ABI, Ania, Assonime, Confindustria

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ABI, Ania, Assonime, Confindustria
Commenti in relazione all’articolo 13
del D.L. 1° luglio 2009, n. 78
Osservazioni integrative
Tavolo interassociativo
ABI-Ania-Assonime-Confindustria
DOCUMENTI
Marzo 2010
DOCUMENTI
Facendo seguito al documento interassociativo del novembre 2009 sulle
modifiche introdotte dall’art. 13 del decreto-legge n. 78 del 2009 alla
disciplina c.d. di CFC di cui all’art. 167 del TUIR, formuliamo sul tema
ulteriori osservazioni e spunti di riflessione.
1.
Finalità della disciplina di CFC
Riteniamo opportuno ribadire, innanzitutto, che la finalità della disciplina
CFC non può essere quella di garantire sic et simpliciter un livello di
tassazione identico per le imprese residenti in Italia che si insediano nei
territori esteri a fiscalità agevolata tramite società controllate e quelle che
continuano ad esercitare in Italia la loro attività: se così fosse, infatti, le
società controllate estere sarebbero tout court assoggettate a tassazione nel
Paese di residenza della controllante per il solo fatto di godere di un’aliquota
impositiva inferiore, in modo più o meno rilevante, a quella prevista nello
Stato di residenza della società controllante stessa.
La finalità della disciplina CFC è, piuttosto, quella di contrastare la
delocalizzazione fittizia di utili prodotti nello Stato di residenza della società
controllante attraverso lo schermo giuridico della società controllata. Che
solo questa sia la finalità delle norme CFC, sia pure dopo alcune incertezze
interpretative iniziali, appare ormai del tutto evidente nel panorama
internazionale. In particolare, ciò emerge con chiarezza non solo negli Stati
che adottano il sistema CFC c.d. transactional, volto ad avocare a
tassazione per trasparenza esclusivamente i passive income, i frutti, cioè, di
cespiti localizzabili nello Stato di residenza della società controllata, ma
anche negli Stati che adottano il sistema CFC c.d. jurisdictional, volto ad
avocare a tassazione – naturalmente in proporzione alla quota di
partecipazione posseduta dalla società controllante – l’intero reddito
d’impresa della società controllata. E’ così anche nel sistema jurisdictional
francese da cui trae spunto anche la nostra legislazione. In questo senso
depongono i copiosi documenti della Commissione UE e la giurisprudenza
della Corte di Giustizia. Anche nell’ambito della nostra legislazione
nazionale, non c’è dubbio che questa sia la finalità preminente del regime
CFC: ne costituisce riprova l’esimente dell’art. 167, comma 5, lettera a), del
TUIR, in base alla quale non sono assoggettabili a tassazione per
trasparenza i redditi delle società controllate localizzate in Paesi di black list
che in tali Paesi esercitino un’effettiva attività industriale o commerciale.
Alla luce di queste considerazioni di carattere generale, si possono risolvere
una serie di criticità del nostro regime CFC, emergenti in parte già dalle
norme esistenti fino al 2009 e, in parte, derivanti dalle modifiche recate
dall’art. 13 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78.
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2.
Vecchi problemi tuttora irrisolti della disciplina CFC, così come
già delineata, prima delle modifiche introdotte dall’art.13 del
decreto legge 1° luglio 2009, n.78.
2.1.
Una prima rilevante criticità che ci trasciniamo dal passato attiene
proprio all’applicazione dell’esimente dell’art. 167, comma 5, lettera a), la
quale, come accennato, consente di non sottoporre a tassazione per
trasparenza gli utili delle società controllate, localizzate in territori di black
list, che derivino da un’effettiva attività industriale o commerciale ivi
esercitata. Nella riforma fiscale del 2003, che, come noto, ha introdotto la
detassazione al 95 per cento dei dividendi di fonte non solo nazionale ma
anche estera, è stato previsto che i dividendi distribuiti o anche solo
provenienti da tali società (dalle società, cioè, localizzate nei Paesi di black
list e non assoggettate a tassazione per trasparenza, per effetto
dell’esimente della lettera a) del comma 5 dell’art. 167) debbano scontare
in Italia, all’atto del rimpatrio, una tassazione piena, senza poter oltretutto
ottenere l’accredito delle imposte assolte nello Stato di black list dalla
società partecipata. Ne consegue che, in tali fattispecie, il gruppo
multinazionale italiano, che dovrebbe essere premiato per aver realizzato
insediamenti esteri effettivamente produttivi, viene a beneficiare di un
vantaggio meramente temporaneo e, anzi, subisce una tassazione, ove
rimpatri gli utili, più onerosa di quella che sconta un insediamento nello
Stato di black list non produttivo di active income e, dunque, soggetto a
tassazione per trasparenza. In quest’ultima fattispecie la società
controllante residente può, infatti, rimpatriare gli utili senza subire ulteriori
imposizioni fino a concorrenza dei redditi già tassati per trasparenza e
comunque, in sede di tassazione per trasparenza, può detrarre le imposte
assolte dalla società partecipata nel Paese di black list. E’ evidente che un
vulnus come questo mina non poco la competitività dei nostri gruppi
multinazionali rispetto alle multinazionali aventi la capogruppo in altri Stati.
