Internazionalizzazione o delocalizzazione ? La

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Internazionalizzazione o delocalizzazione ? La
“Internazionalizzazione o delocalizzazione ? La frammentazione
produttiva in prospettiva storica.”
Elaborato finale di Master
Cecilia Beccaro – FISAC CGIL
Indice:
1-Introduzione;
2- Globalizzazione, Internazionalizzazione, Delocalizzazione: alcune categorie concettuali;
3- La frammentazione dei processi di produzione nella Globalizzazione Neoliberista;
4- Conclusioni;
1. Introduzione
Affrontare il tema delle delocalizzazioni, in questo particolare periodo storico, difficilmente può
apparire come una scelta “originale”: prima ancora che la nuova Depressione che sta stritolando
l'economia dei Paesi occidentali arrivasse a colpire, dagli Stati Uniti all'Italia erano all'ordine del
giorno le notizie su aziende che, più o meno improvvisamente, “abbassavano la serranda” e si
spostavano a produrre altrove, in Cina piuttosto che in Romania.
L'argomento sembrerà poi decisamente scontato se si prenderà in considerazione il mio essere una
militante sindacale della città di Fabriano, perdipiù impegnata in un contesto come quello della
Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, e quindi legato a doppio filo con le vicende delle
aziende di proprietà della famiglia Merloni.
Non è però mia intenzione, in questo breve lavoro, soffermarmi sulle sofferenze quotidiane che
vivono migliaia di lavoratori, nelle Marche, in Italia e in il tutto mondo sviluppato, soggetti alla
quotidiana espulsione dai processi produttivi: e questo non certo per corporativa mancanza di
interesse verso problemi che, alla resa dei conti, per ora sembrano colpire sopratutto il settore
manifatturiero e alcune propaggini di quello dei servizi.
Tale scelta non è dettata nemmeno dall'adesione a punti di vista che, sotto l'egida di un malinteso
“riformismo”, indicano nei lavoratori “troppo protetti” o “troppo esigenti” i colpevoli, magari
involontari, di quel che si rovescia su di loro: simili asserzioni recano oltraggio all'impegno
appassionato di uomini come Giacomo Brodolini o Gino Giugni, il cui impegno di giuslavoristi e
uomini politici socialisti dovrebbe servire, se non da esempio, quantomeno da barriera di pudore.
Chi cerchi però di svolgere un'analisi sociale, sia che lo faccia professionalmente sia che ci si
confronti in maniera episodica come la sottoscritta, si troverà però invariabilmente di fronte a un
dilemma che van Voss e van der Linden, in una interessante raccolta di saggi sulla “Storia del
lavoro al tempo della globalizzazione”, qualificano come un vero e proprio “principio di
indeterminazione”, ossia la relazione tra struttura e agente: “[...] quanto più gli storici si
focalizzano sugli individui concreti, tanto più i processi sociali generali e le strutture rimangono
sullo sfondo; per contro, quanto più essi prendono in esame le strutture e i macroprocessi, tanto più
i protagonisti e le loro storie personali finiscono fuori dall'inquadratura. Non sembra esserci
soluzione a questo dilemma: ogni approccio ha il suo prezzo.1”
Fin dall'inizio di questo Master, a catturare la mia attenzione è sempre stato uno dei “fili rossi” che
sembravano dipanarsi di lezione in lezione: la consapevolezza che il vecchio mondo in cui i
sindacati erano abituati a muoversi, il mondo del grande lavoro dipendente organizzato su base
1 Freitag, Ulrike, et alia, 2012, pg. 31
taylorista-fordista e centrato nella Metropoli capitalistica, stava esalando il suo ultimo respiro, e
che quindi tutto il movimento sindacale all'alba degli anni 2000 era di fronte all'alternativa di
rinnovarsi o perire, per parafrasare un famoso motto nenniano.
Ma come rinnovarsi di fronte a sfide che sembrano sempre più incomprensibili ? Non pochi, sulla
scia di ricette “tradizionali” ma anche di analisi ponderate, suggeriscono di “rimettere indietro
l'orologio” e cercare consapevolmente di uscire dalla presente “era globale”: è il caso di quanti
propongono l'uscita dall'Euro e il ritorno a monete nazionali e protezionismo doganale, facendo
riferimento all'evoluzione evidentemente “mercantilista” che l'emergere di fondi sovrani e strategie
competitive fondate sull'export ha determinato sulle relazioni economiche internazionali.
Non è l'oggetto di questo saggio addentrarsi nella confutazione o meno di punti di vista che sono
sempre più condivisi tra economisti certo poco “ortodossi” ma scientificamente solidi e preparati:
tuttavia, se uno studioso militante come Emiliano Brancaccio si spinge fino a prevedere come
necessaria accanto alla limitazione della libertà di movimento dei capitali anche quella delle
persone2, per combattere la nascita di nuovi “eserciti industriali di riserva”, i rischi iniziano a
sembrare evidenti anche a chi non si preoccupi dei problemi di ordine finanziario e commerciale
che provocherebbe un tentativo di isolarsi dai commerci internazionali.
Timori amplificati dai “compagni di strada” che oggi sembrano affacciarsi all'orizzonte di crociate
contro l'Euro e contro la globalizzazione: non più i cortei new global di dieci anni fa, ma Marine
Le Pen, o il trittico formato dall'euroscettico britannico Nigel Farage, dall'oramai macchiettistico
Magdi Allam e dal famigerato Frits Bolkenstein, l'estensore della direttiva UE che mirava a
uniformare (al ribasso) i livelli salariali e le normative dei mercati dei servizi in tutta Europa, e che
di recente hanno sposato e promuovono le tesi di un economista di sicura fede progressista e di
indiscusso rigore come Alberto Bagnai.
Il rischio evidente, quindi, è che anche posizioni ponderate e schierate sul versante progressista
finiscano per affondare nel mare magnum di paranoie e xenofobie che tanto gioco hanno negli
ultimi anni in Europa: un rischio che viene giorno dopo giorno amplificato dall'interesse dei mass
media per le storie di drammi, personali, familiari e collettivi, che la crisi e la disoccupazione
provocano ogni giorno. Nel mondo post-moderno della comunicazione, la riflessione viene
condensata nello spazio di una striscia di opinionisti e l'indignazione viene suscitata a recinto
aperto e buoi fuggiti, non di rado con una precisa agenda politica.
E' perciò mia convinzione che si debba evitare di trasformare la contesa politica e sociale in uno
scontro indistinto tra “ragionevoli” e “populisti”, col rischio di passare in ogni caso dalla padella
alla brace: per fare questo, però, è necessario riflettere con attenzione sul quadro complessivo che
si presenta davanti a noi, sulle origini dei processi sociali ed economici che stiamo vivendo.
2 Brancaccio 2013;
Solo tentanto di comprendere esattamente ciò che esattamente gli si para davanti, il sindacato
potrà a mio avviso rispondere alla grande voglia di distruzione dei corpi intermedi e degli spazi di
rappresentanza che perseguono, con intento egualmente reazionario, sia le grandi forze
economiche che i nuovi movimenti populisti, in Italia come all'estero.
