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IL BU RRO
E LA BRE
TAG N A
PHILIPPE LéVEILLé \ LA MIA VITA AL BURRO
uno
Traou
mad
Preparazione
Ingredienti per 60 traou mad
- 18 rossi d’uovo
- 450 g di zucchero
- 1050 g di burro
- 840 g di farina
- 150 g di farina di mandorle
- 15 g di fleur de sel
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Far ammorbidire il burro.
In un recipiente versare i rossi d’uovo e lo zucchero e lavorare energicamente con
una frusta. Aggiungere il burro ammorbidito, le due farine e il fleur de sel e continuare a lavorare fino a ottenere un impasto liscio. Attenzione: questa lavorazione
va eseguita rapidamente affinché il burro non si scaldi.
Stendere su una placca il composto a uno spessore di circa 1 cm e riporre in
frigorifero per 30 minuti.
Preriscaldare il forno a 180 °C.
Con un coppapasta di 5 cm di diametro ricavare dei cerchi e cuocerli in forno per
10-12 minuti circa.
Far raffreddare completamente prima di servirli. Possono essere conservati in un
barattolo a chiusura ermetica.
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I Léveillé
I Léveillé sono cinque: padre, madre, sorella e fratello maggiori e da ultimo, piuttosto distanziato dagli altri, io. I miei
genitori si conoscono e si innamorano quando sono ancora
ragazzi, appena finita la guerra. Entrambi vengono dall’Illeet-Vilaine, uno dei quattro dipartimenti che formano la Bretagna. Lui è di Rennes, lei di Fougères, due magnifiche città
rase al suolo dai bombardamenti durante la seconda guerra
mondiale. Mio padre scolpisce il granito, la pietra simbolo
della regione, che viene utilizzata per la ricostruzione delle
chiese e i monumenti. Ha più o meno vent’anni quando, tornando dal lavoro in bicicletta, prende una buca e cade. Passa
un autotreno e lo travolge. Risultato: midollo spinale lesionato, mio padre perde l’uso delle gambe, diventa paraplegico.
Lui, Jean Victoir César Léveillé, è grosso, imponente, sfiora
il metro e novanta, ha i capelli chiari e gli occhi azzurri, uno
sguardo che mette paura e ora è lento per sempre.
Lei, Simone Henriette Angelina – nessuno ha mai saputo
spiegare l’origine di quel terzo nome italiano – De La Touche
è uno scricciolo che non arriva al metro e cinquanta, perennemente in movimento, una forza della natura.
Sono entrambi senza un franco e hanno un’idea folle: trasferirsi a Parigi dove acquistano un piccolo albergo che avrà
anche un piccolo ristorante. La banca li aiuta – già, c’era un
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tempo, mezzo secolo fa, in cui le banche aiutavano la gente invece di rovinarla – e loro vivono per tre anni un’avventura fantastica: Simone corre instancabile avanti e indietro
lungo i sei piani dell’albergo, rifacendo le stanze, cucinando
per i clienti, servendo al bar. Jean siede al comptoir, il banco
del ricevimento, credendo di dirigere tutto da lì. Finché lei,
stremata da tutte quelle scale, decide che è ora di tornare in
Bretagna, a Nantes, trovare un lavoro meno impegnativo e lasciare a Jean il piacere e la responsabilità di sfidare il destino
con qualche scommessa scriteriata.
Lei in poco tempo trova posto in un’azienda che produce
scatole d’alluminio per la conservazione degli alimenti.
Ma che cosa può fare un omone della stazza di Jean, che non
può muovere le gambe e non ha mai visto un allevamento di
ostriche in vita sua? L’ostricoltore, naturalmente. Così, mentre mia madre lavora e si dedica ad allevare Catherine prima,
Dominique poi e più tardi, dal 27 luglio 1963, me, Philippe
detto Fifì, mio padre dà vita alle “Ostriche di Jean Léveillé”,
l’unica azienda del settore in cui il proprietario viene portato
a braccia dai suoi marinai sui battelli a chiglia piatta, il mezzo
di trasporto e al tempo stesso lo strumento di lavoro principale degli ostricoltori.
