Il mistero di Maria

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Il mistero di Maria
Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/
Il mistero di Maria
Luce Irigaray è filosofa e psicoanalista, direttrice di ricerca in filosofia presso il
Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese. Formatasi alla scuola psicanalitica di Jaques Lacan, è una delle pensatrici più influenti degli ultimi decenni,
anche in relazione alla riflessione sul tema delle differenze di genere. Ha scritto
per le edizioni Paoline (2010) Il mistero di Maria, libro il cui intento è quello di
parlare a tutti, credenti e non credenti, per avvicinare il lettore a questa figura
che, proprio perché pienamente umana, è stata in grado di accogliere e dare
carne al totalmente divino. Il centro significante del breve scritto è l’umanità
piena di Maria, o meglio, la sua femminilità totale e accolta, il suo essere donna
e quindi custode del soffio generativo, del legame profondo tra essere umano e
natura che il peccato originale ha spezzato. Una parola “universale”, che si avvale
di molteplici apporti culturali, nella volontà di svincolare Maria da una tradizione
che il pensiero moderno tende a considerare mortificante nei confronti del femminile. Su questo libro, originale e complesso, abbiamo chiesto un commento a
due voci allo psicoterapeuta Ambrogio Cozzi ed al biblista Luca Buccheri.
Ambrogio Cozzi*
Conservo della mia infanzia ricordi molto vivi di mesi mariani (il mese di maggio),
novene e rosari che indicavano una centralità della figura della Madonna nelle pratiche
religiose. Più chiese legavano la sua figura ad avvenimenti della vita sociale, ad eventi
storici perduti nel tempo. Così c’era una chiesa dedicata alla Madonna del Lazzaretto,
protettrice del luogo dove venivano confinati i malati di peste. Dediche che andavano a
confermare quel ruolo di mediazione con il divino che da sempre, in parte ereditandolo
da altre figure femminili della Bibbia, la Madonna si era trovata a svolgere.
Una Madonna quindi legata agli eventi della comunità, che soffriva o gioiva con lei,
ma legata anche alla sfera divina. Queste Madonne, anche come rappresentazione, erano ben lontane dall’iconografia e dalle raffigurazioni successive poi dilaganti, vestite di
bianco, col velo azzurro, gli occhioni grandi, nascoste, di cui non si vede mai il corpo.
E’ chiaro che questa devozione verso queste Madonne non era solo una dimensione
popolare del culto, ma si legava alla dimensione ufficiale del culto, attraverso calendarizzazioni liturgiche, riletture della centralità della figura di Maria e via di seguito.
Perché questa lunga premessa? Perché, a mio parere, se l'Autrice, anziché contrapporre il culto di Maria nella religiosità popolare all’accantonamento di Maria nella liturgia ufficiale, avesse inseguito l’intrecciarsi delle due dimensioni, verificando come
l’una si sostenga sull’altra, come entrambe siano necessarie per comprendere le radici
del culto religioso, forse il libro ne avrebbe guadagnato in chiarezza senza perdere la
dimensione di complessità del problema. Invece così ne risulta una raffigurazione
dell'altro ritagliata rispetto ad uno sfondo e questo implica la necessità preliminare,
per costruire il proprio discorso, di decidere cosa è sfondo e cosa figura.
Vedo un po’ questo pericolo anche nel discorso che l’autrice fa intorno al respiro, che
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se è lecito tradurre come respiro, occorre tenere presente che questo respiro è contemporaneamente soffio, cioè rimando all’altro. Allora forse la figura di Maria ha più sfaccettature,
vive qualcosa che in parte è incomprensibile, oltre le regole dell’esistenza umana, che oltre
al silenzio, che ben sottolinea l’autrice a partire dall’Annunciazione in una dimensione
originale, vi è anche la parola. Ma questa parola non parte dall’essere madre, poiché l’essere madre è più sottolineato da difficoltà e rinnegamenti che da acquiescenze.
Il Nuovo Testamento ci presenta una donna che il figlio tratta con durezza, che fa
difficoltà a capire il figlio. "Che c'è tra me e te, o donna!" è una di queste. Gesù arriva
a dire - e lo registrano Marco e Luca - che quegli è sua madre, quelli sono i suoi fratelli
e le sue sorelle: "Quelli che fanno la volontà del Padre mio". E a chi dice: "Beato il
grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito", dice ancora una volta:" Non
beati questi, ma quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".
Quella che viene rinnegata è la maternità secondo la carne, accettare che il figlio
si allontani, e che questo allontanamento sia stato stabilito altrove, che un disegno
sia già stato tracciato, e che in questo disegno il divino abbia configurato la possibilità di riscatto dell’umano.
E’ così che ritroviamo Maria come madre e sorella al figlio nel discepolato, che
Giovanni ce la descriverà ai piedi della Croce, che verrà presentata negli Atti degli
Apostoli come il modello della perfetta credente.