Non sta a me ne presumere di aver “scoperto qualcosa” ne suggerire ricette: queste pagine
rappresentano principalmente l'esito del mio personale “percorso di consapevolezza” sulle sfide
che, come CGIL e come mondo del lavoro, ci troviamo davanti oggi.
Nonostante tutte le battaglie che abbiamo dovuto concludere battendo in ritirata in questi ultimi
venti-trent'anni, l'esempio delle passate vittorie del movimento operaio e sindacale mi rende
fiduciosa che la Fine della Storia profetizzata da Francis Fukuyama sia ben lungi dall'essere
vicina, e che dai processi in corso i lavoratori sapranno trarre nuove forme di aggregazione e di
lotta, pronti per il prossimo round di quella che, non per un vezzo ideologico, credo sia opportuno
continuare a chiamare “lotta di classe”.
2. Globalizzazione, Internazionalizzazione, Delocalizzazione: alcune
categorie concettuali.
Nelle riflessioni sia degli avversari sia degli apologeti del presente scenario di progressiva
unificazione dei mercati mondiali delle merci e dei capitali, è spesso evidente un retro-pensiero
comune a entrambe le categorie di “tifosi”: che quella che comunemente viene definita
“Globalizzazione” sia un processo del tutto nuovo nella Storia, quasi inaspettato e dalle implicazioni
incredibili.
Dagli uni, questo fatto storico viene dipinto come l'incarnazione del Male Assoluto (con la segreta
speranza che questo possa essere fermato, magari con un gesto volontaristico di ribellione collettiva
che “smascheri” il Capitale e lo costringa alla resa, come avviene nelle battute finali della popolare
trasposizione cinematografica di “V per Vendetta” la famosa graphic novel di Alan Moore il cui
protagonista è diventato l'emblema più gettonato dei contestatori anti-sistema di tutto il mondo),
dagli altri viene qualificato spesso con attributi di ineluttabilità “semi-divini”, riassumibili nel noto
acronimo TINA (“There is no alternative”): una comoda scorciatoia che permette di concludere
ogni dibattito all'insegna di asserzioni un po ironiche sul fatto che le voci dissenzienti provengano
da persone oramai “fuori dalla Storia”.
In questo contesto, la delocalizzazione dei processi produttivi viene interpretata come il più visibile
e ineluttabile frutto della Globalizzazione: dai suoi critici più radicali, viene vista come la conferma
della crudele indifferenza della classe capitalistica alle sofferenze degli esseri umani; dai suoi
difensori assoluti, essa viene presentata con diversi gradi di durezza come la prova che le classi
lavoratrici europee e americane in questi anni hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi,
solitamente individuando nel colpevole uno Stato Sociale troppo generoso.
Non di rado, queste “narrazioni” della Globalizzazione si intrecciano con altre, che pongono
l'accento sulla crudeltà predatoria delle grandi multinazionali nei loro rapporti economici con l'ex
Terzo Mondo o, viceversa, sulla concreta uscita dalla povertà di centinaia di milioni di individui
grazie all'apertura dei mercati: come spesso accade, numerosi studiosi hanno avanzato l'ipotesi che
la verità non solo si trovi a metà tra tutte queste asserzioni, ma sia ulteriormente complessa.
Si ritiene perciò utile inquadrare preliminarmente a livello teorico i tre concetti di Globalizzazione,
Internazionalizzazione, Delocalizzazione, correlati ma non coincidenti ne necessariamente
conseguenti l'uno all'altro: sopratutto gli ultimi due vengono sovente confusi nel discorso
quotidiano e nel lessico giornalistico, ma anche tra Globalizzazione e Internazionalizzazione le
frontiere del discorso non sempre sono ben determinate.
Se per “Globalizzazione”, adottiamo una definizione “di senso comune”, come quella data da
Wikipedia (“[...] processo attraverso il quale mercati, produzioni, consumi e anche modi di vivere e
di pensare divengono connessi su scala mondiale, grazie a un continuo flusso di scambi [...]”) ci
troviamo infatti davanti a un avvenimento che autorevoli voci ritengono non certo circoscritto alla
Storia umana, anche risalendo più indietro rispetto a quella fase di competizione coloniale di fine
'800 sfociata nella Prima Guerra Mondiale e che viene a volte citata come prodromo dell'attuale fase
di globalizzazione.
Nel suo famoso lavoro “Adam Smith a Pechino – Genealogie del Ventunesimo Secolo”, il
recentemente scomparso sociologo Giovanni Arrighi traccia infatti una affascinante e maestosa
analisi “di lunga durata” dei processi di interdipendenza economica e politica che vediamo oggi
dipanarsi davanti ai nostri occhi: la Globalizzazione assume quindi l'aspetto di un fenomeno ciclico,
cavalcato di volta in volta dagli “Stati-guida” dell'economia capitalista o proto-capitalista.
Tratto generale del capitalismo, secondo la lettura arrighiana che combina Adam Smith, Karl Marx
e Joseph Schumpeter, è infatti la tendenza all'accumulazione “senza fine”, che privilegia usi
energivori e ad alta intensità di capitale delle risorse (quindi l'industria rispetto all'agricoltura), la
continua creazione e ricerca di masse di manodopera e di nuove risorse e mercati, la vocazione per
il mercato globale, i commerci e la navigazione rispetto alla soddisfazione del mercato interno3.
Questa tendenza, sorretta dall'attivismo militare, è la via che di volta in volta lo Stato-guida del
nucleo capitalistico tenta di percorrere per evitare di ricadere in una “trappola di equilibrio di alto
livello”, l'esaurimento degli spazi economici determinato dalla saturazione di un mercato
socialmente e geograficamente limitato e dall'intensificarsi della concorrenza tra imprese e tra
sistemi economici: la “Rivoluzione Industriale” si colloca come uno dei punti più alti di tale
processo di continua espansione dei mercati, ma è solo una tappa in un processo che vede
succedersi, un secolo dopo l'altro, gli imperi commerciali e militari della Spagna, sorretta dal denaro
dei banchieri genovesi, dell'Olanda, dell'Inghilterra e infine degli Stati Uniti4.
Sulla scia di Schumpeter, al centro del sistema capitalistico e della sua costante espansione Arrighi
pone il capitale finanziario: nel momento in cui il sistema capitalistico guida raggiunge una
situazione di sovrapproduzione, il capitale finanziario interviene a mettere a disposizione nuove vie
di sviluppo economico, che permettano al sistema di espandersi nuovamente e di perpetuare il suo
moto di accumulazione.
Tuttavia, l'intervento del capitale finanziario non è risolutivo: la natura magmatica e dinamica del
capitalismo a medio-lungo termine fa sì che gli eccessi di capitale finanziario, attraverso la rete
internazionale del credito, prima o poi si spostino verso nuovi centri di accumulazione, più grandi e
potenti di quelli precedenti, con un moto che tende sempre più a diventare globale.
