiglia dove dichiararsi
omosessuale è causa di crisi, ricatti e tragedie di varia natura. Infatti, “uscire allo scoperto” da
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parte degli LGBT continua ad essere doloroso per tanti giovani come dimostrano le elevate
percentuali di suicidio tra giovani lesbiche e gay.
Spesso si vuole dimostrare ipocritamente che l’oppressione non esiste. E’ il caso di quella tra i
generi, dove si vede una sostanziale uguaglianza che non ci potrà mai essere fin quando esiste
il sistema capitalistico. Un altro esempio di ipocrisia riguarda l’oppressione razziale. Infatti, un
bianco ama premettere ad ogni discorso razzista di “non essere razzista”. Per gay, lesbiche e
trans l’atteggiamento consueto da parte dei più è invece quello di discriminarli apertamente. Ciò
consente agli eterosessuali di guadagnarsi a basso costo “una patente di normalità”.
3. La necessità di riprendere il filo di una battaglia interrotta.
Come comunisti/e crediamo sia indispensabile recuperare la radicalità della battaglia
femminista, che può nascere solo dalla consapevolezza che non di cultura si tratta, ma di ruolo
materiale necessario di questa oppressione, anche ora e sempre di più nella società capitalista
avanzata ormai globale. Su tutto questo dobbiamo aprire dibattito, senza però negare il
profondo radicamento sociale che questa oppressione ha e la misura in cui investe tutte le
sovrastrutture, rendendo le donne oppresse nella relazione di classe e anche nella relazione tra
i sessi. E' per altro importante vedere come nell'ultimo decennio si siano presentate lotte e
azioni di donne legate a una visione classista e come in alcuni casi le donne siano state
protagoniste nelle lotte sociali, rientrando nel dibattito sul cambiamento sociale (anche se molto
spesso da posizioni più anarchiche che comuniste), così come il dibattito tra le femministe
marxiste o materialiste sia ripreso.
Dovremmo ricominciare a discutere il ruolo della famiglia e quindi anche delle istituzioni ad essa
legate, consapevoli che anche di fronte a un improvviso cambiamento radicale a livello sociale
(una rivoluzione) non sarebbe immediatamente sostituita da nuove forme di convivenza in
termini generali, tanto più se non verrà criticata come strumento della riproduzione
dell’oppressione che subiamo e quindi conterrebbe anche all'interno di nuove relazioni sociali
strutturali, un elemento oppressivo da superare.
Tra le nostre rivendicazioni deve rientrare un sistema di sanità sociale che permetta alle donne
di decidere della propria vita sessuale, della propria determinazione nella riproduzione e quindi
di strutture sociali d’incontro, cura, sostegno e autorganizzazione. Così come sarà necessario
discutere delle rivendicazioni sullo stato sociale in generale.
Deve essere vivace la nostra battaglia di idee e investire anche cosa potrebbe significare da un
punto di vista delle donne la democrazia operaia e una nuova struttura e sovrastruttura sociale.
Sarà necessario iniziare a discutere di proposte operative, contro l'avanzare totalizzante delle
posizioni borghesi che concentrano non a caso sugli elementi ad effetto tutta l'azione delle
donne organizzate ad esempio nel sindacato o nei partiti della sinistra. Dobbiamo denunciare
l'intento di queste proposte che relegano sempre più le battaglie femministe al campo della
riforma delle istituzioni e cancellano i reali interessi delle donne. Per combattere la violenza in
famiglia o il femminicidio, le donne devono prima di tutto potersi organizzare autonomamente e
riprendersi quel ruolo sociale, che si cerca di far rientrare nel limbo con leggi di tutela che le
rendono asservite allo stato borghese. E quindi sarà necessario discutere di una proposta
organizzativa per le donne.
E' necessario condurre una battaglia a tutto campo contro le religioni, infatti, tutte, nessuna
esclusa ingabbiano le donne in doveri imposti dall'ideologia patriarcale che le caratterizza. In
questo senso è necessario ampliare la nostra analisi su questo carattere, per definire e
articolare le nostre posizioni e dove si trovi tra l'altro lo spazio adeguato per la battaglia
anticlericale contro la religione cattolica, contrastando le posizioni borghesi che attribuiscono
alle religioni orientali o alle culture orientali quella profonda attitudine misogina che in realtà è
profondamente radicata anche nel cristianesimo.
Riaprire un confronto produttivo e a tutto campo con le istanze LGBT. Le relazioni sin qui, in
particolare nel nostro paese, sono schizofreniche, si va dallo scontro tra le situazioni
istituzionalizzate femministe e LGBT con il mondo dei collettivi e delle “reti”, al completo
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3° Congresso del PCL
DOCUMENTO FEMMINISMO E COMUNISMO
adeguamento alle battaglie fatte dalle organizzazioni lesbiche e omosessuali, come quella sulle
unioni civili, senza alcuna dialettizzazione. In questo campo non possiamo sottrarci alla
relazione con il dibattito sul genere e su ciò che va oltre il genere senza perdere l'occasione di
entrare in contatto tra l'altro con alcune delle situazioni più radicali.
