Erail1987quandoscoppiòlaguerradelle`ndrine
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Erail1987quandoscoppiòlaguerradelle`ndrine
24 Dossier ‘ndrangheta CHIVASSO Era scomparso dall’8 aprile 2009. La sua auto ritrovata a Mappano: per il corpo si cerca ancora nelle campagne di Torino Ursini, ucciso per soli venti mila euro Nelle conversazioni tra capibastone la soluzione del giallo del nipote del boss Con l’Alfa 166 del cognato, Ursini doveva passare a prendere la compagna per portarla al lavoro a Torino. Non la raggiunse mai. L’auto venne rinvenuta mesi dopo dai carabinieri in un parcheggio a Mappano di Caselle: nell’abitacolo nessuna traccia utile al fine delle indagini Laveritàsullascomparsadi Rocco VincenzoUrsiniè contenutanellaconversazione ambientaledel14agosto 2009,riferitaallepagine1280 e1281deldossier sull’operazione“IlCrimine” CHIVASSO - Fino all’operazione “Il Crimine” era una persona “scomparsa”. Di lui non si avevano più tracce dall’8 aprile 2009. Era un mercoledì, giorno di mercato a Chivasso. Era uscito dalla sua abitazione di via Torino a metà mattina. Giacca nera e jeans scuri, camicia a righe viola. Con l’Alfa 166 del cognato, doveva passare a prendere la compagna per portarla al lavoro a Torino. Prima, una commissione alla posta. Da quel momento lì, finirono i contatti con i suoi cari, con il suo mondo. “Ditemi dov’è mio fratello?” è l’appello disperato, ed inascoltato, della sorella di fronte alle telecamere della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”. Sul sito internet del programma, si può ancora ascoltare. La famiglia si è sempre opposta all’ipotesi che dietro la scomparsa di Rocco Vincenzo Ursini, all’epoca 29enne, ci potesse essere quel legame pesante con lo zio Mario, boss della ‘ndrina “Mazzaferro-Ursino-Macrì”, egemone sui territori di Gioiosa Ionica e Marina di Gioiosa Ionica. Il ritrovamento dell’auto con cui era sparito, in un parcheggio di Mappano di Caselle, aveva riacceso la speranza. Non c’erano tracce di delitto. Nè colpi di proiettile o segni di qualche speronamento. Si sperava an- CHI È ROCCO VINCENZO URSINI? Nella fotografia a lato una recente immagine di Rocco Vincenzo Ursini, scomparso da Chivasso l’8 aprile del 2009: quel giorno vestiva con una giacca nera, jeans scuri ed una camicia a righe viola Nipote di Mario, lo zio che diceva di essere solo un pastore I familiari si rivolsero anche alla trasmissione “Chi l’ha visto”. Sopra, la sorella cora che fosse salito sul primo aereo e se ne fosse volato via, lontano da quella parentela scomoda e dal suo passato non proprio immacolato, segnato da una condanna per droga. “Ma aveva chiuso con quel mondo là”, ripeteva la sorella, nei giorni seguenti la scomparsa. Eppure, il nome di Rocco Vincenzo Ursini è uscito fuori nel faldone di fogli che formano i capi d’accusa dell’operazione anti - ‘ndrangheta condotta dalle Direzioni distrettuali antimafia di Milano e Reggio Calabria, che ha portato in carcere trecento persone. Rocco Vincenzo Ursini sarebbe stato assassinato: il condizionale è d’obbligo perché il suo corpo non è ancora stato trovato ma gli elementi sono tali per cui è impossibile non pensare al 29enne come un nuovo caso di lupara bianca. Di lui parlano diffusamente i capi delle ‘ndrine di Reggio nei dialoghi registrati dalle microspie piazzate dai carabinieri. “...Rocco Ursino, io non sapevo neanche di chi mi parlava...quel povero disgr... quello che è morto...”. Fine del mistero. Il giallo della scomparsa del ni- pote del boss risolto dalle conversazioni tra due capi locali calabresi e un affiliato torinese. Il senso è questo. Uno dice all’altro: “Quello di Torino, Rocco Ursini, lo hanno dovuto ammazzarre perché non aveva restituito venti mila euro alla famiglia Macrì”. Un regolamento di conti che, probabilmente, si sarebbe svolto a Torino, con un killer venuto dal sud - ora agli arresti -, per sparare e poi ritornare a casa. “...avrebbe mandato a Rocco questo qua, che gli doveva dare ventimila euro... a dargli dieci...”