l`amore goloso - Casa editrice Le Lettere

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l`amore goloso - Casa editrice Le Lettere
SERGE SAFRAN
L’AMORE GOLOSO
Libertinaggio gastronomico
nel XVIII secolo
Traduzione di
Angelo Mainardi
Le Lettere
INDICE
PREFAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
7
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17
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33
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58
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Note, p. 15.
IL CIOCCOLATO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dalla cerimonia alla strategia, p. 17; Dal tonico al veleno, p. 21;
Dal piattino al bastone, p. 24; Dalle delizie ai disordini, p. 26;
Una buona composizione per la festa, p. 28; Note, p. 30.
LE OSTRICHE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pretesti e quantità, p. 33; Leggerezza e superiorità, p. 34; Le
conchiglie, p. 35; Ostriche e donne di concerto, p. 36; Il gioco
dell’ostrica, p. 37; Il sesso conchiglia, p. 40; L’ostrica della discordia, p. 41; Note, p. 42.
IL CAFFÈ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’eccitante moderno, p. 43; I caffè pubblici, p. 44; Il caffè in
privato, p. 45; Il beveraggio d’Oriente, p. 46; Il filtro iniziatico,
p. 48; Il filtro esilarante, p. 50; Confusioni sul caffè, p. 51; Dal
caffè al letto, p. 51; Le astuzie del caffè, p. 53; La caffettiera, p.
54; Note, p. 56.
IL TABACCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La cattiva reputazione, p. 58; La nuova moda, p. 59; Tabacco e
tabacchiera, p. 60; Fiutare o fumare, p. 61; Fumatori di pipa, p.
62; La tabacchiera del disordine, p. 66; Amore e tabacco, p. 67;
Note, p. 69.
LO CHAMPAGNE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Spumoso o no, p. 71; Gli effetti, p. 72; La supremazia, p. 74;
L’assoluto, p. 75; Il festante, p. 75; Il sablé, p. 76; Dall’abbondanza ai bagni, p. 76; Il «liquore ammaliatore», p. 77; L’euforizzante, p. 78; L’invito alla spartizione, p. 78; Il punch di champagne!, p. 80; La panacea, p. 82; Note, p. 83.
6
INDICE
VENERE E BACCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p. 85
L’orgia, p. 85; L’ipostasi, p. 86; Bacco, Priapo & Co., p. 86; Vino, sesso e cibo, p. 87; Feste mobili, p. 88; «Liquore di Bacco»,
p. 89; Note, p. 90.
I VINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
91
Potenza e minacce, p. 91; Luminosità e audacie, p. 92; Seduzione di ogni genere, p. 93; Eccessi gerarchici, p. 95; Orge ancillari, p. 97; Pericoli e sospetti, p. 98; Note, p. 101.
I LIQUORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 103
Effetti funesti, p. 103; Forti e brucianti, p. 103; Il ratafià, p. 104;
Effetti prodigiosi, p. 105; Bianco e divino, p. 106; Nèttare e ambrosia, p. 107; Note, p. 109.
LE EBREZZE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 111
Il momento dell’ebrezza, p. 111; Ebrezze senza vino, p. 112; I
pericoli dell’acqua, p. 113; Armonia delle ebrezze, p. 114; Note, p. 115.
NUTRIRSI DI AMORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 116
Cara tavola, p. 117; Dalla tavola al letto, p. 118; Lusso in eccesso, p. 119; L’ora del pranzo, p. 120; L’ora della cena, p. 124;
Amore e nutrimento, p. 128; Diete, p. 130; Menu, p. 131; Mangiare, trangugiare, divorare, p. 132; Dalla frutta al dessert, p.
136; Infine il fico!, p. 139; Tartufi e altri afrodisiaci, p. 140; Creme e gelati, p. 142; Burro, uova e omelette, p. 143; Pollame, p.
145; Le dame uccellatrici, p. 152; Altre carni, p. 154; Boccone
ghiotto, p. 156; Le salse, p. 158; Conditi dall’amore, p. 159; Note, p. 162.
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 169
Guida alle opere citate, a cura di Angelo Mainardi . . . . . . . .
