Giovanni Verga e il Darwinismo sociale “La Natura non ha storia, è

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Giovanni Verga e il Darwinismo sociale “La Natura non ha storia, è
Giovanni Verga e il Darwinismo sociale
“La Natura non ha storia, è sempre uguale a se stessa”.
Incipit alla tesina.
Attraverso lo studio delle novelle di Verga e quindi delle vicende dei singoli personaggi, ci siamo
chiesti, quanto esse siano attuali nella società del ventunesimo secolo, quanto continueranno ad
esserlo nelle generazioni future e se ancora oggi vige la cosiddetta “struggle for life”, lotta per la
sopravvivenza. Ancora oggi il più forte prevarica il più debole? Per rispondere a tale questione ci è
sembrato opportuno considerare il pensiero di Condorcet (filosofo francese dell’Ottocento): “La
natura non ha storia, è sempre uguale a se stessa”
Ma cosa s’intende con questa frase? Le risposte potrebbero essere molteplici ma quella che a noi
più interessa è la prova che le vicende delle novelle scritte dall’autore siciliano (lo sfruttamento di
Malpelo, la disabilità di Màlia, il pregiudizio della società, l’omicidio da parte di Pentolaccia del
rivale in amore) non rimangono limitate nella realtà verghiana, ma continuano a ripetersi nel corso
della storia rappresentando la storia dell’umanità, più precisamente storia della società umana:
“Il semplice fatto umano farà pensare sempre […]” e avrà sempre l’efficacia dell’essere stato e al
contempo continuerà ad essere.
Quante volte si sente parlare oggi di mariti che per gelosia commettono degli omicidi, o di bambini
e ragazzi che vengono sfruttati nei lavori manuali? Quante volte veniamo a conoscenza di
ingannevoli cure e della poca attenzione verso i disabili, come accadde a Màlia paralizzata dalla
cintola in giù? O di pregiudizi della gente superstiziosa che giudica unicamente dal colore dei
capelli?
Rosso Malpelo
Il protagonista della novella è un ragazzino dai capelli rossi, i quali secondo un’antica credenza
siciliana sono segno di malvagità: Malpelo è rosso, è diverso, quindi è cattivo, portatore di male per
sé e per gli altri. Egli viene deriso e maltrattato dalle persone che lo circondano, persino dalla
sorella e dalla madre. L’unico che si prende cura di lui è il padre minatore detto Mastro Misciu
Bestia, il quale lavora presso la cava dove perderà la vita, lasciando così Malpelo solo e indifeso.
Il ragazzo continua a lavorare nella cava ereditando il mestiere del padre. Già da qui possiamo
delineare il profilo del personaggio, tipico del pessimismo Verghiano, piuttosto interessante: il
ragazzo accetta la propria condizione sociale con rassegnazione, affermando che si nasce per il
lavoro nella miniera. Malpelo si sente addirittura orgoglioso di quel lavoro, per il quale crede di
essere nato. Sa che fuori dal suo mondo ne esiste uno diverso, fatto di lavori e ambienti più
1
piacevoli, e non avrebbe voluto lavorare sotto terra, “ma quello era stato il mestiere di suo padre, e
in quel mestiere era nato lui1.”
-La condizione del vinto
Malpelo è vittima di continui pregiudizi e maltrattamenti da parte di una società superstiziosa e
malvagia che porterà il ragazzo, in seguito alla morte del padre, a rispondere alla sopraffazione con
atteggiamenti di scontrosità e violenza, acuiti dai maltrattamenti patiti. Si comporta in maniera
crudele verso gli altri. Rifacendosi alla teoria di Darwin, Verga descrive un Malpelo che vede nel
prossimo un nemico. Da ciò deriva che un tale stato si trovi in una perenne conflittualità interna, in
un continuo bellum omnium contra omnes, nel quale non esiste il torto o la ragione che solo la
legge può distinguere, ma solo l’istinto di ciascuno a difendersi, anche rifacendosi sulla vita altrui.