3 Arrighi, pg. 122-123
4 Arrighi, pg. 264-270
L'espansione della finanza, che prima sembrava la via per assicurare la sopravvivenza del sistema,
finisce per generare tumulti sociali e politici, fino a distruggere lo stesso sistema di accumulazione a
cui si era appoggiata5. Quasi ironicamente, lo Stato-guida in fase discendente, prima di allontanarsi
del tutto dal “centro della Storia”, diventa solitamente finanziatore dello sviluppo del suo
successore, tramite le proprie istituzioni bancarie.
A questa relazione, storicamente consolidata, sfugge per ora la dinamica bilaterale sino-americana,
con Washington che ha effettivamente finanziato l'ascesa cinese ma, in questa fase di incerta
transizione verso un nuovo equilibrio mondiale, ne è ora a sua volta sorretta, sia a livello finanziario
che a livello sociale-produttivo grazie al mare di merci a basso costo e al contributo dato da Pechino
alla sopravvivenza del dollaro come moneta mondiale di riserva6.
La Globalizzazione assume quindi il volto non tanto di un “evento”, improvvisamente scatenatosi
all'indomani della caduta del muro di Berlino, quanto di un “processo”, determinato dalle stesse
condizioni strutturali dell'economia capitalistica, e che può conoscere battute d'arresto anche
radicali, determinati dal precipitare delle condizioni politiche e delle relazioni tra gli attori del
sistema capitalistico: la Guerra dei Trent'anni, le sconfitte olandesi contro Francia e Gran Bretagna,
le due guerre mondiali, ma anche una miriade di altri eventi che vanno a minacciare l'egemonia
dello Stato-guida e a ridurre la sua capacità di controllare il sistema, destabilizzandolo (si pensi alle
guerre contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, o alla rivoluzione negli equilibri economici
internazionali scatenata dalla decolonizzazione e dall'ascesa del Terzo Mondo negli anni '60 e '70).
Janet Abu Lughod si è spinta addirittura oltre, risalendo a secoli prima della nascita della
“Economia-Mondo” europea per notare come un primo mercato globale, unito concretamente anche
da vincoli di tipo culturale e religioso, si fosse già stabilito nell'Alto Medioevo, grazie alla koinè
islamica estesa dall'Africa, all'Asia, a parte dell'Europa 7: un assaggio di quel processo di
convergenza delle economie, ma anche dei modelli di comportamento delle imprese, dei
consumatori e delle stesse società coinvolte, che vediamo oggi dipanarsi nell'era della
“globalizzazione neoliberista”, pur senza poter per questo indulgere ai trionfalismi (o viceversa, ai
pessimismi cosmici) circa la “fine della Storia”8.
Del resto, senza allontanarci cronologicamente troppo indietro nel tempo, è opinione pacifica tra gli
studiosi che l'attuale fase dell'economia globale sia stata “anticipata” dal periodo di sostenuta
crescita economica e espansione coloniale avvenuto a cavallo tra il Diciannovesimo Secolo e la
Prima Guerra Mondiale: “in questo contesto di cambi stabili, rilevanti flussi di capitale, attraverso
gli investimenti in agricoltura, nelle miniere, nelle ferrovie, affiancarono i flussi delle merci e
5
6
7
8
Arrighi, pg. 96-104
Arrighi, pg. 309-345
Freitag, pg. 85
Caroli, pg. 108-109
promossero lo sviluppo economico in molti Paesi che si erano affacciati per la prima volta
all'economia mondiale”9.
Nonostante questo, in capo a pochi anni, la Grande Depressione e i due conflitti mondiali
disintegrarono completamente i legami intessuti in quel secolo d'oro, con una intensità tale che, a
distanza di quasi 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l'integrazione raggiunta dai
moderni mercati globalizzati con l'aiuto di tecnologie di comunicazione impensabili per l'inizio
dello scorso secolo è grossomodo equivalente a quello del 191310.
La Globalizzazione è perciò considerabile come un passaggio insito nella struttura del capitalismo,
ma non per questo dall'esito sicuro: la tendenza all'internazionalizzazione dei mercati è lo step
tramite cui l'economia capitalista è naturalmente portata a cercare di evitare una trappola di
equilibrio di alto livello, una tendenza che possiamo riscontrare sia a livello neoliberista (si pensi
all'enfasi della Merkel su una export-driven growth) sia in ambito keynesiano (chiaro esempio la
politica commerciale e industriale dei Paesi scandinavi).
Possiamo a questo tentare di definire cosa significhi, per una impresa capitalistica moderna, l'essere
“internazionalizzata”, rispetto al suo comportarsi come uno degli attori del processo di
globalizzazione: adottando ancora una volta una definizione “da manuale”, consideriamo
internazionalizzata quell'impresa che si trovi a “gestire in maniera permanente attività di natura
economica in due o più Paesi”, sottolineando che tale requisito va considerato sulla base “della
dimensione reale dell'impresa”, anziché di quella finanziaria: un'azienda che detenga quote
azionarie di realtà estere non si configura di per sé come internazionalizzata.
Esistono numerosi modelli che cercano di razionalizzare e spiegare come l'impresa si orienti ad
agire sui mercati internazionali, anche se di indubbia validità rimane ancora oggi il product life
cycle model elaborato da Vernon, che possiamo distinguere nei seguenti passaggi:
1. Fase introduttiva: l'impresa ha carattere essenzialmente domestico, può ricercare
l'esportazione in altri Paesi sviluppati al fine di sfruttare economie di produzione;
2. Fase espansiva: l'esportazione è centrale nelle strategie aziendali e viene diretta anche verso
Paesi non sviluppati, con la possibile apertura di filiali in contesti di più intensa domanda;
3. Fase di maturità: i mercati originari sono saturi, la produzione viene largamente riallocata
all'estero per sfruttare i differenziali dei costi di produzione;
4. Fase di declino: accanto alla produzione, si sposta nei Paesi di recente sviluppo anche gran
parte della domanda, qui giunta a uno stadio meno avanzato del suo ciclo di vita;
9 Corò, Tattara e Volpe, 2006, pg. 26
10 Ibid.
A partire da questa prima classificazione, possiamo poi distinguere le imprese “internazionalizzate”
sulla base dell'importanza strategica che conferiscono, nei loro piani, alla dimensione estera:
avremo quindi imprese internazionali, dove la gestione estera e quella locale sono separate e la
presenza nei mercati stranieri è un “di più” rispetto alle attività tradizionali; l'impresa
multinazionale, in cui le attività sono integrate ma le decisioni sono prese da un gruppo dirigente
nel Paese di origine dell'azienda; l'impresa transnazionale, in cui sia attività che management sono
integrate a livello internazionale11.
Dirimente è però anche la presenza di un “consapevole orientamento strategico”, nonché del rilievo
che la dimensione internazionale abbia rispetto alla competitività dell'impresa stessa 12: l'impresa
transnazionale, che tra le tre si presenta come l'elemento più innovativo della moderna economia
globalizzata, può venire individuata a partire dal superamento di un unico perno circondato da
soggetti in posizione subalterna, in favore di una condivisione di tutte le decisioni strategiche da
parte delle unità che sono parte del gruppo, che sono incoraggiate ad accumulare conoscenze e
competenze proprie, relative al proprio mercato o Paese di riferimento, per meglio agire nel
contesto economico internazionale13.