» 173
Didascalie delle immagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 181
LE OSTRICHE
Pretesti e quantità
Ci si potrebbe meravigliare che, nel quadro Le Déjeuner d’Huitres di
Jean-François de Troy1, non ci siano donne sui ginocchi dei gentiluomini che si abbandonano ad allegre libagioni. Se infatti l’ostrica serve
di pretesto esplicito per bere vino, come attesta con brio la scena di
genere del pittore, serve ugualmente di pretesto a godere dei piaceri
dell’amore. La letteratura libertina ha fortunatamente rivelato ciò che
la pittura non mostra, anche se le ostriche hanno acquisito sufficiente
rinomanza per avere l’onore di essere il soggetto di un dipinto.
Per il primo pretesto, ci si può fidare di Grimod de La Reynière.
Nel suo «Calendrier nutritif» l’avvocato dei golosi insiste sull’alto costo di questo preludio gastronomico, «perché esige un grande consumo di eccellente vino bianco, dopo il quale non è più consentito servirne di mediocre»2. Quanto al secondo, basta credere a un’opinione
sufficientemente diffusa, che nell’Encyclopédie l’articolo «Huitre» riprende con una deliziosa figura metaforica; questo «alimento» possiederebbe, tra le altre virtù (aiutare il sonno, stimolare l’appetito...), quella di provocare «gli ardori di Venere».
Le due opere sono concordi comunque sulla quantità eccezionale di ostriche consumate nel XVIII secolo durante un pasto. Grimod
de La Reynière ironizza sull’«indiscrezione di certi convitati che mettono il loro amor proprio nell’inghiottirne a centinaia nei loro stomaci stupidamente vanitosi». Già Furetière se ne indigna a proposito del termine écaille3 di cui sottolinea l’impiego metonimico: «Ci sono ingordi che mangiano sei dozzine di conchiglie, per dire ostriche».
E l’Encyclopédie condanna gli «eccessi che si vedono praticare impunemente nel consumo delle ostriche. Non è raro trovare persone che
ingoiano cento, e anche centocinquanta ostriche masticate a malapena: il che serve soltanto di preludio a un pasto molto abbondante». Si
può dunque credere sulla parola a Louis Sébastian Mercier il quale ci
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SERGE SAFRAN
confida che «Crébillon figlio ne mangiava, in [sua] presenza, cento
dozzine senza scoppiare»4. Conferma incidentalmente, a più riprese,
tali eccessi anche Casanova, che da parte sua non esita a ordinare un
piatto di ostriche prima di andare a dormire: lo fa, ad esempio, quando alloggia alla Stella d’Oriente, ad Amsterdam5, città dove mangia
ostriche anche con gli amici «dopo una corsa in slitta sull’Amstel
ghiacciato»6. «Ne mangiammo trecento», ammette riferendo di un
pranzo ben innaffiato di champagne che organizza a Milano per otto
persone7. «Vennero ad aprire le cento ostriche che riempirono quattro grandi piatti», dice ancora a proposito di una cena intima allo
champagne con Emilia e Armellina, a Roma, nell’anno 17708. «Con le
nostre sei ostriche di oggi (nove a dire tanto), di che cosa abbiamo
l’aria?», si interroga a giusto titolo Bernard Frank rileggendo Grimod
de La Reynière9.
Leggerezza e superiorità
Charles de Saint-Évremond, che Camporesi innalza al rango di «vecchio libertino», indica che, dall’inizio del secolo dei Lumi, le ostriche,
«per merito di gusto», sono in grado di «... superare/ Ogni creatura
volante, / Ogni selvaggina, ogni spezzatino...»10. Lo scrittore italiano
nota infatti che «le ostriche e i tartufi prendono il predominio, esiliando i piatti speziati dell’antica tavola nobiliare». A suo dire, nel XVIII
secolo, le «gloriose carni nere e sanguigne subiscono l’affronto di doversi inchinare davanti alla polpa molle, gelatinosa, esangue delle ostriche...». Il che non impedisce che queste siano, per tradizione e voluttà, associate al pollame arrosto. Così Mercier afferma, non senza fiera
esaltazione, che «capponi grassi e ostriche fresche non vi mancheranno mai a Parigi; potrete cominciare il vostro pasto all’ora che vorrete;
e altrove non si trovano affatto in cambio del proprio denaro né ostriche né capponi al sale grosso!»11. Tanto più si comprenderà la frustrazione della puttana Duclos delle Centoventi giornate di Sodoma quando confessa (a proposito dei suoi quattro pasti quotidiani!): «Si toglievano un’infinità di cose che mi sarebbero piaciute molto, come il
pesce, le ostriche, gli insaccati, le uova e ogni tipo di latticino...»12.