In questo modo Malpelo manifesta la propria lotta per l’ esistenza, quando in miniera arriva a
lavorare un ragazzo piccolo e debole, soprannominato Ranocchio. Egli lo picchia, lo insulta, lo
tormenta, tuttavia lo fa con l’obiettivo secondario di rinforzare l’ altro e di insegnargli come
funziona la vita. Sebbene Malpelo “si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile2”,
facendo credere a tutti di essere come gli atri e comportandosi in modo crudele, in realtà egli vuole
bene al ragazzino nuovo arrivato e, a modo suo, si prende cura di lui.
Alla fine anche Ranocchio muore e Malpelo rimane solo, abbandonato dalla sorella e dalla madre.
Malpelo accetta un pericoloso compito nella miniera, come aveva fatto suo padre e scompare per
sempre nelle viscere della terra. In tutto questo, anche in questo orgoglio, sta la tipica condizione
del “vinto‟, ma a differenza di altri vinti verghiani, indifferenti al proprio come all’altrui destino,
Malpelo è più umano: cerca di migliorare almeno la condizione di Ranocchio, provando a
rinforzarlo, a cambiarlo e a suo modo ad emanciparlo dal suo destino, anche se non ci riuscirà.
Dato che non lo rimpiangerà nessuno, Malpelo accetta la sua sorte: morire dentro la cava. Assieme
all’accettazione, c’è qualcosa di ammirevole nella partenza di Malpelo. Sereno, prende con sé gli
arnesi, il pane e il vino, e come se stesse andando a trovare suo padre, si dirige sotto terra per
l’ultima volta. Diversamente dal padre, lui sparisce senza lasciare traccia, e in un certo senso muore
senza morire. Lascia così una leggenda, un mito negativo, di cui i ragazzi della miniera avranno
sempre paura. In questo senso, Malpelo può essere considerato il personaggio verista probabilmente
1 G. Verga, Tutte le novelle, Milano,1988, p.115
2 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.151
2
più vinto di tutti, perché neanche nella morte trova pace e liberazione, ma continua ad essere
disprezzato.
-Le forze condizionanti
Chi è dunque il più forte in questa novella e quali cause portano il protagonista alla sconfitta?
Potremmo individuare nella società il potere condizionante dato dalla superstizione e dal
pregiudizio della gente, che non fanno altro che sfociare in cattiverie, legate alla diversità. Infatti
egli è maltrattato, “ accarezzato coi piedi” e paragonato frequentemente a bestie, come anche coloro
che gli sono cari: il padre e Ranocchio.
Pentolaccia
Continuando il nostro percorso sul taglio del Darwinismo sociale, analizziamo uno degli aspetti
nelle novella che possiamo ricondurre alle teorie darwiniste dell’istinto animale: la gelosia.
Verga fa della gelosia un istinto molto vicino a quello di conservazione e di sopravvivenza. Si parla
di gelosia atavica e non semplicemente istintiva per indicare il fatto che essa sia soltanto una
tendenza ereditaria, ma anche una forza irrazionale che può divenire distruttiva. Non dimentichiamo
che per gelosia si muore e per gelosia si uccide ancora oggi.
La novella “Pentolaccia” racconta la vicenda di un contadino che sposa, anche se senza il consenso
della madre, la “Venera”. Questa donna è conosciuta in paese come una donna di facili costumi,
infatti tante sono le dicerie che attestano i suoi comportamenti. Dopo il matrimonio la donna
tradisce Pentolaccia con Don Liborio, medico benestante. In paese circolano subito le voci di questo
tradimento, tanto che tornando un giorno da lavoro Pentolaccia si sente soprannominare “becco”da
due contadini. Ormai umiliato dall’ infedeltà della moglie ordina a Don Liborio di non farsi più
vedere a casa sua. Quest’ultimo snobba la cosa pensando ad un momento di follia del contadino
che da tempo accettava i benefici di questa situazione: “ci aveva la pentola al fuoco tutti i giorni
ché gliela manteneva sua moglie Venera con Don Liborio.3 ”
Un giorno Pentolaccia torna prima dal lavoro e coglie la moglie in attesa dell’amante. Preso dall’ira
prende una spranga e si apposta sull’uscio, aspettando l’arrivo del rivale. Quando Don Liborio si
presenta alla porta di casa egli lo colpisce sulla nuca con una stangata e lo uccide. Per questo finisce
in galera.