E' interessante notare come queste tre diverse categorie, che corrispondono a diversi gradi di
maturità del ciclo di globalizzazione, abbiano certamente una rilevanza contemporanea, ma
un'origine più antica: la dimensione dell'Economia-Mondo capitalistica è infatti divenuta realmente
planetaria solo nel corso del Ventesimo secolo, ma bisogna tenere presente, come evidenziato da
Charles Tilly, che per gran parte della sua Storia il mondo occidentale ha vissuto in una dimensione
di autorità, poteri e attori di matrice squisitamente sovra-nazionale, se non apertamente transnazionale14.
Oggi ci meravigliamo di vedere la FIAT di Marchionne con un azionariato di riferimento italiano, il
cuore economico delle attività in America e Brasile e la sede legale in Olanda: ma qual'era il
contesto nazionale di riferimento di una realtà come la Lega Anseatica, che univa tramite legami
corporativi mercanti di tutto il Mare del Nord ?
E, se una dimensione trans-nazionale di impresa viene definita in base al fatto che “la sussidiaria
può assumere una posizione primaria rispetto a tutte le altre unità del gruppo, compresa la casa
madre15”, quanto lontana è da questa situazione la parabola della Compagnia Inglese delle Indie
Orientali, nata come compagnia commerciale privata su licenza e progressivamente divenuta uno
Stato-nello-Stato largamente indipendente dalle direttive economiche e di politica estera
britanniche?
11
12
13
14
15
Caroli 2000, pg. 45
Ibid, pg. 47
Caroli, pg. 54-55
Si veda Buzan e Waever, 2012;
Caroli, pg. 65
A questo punto, abbiamo in mano gli elementi per tracciare una prima schematica distinzione tra i
tre concetti da cui è partita la nostra analisi, prima di addentrarci più diffusamente nell'analisi dei
processi di delocalizzazione, configurando la Globalizzazione come un passaggio dell'espansione
dei mercati capitalistici, soggetta a potenziali rallentamenti ma connaturata alle dinamiche della vita
di un sistema capitalistico, e l'Internazionalizzazione come una strategia che le imprese
capitalistiche possono mettere in campo per poter sfuggire ai limiti del proprio mercato e del
proprio prodotto, articolata in diversi possibili passaggi.
Adottando il modello di Vernon, vediamo quindi come la Delocalizzazione, ossia lo spostamento di
parte o tutte le attività produttive di un'azienda in un Paese diverso da quello di origine, si presenti
anzitutto con uno degli strumenti a disposizione dell'azienda che si internazionalizza per aumentare
la propria competitività, particolarmente in fasi in cui le condizioni di mercato e di concorrenza
sono sfavorevoli: come tale, non si tratta ne della principale e ineluttabile conseguenza di una fase
di Globalizzazione, ne di un fenomeno tipico dell'attuale fase di “Globalizzazione neoliberista”.
Se prendiamo a riferimento, per esempio, uno dei primi mercati realmente globali della Storia,
quello dei prodotti tessili, caratterizzato da una elevata mobilità dei fattori e non a caso oggi tra i più
colpiti dai processi di delocalizzazione in tutto il mondo occidentale, possiamo vedere come già
all'epoca in cui le Compagnie delle Indie inglesi e olandesi si inserirono nel commercio della seta in
Asia Sud-Orientale esistesse un sistema commerciale di lunga distanza con ramificazioni secolari.
Nel corso della lunga storia del commercio globale di prodotti tessili, ai periodi di “produzione
industriosa” in cui l'aumentare della domanda induceva i lavoratori a intensificare i propri sforzi, si
sono costantemente affiancate tendenze all'abbassamento dei costi di produzione tramite la
compressione dei salari: la semplice trasferibilità del prodotto ha prodotto ripetute convergenze
globali dei prezzi, rendendo particolarmente accesa la competizione sul mercato.
A questa accresciuta aggressività della concorrenza, i produttori asiatici e europei, già a partire dalla
fine del '600, risposero affidandosi a quattro possibili soluzioni, spesso combinate tra loro: già
all'epoca, per le aree produttive tessili dell'Europa Nord-Occidentale, del Giappone, dell'India,
dell'Egitto Ottomano, si pose il problema di una ri-localizzazione delle attività produttive in regioni
nazionali o estere in cui il costo della vita e del lavoro fosse più basso.
Proiettando in prospettiva i processi di delocalizzazione, gli storici sociali hanno potuto evidenziare
come questi si siano strutturati su tre diversi livelli, a seconda delle necessità di mercato e delle
condizioni della competizione locale e globale:
1. Trasferimento regionale, dalle aree urbane a aree rurali vicine, per indurre all'abbassamento
dei salari urbani: questo processo, a partire al 1650, interessò tutte le principali aree di
lavorazione tessile, dall'Europa Nord-Occidentale fino al Giappone, passando per l'Egitto.
2. Trasferimento inter-regionale, avviatosi nei territori della Slesia da parte delle industrie
prussiane già a partire dal XVII secolo, affermatosi negli USA dopo la Guerra Civile, e
culminato con l'ondata di delocalizzazioni produttive nell'Europa dell'Est;
3. Trasferimento globale, avviatosi già con il periodo coloniale e che sta oggi giungendo a
piena maturazione.
Sovente, alla ricerca di un salario nominale più basso i produttori hanno unito il tentativo di
modificare le relazioni di potere sul posto di lavoro: il ruolo del Potere diventa particolarmente
evidente proprio prendendo in esame il mercato tessile, segnato da una elevata distanza lavoratoriproprietari. Questa è particolarmente evidente sia prendendo in considerazione la madrepatria, dove
l'effetto dei prezzi del cotone e del ciclo commerciale consentiva agli imprenditori di avere a
disposizione grossi quantitativi di merce assorbiti piuttosto lentamente dal mercato, incentivando
quindi le serrate e diminuendo l'efficacia degli scioperi come strumenti di lotta; sia i primi primi
trasferimenti inter-regionali o globali della produzione tessile, che furono segnati da forme di
sfruttamento coloniale.
La mobilità del prodotto e la sua lunga tradizione di oggetto di scambi globali, hanno quindi reso
storicamente difficile per i lavoratori organizzati del settore tessile ottenere conquiste di lunga
durata, con la possibile eccezione degli Amalgamated Operative Cotton Spinners britannici: le
basse barriere di ingresso sul mercato mondiale e l'abbondanza di bacini di manodopera
svantaggiata (donne, bambini, sudditi coloniali o immigrati) hanno nel tempo permesso ai datori di
lavoro del settore tessile di opporre efficacemente alle proteste operaie lo spettro della
delocalizzazione.