Che follia, dicono tutti. D’acord, sei bretone, ma non è detto
che tu debba per forza occuparti di ostriche. Invece ha ragione lui e, grazie a quel mestiere così duro e ingrato, mio padre
diventa un imprenditore di successo.
Credo sia stato il suo insegnamento più importante, e me lo
ha dato con i fatti, non con le parole. Se una notte di tempesta
distrugge il lavoro di anni e ti lascia a terra, senza più niente
in mano, ti resta una sola cosa da fare: il mattino dopo ti alzi
e ricominci a lavorare.
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Le ostriche rappresentano il mio primo rapporto consapevole, di testa, con il cibo.
Prima ancora, però, sono la ciotola del burro e il vaso del
sale grosso a nutrire il mio fisico e il mio inconscio, quella
parte di ogni uomo che si forma sulla scorta dei primi odori,
colori, gusti che ci accolgono nella vita.
In Bretagna, su ogni tavolo di cucina c’è il burro, a tutte le
ore e in tutte le stagioni, metterlo in frigo sarebbe un sacrilegio. Si copre la ciotola del burro con un panno e la si lascia sul
tavolo. Al limite, se d’estate fa molto caldo, si porta in cantina,
ma in frigo jamais! Altrettanto a portata di mano (e di vista)
in cucina deve esserci il vaso di terracotta con il sale grosso e
il cucchiaio di legno piantato dentro.
Questo spiega perché il burro sia per me un elemento di
assoluto valore simbolico prima ancora che un alimento indispensabile e insostituibile per la mia cucina: il mio dito di
bambino trovava morbida accoglienza nella ciotola del burro,
prima di essere portato alla bocca e beatamente succhiato,
così come il dito di un bambino italiano degli anni Sessanta
si poteva infilare nella Nutella o quello di un bambino inglese
nella marmellata d’arance.
Altrettanto importante è il sale grosso, componente essenziale della prima preparazione cui ho assistito in cucina
quando ancora non sapevo parlare e di cui solo anni dopo
avrei saputo il nome: galette bretonne, la galletta alla bretone. Ho scritto “preparazione” ma avrei dovuto dire “cerimoniale”, visto che cucinare la galette in casa nostra rispondeva
a una specie di celebrazione liturgica che invariabilmente
cominciava con le parole di mio padre rivolte a mia madre
o a uno dei figli miei fratelli (io non sono ancora in grado di
rispondere a tono, ma con il cuore e l’anima intendo alla perfezione…): – Passami la baratte.
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La baratte è un utensile in legno di origini antichissime, una
sorta di bacinella all’interno della quale si infila un lungo cucchiaio di legno per impastare l’acqua del pozzo con la farina
detta blé noir – cioè di grano saraceno – e il sale o meglio il
fleur de sel, il primo strato di sale, quello esposto al sole, che
si ottiene nelle vasche delle saline dopo la decantazione e l’evaporazione dell’acqua marina.
Sì, il fleur de sel è quello di cui molti giovani cuochi oggi
si riempiono la bocca e di cui riempiono orgogliosamente le
loro preparazioni come se fosse oro zecchino. Per i Léveillé e
tutti i bretoni, dalla notte dei tempi, è l’unico sale concepibile, senza addensanti, dalla consistenza particolare, friabilissimo al tatto.
Il primo officiante della liturgia era invariabilmente mio
padre e il suo ruolo nell’impastare gli ingredienti prevedeva
tre tempi e tre intensità ben distinte: prima con il cucchiaio di legno, quindi con le mani e infine con la frusta. Credo
sia davanti a quella cerimonia che ho assorbito il rispetto da
portare a ogni gesto – anche il più semplice – di ogni preparazione in cucina. Solo con il rispetto dei gesti, con la concentrazione e la partecipazione profonda a ogni movimento, tre
elementi “poveri” come l’acqua, la farina e il sale possono a
poco a poco, dopo aver raggiunto una densità in miracoloso
equilibrio fra il lievemente liquido e il vellutato, trasformarsi
nel preparato più irresistibile al mondo.
