Il discutibile concetto di disoccupazione strutturale

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Il discutibile concetto di disoccupazione strutturale
RAPPORTO CER
Il concetto di
disoccupazione strutturale
nella letteratura economica
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Le recenti stime della disoccupazione strutturale nei paesi UE hanno suscitato polemiche e preoccupazioni, sia per i valori assoluti sia per la velocità con cui le cifre
tendono verso l’alto. Per il 2014, la Commissione Europea ha fissato i valori percentuali della disoccupazione strutturale al 20,0 in Spagna (era il 12,3 nel 2006), al 20,0 in
Grecia (9,4 nel 2006) e al 13,3 in Portogallo (8,7 nel 2006). Anche per l’Italia, le stime
dalla Commissione sono molto vicine al dato della disoccupazione rilevata, con un
parametro strutturale al 10,9 nell’anno in corso a fronte di un dato pre-crisi del 7,8 nel
2006. Meno drammatiche, ma sempre molto preoccupanti, le stime OCSE, che per il
2014 vedono la disoccupazione strutturale al 21,5 in Spagna, 16,8 in Grecia, 12,2 in
Portogallo, 9,9 in Italia (21).
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Per disoccupazione strutturale si intende quell’unico livello della disoccupazione che
è compatibile con un tasso di inflazione invariato. In dettaglio, i numeri appena citati
si riferiscono più precisamente al tasso di inflazione salariale (NAWRU, nonaccelerating wage rate of unemployment) per quanto riguarda le cifre della Commissione Europea, e al tasso di inflazione vero e proprio per i dati OCSE (che sono
quindi stime del NAIRU, non-accelerating inflation rate of unemployment), ma entrambi i parametri sono proposti come misura della disoccupazione strutturale. Infine,
nel quadro della impostazione teorica comune alle due diverse stime, il tasso di disoccupazione strutturale è anche l’unico sostenibile nel lungo periodo. (Per semplicità, faremo di qui in avanti riferimento al solo NAIRU come sinonimo di disoccupazione strutturale.)
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Secondo la lettura più semplice e più diffusa della teoria che sta alla base del concetto di disoccupazione strutturale, qualsiasi riduzione della disoccupazione indipendente da una corrispondente diminuzione del NAIRU (ad esempio a seguito di
politiche espansive volte a sostenere la domanda aggregata) è sempre un fenomeno reversibile, tale cioè da mettere in moto un processo adattativo che riporta la di-
(21) Stime Commissione Europea, Spring 2014 e OCSE Economic Outlook 95, May 2014.
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soccupazione al livello iniziale, anche se in presenza di un tasso di inflazione più elevato. Inoltre, ulteriori tentativi di sostenere l’occupazione dal lato della domanda avrebbero il solo effetto di creare altra inflazione, mentre l’unico modo per far scendere la disoccupazione in modo stabile consisterebbe nell’attuazione di politiche
che tendano a correggere il dato strutturale. Queste politiche sono attuabili solo sul
lato dell’offerta, dove si dovrebbero rendere più competitivi tutti i mercati ed in particolare il mercato del lavoro, in modo da stimolare la produttività e tenere a freno i
salari.
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Disoccupazione e inflazione sono sempre stati problemi fondamentali della macroeconomia e della politica economica. Tuttavia, il modo di pensare i due fenomeni e
la relazione che li lega si è evoluto molto negli ultimi decenni, né il progresso della ricerca sembra essersi arrestato. Fino ad un secolo fa, il problema della disoccupazione era stato a malapena codificato, non se ne conoscevano con precisione le cause e lo si riteneva comunque un fenomeno di breve periodo legato al ciclo economico. I primi studi sull’instabilità del potere d’acquisto della moneta sono invece più
remoti nel tempo, ma connessi a forme monetarie a base metallica ereditate
dall’antichità, la cui evoluzione verso i moderni strumenti monetari, del tutto slegati
dalla quantità e dal valore di una qualsiasi merce denaro, iniziava anch’essa verso
l’inizio del secolo scorso.