Ma anche queste osservazioni si collegano a quelle della prima parte. Vi è un intreccio
di piani e nel culto e nella presenza di Maria nella Bibbia, che non può essere semplificato,
non può essere ridotto ad un uso contro la misoginia della Chiesa. Nelle scritture, con le
cautele dovute al fatto che non sono un biblista, si stratificano più piani. Non possiamo
ridurli per leggere l’esito storico presente. Il rispetto della pluralità di piani deve essere
mantenuto, pena una sorta di antologizzazione delle Scritture che rischiano di tradirle.
Penso che anche l’autrice inviti a seguire questa direzione quando scrive “Un
mistero che non ha ancora svelato tutti i suoi segreti, e che rimarrà sempre in parte
mistero, dato il toccare, l’intimità, l’invisibilità che vi partecipano. Un mistero che
è stato, come lo vuole la nostra tradizione, assimilato al ruolo materno di Maria più
che attribuito alla sua identità femminile, a partire dalla quale tuttavia lei continua
a manifestarsi al mondo”.
*Psicoterapeuta, membro effettivo della Scuola Europea di Psicoanalisi, lavora
presso il Servizio di psicologia clinica del AO Salvini di Garbagnate Milanese
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Luca Buccheri*
La riflessione che la filosofa
francese Luce Irigaray dedica alla
Madonna è un omaggio, quasi
una “restituzione” alla sua importanza di donna nella storia
della salvezza cristiana. Nel Prologo del testo la ricercatrice francese si domanda come mai colei
che rappresenta la “condizione
dell’incarnazione”, e quindi del
mistero cristiano per eccellenza,
sia così poco considerata a livello
teologico nel suo “rapporto con
il divino” e non solo in qualità
di “madre”. Quanto sfugge al
pensiero teologico (maschile) –
intuito al contrario dal fervore
popolare –, è proprio quel legame col soffio divino che l’ha resa
feconda.
Leggiamo un passaggio importante tolto dal secondo capitolo, dedicato alla
donna “Divina per nascita”: “Il divino è collegato all’aria, al respiro. (…) Dio crea
mediante il suo soffio. Il diabolico invece si compiace del rinchiuso, teme le correnti
d’aria. Mimo del vivente, il diabolico non respira, o non respira più: toglie l’aria agli
altri, al mondo. Siamo in qualche modo divini dalla nascita ma una mancanza di
coltivazione del nostro respiro ci fa perdere la nostra divinità. (…) Coltivare il proprio
respiro porta al risveglio, conduce a una conoscenza del divino in se stessi…”. Dato
questo presupposto, l’autrice presenta la donna come colei che “ha una relazione
privilegiata con il respiro” capace di collegare “la terra e il cielo mediante una
trasformazione della materia con il soffio”. A dire il vero non ci viene spiegato il
perché di questo privilegio femminile e come avvenga questa spiritualizzazione del
respiro che riesce a divinizzare la natura. Da questa affermazione deriva la convinzione che “la donna non deve staccarsi dalla natura per umanizzarla”, ma che le
basta essere se stessa.
Passando poi a Maria e alla scena dell’Annunciazione, la Irigaray mostra come
l’iconografia abbia spesso rappresentato Maria con le mani incrociate all’altezza
dello sterno, luogo del respiro, quasi a voler proteggere il suo tesoro, “colui che
risulta dalla trasformazione del suo respiro vitale in un respiro amoroso spiritualmente condivisibile”, il bambino Gesù. L’angelo la risveglia dunque non ad una
procreazione carnale, ma ad un respiro superiore, “animato da amore e da parole
che permettono la comunicazione, e perfino la comunione, fra esseri differenti”.
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Maria in questo è pienamente protagonista, partner del divino che la interpella
per divenire Parola incarnata. Ma anche l’umanità di Maria – e di noi tutti – ha
bisogno della Parola divina per trasfigurare se stessa trasformando un’appartenenza
naturale in una spirituale.
La verginità di Maria viene letta come la “capacità di mantenere il proprio respiro, il proprio soffio autonomo”, cioè la propria non-sottomissione all’umano, alla
maschile separazione corpo-spirito che “impedisce di partecipare in modo attivo
alla nostra divinizzazione e a quella dell’universo”. E il silenzio di Maria – rappresentato da labbra che si toccano – è cifra non di un’assenza, ma del compimento
di sé e di una perfetta interiorità, è mezzo per preservare l’intimità con se stessa.
Dunque un silenzio gravido di futuro, “riserva di parole o eventi futuri la cui manifestazione è ancora sconosciuta”.
Questa lettura mariologica al femminile che Luce Irigaray ci regala è certo una
impegnativa e affascinante riflessione sulle profondità dell’essere e del trascendente,
una freccia acuta scoccata contro il maschilismo nella chiesa, che pone in evidenza
la missione spirituale del femminile nella storia, ben oltre la sua mera funzione
naturale.
*Sacerdote, biblista, giornalista e collaboratore della Fraternità di Romena
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