Il giorno dopo, quando l’impasto aveva riposato il tempo
necessario (appunto, almeno ventiquattro ore), a proseguire
la cerimonia provvedeva mia madre che procedeva alla cottura in una poêle, una padella di ghisa che era tamponata e
lubrificata prima di ogni galette con un sacchettino di juta
leggermente scaldato e appoggiato nel burro. Quindi l’impasto era steso sulla padella con un unico movimento, deciso e
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delicato insieme, che dal braccio si trasmetteva con naturalezza al mestolo per ottenere una densità omogenea e uno
spessore uniforme.
Il rito aveva termine a tavola ed era il momento più alto e
più bello. Le galette vengono finalmente servite e ciascuno di
noi sceglie di farcire la sua come preferisce: mio padre con
uova e salsiccia o una specie di insaccato di trippa affumicato, l’andouillette; mia sorella Catherine con spinaci ricoperti
da una cascata di camembert sciolto; mio fratello Dominique
con pancetta, uovo e formaggio; io scelgo lardo affumicato,
uova e verza, da sempre la mia galette: e infine mia madre,
dopo che tutti noi ci eravamo serviti, farciva la sua galette
con il burro e le verdure avanzate.
E al dessert ancora galette, stavolta spalmata con burro salato e zucchero.
Momenti magici di gesti sempre uguali che trasformano
elementi semplici in un piatto geniale.
La galette regna anche a merenda – momento fondamentale nella giornata di ogni bambino del mondo, bretoni compresi – che io, dopo tanti anni in Italia, continuo a chiamare
goûter. Al massimo può essere sostituita dal traou mad (chiamato anche pavé o palet breton), un biscotto di pasta sablé
con fleur de sel e una potente carica di burro. Fenomenale,
mi si scioglie in bocca anche nel ricordo.
Insomma, non sono certo che mia madre possa definirsi
una grande cuoca, ma sono certo che abbia una bella fantasia
e allo stesso tempo un rispetto devoto per la tradizione e le
usanze della sua terra. Se il traou mad è piuttosto semplice
da cucinare, per un altro dolce, quello della festa, l’impegno è
maggiore. Si tratta del kouign-amann, una pasta sfoglia zuccherata a ogni strato, che già nel nome (amann in bretone
significa “burro”) lascia intendere la sua vera natura.
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Credo che si inizi a capire, con i fatti, più che con le parole,
come il burro, nella mia vita e nella mia cucina, non rappresenti una moda né tanto meno un mezzo per farmi notare.
Se il burro è il segno distintivo del mio lavoro è perché il mio
dna è unto di burro, perché il burro è l’icona costante e onnipresente della mia infanzia. Un burro vitale, mai uguale a
se stesso; un burro goloso, dolce e salato, in cui senti e vedi
il profumo e il colore dell’erba che ha mangiato la mucca; un
burro ricco, grasso, trionfale in estate; più sommesso, asciutto, discreto, in inverno.
Mi accorgo che scrivere questo libro mi sottopone a una
raffica continua di emozioni e la mia memoria rimbalza da
un’immagine all’altra, da un piatto all’altro, da un personaggio all’altro della mia infanzia. Mi incanto su un’altra specialità di mia madre, quelli che in Italia vengono chiamati vol-auvent, e che in Francia chiamiamo bouchée à la reine, “bocconi
della regina”, i piccoli cestini formati da dischetti di pasta sfoglia e ripieni di ragù di animelle e, a seconda della stagione,
di funghi porcini, spugnole, girolle o trombette e mi ritrovo
davanti agli occhi gli animali di Monsieur Chevalier, un amico
di mio padre.
Monsieur Chevalier somiglia in tutto e per tutto a ciascuno
dei tanti animali da cortile che alleva (galline, galli, faraone,
tacchini, polli, conigli…). Da lui si va per scegliere il piatto
della festa cui tirare il collo, ma anche a rivedere le prime
trasmissioni televisive tenute da un certo Monsieur Paul Bocuse che comincia allora a mostrare a tutti i francesi come si
realizzano le ricette della tradizione culinaria popolare e che
i Léveillé ascoltano in religioso silenzio.
Ma, ovviamente, tra tutte queste immagini emergono le figure di mia madre e mio padre, fondamentali e, non ho difficoltà
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ad ammetterlo, da me diversamente amati. Per mio padre ho
avuto un assoluto e profondo rispetto, ma anche soggezione e
timore, tanto che sono riuscito a piangere la sua morte drammatica, avvenuta quando non avevo ancora quattordici anni,
soltanto tanto e tanto tempo più avanti.
