Marx e le donne - Wanda Montanelli

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Marx e le donne - Wanda Montanelli
MARX E LE DONNE
di Cristiana Bullita
Il problema della condizione femminile da noi esiste ancora o si tratta ormai solo di un fantasma di
matrice narcisistica, di un delirio vittimistico, di un residuo post-ideologico? Se esiste, esso
interessa tutte le donne o solo quelle proletarie? E’ possibile che queste si uniscano alle donne
borghesi in una lotta comune contro il maschio oppressore? E’ possibile che le donne arrivino a
sperimentare un’assoluta parità formale e sostanziale all’interno del sistema capitalistico? Il
problema femminile è una questione di genere e culturale oppure è essenzialmente economico, con
radici che affondano nelle disuguaglianze sociali che la lotta di classe si propone di sanare?
Queste domande sorgono spontanee quando ci si accosta al problema dell’emancipazione della
donna visto da Marx e trattato da Cecilia Toledo, militante socialista brasiliana, autrice del testo O
Género nos une, a classe nos divide, paladina della lotta contro le discriminazioni di genere e attiva
nell’organizzazione delle donne lavoratrici, morta il 23 settembre 2015.
Il marxismo si è sempre posto il problema della condizione femminile, che non ha mancato di
produrre frizioni all’interno dello stesso movimento socialista perché nella riflessione dei militanti
s’inserisce nella più spinosa delle questioni, ossia l’esistenza delle classi sociali.
Nei Manoscritti del 1844 Marx rifiuta esplicitamente il comunismo rozzo nel quale la donna,
finalmente sottratta alla prigione della famiglia borghese, diviene “la preda e la serva del piacere
della comunità”. Sotto le ceneri del capitalismo resta la brace di una ‘mentalità dell’avere’ che
continua a legittimare la proprietà privata sotto forma di proprietà nazionalizzata e quindi di tutti;
questo vale per la terra come per la donna, non più solo di qualcuno ma in comune a molti.
Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, Marx ed Engels attaccano frontalmente la famiglia
borghese e le sue ipocrisie:
“Le declamazioni della borghesia sulla famiglia e l’educazione, sui dolci legami che uniscono il
bambino ai suoi genitori, sono vieppiù nauseanti nella misura in cui la grande industria distrugge
ogni legame familiare per il proletario e trasforma i bambini in semplici articoli di commercio, in
semplici strumenti di lavoro”.
Per i marxisti la famiglia è un contratto economico funzionale al mantenimento del sistema
capitalistico e all’avvilimento della donna. Le funzioni della famiglia possono invece essere
felicemente assunte dalla società e la donna può così trovare la strada della sua liberazione.
In merito alla questione femminile, i marxisti tedeschi devono vedersela con le posizioni reazionarie
e oscurantiste dei lassalliani e, soprattutto, con quelle di Proudhon, il quale arriva a proporre per il
marito il diritto di vita e di morte sulla moglie.
Nel 1867 i dirigenti della Prima Internazionale, condizionati dai pregiudizi maschilisti dilaganti,
dichiarano che: “La donna ha come meta essenziale quella di essere madre di famiglia, deve
rimanere al focolare domestico, il lavoro le deve essere vietato”.
Nel 1884 Engels scrive L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, sulla
condizione femminile nella società capitalistica. Anche se egli crede erroneamente che la
monogamia sorga con la proprietà privata - in realtà la precede - , ha il merito d’individuare
l’origine dell’oppressione femminile in una causa non biologica o psicologica ma economica.
“Anche a casa, fu l’uomo a prendere in mano il timone; la donna fu degradata, asservita, divenne
schiava del piacere dell’uomo e semplice strumento di riproduzione […] questa condizione non è
ancora stata del tutto soppressa. […] Il matrimonio di coppia costituisce la cellula della società
civilizzata, nella quale possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che
in essa si sviluppano pienamente”.