Ricordare che l’oppressione delle donne è un utile paradigma delle oppressioni generali e che
senza una battaglia senza quartiere alla società divisa in classi, questa vicenda farà come tutto
quanto, un passo avanti e due indietro. Il nostro compito nel futuro sarà quello di far sentire
nuovamente la voce dei comunisti/e, di cercare di sconfiggere le impostazioni borghesi, ma
soprattutto di non perdere il contatto con le istanze di metà della popolazione e di conseguenza
di metà della classe.
“Il movimento comunista femminile deve essere un movimento di massa, una parte del
movimento generale di massa, non solo del proletariato, ma di tutti gli sfruttati e di tutti gli
oppressi, di tutte le vittime del capitalismo e di ogni altra forma di schiavitù. In ciò sta il suo
significato nel quadro delle lotte di classe del proletariato e della sua creazione storica: la
società comunista.”
[Lenin in “Lenin e il movimento femminile” di Clara Zetkin, 1925]
È altresì importante considerare che all’interno delle nostre forze militanti e aderenti esiste uno
squilibrio considerevole tra la presenza maschile e femminile. Sul complesso degli iscritti le
donne si attestano al solo 23%. Ciò riflette un limite e un problema che non è specifico della
nostra organizzazione, ma è storico. Si pone la necessità del reclutamento di forze militanti e
aderenti di genere femminile il che può avvenire solo se nell’intervento e nelle rivendicazioni di
un’organizzazione rivoluzionaria siano inclusi i problemi specifici delle donne, in altre parole gli
effetti di quegli elementi di oppressione sopracitati. Il Pcl, pertanto, deve dotarsi di un’apposita
commissione che si occupi degli aspetti di analisi e d’intervento. Tale commissione deve
rispondere ai principi del femminismo classista qui espressi e deve avere come primo obiettivo il
reclutamento di forze di genere femminile. Questa necessità era già sostenuta e riconosciuta
nella sua importanza da Lenin:
“Nessuna organizzazione particolare per le donne. Una donna comunista è membro del partito
non meno di un uomo comunista. Non deve esserci al riguardo un’impostazione particolare.
Tuttavia non dobbiamo nasconderci che il partito deve avere enti, gruppi di lavoro, commissioni,
comitati, uffici o quel che più piacerà, con il compito specifico di risvegliare le masse femminili,
di mantenere con esse i contatti e di influenzarle. Il che, è ovvio, esige un lavoro sistematico.
[…]Perché non abbiamo mai avuto nel partito un numero eguale di uomini e donne, neanche
nella repubblica sovietica? Perché è così esiguo il numero di donne iscritte nei sindacati? I fatti
debbono indurci a riflettere. […] Soltanto se milioni di donne sono con noi possiamo esercitare
la dittatura del proletariato, possiamo costruire seguendo direttrici comuniste. Dobbiamo trovare
la maniera di raggiungerle, dobbiamo studiare per trovare questa maniera.”
[Lenin in “Lenin e il Movimento Femminile, di Clara Zetkin, 1926]
Proponiamo inoltre che questo dibattito venga, ove possibile, allargato alle istanze internazionali
e quindi alle altre sezioni CRQI, tenendo conto, però, delle difficoltà che esso sta attraversando.
4. Le rivendicazioni
Il femminismo qui presentato si distingue per il suo carattere classista anche per quanto
riguarda le rivendicazioni. Fermo restando che la sovrastruttura agisce su entrambe le classi, a
noi interessa, e deve interessare, la condizione delle donne provenienti dai ceti più disagiati.
Queste, infatti, non hanno la possibilità né di svincolarsi da quelli che sono i loro obblighi
nell’ambito familiare né di sopperire alle mancanze di un’adeguata assistenza sanitaria
rivolgendosi a cliniche private. Le rivendicazioni, pertanto, vanno intese come riferite a questo
settore della società capitalistica.
In quanto comunisti/e, dobbiamo occuparci delle difficoltà e dei problemi che le donne
incontrano quotidianamente. Consci/e del fatto che la società attuale obbliga la donna a
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3° Congresso del PCL
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occuparsi della prole e che, in caso di divorzio o maternità in giovane età, la sussistenza
economica e la cura dei figli ricade in misura maggiore sulla madre rivendichiamo:
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Garanzia di un’occupazione stabile;
Diritto alla casa;
Trasporti urbani a basso costo e funzionanti;
Una educazione sessuale laica;
Un sistema sanitario gratuito che garantisca la scelta autonoma sulla sessualità, sulla
maternità;
Strutture di supporto e assistenza per le donne vittime di abusi sessisti: percosse,
aggressioni sessuali, molestie sul posto di lavoro;
Sistemi di sostegno alla cura e alla crescita dei figli;
Sistemi di sostegno gratuito alla cura ed assistenza dei familiari non autosufficienti.
Rossana Canfarini, Delia Carloni, Chiara Di Stanislao, Martina Giustelli, Tiziana
Mantovani su incarico del Comitato Politico del PCL, 13.10.2013
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