Mia madre è la persona da cui tutto comincia e il mio punto
di riferimento costante, ancora oggi. Se sono diventato cuoco
so di doverlo soprattutto a lei.
Ostriche e succulenza
L’azienda “Ostriche di Jean Léveillé” ha sede a Cancale, pittoresca cittadina incastonata in una baia da sogno a forma di
conchiglia, di fronte al celebre isolotto roccioso di Mont-SaintMichel e alla sua abbazia medievale. I turisti gastronomici del
nuovo millennio in generale e gli amanti delle ostriche in particolare sanno che a Cancale possono appagare tutti i loro desideri più nascosti, in uno dei tanti ristorantini che si affacciano sul lungomare o attingendo direttamente alle bancarelle
dei pescatori aperte sulla spiaggia quando la marea si ritira; e,
per chi ha curiosità scientifiche e storiche, nel piccolo delizioso museo dell’ostrica e nelle visite guidate agli allevamenti.
Per me e per la mia famiglia, Cancale, negli anni Sessanta, è
il posto dove mio padre va a lavorare, a fare quel durissimo
mestiere che si è inventato. Oggi una certa retorica per turisti tende a descrivere l’ostricoltore come un “giardiniere del
mare”. I miei ricordi mi portano di più a pensare a mio padre
e ai suoi compagni come a una via di mezzo fra contadini e
pescatori, e comunque a uomini in conflitto perenne con gli
elementi ostili della natura, pronti a rischiare la vita nelle notti di burrasca per salvare il frutto della loro fatica.
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– Il mare non perdona – dice mio padre ogni volta che il
suo campo di lavoro in mare viene rovesciato e i sacchi delle
ostriche disperse dalle onde nell’oceano. Il mare è il più forte,
vince sempre lui, non si deve fargli la guerra. È una fidanzata
volubile che sa darti tanto ma che da un giorno all’altro può
voltarti le spalle e rovinarti. Le barche a chiglia piatta, più
piattaforme anfibie di lavoro che imbarcazioni vere e proprie,
su cui gli ostricoltori raggiungono i campi di allevamento e
da cui operano, sono – e rimangono tuttora – ingovernabili
con un mare appena più agitato del normale e si rovesciano
con facilità quando i marosi crescono di intensità.
Fatica bestiale, rischi mortali e battaglie perenni, cadute negli abissi e riprese, perdere tutto e ogni volta ricominciare:
ecco i contenuti veri del lavoro di mio padre. Ed ecco spiegati
i motivi d’orgoglio e rispetto verso la sua storia.
Il capannone che funge da magazzino per le ostriche e da
rimessa per le barche, d’estate diventa la nostra casa al mare
(suscitando l’invidia dei miei amici di Nantes che non possono permettersi tanta fortuna…). In un angolo mia madre
cucina, e spesso la sera (anzi la notte, perché gli uomini tornano dal lavoro a tarda ora) si mangia insieme ai dipendenti
di mio padre che da bravi marinai fanno a chi la spara più
grossa: le onde sono sempre alte sei metri e il vento forza
sette si trasforma sempre almeno in forza nove. Al tavolo
del capannone mia madre serve un sensazionale boeuf Marbeuf, una specie di brasato cotto nel sidro, la bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione delle mele bretoni, mentre
gli uomini raccontano le loro avventure. Poi, il giorno dopo,
succede un’altra cosa che si rivelerà determinante per il mio
futuro: nel capannone, a selezionare e acquistare le ostriche
per i loro ristoranti, arrivano gli chef, e a volte io e mio padre
ricambiamo la visita e accompagniamo qualcuno di loro nei
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meravigliosi e misteriosi locali in cui lavorano. In quelle estati della mia infanzia e preadolescenza mi si aprono davanti
per la prima volta le porte, in senso letterale, della ristorazione professionale. Il mio amore innato e spontaneo per il cibo
comincia a strutturarsi secondo stimoli meno immediati. Che
la cucina possa essere, oltre che una fonte di piacere e di incanto, anche un posto in cui lavorare?
In quegli anni, la famiglia Léveillé celebra un altro rito.