Non ci si può quindi stupire nell'osservare come i momenti di più accesa conflittualità sociale nel
settore tessile si collochino nell'arco di tempo 1914-1945, in cui l'economia globale venne segnata
da un processo marcato di “de-globalizzazione”.
Tuttavia, nel corso della sua storia secolare, la delocalizzazione dei processi di produzione
raramente si è presentata come unica soluzione, trovandosi solitamente combinata o in alternativa
ad altre possibili strategie: la razionalizzazione / meccanizzazione dei processi di produzione;
l'immissione sul mercato di categorie socialmente svantaggiate (donne, bambini, nel corso del 800 e
poi nuovamente con la fase di globalizzazione odierna gli immigrati) inquadrate a livelli salariali
più bassi rispetto al carico di lavoro, e il taglio aperto dei salari nominali16.
16 Freitag, pg. 122-140;
La delocalizzazione si viene quindi a configurare, sostanzialmente, come uno dei possibili strumenti
tramite cui l'azienda può al contempo ridurre i costi di produzione e riaffermare il proprio controllo
sulla forza-lavoro, a seconda delle caratteristiche del prodotto e del suo mercato di riferimento,
venendo privilegiata in presenza di condizioni concrete che la rendano più desiderabile rispetto ad
altre strategie (come la combinazione tra licenziamenti e ristrutturazione tecnologica): per il suo
affermarsi come strategia imprenditoriale sono quindi necessarie condizioni interne ed esterne
particolari, e incentivi sia negativi che positivi per l'azienda.
Diventa a questo punto cruciale cercare di capire quali siano state le condizioni che hanno
incentivato, a partire dagli anni '70-'80 del Ventesimo Secolo, l'avvio di processi massicci di
delocalizzazione produttiva, nonostante le dinamiche di Globalizzazione e Internazionalizzazione
fossero in corso almeno da trent'anni ( i “Trenta Gloriosi” della socialdemocrazia, del keynesismo e
del Sistema di Bretton Woods, in cui il capitale ottenne crescente libertà di movimento, sussidi e
protezioni tariffarie, politiche di stimolo alla crescita, con la contropartita della riduzione del tempo
lavorativo, dell'organizzazione sindacale e dei programmi pubblici di sicurezza sociale 17): la
dinamica di delocalizzazione era ed è imprescindibile da un processo di Globalizzazione o è solo
uno dei suoi esiti possibili ? E, in questo caso, quali sono i suoi effetti e come può rispondere il
movimento dei lavoratori ?
3. La frammentazione dei processi di produzione nella Globalizzazione
Neoliberista.
Ci troviamo alla fine degli anni '60 negli Stati Uniti: l'onda lunga della ricostruzione post-bellica e
del boom economico inizia oramai ad affievolirsi, gli stimoli keynesiani iniziano a perdere la
propria efficacia e la profittabilità degli investimenti industriali si indebolisce.
In tutto l'Occidente, studenti e operai manifestano per ottenere condizioni salariali e di impiegabilità
migliori, in un contesto che negli USA è ulteriormente aggravato dalla crisi morale ed economica
della guerra in Vietnam, col suo carico di laceranti divisioni nella società americana, ma anche di
un'impennata inflazionistica scatenata dalle spese di guerra che mette fine all'ambizioso
esperimento della Great Society tentato dal Presidente Johnnson.
Per le imprese americane la situazione è difficile: la conflittualità sociale è in ascesa e le richieste di
aumenti salariali riducono i margini degli imprenditori, mentre sempre più preoccupante è la
concorrenza internazionale di Germania e Giappone, anche a causa degli oneri monetari che
gravano sugli USA per mantenere il sistema di Bretton Woods.
17 Sdogati 2013, pg. 14
La concorrenza tedesca e giapponese, i due late comers usciti devastati dalla guerra mondiale, si era
infatti fatta via via più agguerrita nel corso degli anni, grazie alla loro capacità di combinare
“tecnologia ad alta produttività di matrice statunitense con le ampie riserve di manodopera a basso
costo che affollavano la loro agricoltura e la loro piccola industria”: fino agli anni '60 il mercato
americano si era però dimostrato inattaccabile dalle merci straniere, anche per la scarsa rilevanza di
mercati esteri ancora troppo poco liquidi agli occhi dei produttori americani.
A rendere pericolose le imprese estere era stata però, in prospettiva, proprio la politica commerciale
americana, tramite cui investimenti diretti e agevolazioni doganali da parte americana avevano
trainato e sostenuto la ripresa e l'internazionalizzazione dell'economia europea a discapito della
competitività di quella USA, sia per motivi di ordine geopolitico (la competizione con l'URSS) sia
di ordine economico (la necessità per banche e imprese americane di garantirsi degli sbocchi
all'estero man mano che si affievolivano gli effetti dello stimolo economico bellico).
Questa relazione era rimasta simbiotica fino a metà degli anni '60, con la crescita europea e
giapponese che portava benefici, seppur decrescenti, anche agli Stati Uniti: tra il 1965 e la crisi
energetica del 1973, tuttavia, la competizione estera iniziò ad aggredire concretamente i mercati
fino a quel momento controllati dalle imprese anglosassoni, e aziende tedesche e giapponesi
ottennero il predominio in settori cruciali come il tessile, l'acciaio, l'automotive, l'elettronica di
consumo18. La pressione fiscale in ascesa e l'inflazione erodevano ulteriormente i profitti,e la
decolonizzazione
in atto
nei Paesi
del Terzo Mondo creava ulteriori
problemi
di
approvvigionamento delle materie prime e delle fonti energetiche: in meno di dieci anni, il tasso di
rendimento degli investimenti delle imprese americane crollò del 40%19.
Non meno complessa si presentava la situazione per le imprese di Francia, Germania, Gran ,
Giappone e Italia, con tassi di profitto sul capitale investito più elevati a fronte però di un
indebolimento complessivo dei profitti; il rapporto tra il PIL e il capitale fisso investito era in caduta
in tutti i principali Paesi industrializzati, segno che l'economia si andava dirigendo verso una crisi
da sovra-accumulazione, e che la redditività degli investimenti si riduceva esponenzialmente a
causa della saturazione dei mercati occidentali20.
Il mondo dell'industria doveva reagire in qualche modo, pena rinunciare alla dimensione costitutiva
dell'impresa, quella del profitto: “l'impresa è una istituzione storicamente creata per realizzare un
profitto [ ; ], produrre occupazione, beni e servizi, o innovazioni tecnologiche, sono mezzi
subordinati a tale scopo [ : ] nessun proprietario è disposto a investire i propri capitali a fronte di
una remunerazione così bassa”21.
18
19
20
21
Arrighi, pg. 118-119
Sdogati 2013, pg. 19-21
Gallino, pg. 96-97
Gallino 2006, pg. 92-93
La risposta necessaria, che segnò il punto d'avvio del processo di nuova “Globalizzazione
neoliberista”, fu infliggere un colpo mortale al vecchio ordine economico internazionale con
l'implosione del sistema di cambi di Bretton Woods, oramai troppo oneroso per la competitività
internazionale delle imprese americane e per la bilancia dei pagamenti USA: la strategia
neomercantilista ed espansiva scelta dall'Amministrazione Nixon dopo la fine della convertibilità
del dollaro portò a una aggressiva ristrutturazione internazionale delle economie sviluppate, con
l'erosione degli spazi di competitività degli altri Paesi occidentali.