In effetti, la leggerezza del mollusco sembrerebbe soppiantare la
pesantezza delle carni, la sua trasparenza la loro opacità, il suo profumo di oceano i sentori della terra; e si oserebbe quasi sostenere la superiorità della sua leggera modernità su una pesantezza classica poco
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propizia ai piaceri erotici, se le cene delle petites maisons non si prolungassero spesso in orge, sia culinarie (primo significato del termine)
sia caldamente sessuali.
Le conchiglie
Il romanzo libertino riflette senza complessi questo stato delle cose e
dei costumi. Così in Thémidore di Godard d’Aucour, anche se il narratore si sofferma meno sui piaceri della tavola che su quelli del letto.
Egli lascia al lettore, dal primo capitolo del romanzo, dal primo pranzo offerto a La Glacière dal presidente di Mondorville, la cura di immaginare «ciò che può offrire la voluttà, quando la delicatezza vi serve a piccole portate»13. Non basta; i vini – chablis, champagne e frontignan (vino bianco della Linguadoca) – sono evocati con gusto, tra
dessert e antipasto, senza dimenticare i loro effetti sui convitati. E se le
ostriche non compaiono subito tra le delizie del pasto, un intervento di
Rozette prova, con un eufemismo malizioso (che nell’allusione a una favola di La Fontaine tradisce una cultura piuttosto sorprendente in una
cortigiana), che esse sono tuttavia della partita. «Il presidente dorme –
lei disse, – vegliamo. Il dessert è stato riservato per il mio arrivo, adempiamo la sua destinazione; facciamo in modo che non ne resti nulla, e
che, per la prima volta, il giudice abbia soltanto le conchiglie dell’ostrica»14. Queste conchiglie non sono del resto interamente perdute per tutti! Nella sua “Ottava avventura del ballo di place Vendôme”
dei Bals de bois, Caylus fa il ritratto di uno «chiamato Jacques Beaurein,
apprendista birraio, il quale dice cose buffe dalla mattina alla sera, per
cui le ragazze del faubourg Saint-Marceau l’hanno chiamato apprendista sbaciucchione, essendo di natura molto burlone»15. Ora questo
Jacques Beaurein, durante un ballo mascherato dato nel 1745 in occasione del matrimonio del Delfino, uno di «quei “balli di legno” che
erano i balli popolari, allestiti in baracche di legno costruite su qualche
piazza o crocevia di Parigi»16, come ricorda Pierre Testud, non trova di
meglio che «mascherarsi da diavolo». Infatti «aveva indossato una giacca nera, su cui aveva attaccato non so quante conchiglie di ostriche»,
precisa, tra altri dettagli comici, la “Lettera di un cugino a suo cugino,
che stava in provincia».
Curiosamente, è ancora in maniera indiretta che l’ostrica, col suo
indispensabile corteo di vini, impone la sua onnipresenza gustativa in
Thérèse philosophe. Questa volta si insinua in una riflessione molto ar-
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SERGE SAFRAN
gomentata di Thérèse sulla «pretesa libertà» di scegliere tra «l’amore
di Dio e quello del piacere della carne». Durante la sua dimostrazione
con esempi molto concreti e legati al piacere della buona cucina, Thérèse esce a dire: «Il nostro ragionatore si mette a tavola, gli servono
delle ostriche: questo cibo lo determina per il vino di Champagne. Ma,
si dirà, egli era libero di scegliere il borgogna»17. E qui il nostro filosofo a disquisire sui «gradi di passione o di desiderio che ci agitano»
prendendo a esempio dopo l’ostrica... una bella donna!