Ogni domenica, alle 11 in punto, si parte tutti in direzione
di Mont-Saint-Michel. Il rispetto degli orari è essenziale perché l’ingresso e l’uscita dall’isolotto sono rigorosamente regolamentati dal ritmo delle maree che svestono e ricoprono
l’unica strada d’accesso come in un gioco di prestigio e basta
uno scostamento di pochi minuti sul ritmo della natura ed
entrare (o uscire) da Mont-Saint-Michel diventa impossibile.
Ma in tanti anni e in tante domeniche, grazie alla ferrea organizzazione di mio padre, non ci succede mai di non riuscire
a raggiungere (e poi abbandonare) il luogo in cui si celebra
il nostro rito: il ristorante La Mère Poulard, nel cuore del villaggio medievale, tutt’oggi attivo sull’isola e che nella storia
ha visto all’opera ai suoi fornelli grandi maestri come Paul
Bocuse, Michel Guérard, Georges Leblanc…
Invariabilmente, veniamo accolti dal concerto di benvenuto
di una fila di artisti che suonano un solo strumento: la frusta
che batte le uova per preparare la materia prima da utilizzare nella specialità del ristorante, le fantastiche omelette, che
verranno cotte sulle Lyonnaise, le padelle d’acciaio rotonde e
dal manico lungo.
Le ordinazioni vengono fatte per tutti da mio padre e sono
sempre categoricamente uguali, del resto i riti non si possono
cambiare: rane con burro, prezzemolo e aglio, lumache con
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ragù di salsicce e verze, omelette soufflée e per dessert omelette norvégienne e crêpes Suzette. Al ricordo, quarant’anni
dopo, la bocca mi si riempie di acquolina e ho la conferma
che in quelle domeniche sempre uguali alla Mère Poulard ho
conosciuto e introiettato per sempre un concetto: la succulenza. Parola bellissima, fondamentale nel vocabolario culinario, che ti fa godere solo a pronunciarla, che ti riempie
l’animo e ti fa sentire migliore. La succulenza consiste in un
sottile equilibrio di generosità ed eleganza, di garbo e splendore, di magnificenza e finezza. Io ho trovato l’equilibrio
della succulenza per la prima volta a Mont-Saint-Michel, da
ragazzo, insieme alla mia famiglia. Non ho ancora smesso di
cercarlo in ogni piatto che preparo.
Monsieur Léveillé vs Madame Briand
La spinta decisiva per indirizzare le mie scelte arriva da una
donna piccola, bruttissima e odiosa. Nera, secca, la linea delle sopracciglia che non s’interrompe sopra il naso adunco e
una leggera, ma ugualmente ributtante, ombra di moustache
sulle labbra: Madame Briand. Ho tredici anni e a scuola non
sono un fenomeno ma neppure una schiappa totale, diciamo
che me la cavo e non faccio niente di più dello stretto necessario. Nei confronti di Madame Briand da parte mia non c’è
nessun feeling – per usare la lingua che avrebbe dovuto insegnarmi – né c’è da parte sua. Sono l’unico della classe cui
si rivolge con un ironico “Monsieur”, pesante da reggere per
un tredicenne. Un giorno in cui mi sento particolarmente
ispirato, alzo la mano e sciorino la mia bella frase in inglese,
convinto di migliorare la mia immagine agli occhi cattivi di
Madame Briand.
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Invece dico una bestialità e il suo commento, in francese,
in modo che io possa intenderlo bene, mi trafigge come una
lama:
– Del resto potevamo aspettarci qualcosa di diverso da Monsieur Léveillé il quale proviene da una famiglia di deficienti?
In effetti lo intendo benissimo, ma me lo faccio ripetere.
Sì, per Madame Briand la mia è una famiglia di deficienti. Le
chiedo di ritirare quella parola ma lei, oltre che brutta, è anche cocciuta e la conferma. Mi resta solo una strada per mettermi al riparo dal ridicolo nei confronti dei miei compagni
e per difendere la rispettabilità della mia famiglia. Sollevo la
sedia e la tiro addosso a Madame Briand, centrandola in piena testa. Ottengo una netta vittoria per ko: un dente rotto,
un labbro spaccato, il naso schiacciato, l’unica arcata sopraccigliare aperta. Mentre il mio avversario è a terra in attesa
dell’ambulanza, soccorso dai miei compagni, io sono già sulla
strada che porta dal preside.