3 G.Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.189
3
-Le forze condizionanti e la condizione del vinto
Il personaggio di Pentolaccia è diverso dagli altri “vinti” per due motivi: primo motivo poiché si
risente dell’infedeltà della moglie solo nel finale della novella. Il secondo motivo è da attribuirsi al
fatto che da questa vicenda egli esce non solo come vinto, per esser stato condotto in prigione ed
essere stato vittima del tradimento, ma anche come vincitore, per aver ucciso il rivale in amore.
Egli, dunque, svolge un duplice ruolo nella novella. Anche la chiusura è incisiva: Pentolaccia uccide
quando il suo dubbio è ormai diventato triste ed esplosiva certezza, ma senza lo stupore doloroso
che aveva caratterizzato l’atto omicida di Jeli (Jeli Il Pastore), appunto senza poesia e senza pathos:
il gesto appare quasi come scatenato da una molla meccanica e istintiva, a prescindere dal fatto che
amasse o meno.
“Appena Don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga,e gli lasciò cadere fra
capo e collo tal colpo, che l’ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale4”
Il canarino del N. 15
Ci spostiamo adesso dalla Sicilia contadina a Milano, dove è ambientata la storia di Màlia. Giovane
disabile figlia di portinai, Màlia passa le sue giornate seduta nel vano di una finestra, da dove
osserva con malinconia la gente che cammina in strada. Infatti lei è paralizzata dalla cintola in giù, e
non può muoversi.
Tra i passanti un giorno capita un giovane, Carlini, con il quale Màlia scambia uno sguardo fatale,
ed entrambi provano amore a prima vista.
“ Ma poi seppe la storia del canarino, e di mezza la persona che era morta sino alla cintola, e non
alzò più gli occhi 5”
Si deduce che, appena il giovane scopre l’infermità della ragazza, d’improvviso rifiuta l’idea di
amarla e non la guarda più, mentre Màlia prova ancora gli stessi sentimenti. Fino a che un giorno
sua sorella torna a casa accompagnata proprio da Carlini. La scoperta del loro amore ovviamente
reca dolore a Màlia, aumentato dal fatto che egli inizia ad essere considerato un membro della
famiglia.
4 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.193
5 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.320
4
La capricciosa sorella di Màlia presto si stanca di Carlini, preferendo uomini più ricchi, mentre sua
sorella è sempre più innamorata.
Una sera Carlini, ubriaco e disperato, si sfoga con Màlia e la bacia senza tuttavia provare per lei
alcun sentimento.
Per Màlia inizia così la fine e si lascia morire per la disperazione.
La famiglia si rende conto della sua condizione di moribonda e si prepara alla morte. Perfino sua
sorella, benché biasimata dai genitori perché scappata di casa, torna per rivederla. Mentre nessuno
dei personaggi le bada, Màlia muore, finendo di penare.
La condizione del vinto.
La protagonista Màlia è vinta non dalla sua condizione sociale o economica come altri personaggi
verghiani, bensì dalla natura, la quale le ha donato un corpo che non le permette di far altro che
stare seduta alla finestra, dove infatti viene lasciata tutto il giorno dai suoi genitori. Non può
partecipare alla vita, né quella sociale, né quella famigliare, può solo guardare gli altri che vivono,
camminano e amano, come sua sorella e Carlini. È condannata dunque al ruolo di spettatrice, come
un canarino da compagnia in gabbia.
Màlia accetta la sua condizione fisica, o meglio vi si rassegna, e si adatta all’atteggiamento di
disinteresse della società che le sta intorno. Ciò non le impedisce di sperare, ogni tanto, in un
cambiamento: “alle volte le moriva sulle labbra la domanda se nei giornali non ci fosse un rimedio
per lei.6”
Il punto di svolta della trama si ha quando Carlini nega il suo amore a Màlia, e lo fa unicamente per
via della sua disabilità.
L’emarginazione di un disabile, escluso dalla possibilità di avere relazioni affettive e sessuali è una
situazione che si verifica tutt’oggi, e possiamo dire che così è sempre stato. Il motivo di ciò (da un
punto di vista scientifico) è che esiste nella mente di ognuno un ricordo ancestrale che porta a
sentire che una persona malata non debba avere la possibilità di riprodursi per la legge della
selezione naturale, propugnata dallo stesso Charles Darwin. Questa legge può sembrare crudele,
infatti è solo grazie al progresso della società occidentale nelle ultime generazioni se oggi riusciamo
a vedere coppie miste tra disabili e normodotati.