Ostriche e donne di concerto
Tra le ostriche e le belle donne il legame è di un’evidenza risaputa per
Casanova. Egli ci offre anche una variazione sull’erotismo ostreario che
sviluppa in crescendo, fino a un parossismo quasi mai uguagliato, in
letteratura almeno. Nel corso di un «troppo vivace soggiorno ad Ancona», nel 1744, il giovane «segretario del cardinale Acquaviva» si mostra molto eccitato dalla cerchia di Marina e Cecilia, ragazzine di undici e dodici anni delle quali coglie a turno la verginità, con la benedizione della madre. Ma ad attirarlo è soprattutto Bellino, il fratello grande ch’egli suppone essere una sorella grande. «Trovandomi al porto
con Bellino, ho comprato un bariletto di ostriche dell’arsenale di Venezia per trattare bene Don Sancio»18, riferisce allora, come una delle
sue «farse»19. Acquisto che in certo modo conferma quanto dice Piero Camporesi circa «lo strepitoso successo delle ostriche crude di cui
nel 1682 Magalotti registra l’ascesa in Italia»20.
La descrizione del pranzo che segue non lascia dubbi sul suo carattere festivo e lascivo. «I cibi scelti e ben preparati, i buoni vini di
Spagna, le belle ostriche e, più di tutto questo, l’allegria delle voci di
Bellino e di Cecilia che eseguirono dei duetti e le danze “seguidillas”
fecero godere allo Spagnolo cinque ore di Paradiso»21. Il provveditore castigliano ricambia l’indomani la cena a Casanova dove si gustano,
tra l’altro, «conchiglie di diverse specie», e dove «Bellino cantò da farci perdere il piccolo residuo di ragione che gli eccellenti vini [ci] avevano lasciato». Ma Casanova non è tipo da perdere la testa né da essere troppo a lungo abbindolato. «Conosce» dunque Thérèse in Bellino
e prosegue le sue avventure dove ostriche e donne vanno di concerto.
Tre anni più tardi, egli fa a Venezia la conoscenza di una Cristina,
scortata da uno zio curato molto accomodante. All’istante decide di
accompagnarla fino a Treviso dove si presume che la sposerà. Inna-
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morato, egli è generoso e non tollera di essere servito male durante una
sosta in una locanda. «Avendo mangiato di magro e assai male, scendo per parlare all’ostessa, e dirle che non mi preoccupavo della spesa,
che volevo una cena squisita, di magro non c’è bisogno di dirlo, ma
che comprendesse del pesce eccellente, tartufi, ostriche e tutto ciò che
c’era di meglio al mercato di Treviso, e soprattutto del buon vino»22.
Inutile precisare che questa cena avviene. E serve anche di iniziazione
della ragazza. «Mi toccò – egli scrive – tenere testa a Cristina che nella sua vita non aveva mai mangiato né ostriche né tartufi...». E ritenere che l’iniziazione finisse lì sarebbe conoscere male Casanova. Essa
prosegue dalla tavola al letto. Il matrimonio, come l’ostrica, è subito
consumato.
Il gioco dell’ostrica
Per meglio apprezzare il matrimonio tra ostrica e bacio, la fusione del
mollusco e del palato nelle bocche degli amanti, bisogna seguire Casanova nell’anno 1754 nel “casino” (petite maison di piacere a Venezia)
dove l’enigmatica religiosa M. M. si abbandona nuovamente al suo
amante veneziano in maniera memorabile. Due giorni prima infatti,
«dopo la cena che trovò delicata e squisita come i gelati e le ostriche»,
lei gli aveva offerto «infinite novità in sospiri, estasi, trasporti, in sentimenti che non si sviluppano se non in quei momenti»23. Dopo una
scena tutta giocata sui gesti e sulle parole ambigue ma non equivoche,
dove cibo e sesso fanno coppia in maniera eccellente, i due amanti passano a tavola per ridere ancora e rimettersi in forze. «Preparato del
punch, ci divertimmo – egli scrive – a mangiare le ostriche scambiandole quando già le avevamo in bocca. Lei mi presentava sulla sua lingua la sua nello stesso momento in cui io le imboccavo la mia; non esiste gioco più lascivo, più voluttuoso tra due innamorati, è anche comico, e il comico non guasta nulla, poiché le risa sono fatte soltanto per
gli esseri felici. Quale salsa è quella di un’ostrica che bevo dalla bocca
dell’oggetto che adoro! È la sua saliva. Impossibile che la forza dell’amore non aumenti quando la schiaccio, quando l’inghiotto»24.