. Ma “...poi hanno litiga- “Ma quale boss! Ho sempre mangiato pane e olive”. Difficile credere alle parole dello “zio Mario”. C’era lui, neanche troppi anni fa, a capo della dinastia dei calabresi in Piemonte. In numerose relazioni della commissione Antimafia viene indicato come il personaggio di riferimento delle famiglie Ursini, Belfiore e Macrì, una triade criminale che ha trafficato in cocaina a Torino per un ventennio dettando legge sul racket e sugli appalti, intessendo intrecci internazionali per lo spaccio. Nei tempi andati, per incontrare don Mario Ursini, grande mediatore tra le diverse ‘ndrine trapiantate a Torino, bastava andare al bar Tom di Gregorio Fiarè, in largo Orbassano. Lì gli porgevano omaggio gli “uomini d’onore” dei clan calabresi, baciandogli l’anello o portandogli in dono cassette di vino o ceste di pomodori. Era to, hanno girato e voltato...”, “...e all’ultimo lo hanno ucciso”, riportando anche le minacce fatte al padre della vittima da uno dei carnefici: “tu mi de- un uomo “di pace”, un diplomatico. Piccolo e dall’aria apparentemente innocua, ma dal forte carisma, era riuscito a sopravvivere alla caduta dell’impero del clan dei catanesi, padroni di Torino sino ai primi anni Ottanta. Gli Ursini, con quella “i” finale dovuta ad uno sbaglio dell’anagrafe che nascondeva il vero e più temibile cognome Ursino, dominavano su Settimo, Mappano e Caselle. Erano gli anni in cui i Belfiore gesti- vano il traffico di affari su Moncalieri, gli Iaria sul Canavese, i Franzè e i Pronesti a Orbassano, i Marando-Agresta a Volpiano, i fratelli Ilacqua a Chivasso. Don Mario Ursini venne incastrato e condannato nell’indagine denominata Cartagine quando era all’apice del suo potere. Scarcerato nell’agosto 2006 dopo che la condanna a 27 anni era stata ridimensionata a poco più di dieci anni da cumuli e indulti, decise di fare ritorno in Calabria, in quella sua Gioiosa Jonica lasciata tanto tempo prima. A Torino rimangono il suo erede naturale e il nipote che porta il suo stesso cognome. Il primo, Renato Macrì, detto Renatino, alla fine degli anni ‘90 sorpreso a Cagnes sur Mer con 65 chili di cocaina nel bagagliaio dell’auto. Il secondo, Rocco Vincenzo Ursini, ha invece fatto una brutta fine... vi dare tutti i ventimila euro, altrimenti prima ti ammazziamo a tuo figlio e poi tu devi morire di crepacuore, senza nessun problema... hai capito che ci devi dare tutti e venti!”. Il cadavere di Rocco Vincenzo Ursini non è ancora stato trovato. Gli inquirenti sono sulle tracce di altri indizi, sperando che qualcosa Mario Ursini possa venire fuori negli interrogatori degli arrestati. Intanto si cerca nelle campagne di Torino ma, per il momento, il giallo non può dirsi completamente risolto. Si continua a scavare nelle parentele, nei legami di sangue e di affari, nelle invidie e nelle lotte tra cosche. “Mio fratello non c’entra nulla con lo zio”. Da quando però don Mario è tornato a casa, tra gli ulivi della Locride, il nipote è rimasto un po’ più solo. “Ma quale boss! Ho sempre mangiato pane e olive”, diceva Mario Ursini mostrando la carta d’identità dove alla voce professione aveva fatto scrivere “pastore”. Impossibile credergli. In numerose relazioni della commissione Antimafia viene indicato come il personaggio di riferimento delle famiglie Ursini, Belfiore e Macrì, una triade criminale che ha trafficato in cocaina a Torino per un ventennio dettando legge sul racket e sugli appalti, intessendo intrecci internazionali per lo spaccio. Nei tempi andati, don Mario Ursini era un grande mediatore tra le diverse ‘ndrine trapiantate sotto la Mole. Gli porgevano omaggio gli “uomini d’onore” dei clan calabresi, baciandogli l’anello o portandogli in dono cassette di vino o ceste