Conosco il mio destino: espulsione quando manca solo un
trimestre alla fine della scuola media. Ma non è quello che
mi preoccupa, né la prevedibile denuncia della professoressa, che puntualmente sarebbe arrivata. Mi preoccupa, o meglio mi terrorizza, la reazione di mio padre. A casa non dico
niente a nessuno, aspettando l’arrivo del giudice supremo.
Quando arriva, si siede a tavola con il bicchiere di vino bianco davanti (la bottiglia, come sempre è per terra, di fianco
alla sua sedia), il portacenere e il pacchetto di Gauloise senza
filtro (prima della fine della giornata ne avrà consumati almeno due).
È di umore pessimo, come quasi sempre, ma è disposto ad
ascoltarmi. Sono in piedi davanti a lui e inquadro le sue mani:
sono gigantesche. Ma fanno meno paura dei suoi occhi. Capisco che sto per farmela addosso.
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– È davvero così importante quello che devi dirmi? – dice
con una voce che sembra venire da un altro mondo.
– Sì, papà. Molto importante.
A quel punto la sua faccia si distende, gli spunta un sorriso e
la voce si fa quasi tenera. Mi chiama petit, non lo ha mai fatto
in vita sua. Ed è la prima volta che mi porge una mano.
– Qu’est-ce qui se passe, petit?
Gli spiego. Gli ripeto che quella parola, deficienti, non era
solo per me. Gli dico d’un fiato che, dopo il lancio della sedia,
la testa di Madame Briand era ridotta male, piena di sangue.
Mia padre tace per un minuto buono. Tengo la testa bassa,
per non vedere da dove arriverà il colpo che mi farà volare
dentro l’armadio della cucina.
– Guardami – dice alla fine mio padre. Alzo lo sguardo e
vedo che la sua faccia è sempre distesa. Incredibile. Anche
quello che mi dice è incredibile. – Due cose. Primo, non puoi
reagire a quel modo, anche se qualcuno ti offende. Secondo,
difendere il nome della famiglia è bello. Sono fiero di te.
Piango, mio padre mi abbraccia, ma si capisce che non sa
come si fa. Poi continua. – Quest’estate non farai vacanze, ovviamente. Per tre mesi verrai con me sulla piattaforma e a
settembre mi dirai che cosa vuoi fare.
Io ho fatto i tre mesi sulla piattaforma, ma lui non ha mantenuto la promessa di ascoltare la mia scelta. È morto un mese
dopo.
Sto scrivendo cose che non ho mai raccontato a nessuno. Le
sto scrivendo per qualcuno che non conosco, che non ho mai
visto e che forse non vedrò mai. Mi commuovo a ogni riga,
anche se cerco di non farmene accorgere. È bello, ma non è
facile. Però è soprattutto bello.
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La scuola alberghiera di SaUmur
Al termine dei tre mesi convenuti è mia madre che dà l’annuncio a tutta la famiglia, anzi a tutta la comunità di amici,
conoscenti, concittadini. A tutta la Bretagna. Sì, perché quello
che mia madre si appresta ad annunciare, in Francia, in tutta la Francia, è considerato un motivo di orgoglio nazionale,
come quando un figlio diventa dottore, avvocato, prete, notaio…
– Philippe farà la scuola alberghiera.
C’è una grande festa, con gli operai di mio padre, i ristoratori clienti dell’azienda. Tutti felici, tutti orgogliosi. Il figlio di
Jean Léveillé vuole diventare cuoco. Siamo fieri di lui. E io mi
commuovo di nuovo, tanto non se ne accorge nessuno.