L’ostrica si trasforma allora in una sorta di ostia deliziosamente blasfema (non dimentichiamo che M. M. è una religiosa uscita da un convento), un’ostia che predica una transustanziazione non ortodossa certamente, ma consacrata interamente alla religione dell’amore.
La scena, nel suo aspetto di cerimonia parodica o pedagogica –
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che la narrazione al presente rafforza – è osservata con connivenza dall’ambasciatore di Francia. Pierre de Bernis, amante titolare di M. M.,
sta in una stanza attigua, preparata a questo scopo. Avvertito in anticipo, il lettore diventa a sua volta voyeur di un voyeurismo bene organizzato, lontano da ogni morale che non sia quella che lo avvicina il
più possibile al più grande piacere.
Nel 1770, circa sedici anni dopo quest’orgia veneziana a base di
ostriche, Casanova ripete, e a più riprese, quello che si può designare
come il gioco dell’ostrica. Ma questa volta non come l’apoteosi di una
partita di piacere tra due amanti già soddisfatti, bensì quale mezzo per
arrivare progressivamente a sedurre, a Roma, una giovane Armellina un
po’ recalcitrante. Il nostro Pigmalione ha vissuto abbastanza per sapere che «un sentimento naturale assai bene ragionato avverte l’uomo
che pensa che un mezzo sicuro per farsi amare da qualcuno è quello di
procurargli un piacere nuovo». L’occasione gli è fornita a una cena in
una locanda dove, dopo l’opera, conduce a ristorarsi Armellina, accompagnata da un’amica di nome Emilia. «Il cameriere mi domandò
– egli racconta – se volevo delle ostriche, e io, vedendo che le ragazze
erano curiose di conoscere di che si trattasse, gliene ho chiesto il prezzo. Mi disse che erano dell’Arsenale di Venezia, e che non poteva darmele a meno di cinquanta paoli per cento ostriche, e io ho acconsentito»25.
Oltre alla provenienza, rinomata da almeno due secoli, e il prezzo,
così caro da trasformare per Armellina l’ostrica in un vero «peccato di
gola», a contare è il modo di mangiarle, con lo champagne e poi con il
punch, prima e dopo la cena, poiché egli chiede al cameriere di conservare «le altre ostriche per il dessert» senza gettare l’acqua che contengono, e – racconta – «uno sguattero esperto le apriva in nostra presenza, attento a non perdere una sola goccia della saporita acqua nella quale esse nuotavano». A questo punto il lettore non può ignorare
più nulla di quelle ostriche tranne la loro funzione ludica, carica di un
antico ricordo erotico. Casanova «prega Emilia di mettergli nella bocca con le sue labbra un’ostrica». Una volta accettato il «bel gioco», ecco che cosa accade: «Le ho messo la conchiglia alla bocca, e le ho detto di bere l’acqua conservando l’ostrica tra le sue labbra. Lei eseguì fedelmente la lezione dopo avere molto riso, e io presi l’ostrica incollando le mie labbra alle sue con la più grande decenza. Armellina applaudì
dicendole che non l’avrebbe creduta capace di farlo, e la imitò alla perfezione. Fu incantata dalla delicatezza con cui presi l’ostrica da sopra
le sue labbra. Mi stupì dicendomi che toccava anche a me restituire lo-
LE OSTRICHE
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ro il dono, e Dio sa il piacere che ho provato ad assolvere questo dovere». Un rappresentante di Dio, il confessore di Armellina, non trova «troppo innocente il gioco» di «mangiare le ostriche prendendole
con la bocca fuori da quella di un uomo. Le disse che era una porcheria».