di pomodori. Era un uomo “di pace”, un diplomatico. I PRECEDENTI Tre morti ammazzati a colpi di mitra in un circolo privato di via Piave: giocavano a carte, furono freddati a bruciapelo Era il 1987 quando scoppiò la guerra delle ‘ndrine CHIVASSO - Tre morti ammazzati a freddo in un circolo privato di via Piave a Chivasso. Salvatore Benfante, 32 anni, di Palermo; Fortunato Verduci, 23 anni, di Montebello Jonico (Reggio Calabria) e Giovanni Marra, 28 anni, anch'egli calabrese. Sorpresi da 20 colpi di P38 e di mitraglietta, mentre giocavano a scopa, tutti soli, con una ragazza bruna, unica testimone, al di là del bancone ad aspettare clienti. Chivasso quella mattina del novembre 1987 si alzò così, sbigottita, indignata, offesa. Una sparatoria da film americano. Proprio qui, proprio sotto il Duomo c’era la mafia o forse la 'ndrangheta, poco importava il suo nome esatto. I giornali scrissero e dissero che quei tre volevano diventare capibastone di un clan nuo- Unfattocosì graveaChivasso noneramai successo Renato Cambursano vo, dopo la disfatta dei catanesi, i cui capi erano finiti in carcere, ma ancora adesso ci si chiede che cosa mosse davvero quegli uomini incappucciati. “Un fatto così grave - commentò l’allora sindaco dc Renato Cambursano - a Chivasso non era mai successo...”. E’ infatti in città, quando proprio si volevano strabigliare gli ospiti si raccontava di quel delitto di gelosia di 25 anni prima, di un uomo tagliato a pezzi e accartocciato in una valigia. Roba da film dell’orrore che con Al Capone poco ci azzeccava. Certo un po’ di delinquenza fino a quel momento c’era stata, co- me in tutte le città di periferia, piene zeppe di operai e pochissimi impiegati. Era piuttosto la crisi della Lancia ad aver fatto tutto il resto, tra prepensionamenti, cassintegrazione e licenziamenti. Molti immigrati del sud se ne stavano tornando al proprio paese d’origine, tra chi rimaneva, molti erano i disoccupati affamati e assetati, pronti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere anche trafficare droga e armi. Quei tre ragazzi uccisi in via Piave proprio di quello si volevano occupare. Marra e i suoi amici (il primo era contitolare del circolo assieme al fratello Salvatore) sarebbero stati i nuovi padroni di Chivasso grazie alla droga e a un circoscritto traffico di armi ad uso della mala di provincia. Nei 25 metri quadrati del circolo, ave- vano anche allestito una centrale del totonero e ospitavano giocatori d'azzardo. Il circolo era diventato un vero e proprio casinò, presso il quale si recavano personaggi non solo della malavita ma giocatori appassionati, stanchi degli appartamenti privati, affittati apposta per una serata di chemin de fer. Insomma Marra e i suoi avevano visto giusto, ma non avevano fatto i conti con la ‘ndrangheta che s’era impadronita del territorio dopo aver letteralmente cancellato (con le confessioni fiume di Salvatore Parisi, detto Turinella, 1984) la mafia siciliana e il clan catanese dei Cursoti, guidato dai fratelli Miano. Quelle stesse 'ndrine che la violenza dei Cursoti negli anni 80 aveva decimato ora dettavano legge. Più avanti la famiglia I- lacqua in poco tempo colonizzò Chivasso e i piccoli comuni della cintura orientale di Torino. Quattro fratelli che, approdati in Piemonte da Seminara con la protezione di Rocco Gioffrè, uno dei padrini della 'ndrangheta, dalla loro officina di carrozzieri cominciarno a gestire tutti i traffici. I carabinieri li arrestarono dopo aver bloccato sull' autostrada Milano-Torino uno dei loro corrieri, Fortunato Siclari, detto Jack tre dita, scoprendo che la mente della cosca era Silvana Varotto, piemontese doc, moglie di Pietro Ilacqua che oltre a tenere i conti della gang decideva l'investimento dei proventi in ristoranti e tenute agricole. Ormai era troppo tardi, la 'ndrangheta aveva messo casa e radici in tutto il Canavese.