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È solo a seguito dell’affermarsi della teoria keynesiana che inflazione e disoccupazione cominciano ad essere pensati entro un primo schema teorico complessivo, in
cui la diminuzione della disoccupazione e l’aumento del livello generale dei prezzi
sono le due possibili risposte del sistema economico a seguito di un aumento della
domanda aggregata. Secondo la semplice partizione keynesiana, gli effetti di un
aumento della domanda aggregata si ripartiranno sul tasso di disoccupazione e su
quello di inflazione in una proporzione che dipende dalla quantità di risorse inutilizzate presenti nel sistema – e quindi, in ultima analisi, dal livello iniziale del tasso di disoccupazione. Tanto più alta la disoccupazione, tanto maggiore sarà l’effetto di un
aumento della domanda aggregata in termini di creazione di nuovi posti di lavoro;
tanto più bassa la disoccupazione, tanto più un incremento della domanda aggregata andrà invece a ripercuotersi sui prezzi. In presenza di piena occupazione, il caso particolare della Teoria Generale pubblicata da Keynes nel 1936, un aumento
della domanda si tradurrà soltanto in un aumento dei prezzi.
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Dopo Keynes, teoria e politica economica hanno continuato a svilupparsi in base a
questo schema. La conoscenza della relazione tra inflazione e disoccupazione andò
affinandosi, soprattutto sulla base di alcuni fondamentali studi empirici pubblicati
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verso la fine degli anni ’50, ma rimase a lungo immutata la gerarchia degli obiettivi,
che vedeva nella disoccupazione il problema principale e nel risvegliarsi
dell’inflazione l’indicatore del limite delle politiche economiche volte alla piena occupazione. Successivamente, la relazione tra inflazione e disoccupazione è rimasta
centrale nella teoria e nelle politiche macroeconomiche, ma il modo di intenderla è
profondamente cambiato, fino al formarsi del punto di vista che esclude la possibilità di una politica della domanda volta alla riduzione della disoccupazione.
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Data l’entità del cambiamento di prospettiva, gli sviluppi della teoria vengono spesso raccontati con toni drammatici. Si parla di rivoluzione e controrivoluzione, secondo una schematizzazione rigida, in cui si tende spesso a dividersi tra ‘fede monetarista’ o ‘ritorno a Keynes’, Nuova Macroeconomia Classica o ‘eresia’ keynesiana. Alcune osservazioni su come le stime del NAIRU sono state elaborate, interpretate e utilizzate fino ad oggi suggeriscono invece, a nostro avviso, l’utilizzo di schemi interpretativi meno rigidi e una certa prudenza nell’interpretazione dei dati attuali.
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Il concetto di disoccupazione strutturale è stato introdotto nella letteratura economica da Milton Friedman e da Edmund Phelps alla fine degli anni ’60. Se Keynes aveva mostrato l’importanza delle aspettative nel funzionamento del mercato dei
capitali, i due economisti statunitensi insistevano sul fatto che lo stesso fattore doveva per forza avere una qualche incidenza anche su tutti gli altri mercati, e in particolare su quello del lavoro. Il modo in cui l’elemento delle aspettative venne inserito nei
nuovi modelli economici riflette una impostazione ideologica opposta a quella di
Keynes. Nelle nuove teorie, le aspettative incorporano la razionalità degli agenti economici anziché la loro incapacità ad adattarsi ad un mondo il cui futuro è radicalmente incerto, cosicché i mercati tornano ad essere istituzioni efficienti cui è conveniente affidarsi. D’altra parte, in un mondo in cui l’inflazione era diventata più prevedibile che in passato, era forse inevitabile che gli economisti incorporassero questo
elemento nei loro modelli.
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Come abbiamo mostrato in un precedente rapporto (2/2013), mentre nei primi decenni della fase post-unitaria l’andamento dell’inflazione italiana è stato erratico,
con oscillazioni tra fasi di inflazione e di deflazione, nel secondo dopoguerra
l’inflazione diventa una situazione normale. Un andamento analogo si osserva in tutti
i paesi avanzati, né ci si deve stupire di tutto ciò. Mentre fino ai primi del ‘900 era ancora lecito pensare che il valore della moneta potesse dipendere dalla scoperta di
una miniera d’oro in Sud Africa o in California, nel mondo attuale il valore della moneta è regolato dai banchieri centrali il cui compito è proprio quello di ridurre
l’incertezza legata alle fluttuazioni dei prezzi. Nel rinnovato quadro storico, in cui an-
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che il ruolo della contrattazione collettiva è cresciuto in maniera rilevante, è normale
aspettarsi che i salari tenderanno ad anticipare i movimenti dei prezzi. Anche
l’ipotesi di una spirale prezzi-salari implicita nel concetto di disoccupazione strutturale
ha quindi una sua logica, mentre la scelta di concentrarsi sulla competitività e la flessibilità del mercato del lavoro rappresenta una scelta più marcatamente politica. Se
in passato si è talvolta cercato nella politica dei redditi, e quindi anche nella rappresentanza sindacale, lo strumento per contenere gli effetti inflattivi della crescita economica e di alti livelli occupazionali, la ricerca di una maggiore flessibilità e concorrenza sul mercato del lavoro, per sua stessa definizione, mira a limitare il potere delle
organizzazioni dei lavoratori.