Poiché Casanova non ha raggiunto il suo scopo, il gioco ricomincia qualche giorno dopo. Egli prende in affitto una loggia al teatro di
Capranica «quando – racconta – ho visto le ostriche superbe che erano arrivate al maggiordomo dell’ambasciatore di Venezia, il quale me
ne ha cedute cento allo stesso prezzo che costavano a lui»26. Stessa locanda, stessa messinscena. Ma questa volta le ragazze «pensavano al
gioco dello scambio»! «Al gioco delle ostriche da una bocca all’altra –
rincara lui – ho rimproverato Armellina perché prima che io prendessi l’ostrica ne aveva inghiottita l’acqua. Convengo che era difficile fare
altrimenti, ma mi sono impegnato a insegnare loro come bisognava fare per conservare l’ostrica con l’acqua nella bocca innalzando in fondo ad essa una barriera mediante la lingua per impedirle di entrare nell’esofago. Tenuto a dare l’esempio, ho loro insegnato a introdurre come me l’ostrica e l’acqua nella bocca dell’altro introducendo al tempo
stesso in tutta la sua lunghezza la lingua. Non ho giudicato male che
non si preoccupassero del gesto di allungare loro la mia, e Armellina
non giudicò male che io indugiassi a succhiare la sua che mi offriva
molto generosamente, ridendo molto dopo il piacere provato a questo
gioco, di cui conveniva con me che nulla poteva essere più innocente».
Il seguito dell’avventura rende il gioco ancora più «innocente». Si
giudichi dal racconto: «Fu per caso che una bella ostrica che detti a
Emilia, avvicinando alle sue labbra la conchiglia, cadde in mezzo al suo
seno; lei voleva riprenderla, ma io la reclamai di diritto, e dovette cedere, lasciarsi slacciare, e permettermi di raccoglierla con le mie labbra
in fondo dov’era caduta. Dovette per questo consentire che la scoprissi
interamente; ma io ho recuperato l’ostrica in modo da non far apparire che avessi provato altro piacere oltre quello di aver ripreso, masticato e inghiottito l’ostrica. [...] Quattro o cinque ostriche dopo ne ho
data una ad Armellina che tenevo sulle mie gambe, e con destrezza
l’ho lasciata cadere sul suo seno, il che ha fatto molto ridere Emilia la
quale nel fondo era contrariata che Armellina restasse esente da una
prova di coraggio pari a quella che lei mi aveva dato. Ma ho visto Armellina affascinata dall’incidente sebbene non volesse farlo apparire.
«– Voglio la mia ostrica, le dissi.
«– Prendetela.
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SERGE SAFRAN
«Le ho slacciato tutto il corsetto, e poiché l’ostrica era caduta in
basso il più possibile, mi lamento di doverla andare a cercare con la
mano. Gran Dio! Quale tormento per un uomo innamorato dover dissimulare l’eccesso della sua contentezza in un simile momento! Armellina non poteva accusarmi di nulla sotto il minimo pretesto, poiché
io toccavo quegli incantevoli seni, duri come marmo, soltanto per cercare l’ostrica. Dopo averla presa e inghiottita, ho afferrato uno dei suoi
seni reclamando l’acqua dell’ostrica che lo aveva bagnato tutto, e mi sono impadronito del bocciolo di rosa con le mie avide labbra, abbandonandomi a tutta la voluttà che m’ispirava il latte immaginario succhiato per due o tre minuti di seguito»27. Ma le ostriche finiscono, e Casanova si mette a... dissertare. Segue una partita a mosca cieca, senza
maggiori risultati. Di nuovo due giorni dopo deve ricominciare, nella
stessa locanda, «senza dimenticare le ostriche, malgrado fossi sicuro
di non averne più bisogno»28. Ma le ostriche non gli consentono di
trionfare di Armellina. Emilia, maritatasi nel frattempo, è sostituita da
Scolastica. Casanova trascorre un’ultima serata con loro alla locanda,
senza ostriche, e senza che Armellina conceda, nonostante nuove intimità e l’aiuto di Scolastica, «l’ultimo favore».