6 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.321
5
Possiamo comparare la figura di Màlia a quella di Rosso Malpelo, poiché entrambi ne escono
doppiamente vinti in modo simile. Infatti anche a Màlia è negata la possibilità di essere protagonista
della sua vicenda esistenziale e muore nell’indifferenza.
Le forze condizionanti
Le forze condizionanti in questa vicenda sono essenzialmente la natura che ha imposto a Màlia la
sua drammatica situazione, ma anche Carlini che subisce a sua volta la forza del suo retaggio
culturale, che gli impedisce di distaccarsi dal pregiudizio verso la disabile e porta a ripudiare il suo
amore. Altra forza condizionante è l’indifferenza ottusa della famiglia di Màlia, che prima non le dà
attenzioni, ignora i suoi sentimenti e solo dopo averla lasciata morire sola si rende conto del vuoto
lasciato dalla sua assenza.
Nedda
La novella ‘Nedda’ descrive la vita misera di una contadina siciliana, una ragazza semplice ed
estremamente povera.
“Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva
schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e
l’intelligenza7.”
La vita della ragazza è fatta di lavori estenuanti che accetta ovunque capita in cambio di pochi
soldi, che le servono a mantenere ed accudire la madre malata. Nedda non abbandona mai la madre,
che appunto finisce la sua vita nel corso della novella. Dopo la morte di questa, la figlia si
trasferisce in una zona vicina in cerca di lavori più fruttuosi.
La sua unica gioia è l’amore che ha per Janu, un ragazzo povero come lei. Janu è un giovane
semplice, dalla mentalità contadina, ma sinceramente affezionato a Nedda.
Lavorano insieme e lui promette di sposarla dopo la mondatura, durante la quale lui si allontanerà
per lavorare. Tuttavia, anche lui ammalato muore lasciando sola la ragazza.
“Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste
ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che
sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta.8”
Nedda è ora una donna sola, incinta, povera ed emarginata.
7 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.11
8 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.27
6
Dai compaesani è rimproverata e trattata con sempre più disprezzo. Totalmente sola, dà alla luce
una bambina fragile.
Malgrado non possieda i mezzi per nutrirla, rifiuta di lasciarla sulla Ruota degli esposti, e perciò
viene criticata ancora di più dai suoi compaesani.
Nessuno vuole più far lavorare Nedda, provata dalle fatiche della gravidanza e del parto, con una
bambina dipendente da lei, e così è costretta a sopravvivere con i suoi pochi risparmi con la carità di
un suo vecchio conoscente.
Tuttavia “alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane9”. La
bambina muore e nel cuore di Nedda prevale sul dolore un senso di mesto rasserenamento; infatti è
felice che l’innocente creatura non debba condividere la sua stessa sorte, e per ciò ringrazia
addirittura la Madonna.
La condizione del vinto
Sin dall’inizio della novella capiamo che il motivo per cui Nedda è una vinta sta nella sua povertà.
Un tipo di povertà comune nella Sicilia verghiana, che toglie completamente dignità all’individuo e,
come scrive lo stesso Verga, lo rende simile ad una bestia da lavoro alla mercé di un padrone, ma
anche di qualsiasi persona che abbia un livello di vita appena meno infimo. Ma Nedda è in balìa
anche dei fenomeni naturali, la pioggia, ad esempio, le impedisce di lavorare nei poderi togliendole
così la possibilità di guadagnare dei soldi.
L’autore afferma esplicitamente che forse lei avrebbe potuto avere un destino diverso e migliore, se
non fosse stata costretta a fare quella vita, confermandoci che la principale forza condizionante sta
nella sua povertà.
“L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra
fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi
abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad
indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. […] Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un
fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata
sull’ultimo gradino della scala umana10”.
9 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.28
10 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.10
7
Nedda è abituata alla fame, alla fatica, alle privazioni; è la più povera tra le ragazze povere, la più
affamata tra le lavoratrici.
È una persona altruista, che non si lamenta, e malgrado tutto mostra in più occasioni un’immensa
gratitudine verso Dio, anche per il semplice fatto di avere due braccia con cui lavorare, anche
quando sua figlia muore.