Il colpo di grazia all'equilibrio keynesiano raggiunto nella precedente fase di globalizzazione arrivò
con le crisi energetiche del 1973 e del 1979, che causarono l'esplosione della cosiddetta
“stagflazione”: in un momento di dura competizione tra imprese, che causava la crisi delle imprese
meno produttive e l'esplodere della disoccupazione, il sistema economico dei Paesi sviluppati venne
sconvolto dalle ondate di inflazione scatenate dalla “chiusura dei rubinetti” energetici, prima come
ritorsione araba contro il sostegno occidentale a Israele e poi come conseguenza della rivoluzione
iraniana. Per la prima volta, stagnazione e inflazione coesistevano nel medesimo momento,
rendendo inefficaci le politiche keynesiane di stimolo alla domanda.
L'abbandono della politica di cambi fissi aveva nel contempo liberato consistenti energie nel settore
finanziario, permettendo al mercato dei capitali di recuperare rapidamente vigore: emissioni di
azioni e obbligazioni persero il ruolo cruciale che avevano avuto negli anni precedenti, a favore del
credito bancario, che arrivò a rappresentare circa i due terzi dei flussi, combinandosi con la nascita
del cosiddetto “mercato dell'eurodollaro” nel favorire un impiego a breve delle risorse finanziarie,
più remunerativo rispetto ai costosi investimenti in capitale fisso degli anni precedenti, più protetto
dalle spinte inflattive, ma in prospettiva anche più destabilizzante22.
Dopo l'ondata di inflazione energetica degli anni '70, sia Carter che Reagan imbracciarono perciò la
via di una politica monetaria fortemente recessiva associata a politiche fiscali espansive, protrattasi
fino al 1985: la cosiddetta Volker's recession aveva lo scopo di imporre un cambio del dollaro non
competitivo, strangolando le imprese meno produttive, creando al contempo le condizioni per
reimpiegare le loro risorse in settori emergenti come le comunicazioni satellitari, le biotecnologie o
le nanotecnologie. Per le imprese del settore manifatturiero americano, la via era tracciata: dopo che
già negli anni '70 le imprese americane alle prese con la crisi avevano iniziato ad affidare segmenti
sempre più estesi di processi produttivi alle future “Tigri Asiatiche”, nei flussi commerciali verso
Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud iniziarono a imporsi quote sempre più importanti di
semilavorati e prodotti intermedi23.
In un momento in cui la concorrenza internazionale non faceva sconti, per le imprese americane alla
ricerca di un più alto prodotto marginale del capitale, non restava che rivolgersi a Paesi in cui
22 Tattara, Corò, Volpe, pg. 27
23 Sdogati 2013
l'impiego di lavoro fosse maggiore e più profittevole di quello di capitale: la frammentazione
internazionale della produzione, l'affidarsi alle Tigri Asiatiche o alle maquilladoras messicane,
permetteva di “liberare” il capitale da impieghi a lungo termine e dalla minaccia dell'agitazione
operaia, per destinarlo a impieghi con più alti rendimenti, nel settore monetario ( a breve) o
finanziario ( a lungo termine)24.
La delocalizzazione produttiva era il corollario necessario dell'esaurimento del modello fordista di
produzione: l'impresa tradizionale produceva profitti nel settore manifatturiero, minimizzando i
costi e massimizzando i ricavi, ma la situazione generale di mercato avrebbe reso necessario lo
smaltimento della capacità produttiva in eccesso nei settori industriali tradizionali, vanificando così
i costosi investimenti in capitale fisso accumulati negli anni, ma anche i cosiddetti “attivi
intangibili”: “la cultura d'impresa, il capitale rappresentato da un'organizzazione costruita nel
corso di decenni, il saper fare”25.
A sostegno di questa strategia, e in generale della rivoluzione copernicana nel pensiero economico e
sociale che si andava imponendo con le Amministrazioni Reagan e Thatcher, intervenne quindi la
shareholders' value theory, l'idea cioè che la prima preoccupazione del management nella
remunerazione dei fattori dovesse essere la compensazione degli azionisti, piuttosto che quella dei
lavoratori o la promozione degli investimenti26.
Per quanto la base teorica su cui poggiava il paradigma shareholder possa sembrare un banale
assunto di buon senso (è naturale che gli azionisti investano il proprio capitale non solo con la
prospettiva di riaverlo indietro, ma anche di accrescerlo man mano che cresca il valore delle proprie
azioni sul mercato), il modo in cui esso venne interpretato, ponendo la massimizzazione del valore
di mercato dell'impresa come la principale preoccupazione del suo agire, provocò una
redistribuzione netta e radicale del peso attribuito ai diversi tipi di reddito da capitale.
Le teorie di Modigliani, Merton e Friedman si radicarono rapidamente nelle business schools, nelle
agenzie di consulenza, nelle banche e nei giornali, creando una cultura d'impresa in cui, più che
profitti derivanti da una crescita tangibile di lungo periodo, predominavano gli annunci spot e i
valori quantitativi, piuttosto che i rendimenti previsti, e dove la priorità era poter smobilitare
rapidamente i propri impieghi di capitale per redirigerli verso mete più vantaggiose27.
Un volano formidabile per le strategie di delocalizzazione fu poi rappresentato dalle moderne
tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni, la cui crescente sofisticazione rese possibile
governare catene di valore complesse senza i costosi investimenti diretti degli anni precedenti: i
costi del trasporto aereo si dimezzarono a partire dagli anni '50, con un aumento dei traffici via cielo
24
25
26
27
Sdogati 2013, pg. 22
Gallino 2006, pg. 100
Sdogati 2013 pg. 21
Gallino, pg. 102-108
dieci volte superiore a quello dei trasporti marittimi; altre attività sono state digitalizzate, riducendo
ulteriormente i costi in termini di logistica e di capitale fisso. Il crollo del blocco sovietico e la
decisione cinese di aprirsi al mercato e al commercio con l'estero segnarono la direzione:
improvvisamente, enormi eserciti di lavoratori istruiti e a basso costo si rendevano disponibili, nelle
loro madrepatrie come direttamente nei Paesi-nucleo dell'economia capitalistica, a causa degli
enormi flussi migratori e dei processi di transizione al mercato.
Questo aumentava esponenzialmente il potenziale di frammentazione tecnica dei cicli produttivi,
riorganizzando le attività domestiche attorno alla ricerca e sviluppo e a attività ad alta
qualificazione: diveniva possibile rendere efficiente a livello globale la propria catena del valore: la
crescente diffusione delle tecnologie moderne e dell'economia di mercato in Paesi precedentemente
“isolati” dall'economia-mondo capitalistica, anche se in alcuni casi limitata o concentrata in
enclaves, consentiva alle imprese di svincolarsi da fattori di condizionamento storici o da reti di
fornitura consolidate28.