Il sesso conchiglia
L’ultima scena raccontata, dove le labbra cercano l’ostrica «in basso il
più possibile», ci porta fino al sesso femminile di cui l’ostrica diventa
la pura metafora, perfettamente tessuta in Thérèse philosophe durante
l’«Avventura di tre cappuccini in convegno galante con la Bois-Laurier». La giovane Manon si lascia condurre nella petite maison della
Dupuis per soddisfare la concupiscenza dei tre padri. Entrati in competizione, due litigano tra loro e il terzo, padre Hilaire, tenta di approfittarne. «Poiché mi ero rovesciata sul letto – racconta Manon – paralizzata dal ridere e senza forze, lui rovistava nel mio corpo e cercava
di mangiare l’ostrica disputata a pugni dai suoi due compari. Stupito
della resistenza che incontra, si ferma per esaminare da vicino le possibilità. Socchiude la conchiglia: nessun esito. Che fare? Di nuovo cerca di penetrare: sforzi perduti, fatiche inutili. Il suo arnese, dopo i tentativi ripetuti, è ridotto all’umiliante risorsa di sputare in faccia all’ostrica che non può inghiottire»29. La penetrazione non può compiersi. La ostacola una resistenza imprevista, simile a quella di un mollusco troppo difficile da snidare dalla sua conchiglia. Non si può spin-
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gere più lontano l’assimilazione del sesso femminile a un frutto di mare commestibile, anche se l’autore non si arrischia a confrontare esplicitamente la vulva all’ostrica, e privilegia l’azione alla descrizione.
Legato a questa stessa idea di resistenza, ma con meno violenza, si
ritrova il medesimo frutto di mare nell’abate du Prat che fa dire alla
Virginie di Vénus dans le cloître (Venere in convento): «Non è qui il caso di fare l’ostrica nella conchiglia»30. Espressione metaforica che, al seguito di altri termini marittimi, invita a non rifiutare i piaceri che Virginie conta di dare al «piccolo labirinto di giaietto, di corallo e di alabastro» di una Séraphique docile agli amori saffici. Infine Sade utilizza a sua volta l’ostrica in Aline e Valcour per designare una verginità.
Quella di Aline, figlia del libertino Dolbourg il quale la destina a de
Blamont e gli tiene questo discorso: «Non sono affatto geloso, lo sai,
fa’ quello che vorrai, amico mio; non inghiottirai mai così bene l’ostrica che io non me ne ritrovi ancora la conchiglia, ed è tutto ciò che occorre a uno sposo esaminatore, che disgraziatamente è soltanto questo»31.
L’ostrica della discordia
Sfortunatamente esiste anche l’ostrica della discordia, senza la quale il
quadro non sarebbe completo, come l’ostrica senza scaglie. È ancora
in Casanova che la troviamo, durante il suo secondo soggiorno parigino, nel corso di un pranzo da lui offerto «presso Landel dove si faceva un’eccellente cucina».
Vi si assiste a una scena violenta tra un marito «geloso come una tigre» e un amico del commensale, Tiretta, soprannominato «Sei colpi»,
il quale lo «motteggiava» con una «eccessiva allegria». A un tratto,
«un’ostrica cadde sul bel seno di Mme Gaétan, e Tiretta che stava accanto a lei vi applicò subito le labbra, e la inghiottì»32. Casanova non
poté evitare la zuffa né la burrascosa separazione, conseguenza di questo galante intervento. Tuttavia ha saputo trarre dal frutto di mare tutto il sapore di un pranzo di ostriche che avrebbe potuto per l’occasione, alla maniera del quadro di Jean-François de Troy, comporre suo
fratello Francesco Casanova, pittore specializzato in tutt’altro genere di
battaglie e presente quel giorno al convito.
NOTE
1
1735, Chantilly, Musèe Condé.
2
Almanach des gourmands (1803) in Écrits gastronomiques, Grimod de La Reynière, UGE, Bibliothèques 10/18, 1978, p. 119.
3
Valva di mollusco, per estensione: conchiglia [N.d.T.].
4
Tableau de Paris II, Louis Sébastian Mercier, ed. Jean-Claude Bonnet, 1994, cap.
DCCXCIX “Huitres”, p. 877.
5
Histoire de ma vie, op. cit, vol. 5, cap. VI, p. 112.