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Oltre al suo significato politico più evidente, la ricerca della competitività ne ha un
altro forse meno evidente ma più strettamente legato al concetto di NAIRU. Se interpretata in modo troppo schematico, la strategia della flessibilità e della concorrenza
può fornire alla politica un pretesto per fermarsi molto presto nella ricerca di livelli
occupazionali accettabili, inducendo a catalogare come ineliminabile una parte
del problema occupazionale anziché tentare di risolverlo. Se la piena occupazione
keynesiana segnava il limite oltre il quale il lavoro tornava ad essere a tutti gli effetti
una risorsa scarsa, ora ci si concentra sul fatto che esiste un livello minimo di disoccupazione, per lo più di natura frizionale, che corrisponde all’equilibrio del sistema e
che è pertanto ineliminabile, almeno nell’immediato.
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Laddove i tassi di partecipazione al lavoro sono alti e la disoccupazione strutturale
bassa, stabile, e in gran parte generata da lavoratori in rapido transito tra
un’occupazione e l’altra, la politica economica può in effetti accontentarsi di prevenire, oppure di correggere rapidamente, le fluttuazioni cicliche attorno al NAIRU.
Altrove, si dovrà invece tentare di far crescere la produttività del lavoro più rapidamente dei salari nominali, facilitando l’incontro tra domanda ed offerta sul mercato
del lavoro, in modo da conciliare un’alta partecipazione alla forza lavoro con una
più bassa disoccupazione strutturale. Ma in ciascuno dei due casi, e soprattutto nel
secondo, si deve essere ragionevolmente certi di quale sia l’effettivo livello del dato
strutturale.
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Ciò che lascia perplessi, nelle elaborazioni attuali, è l’idea che la disoccupazione
strutturale di un paese avanzato possa essere superiore al 20 per cento, magari raddoppiando nell’arco di un decennio, tanto più se si pensa che la disoccupazione
strutturale non può essere oggetto di misurazioni dirette ma solo di stime. Il concetto
introdotto da Friedman e Phelps nasce infatti come ipotesi teorica, abbastanza interessante da creare una nuova agenda di ricerca, ma non ancora sufficientemente
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definita da poter essere immediatamente tradotta in termini quantitativi e in misure
definite di politica economica. Per verificare l’ipotesi, e poi per renderla utilizzabile ai
fini pratici, a partire dagli anni ’70 diverse stime del NAIRU sono state introdotte e testate empiricamente, stime che a loro volta hanno generato nuove ipotesi circa la
stabilità del livello della disoccupazione strutturale e le determinanti della sua evoluzione nel tempo.
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Nel 1997, in un simposio sul NAIRU nel Journal of Economic Perspectives, alcuni dei
più influenti economisti provarono a tirare le prime somme di un’attività di ricerca
svolta su un arco di tempo ormai piuttosto lungo. Nel simposio, non mancano voci
più nettamente critiche nei confronti del NAIRU, come quella tipicamente keynesiana espressa da James Galbraith. D’altra parte, anche gli interventi di Joseph Stiglitz e
di Robert Gordon, entrambi nettamente a favore dell’utilizzo del NAIRU come strumento della politica economica, ponevano il problema di come interpretare e misurare l’evoluzione del parametro nel tempo. Inoltre, se la soluzione di quest’ultimo
problema sembrava alla portata degli economisti statunitensi, Olivier Blanchard e
Lawrence Katz sollevavano già allora forti dubbi sulla possibilità e l’opportunità di affidarsi al NAIRU nell’orientare la politica economica europea.