All’interno della Seconda Internazionale i marxisti difendono il suffragio universale contro i
riformisti, ostili al voto per le donne. Nell’organizzazione l’Spd è il partito più importante; quando
nel 1914 vota i crediti di guerra, Clara Zetkin, dirigente politica femminista marxista, rompe i
rapporti con il partito, insieme a Rosa Luxemburg e a Karl Liebknecht.
La rivoluzione russa del 1917 vede in prima linea le manifestazioni femminili di massa a
Pietrogrado, mentre bolscevichi, menscevichi e socialrivoluzionari si contendono l’adesione delle
donne ai loro programmi.
Lenin e Trotsky favoriscono molto l’emancipazione femminile attraverso leggi che non hanno
eguali nei paesi capitalisti di allora.
Così Lenin si rivolge alle donne russe nel 1920:
“Il capitalismo coniuga l’uguaglianza di pura facciata all’ineguaglianza economica e, di
conseguenza, sociale. (...) e una delle più scioccanti manifestazioni di questa incongruenza (del
capitalismo) è l’ineguaglianza tra donna e uomo. Nessuno Stato borghese, per quanto progressista,
repubblicano, democratico sia, ha riconosciuto l’intera uguaglianza di diritti tra uomo e donna. La
Repubblica Sovietica russa, per contro, ha cancellato in un colpo solo e senza eccezione alcuna
tutte le tracce giuridiche dell’inferiorità della donna, e del pari ha assicurato in un colpo solo la
parità completa della donna a livello di leggi ”.
Le operaie russe pretendono però un’uguaglianza anche sostanziale, ossia una trasformazione
radicale dei costumi sociali che nessun codice potrebbe garantire e che cerca un aggancio con la
rivoluzione in atto.
Lenin riconosce le rivendicazioni sociali di tutte le donne insofferenti alla società borghese,
comprese quelle delle classi possidenti (Marx: “In sua moglie il borghese non vede che uno
strumento di riproduzione”). Denuncia inoltre lo strisciante maschilismo della Terza Internazionale,
che sottovaluta il potenziale rivoluzionario di un eventuale movimento di massa femminile.
Il Terzo Congresso, nel quale vengono esposte le concezioni marxiste sull’emancipazione della
donna, assume un’importanza cruciale per la risoluzione adottata nel giugno del 1921, che ribadisce
la necessità di una rivoluzione socialista sostenuta dalle donne, anche al fine del loro affrancamento.
La risoluzione afferma inoltre un principio di estrema importanza e attualità, ossia “che non ci sono
delle questioni femminili particolari”. Occorre interpretare correttamente questo principio. Esso non
significa, infatti, che non esistano problemi che interessino in modo specifico le donne, né che non
esistano questioni che richiedano una loro attenta e partecipata mobilitazione. Al contrario, la
risoluzione avverte che qualunque questione investa l’universo femminile diventa immediatamente
di portata sociale, non può in alcun modo escludere gli uomini e anzi li arruola immediatamente
nella lotta insieme alle compagne. La risoluzione del 1921 si rivolge alle lavoratrici e ai lavoratori
per impedire che la questione femminile venga sminuita a pretese di genere. Inoltre il documento
condanna il femminismo borghese, che s’illude di risolvere la questione riformando il capitalismo e,
nel ribadire l’inopportunità di un’organizzazione del partito separata per i due sessi, raccomanda la
costituzione di organismi speciali, come commissioni di donne, che operino a tutti i livelli politici.
La risoluzione pretende poi che almeno una donna assuma all’interno dei partiti comunisti il ruolo
di dirigente nazionale (quote rosa ante litteram?).
La Terza Internazionale esprime chiaramente l’evidente saldatura tra la lotta al capitalismo e la
questione femminile. Ancora oggi la correlazione tra i due elementi sfugge a quelli che, pur
convintamente marxisti, recepiscono con fastidio le rivendicazioni delle donne, come se
sensibilizzare alle questioni di genere fosse un’azione controrivoluzionaria o comunque in grado
d’indebolire il vero e unico conflitto sociale, quello tra sfruttatori e sfruttati.