6
Ivi, vol. 6, cap. I, p. 233.
7
Ivi, vol. 8, cap. X, p. 909.
8
Ivi, vol. 12, cap. II, p. 897.
9
Le Nouvel Observateur, 27 novembre 1997.
10
Le Goût du chocolat, op. cit., p. 71.
11
Tableau de Paris I, op. cit., cap. CCCLXXXIV “Marmite perpetuelle”, p. 1063.
12
Les Cent Vingt Journées de Sodome, op. cit., p. 180.
13
Thémidore, op. cit., p. 285.
14
Ivi, p. 290. Allusione a “L’ostrica e il litigante” in La Fontaine, Favole.
15
Histoire de Guillaume, cocher, op. cit., p. 108.
16
Ivi, p. 14-15.
17
Thérèse philosophe, op. cit., p. 582.
18
Si tratta del castigliano Sancio Pico, provveditore dell’esercito spagnolo, che fece incontrare ad Ancona Casanova con Bellino [N.d.T.].
19
Histoire de ma vie, op. cit, vol. 2, cap. I, p. 235.
20
Le Goût du chocolat, op. cit., p.71.
21
Histoire de ma vie, op. cit, vol. 2, cap. I, pp. 236-239.
22
Ivi, cap. IX, pp. 417-418.
23
Ivi, vol. 4, cap. IV, pp. 746-747.
24
Ivi, pp. 758-759.
25
Ivi, vol. 12, cap. II, pp. 897-904.
26
Ivi, pp. 902-906.
27
Ivi, pp. 906-907.
28
Ivi, p. 913.
29
Thérèse philosophe, op. cit., p. 642.
30
Abate du Prat, Vénus dans le cloître ou la Religieuse en chemise, Aphrodite classique, 1979, p. 176.
31
Aline et Valcour, op. cit, p. 1086.
32
Histoire de ma vie, op. cit., vol. 5, cap. VI, pp. 101-102.
IL CAFFÈ
L’eccitante moderno
«Come ha molto bene osservato Brillat-Savarin, il caffè mette in movimento il sangue, ne fa sgorgare gli spiriti motori; eccitazione che affretta la digestione, scaccia il sonno, e permette di mantenere un po’
più a lungo l’esercizio delle facoltà cerebrali»1. Questa accesa approvazione di Honoré de Balzac rivela una passione, divenuta leggendaria, che lo scrittore teorizzò nel 1833 nel suo Traité des excitants modernes. Egli sa, a proposito del caffè, che «l’Europa non fece un grande uso di questo eccitante se non verso la metà del XVIII secolo». Ma
Balzac non si cura dello «sfruttamento dei godimenti» che evoca e per
il quale concede agli Orientali un talento superiore. Soltanto lo interessa, a priori, la stimolazione delle «attività del pensiero». Cambiando godimenti, si cambia società, se non secolo.
Balzac diffida anche di una virtù specifica del caffè che cita mediante un aneddoto: «Due giovani viaggiatori, i signori Combes e Tamisier, hanno trovato gli Abissini in generale impotenti; i due viaggiatori non esitano a considerare come la causa di questa disgrazia l’abuso del caffè, che gli Abissini spingono all’ultimo grado»2. Qui, il nostro
etnologo dilettante riprende un’informazione già messa in discussione,
circa ottanta anni prima, nell’Encyclopédie. L’articolo “Caffé“ (scritto
allora in francese con due f) riferisce che «Simon Pauli, medico danese, ha supposto che esso inebri gli uomini, e li renda inabili alla procreazione. I Turchi gli attribuiscono lo stesso effetto, e pensano che il
grande consumo che ne fanno sia la causa per cui le province che essi
occupano, in altri tempi così popolate, lo siano oggi così poco. Ma Dufour – prosegue l’articolo – rifiuta questa opinione nel suo Traité du café, du thè et du chocolat». Un’opinione che nemmeno Furetière aveva accolto a suo tempo, pur riferendosi a Pauli. Quanto al trattato di Philippe-Sylvestre Dufour, esso risale ugualmente alla fine del XVII secolo!
Nella sua difesa e illustrazione del «caffè macinato alla turca» Bal-