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La differenza fondamentale tra il caso statunitense e quello europeo, anche in una
fase relativamente tranquilla (rispetto al post-2007) come l’ultimo quarto del secolo
scorso, è la relativa stabilità dei tassi di disoccupazione osservata e delle stime del
NAIRU negli Stati Uniti a confronto con la continua crescita della disoccupazione
osservata in Europa e con la difficoltà di correlare questa crescita alla sottostante
evoluzione del NAIRU. Per circa venticinque anni gli economisti americani si erano
confrontati su stime del NAIRU che differivano tra loro al più per un punto percentuale. Inoltre, anche le variazioni nel tempo del tasso strutturale USA erano stimate
entro un analogo ordine di grandezza attorno ad un livello piuttosto basso: quel 6
per cento che a lungo fu considerato come una sorta di tasso ‘naturale’ della disoccupazione negli USA. Al contrario, l’esperienza europea raccontata da Blanchard e Katz nel 1997 mostrava un tasso di disoccupazione osservata (nei paesi europei appartenenti all’OCSE) cresciuta da poco sopra il 3 per cento nel 1970 a
quasi il 12 per cento un quarto di secolo dopo, una convinzione diffusa che nello
stesso periodo anche il NAIRU europeo dovesse essere cresciuto e, soprattutto, nessuna spiegazione del tutto convincente circa il quanto ed il perché il NAIRU europeo fosse cresciuto negli anni.
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Nel clima di stabilità garantito dal contesto americano, l’esperienza sul NAIRU maturata da Stiglitz come capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, permetteva
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non solo di confermare l’ipotesi di Friedman e Phelps ma anche di specificarla meglio. Se il livello della disoccupazione si era in effetti dimostrato significativo nel prevedere l’andamento futuro dell’inflazione, l’esperienza cumulata dal governo americano aveva anche insegnato che gli scostamenti dal livello strutturale non erano
da considerarsi particolarmente pericolosi. ‘Cercare’ il livello strutturale, forzando la
disoccupazione verso il basso fino a risvegliare la dinamica dei prezzi, non comportava, secondo Stiglitz, il rischio di una esplosione dell’inflazione: le reazioni di
quest’ultimo parametro si erano dimostrate abbastanza lente e abbastanza deboli
da potere essere facilmente controllate. Inoltre, gli studi sull’evoluzione del NAIRU
lungo gli ultimi decenni avevano portato ad introdurre nuove ipotesi teoriche per cui
le fondamentali distinzioni tra conseguenze di breve e lungo periodo della politica
economica, politica della domanda e dell’offerta, risultavano meno nette che in
passato.
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Facendo suo un concetto introdotto in letteratura proprio da Phelps (il c.d. effetto
isteresi), Stiglitz notava come il trend di lungo periodo del NAIRU potesse dipendere –
oltre che da vari altri fattori, come il potere sindacale o l’andamento demografico –
anche dal ciclo economico. In particolare, fasi troppo prolungate di alta disoccupazione possono diminuire la produttività di coloro che rimangono inattivi e allo stesso
tempo aumentare il potere di mercato degli insiders, con effetti perversi
sull’andamento della produttività e dei salari che portano ad un incremento del livello del NAIRU nel tempo.
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L’idea, per niente eterodossa, per cui il NAIRU di lungo periodo non è indipendente
dall’andamento del ciclo economico e dagli effetti di breve periodo della politica
economica deve essere vista in relazione ad un altro elemento che caratterizza il
quadro teorico attuale. Solo nelle interpretazioni più estreme, tipiche della Nuova
Macroeconomia Classica, il concetto di NAIRU è associato all’idea per cui la politica
economica è del tutto inefficace tanto nel breve quanto nel lungo periodo. Secondo interpretazioni meno estreme, e ormai forse anche più diffuse, questo non succede. Da una parte, si tende ad assumere che gli shock (e le politiche) dal lato della
domanda abbiano sempre effetti reali, cioè in termini di variazioni del PIL e
dell’occupazione, almeno nel breve periodo. Dall’altra, si è portati sempre più ad
approfondire l’ipotesi per cui variazioni abbastanza prolungate della domanda aggregata abbiano a loro volta effetti duraturi sulla produttività e quindi sullo stesso livello del NAIRU.
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Nel simposio del 1997, quest’ultima precisazione era fatta propria da R. Gordon, che
ne introduceva anche un’altra. Il padre di uno dei modelli più importanti tra quelli
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che incorporano il concetto di disoccupazione strutturale (triangle model) metteva
in guardia dal cercare di misurare il NAIRU nei periodi in cui l’economia si discosta
fortemente dal trend di lungo periodo. Secondo Gordon, in fasi storiche paragonabili
alla Grande Depressione degli anni ’30, il NAIRU misurato dai modelli econometrici
elaborati in fasi di relativa stabilità potrebbe facilmente incorporare le componenti
cicliche e quindi ‘imitare’ (mimic) la disoccupazione ciclica, magari attestandosi su
livelli superiori al 20 per cento.