Non si ribella contro i rimproveri che le vengono fatti, anzi li accetta come se le fossero rivolti
giustamente. Lei stessa addossa la colpa delle proprie disgrazie a sé stessa, alla propria povertà e al
proprio immutabile destino.
Col personaggio di Nedda, Verga mostra però un pacato ottimismo, che emerge in diverse situazioni
nel corso della vicenda e che in parte la fa sembrare quasi un personaggio contraddittorio, poiché
alterna momenti di rassegnazione e triste remissività ad altri in cui si rifiuta di agire come gli altri le
impongono. Due casi in particolare siamo andati ad analizzare.
Il primo esempio è quando decide di vivere la sua storia d’amore con Janu, malgrado lo zio
Giovanni l’abbia sconsigliato.
Altro caso in cui Nedda va contro all’opinione delle altre persone, razionale e spietata, è quando
decide di tenere la bambina che non può neanche nutrire, con conseguenti critiche ed emarginazione
da parte della società.
Messe in relazione, queste due azioni denotano un desiderio, la speranza interiore di poter cambiare
la propria condizione di vita in una migliore, anche se, ovviamente, l’esito non è positivo in nessuno
dei due casi.
-Le forze condizionanti
La povertà di Nedda non è l’unica ragione della sua sofferenza e del suo essere una ‘vinta’.
Nella società in cui vive Nedda è costantemente presente la voce del pregiudizio, della cattiveria
popolare, la voce di una comunità che non si ferma a provare pietà per una ragazza povera e orfana
ma che si preoccupa piuttosto di ingiuriarla e criticarla. Nell’opera sono sparsi infatti molti
riferimenti alla cultura popolare della tradizione, come si evince dai dialoghi tra le contadine.
Nelle situazioni comuni i personaggi tendono sempre ad esprimere una certa coralità, e chi rischia
di dire qualcosa di contrario all’opinione comune preferisce tacere.
Nel momento in cui uno, non solo Nedda, si trova in qualche difficoltà o anche solo con un pensiero
diverso dagli altri, tutti si coalizzano contro con distacco e con “quel sentimento istintivo di
8
giustizia che c’è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui11”,come lo
stesso Verga ci suggerisce.
Ancora una volta è lampante un paragone con il mondo animale: i poveri verghiani, sono uniti come
in un branco, che benché abbia regole barbare e primordiali garantisce una certa protezione alle
debolezze del singolo.
Emergono inoltre un gran livello di ignoranza, ottusità, crudeltà e chiusura mentale, infatti Nedda
viene addirittura rimproverata con severità da una donna perché, sovrappensiero, dimentica di
rispondere ‘amen’ durante una litania. Le convenzioni sociali sono ritenute estremamente importanti
e chi vi si sottrae subisce la violenza dell’emarginazione.
Il trattamento nei confronti di Nedda è esemplificativo della vittoria del più forte sul più debole. E
allo stesso modo nell’accettazione remissiva di Nedda si trova la consapevolezza della vinta del suo
destino fisso e dell’ impossibilità di cambiarlo.
“così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia12.”
La Roba
Ci è sembrata assai singolare la vicenda di un personaggio: Mazzarò. Egli ci viene subito presentato
attraverso la descrizione dei suoi possedimenti di una grandezza inaudita.
“-Qui di chi è?- sentiva rispondersi: - Di Mazzarò. –E passando vicino a una fattoria grande
quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra
del pozzo, e le donne che mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava13”
Questi possedimenti immensi erano stati ben guadagnati da Mazzarò, il quale aveva lavorato in
quegli stessi campi anni prima a servizio di un barone. Egli è riuscito dunque a cambiare la propria
condizione sociale passando dalla condizione di contadino a quella di borghese.
Il protagonista non era solito sperperare il suo denaro, considerato poco importante, anzi lo
investiva per acquistare ulteriori possedimenti terrieri.