“Quello che il comunismo darà alla donna, non potrà mai esserle dato dal movimento femminista
borghese. Finché esisterà il dominio del capitale e della proprietà privata, la liberazione della
donna sarà impossibile”.
Ciò che secondo i marxisti fiacca le forze del proletariato è l’alleanza interclassista: donne
proletarie e donne borghesi non devono coalizzarsi. Ma oggi capita di sentir tacciare di
“femminismo borghese” (o anche di peggio) le donne – borghesi o proletarie che siano –
preoccupate per la perdurante violenza di genere, spesso letale, e intenzionate a contrastarla. Esse
sarebbero condizionate dai media impegnati in una collaudata strategia di distrazione di massa,
attraverso l’utilizzo strumentale di tragici e sporadici fatti di cronaca. Se, come suggerisce
l’Internazionale, per instaurare il comunismo occorre l’unione di tutti gli sfruttati (Marcuse direbbe
del sottoproletariato, non più degli operai salariati, ormai integrati nel sistema) e non di tutte le
donne a prescindere dalla classe di appartenenza, è pur vero che nessuno oggi potrebbe immaginare
o sostenere una guerra di femmine contro maschi (fuori da certo cinema d’evasione), e men che mai
l’instaurazione di un matriarcato transnazionale e comunista.
Con l’avvento di Stalin la donna sovietica arretra in modo impressionante: le conquiste della
rivoluzione d’Ottobre rimangono ricordi nostalgici o beffardi della storia. Così Trotsky ne La
rivoluzione tradita del 1936:
“Sfortunatamente, la società russa si rivelò troppo povera e troppo poco civilizzata. […] La vera
emancipazione della donna diventa impossibile sul terreno della ‘miseria socializzata’.
E poi, nel gennaio 1938:
“… in flagrante contraddizione con l’Abc del comunismo, la casta dirigente ristabiliva la cellula
più reazionaria e più lugubre del regime di classe, la famiglia piccolo-borghese”.
Le lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta del Novecento accendono un intenso dibattito
all’interno del marxismo. Mary-Alice Waters, dirigente dell’Swp (Socialist Workers Party) degli
Stati Uniti propone a tutte le donne del mondo di unirsi in un unico movimento interclassista contro
il capitalismo, vero e unico nemico comune. Ma un documento del 1980 elaborato all’interno della
Quarta Internazionale risponde alla Waters affermando che l’unità delle donne al di sopra delle
classi è impossibile, e diventa il manifesto della posizione marxista in merito alla questione
femminile. Esso sostiene la mobilitazione delle donne proletarie di tutto il mondo ai fini della
rivoluzione socialista, che garantirà la libertà da ogni sfruttamento (di genere e di classe).
Al contrario, il femminismo riformista sostenitore dell’alleanza di tutte le donne relegherebbe in
secondo piano la lotta di classe. Infatti esso crede che la questione femminile sia un problema di
genere che possa essere risolto all’interno del capitalismo, e sgancia così di fatto la lotta per
l’emancipazione della donna da quella contro il sistema economico vigente.
Io credo che il problema delle donne sia esattamente un problema di genere, cioè un problema
culturale ed educativo che investe inevitabilmente la politica. Un problema che, naturalmente, si
somma, aggravandoli, a tutti gli altri problemi connessi alla precarietà e alla miseria. Io penso che
non si possa aspettare la rivoluzione del proletariato e la fine del capitalismo per pretendere per noi
tutte diritti formali e sostanziali, rispetto e sicurezza. Anche se la piena emancipazione da ogni
sfruttamento, come donne e come esseri umani, probabilmente la otterremo soltanto gettando nuove
basi per una società che finalmente realizzi un’equa distribuzione delle risorse e difenda le istanze
di felicità di tutti gli individui.