Le moderne delocalizzazioni rappresentano quindi il punto di arrivo di un processo di reazione del
Capitale, a fronte dell'esaurimento degli spazi di espansione del modello di produzione fordista: la
saturazione dei mercati occidentali richiedeva una ristrutturazione complessiva delle economie
industrializzate. Parte dei capitali venne indirizzata, consapevolmente, verso i settori più
promettenti, con un ruolo importante per gli Stati Uniti del warfare, la spesa pubblica militare, con
le sue ricadute dirette su settori ad alta tecnologia; per le imprese che si trovavano su segmenti
meno competitivi, spostare all'estero le proprie attività consentiva di ridurre progressivamente i
costi fissi di investimento, diminuire il potere contrattuale della forza lavoro, tagliare i costi
connessi al salario e agli oneri fiscali, sanitari e pensionistici; quest'operazione venne accompagnata
e promossa dalla deregulation dei mercati monetari e finanziari, che permise ai capitali di spostarsi
liberamente e rapidamente dove i loro impieghi fossero più redditizi.
Quella che inizialmente poteva essere una strategia di sopravvivenza per settori in difficoltà,
divenne rapidamente una necessità ineluttabile nel nuovo mondo post-1989, quando l'enorme
disponibilità di capitali inutilizzati e l'ascesa di nuovi players economici internazionali resero la
delocalizzazione una opportunità irresistibile tanto per le imprese piccole quanto per quelle grandi,
tanto per quelle innovative, tanto per quelle tradizionali.
Non tanto la globalizzazione in quanto tale, dunque, si poneva all'origine delle moderne
delocalizzazioni: quanto gli enormi progressi tecnologici nel settore dei trasporti e delle
comunicazioni, che hanno reso i prodotti e la produzione molto più “mobili” e “portatili” rispetto
alle precedenti fasi di globalizzazione, e l'improvviso affacciarsi sui mercati di miliardi di persone
prima escluse dai meccanismi occidentali di mercato e di consumo.
28 Tattara, Corò, Volpe. pg. 24-31
4.Conclusioni
Il fenomeno delocalizzazione è passato a lungo relativamente inosservato nel dibattito pubblico,
fino all'esplosione dei fenomeni Cina e Est Europea negli anni '90: eppure, le prime forme di
delocalizzazione nelle Tigri Asiatiche risalgono a circa 40 anni fa, accompagnati da ulteriori
delocalizzazioni nella Cina di Deng ad opera delle imprese di Hong Kong e Taiwan negli anni '70 e
'80: nel 1992, il “risucchio di posti di lavoro” americani a causa dell'outsourcing verso il Messico e
l'Asia fu alla base della campagna presidenziale di Ross Perot, l'eccentrico miliardario nazionalista
che col suo 18% dei voti contribuitì a determinare la vittoria di Clinton.
Il neo-Presidente aveva tranquillamente asserito che non era interesse degli Stati Uniti trattenere
posti di lavoro a livelli di salario minimo, e che le nuove tecnologie avrebbero creato posti di lavoro
qualificati e meglio retribuiti: a dargli parzialmente ragione, la disoccupazione americana scese dal
6,8 al 3,8% dopo l'entrata in vigore del NAFTA, il trattato di libero scambio con Canada e
Messico29, e in pochi anni l'introduzione massiccia di nuove tecnologie informatiche e di
comunicazione permise all'industria americana di colmare il gap accumulato con le snelle
produzioni just in time giapponesi.
In effetti, studi effettuati negli USA e in Europa sugli effetti occupazionali della prima fase di
delocalizzazioni, avvenuta durante la fase di espansione economica trainata dai mercati finanziari
degli anni '90 e dei primi anni 2000, sembrerebbero dimostrare come gli effetti di “spiazzamento”
nei Paesi industriali dovuti a rilocalizzazioni all'estero abbiano avuto effetti modesti, concentrati
soprattutto nei settori a bassa tecnologia dell'abbigliamento e del mobile ma compensati dalla
maggior occupazione disponibile nelle imprese ad alta tecnologia, per le quali la delocalizzazione
forniva guadagni di efficienza e ampliamenti della domanda utilizzabili per reinvestire nelle attività
più qualificate in patria.
Se tuttavia dagli aggregati si scende in dettaglio nei singoli settori, gli effetti di spiazzamento
iniziano a farsi più pesanti, colpendo sopratutto i settori labour intensive30, dove meno diffusa è la
penetrazione delle nuove tecnologie hi tech (per restare agli Stati Uniti, si parla di circa un terzo
dell'apparato produttivo nazionale31): arrivati alle soglie degli anni 2000, negli Stati Uniti
l'occupazione nel settore manifatturiero era passata dal 37% della forza lavoro del 1950 al 11%32.
Per quanto l'affermazione del terziario abbia rappresentato un indubbio progresso nelle condizioni
di vita di numerosi lavoratori, è anche innegabile che il numero di posti di lavoro generati nel
settore dei servizi difficilmente riesce a tenere il ritmo con cui vengono espulsi lavoratori dal settore
29
30
31
32
Stiglitz 2006, pg. 311
Tattara, Corò, Volpe. pg. 44-45
Colajanni 206, pg. 66-67
Stiglitz, pg. 311
manifatturiero, spesso ad età o con qualifiche che sono difficilmente riqualificabili per impieghi in
in settori più avanzati.
A questo va sommata la maggiore volatilità dei posti di lavoro nel settore terziario, sia per effetto
della crescente tendenza alla precarizzazione dei rapporti di lavoro come risposta alle pressioni
competitive e alla ristrutturazione dei processi imposta dalla lean production e dal just in time, sia
per strutturale “debolezza” di queste mansioni a shock economici improvvisi che la natura volatile
del sistema finanziario internazionale ha reso sempre più frequenti nel corso degli anni, e sempre
più vicine al nucleo dell'Economia-Mondo capitalistica (le crisi del debito sudamericane negli anni
'80, il default sul debito estero della Russia a metà anni '90, la crisi asiatica del 1997, la bolla della
New Economy, la stagnazione seguita agli attentati contro le Torri Gemelle e gli scandali finanziari
di Enron e di altre società internazionali, fino all'esplodere della crisi finanziaria del 2008)33.
In questo contesto, la delocalizzazione si presenta come strettamente intrecciata, seguendo il
ragionamento di Arrighi, con quei movimenti di capitali finanziari che preservano un soggetto
“imperiale” nel momento della sua crisi, lavorando però per minare, volontariamente o meno, la sua
struttura di accumulazione: l'esplodere della crisi globale ha radicalizzato la situazione sociale e
politica, e portato la pratica delle delocalizzazioni sempre più sotto i riflettori.