Mazzarò si lagnava continuamente della propria vecchiaia e nel momento in cui gli dissero che era
arrivata l’ora di abbandonare la vita dei campi, per badare alla sua anima, preso da una follia
11 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.12
12 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.11
13 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.238
9
improvvisa, uscì nel cortile e iniziò ad uccidere brutalmente tutti gli animali che gli capitavano sotto
tiro, urlando: - “Roba mia, vientene con me!14”
-La condizione del vinto e le forze condizionanti
Ad una prima lettura della novella sembra che l’autore siciliano si discosti completamente dalla
concezione darwiniana del ciclo dei vinti. Egli infatti, sosteneva che colui il quale tentasse invano di
cambiare il proprio destino, veniva indubbiamente schiacciato e sopraffatto dalla società, dunque
vinto. Mazzarò esce in parte vincitore dalla vicenda, essendo il primo personaggio di tutte le novelle
verghiane che riesce a dare una svolta alla proprio fortuna. Tutto ciò potrebbe negare la teoria dei
vinti, da Verga sostenuta. Mazzarò, apparentemente vincitore, è in realtà un vinto, in quanto viene
sopraffatto dall’egoismo e dall’ avidità per la sua “roba”, con la quale stabilisce un legame
dipendente e morboso, che lo induce a vedere nel prossimo un nemico e alla conseguente
distruzione di gran parte dei propri beni a cui era tanto legato. Mazzarò non poteva accettare l’idea
che ormai giunto alla vecchiaia, qualcuno potesse impossessarsi delle sue ricchezze. Proprio per
queste ne risulta vinto: egli riesce sì a cambiare la sua condizione sociale, ma non potrà mai vincere
il destino che lo separerà, una volta morto, dalla sua “roba”. Dunque, ciò attesta che la natura
umana è fondamentalmente egoista. Il protagonista non è vinto né dal pregiudizio, né dalla società,
ma da se stesso, un uomo inevitabilmente corrotto dall’avidità. Le sue azioni vanno oltre un
semplice istinto di sopravvivenza in quanto esse sono regolate da un desiderio infinito di possesso.
La storia, sappiamo, ha portato l’umanità ad un progresso scientifico, tecnologico e sociale
soprattutto nel mondo occidentale.
Ma allora perché, se c’è stato questo progresso, le vicende narrate dalle novelle di Verga ci
sembrano così attuali e vicine se sono state scritte in pieno Ottocento?
Le storie dei personaggi si ripropongono nella società del Ventunesimo secolo con dinamiche
diverse, ma spesso a causa degli stessi fattori: forse oggi un Malpelo non sarebbe morto nella cava,
una Màlia avrebbe avuto più possibilità di continuare la relazione con Carlini, una Nedda non si
sarebbe lasciata morire la figlia tra le braccia.
Tuttavia esistono sempre il pregiudizio delle persone verso i diversi e i disabili, la cattiveria verso i
più deboli, l’avidità di denaro e potere e l’atto di follia omicida provocato dalla gelosia.
Nell’analisi delle novelle abbiamo spesso fatto un riferimento alle teorie darwiniste e,
implicitamente, a quelle malthusianiste (la scarsità o la totale mancanza delle risorse e ricchezze
14 G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1988, p.243
10
giustifica e spiega questo comune istinto di lotta per la sopravvivenza, come in Nedda, e
l’estremizzazione dell’istinto di conservazione come in “ La roba”: il fatto che Mazzarò si ostini ad
un morboso attaccamento alle sue proprietà, deriva dalla paura di ritrovarsi sprovvisto di risorse).
La risposta alla precedente domanda sta nel fatto che la natura umana di oggi è la stessa di quella di
una volta, e ciò avvalora in modo diretto davanti ai nostri occhi la veridicità delle teoria di Darwin.
Siamo spinti a comportarci nel modo in cui ci comportiamo da qualcosa che è da sempre dentro di
noi e che a volte è in contraddizione con i nostri principi morali, derivati anch’essi dal progresso.
Nonostante il progresso e l’uso della ragione ci abbiano portati a maturare i concetti di morale e
etica, l’istinto riesce a prevaricare la natura dell’uomo e ci consente di andare avanti in una società
civilizzata ma ci fa capire che noi esseri umani siamo adattabili alle situazione più estremi, in una
eterna lotta per la sopravvivenza dell’umanità. Torniamo quindi al nostro punto di partenza, che
afferma :“la natura non ha storia, è sempre uguale a se stessa”.
Manili Marianna
Volpe Althea
Romagnoli Lorenzo
Mirko Zampilloni
Classe IV C Indirizzo linguistico
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