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A distanza di alcuni anni, l’imbarazzo di Blanchard e Katz rispetto al problema di misurare il NAIRU in un contesto non così stabile (e, occorrerebbe dire, non così omogeneo) come è l’economia europea rispetto a quella statunitense, così come le osservazioni di Stiglitz e Gordon, sembrano trovare ulteriore conferma. Se le attuali stime della disoccupazione strutturale nei paesi UE spesso divergono significativamente
tra di loro, le stesse stime sembrano in effetti inseguire il dato della disoccupazione
osservata anziché isolarne la componente di lungo periodo, mentre appelli per politiche a sostegno della domanda, oppure contrarie a una mera ricerca della flessibilità sul mercato del lavoro arrivano da istituzioni, come l’OCSE e la Banca d’Italia, che
certamente non mirano ad una nuova rivoluzione teorica ma che, più probabilmente, cercano di utilizzare l’analisi economica corrente in un modo più critico e meno
dogmatico.
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Il Governatore della Banca d’Italia ha recentemente citato studi del proprio istituto
che mostrano una correlazione negativa tra aumento della flessibilità dei contratti di
lavoro e aumento della produttività, suggerendo che i necessari investimenti in capitale umano sono possibili solo laddove l’orizzonte temporale entro cui il lavoratore è
legato alla stessa azienda è sufficientemente ampio. Inoltre, negli ultimi due anni, gli
Employment Outlook dell’OCSE hanno, da un lato, offerto stime della disoccupazione in Europa in cui un peso maggiore viene dato alla componente ciclica (output
gap) rispetto a quella strutturale (NAIRU), e, dall’altro, recepito l’ipotesi dell’effetto
isteresi. Intravedendo un nesso sempre più stretto tra il crollo della domanda aggregata e dell’occupazione osservata ed il sottostante aumento del NAIRU,
nell’Employment Outlook del 2013, l’OCSE arrivava persino a proporre misure a sostegno della domanda come antidoto alla recente crescita della disoccupazione
strutturale in Europa.
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In un altro nostro precedente rapporto (3/2011), facevamo riferimento alle opposte
posizioni espresse da Keynes e Pigou sulla disoccupazione inglese nel periodo tra le
due guerre. Nel 1930, nell’ambito di quello stesso dibattito, Edwin Cannan osservava
come fosse inutile cercare di salvare le vecchie industrie inglesi come il tessile o la si-
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derurgia nel tentativo di tamponare il problema della disoccupazione. Piuttosto, con
lo spontaneo adattamento dell’economia britannica, che vedeva il progressivo esaurirsi delle vecchie industrie manifatturiere esportatrici situate nelle Midlands ed un
sempre più sviluppato settore finanziario e terziario attorno all’area metropolitana di
Londra, le forze automatiche del mercato avrebbero progressivamente adattato le
condizioni dell’offerta fino a riassorbire tutta la forza lavoro in eccesso. Può darsi che
ad un economista come Cannan, con un’esperienza ultratrentennale come professore alla London School of Economics, non sfuggissero quelle che probabilmente erano già le tendenze di sviluppo di lunghissimo periodo dell’economia inglese.
D’altra parte, è difficile dare torto a Henry Clay, che rispondeva all’illustre economista facendo notare che sì, forse il problema si sarebbe risolto da sé, magari nel 2000,
o anche nel 1950, ma che i disoccupati del 1930 avevano qualche difficoltà ad assumere un orizzonte così ampio. È questo il concetto che Keynes espresse, non senza
una certa brutalità, nella famosa frase per cui “nel lungo periodo siamo tutti morti”.
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Allora come adesso, le questioni teoriche dibattute dagli economisti ne nascondono
altre, di natura più profondamente morale e politica, che riguardano tutti. La discussione sui dati sulla disoccupazione strutturale in Europa implica scelte analoghe a
quelle che si presentavano a uomini come Cannan e Clay, Pigou e Keynes, circa ottanta anni fa. Oggi come allora, si deve scegliere se orientare le scelte nel lungo periodo affidandosi ad uno schema teorico precostituito, o se non convenga invece
tenere viva la discussione sulla maggiore o minore corrispondenza tra quello schema, i dati che l’economia ci offre e le esigenze della società. A nostro avviso, le recenti stime della disoccupazione strutturale in Europa suggeriscono questa seconda
strada come quella allo stesso tempo più prudente e più efficace.
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