Inoltre, sebbene in molti Paesi la convergenza dei salari verso livelli occidentali sia frenata dal
permanere di grosse sacche di lavoro non qualificato ancora disponibili, e i movimenti migratori
non accennino a fermarsi, ampliandosi anzi man mano che la crisi genera nuove povertà e nuovi
conflitti34, le ricerche di studiosi come Beverly Silver mostrano che la riallocazione di attività
industriali verso Paesi a minor reddito e bassi salari “ha prodotto assai più spesso la formazione di
nuove forti organizzazioni dei lavoratori nei paesi a basso reddito e salari [ : ] sebbene le grandi
multinazionali fossero inizialmente attratte da particolari Paesi del Terzo Mondo […] perchè
sembravano offrire una forza-lavoro remissiva e a basso costo, il successivo processo di
espansione di industrie di produzione di massa a alta intensità di capitale ha fatto nascere anche lì
una nuova classe operaia combattiva e in possesso di un potere di interdizione significativo”35.
Queste parole, scritte in riferimento al processo di delocalizzazione degli anni '70 e '80 verso Paesi
come il Brasile e la Corea, sembrano trovare conferma non solo nell'evoluzione socio-economica e
politica di quei Paesi (la Corea è oggi un Paese con un elevato tenore di vita, laddove in Brasile le
contraddizioni sociali restano ancora vive ma hanno portato all'ascesa politica del Partido dos
Trabahladores, emanazione diretta dei sindacati), ma anche nella dinamica delle lotte di classe in
Cina, sovente trascurate dai mass media occidentali in quanto non automaticamente collegabili con
lotte per la democrazia, ma che hanno prodotto, a volte con la repressione ma altre volte con
33 Si vedano Rifkin, 2002, e Klein, 2007;
34 Tattara, Corò, Volpe. pg. 25-27
35 Arrighi, pg. 147
l'acquiescenza o il supporto del Partito Comunista, a aumenti salariali anche nell'ordine del 30%,
oltre a configurarsi come particolarmente radicali, a fronte dell'omicidio di alcuni direttori di
fabbrica coinvolti nelle vertenze.
Già oggi, alcune imprese occidentali, lamentando l'aumento dei costi, la crescente conflittualità
sociale e le nuove leggi a tutela dei lavoratori varate nel 2008, pianificano di spostare la propria
produzione in Laos o in Vietnam: nell'epoca degli impieghi finanziari a breve termine, anche
l'imposizione di un contratto scritto e la previsione di una causale per il licenziamento, i due punti
principali della riforma del 2008, appaiono troppo radicali.
In conclusione, la delocalizzazione non è una condanna, ne come spesso si legge su giornali e mass
media populisti una sorta di complotto orchestrato dai nostri competitori nel nome del dumping
salariale: è l'espressione, a livello di rapporti di produzione, di una svolta che il sistema industriale
occidentale ha subito negli ultimi 40 anni, con la prevalenza della finanza a breve e della
remunerazione degli azionisti sulle tradizionali priorità delle imprese, in un contesto in cui le
economie occidentali sono oramai mercati saturi per il settore manifatturiero.
Come tale, la delocalizzazione è un processo che va affrontato e governato razionalmente, tramite
opportuni interventi di concertazione sindacale e di politica industriale, auspicabilmente come parte
di una più generale riorganizzazione dei sistemi di welfare e del funzionamento dei nostri mercati
del lavoro: compito di una forza politica e di organizzazioni di rappresenta che si rifacciano al
movimento dei lavoratori dovrebbe essere non l'indulgere nell'autocommiserazione o nella rabbia
contro chi “ci ruba il lavoro” quanto agire tempestivamente per ridurre l'impatto di questi processi e
fornire alternative concrete.
Per farlo, è probabilmente necessaria la presa di consapevolezza che il paradigma socio-economico
su cui si è fondato finora il mondo sviluppato può essere preservato solo al prezzo di barriere
doganali e guerre commerciali, di frontiere chiuse e repressione interna, fino allo spettro di veri e
propri nuovi conflitti per gli approvvigionamenti energetici, il controllo delle aree di influenza
economica, il contenimento delle pressioni migratorie.
Investimenti in conoscenza e ricerca scientifica, nuove forme di controllo sulla finanza, supporto
all'auto-imprenditorialità e al terzo settore, riapertura di un dibattito sulla “settimana corta”, forme
di reddito minimo garantito, una politica dell'immigrazione non inutilmente repressiva abbinata a
concreti interventi di sviluppo, esplorazione delle opportunità fornite al mondo della manifattura e
dell'artigianato dall'introduzione delle stampanti a tre dimensioni, politiche di riconversione
energetica, controllo ambientale, lotta al dissesto idrogeologico … sono molti i possibili spunti di
riflessione per le forze politiche e sindacali progressiste, in un'epoca in cui però diventa sempre più
cruciale non perdere di vista uno dei valori fondanti della Storia del movimento operaio:
l'internazionalismo.
Bibliografia:
Monografie:
1.
Arrighi, Giovanni, “ Adam Smith a Pechino: Genealogie del Ventunesimo Secolo”,
Feltrinelli, Milano, 2007;
2.
Buzan, Barry e Little, Richard, “International systems in world history: remaking the
study of international relations”, Oxford University Press, Oxford, 2000;
3.
Caroli, Matteo G., “Globalizzazione e localizzazione dell'impresa internazionalizzata”,
Franco Angeli, Milano, 2001;
4.
Colajanni, Napoleone, “Capitalismi: Asia, Stati Uniti, Europa nell'economia globale”,
Sperling e Kupfer, Milano, 2006
5.
Gallino, Luciano, “L'impresa irresponsabile”, Einaudi, Torino, 2006;
6.
Klein, Naomi, “Shock Economy: l'ascesa del capitalismo dei disastri”, Rizzoli, Torino,
2007;
7.
Rifkin, Jeremy, “La fine del Lavoro”, Rizzoli, Torino, 2002;
8.
Stiglitz, Joseph E., “La globalizzazione che funziona”, Einaudi, Torino, 2006;
Volumi collettanei:
1.
Freitag, Ulrike; Van Der Linden, Marcel; Van Nederveen Meerkerk, Elise; Von Oppen,
Achim; Van Schendel, Willem; Van Voss, Lex Heerma; “Global Labour History”, Ombre
Corte, Verona, 2012;
2.
Tattara, Giuseppe; Corò, Giancarlo; Volpe, Mario; a cura di; “Andarsene per continuare
a crescere: la delocalizzazione internazionale come strategia competitiva”, Carocci, Roma,
2006;
Saggi e articoli:
1.
Brancaccio, Emiliano, “Liberare i migranti senza arrestare i capitali ? Un suicidio
politico”, www.emilianobrancaccio.it/2013/10/10/liberare-i-migranti-senza-arrestare-i-capitali-unsuicidio-politico/, 10 ottobre 2013;
2.
ruolo
Sdogati, Fabio, intervento al convegno “Il Circolo Vizioso: il contributo della FISAC e il
della
CGIL
di
fronte
alla
crisi”,
www.fisac-cgil.it/wp-
content/uploads/213/04/AttiTavolarotonda20aprileancona.pdf ; Ancona, 20 Aprile 2013;