Settembre 1976. Dopo un’estate passata a girare e rigirare
milioni di ostriche, arriva il gran momento. Per essere ammessi alla scuola alberghiera bisogna superare un esame cui
si ha diritto solo se si è finita la scuola media e se si sono
compiuti 16 anni. Io non ho finito la scuola e ho appena compiuto i 13. Ma mia madre muove mari e monti e ottiene l’autorizzazione a farmi sostenere l’esame d’ammissione. Che,
con la sorpresa di tutti e soprattutto mia, supero. Entro nel
mitico istituto alberghiero di Saumur, una delle più antiche
e prestigiose scuole di tutta la Francia, voluta e creata niente meno che da Maurice Edmond Sailland, detto Curnonsky,
uno dei mostri sacri della gastronomia francese, l’uomo che
dopo l’esaltazione della cucina internazionale degli alberghi
sostenuta da Escoffier, riabilita la cucina tradizionale popolare e borghese.
A Saumur passo quattro anni e imparo quasi tutto quello
che so della cucina francese e il principio più importante del
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mestiere di cuoco: non si smette mai di lavorare. Nel ristorante di Nantes dove svolgo il mio apprendistato in parallelo alla scuola imparo quasi tutto quello che so sulla cucina
bretone e ho la conferma del principio generale imparato a
Saumur: se fai il cuoco, non smetti mai di farlo.
Dalle mani esperte del mio primo vero maestro, Monsieur
Bery, titolare del ristorante di Nantes, apprendo ogni segreto della ricetta-principe della gastronomia bretone diventata
una delle salse principali della cucina francese, base per infinite altre variazioni: il beurre blanc, burro bianco, emulsione
da servire tiepida che io preparo a bagnomaria con scalogno,
aceto di vino e burro freddo. Salsa semplicissima ma delicatissima e che tende facilmente a impazzire. A mio parere il
beurre blanc raggiunge la perfezione accompagnando un luccio bollito in acqua, vino bianco, cipolla, carota, aglio e alloro.
Un piatto che io chiamo “a due”, perché due sono i componenti essenziali, il burro e il pesce. Se entrambi sono buoni, il
piatto sarà insuperabile. Non povero, perché dove c’è il burro
non c’è niente di povero, ma semplice e naturale. E l’aspetto curioso è che questa preparazione può essere fatta, anzi è
fatta spessissimo, anche dalle casalinghe, nelle loro cucine, e
ciascuna di loro è convinta che la propria ricetta sia migliore
di quella dei più grandi chef.
Ed ecco svelato uno dei segreti della cucina: nel suo nome le
persone più diverse, professionisti, dilettanti, semplici amatori, s’incontrano e possono discutere insieme.
– Se domani non passi l’esame, non ripresentarti, non voglio vederti mai più.
Le parole di chef Bery mentre mi consegna pentole e utensili per sostenere la prova finale a Saumur non sono delle
più incoraggianti, ma se le può permettere perché per me è
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diventato una figura di riferimento, non dico un secondo padre… o forse sì, lo dico. Insomma è arrivato il grande momento, quello che darà o toglierà senso a quattro anni di studio
e lavoro forsennati. Delle quattro ore a disposizione per preparare i quattro piatti sui quali verrò giudicato, ne spreco più
di una per recuperare la carta d’identità che ho dimenticato a
casa e senza la quale non posso sostenere l’esame. Le quattro
ricette da realizzare sono decisamente impegnative. Mentre
comincio a trafficare, mi dico: “Farne due è difficile. Farne tre
un inferno. Farle tutte e quattro impossibile. L’avventura finisce qui, caro Philippe. E non puoi neanche tornare da Monsieur Bery”.
Mi crolla il mondo attorno. Poi succede qualcosa. Mentre
lavoro, smetto di pensare e lavoro soltanto. Mi concentro con
tutto me stesso, decido ogni gesto quasi in trance, so quello
che devo fare, come se qualcuno fuori di me mi stesse pilotando, non sollevo mai gli occhi dal banco di lavoro.
Ancora oggi non so come, ma alla fine i quattro piatti sono
fatti. Non saranno perfetti come li avrei voluti (niente per
me è mai come lo avrei voluto) ma sono fatti. E mi valgono
il terzo posto. Su 1200 ragazzi, arrivo terzo. Con lode, premi, abbracci accademici, lacrime e felicità di tutti i miei cari.
Sono un cuoco laureato. E, cosa più importante di tutte, mi si
aprono le porte di un mitico locale di Parigi: andrò a lavorare
in una vera brigata di cucina, sarò commis al Lucas Carton di
place de la Madeleine. La mia carriera comincia dalla porta
principale.
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