In Francia, ad esempio, l’esercizio all’estero di un’attività industriale o
commerciale non solo è condizione sufficiente per non far applicare la
disciplina CFC, senza neanche bisogno di un interpello preventivo, ma
consente il rimpatrio degli utili con la tassazione prevista per tutti i dividendi
di fonte estera. Occorre, dunque, che tale problema venga risolto al più
presto, ponendo termine ad una situazione che limita in modo del tutto
ingiustificato la competitività delle imprese italiane. Il problema, peraltro, si
è acuito quando questa disciplina vessatoria è stata estesa, oltre che ai
rimpatri diretti di dividendi formati con utili di tali società, anche ai rimpatri
indiretti, cioè quando l’utile della società situata nello Stato di black list non
è distribuito direttamente alla società italiana, ma transita attraverso una
catena societaria. Questa disciplina fra l’altro, si presta a non pochi dubbi
interpretativi, ledendo la certezza del diritto. In particolare, ci risulta che
taluni gruppi che hanno rimpatriato l’utile abbiano subìto una tassazione
complessiva, tra imposta pagata nello Stato di black list e tassazione
integrale dei dividendi, superiore al 50/55 per cento dell’importo degli utili
(cfr. il caso degli utili rimpatriati dalla Malesia, già tassati, in loco, al 28 per
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cento); per questo motivo, altri gruppi si sono visti costretti, loro malgrado,
a mantenere nel circuito estero l’utile prodotto nello Stato di black list.
2.2.
Una seconda rilevante criticità, anch’essa esistente da tempo, attiene
all’applicazione dell’esimente dell’art. 167, comma 5, lettera b), del TUIR, la
quale stabilisce la disapplicazione del regime di tassazione per trasparenza
ove dalla partecipazione nella società controllata non consegua l’effetto di
localizzare i redditi in Stati o territori di black list. Il problema investe, in
particolare, le holding collocate in tali Stati o territori – ipotesi, questa,
frequente per motivi vari di organizzazione del business – che ricevono
dividendi da società operative in Paesi a tassazione ordinaria.
Ad avviso dell’Agenzia delle entrate, in tali ipotesi la società controllante
non può far valere l’applicabilità dell’esimente di cui alla citata lettera b),
dimostrando che l’utile della holding è stato assoggettato ad imposizione
ordinaria presso le sottostanti controllate operative localizzate in Paesi a
fiscalità ordinaria. Secondo l’Agenzia, infatti, gli utili di partecipazione delle
holding, generati dall’attività delle proprie partecipate, sarebbero comunque
da considerare “prodotti nel paese di black list” in quanto originati da un
investimento del capitale della holding ivi allocato e non tassati nel Paese di
black list. Questa posizione è stata adottata dall’Agenzia delle entrate nella
risoluzione n. 18/E del 2003 e ribadita anche in altre successive pronunce.
Tale assunto interpretativo non appare condivisibile sotto vari punti di vista.
In primo luogo, può osservarsi che la tesi dell’Agenzia muove da
considerazioni più formalistiche che sostanziali, senza dare alcun rilievo alla
circostanza che, nella fattispecie, l’utile del gruppo deriva di fatto dalle
società operative poste alla base della catena partecipativa le quali
assolvono un’imposizione ordinaria. L’esimente di cui alla lettera b) dell’art.
167 si basa sugli effetti della localizzazione del reddito in un Paese a bassa
fiscalità e la circostanza che in questi casi il reddito è localizzato nella sua
interezza in uno Stato a fiscalità ordinaria non può non assumere peso
decisivo.
Inoltre, questa posizione interpretativa conduce a trattamenti fiscali
differenti per fattispecie del tutto analoghe sotto il profilo economico.
L’Agenzia delle entrate ha riconosciuto, ad esempio, che l’esimente della
lettera b) può essere invocata nell’ipotesi in cui la holding localizzata nel
paradiso fiscale si avvalga, anziché di una controllata, di una stabile
organizzazione: in questo caso, in particolare, il soggetto controllante può
ottenere la disapplicazione del regime CFC invocando la disposizione di cui
al comma 3 dell’art. 5 del D.M. n. 429 del 2001, secondo cui la predetta
esimente ricorre, tra l’altro, quando “i redditi conseguiti da tali soggetti sono
prodotti in misura non inferiore al 75 per cento in altri Stati o territori
diversi da quelli di cui all'articolo 127-bis, comma 4, [del TUIR] ed ivi
sottoposti integralmente a tassazione ordinaria” e ciò in quanto il reddito è
considerato in tal caso come direttamente prodotto, attraverso la sua
diramazione amministrativa, dalla holding al di fuori del Paese privilegiato1.
1
È quanto indirettamente si desume dalla risoluzione n. 387 del 2002. Cfr. anche ris. n. 275
del 2002.
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L’Agenzia delle entrate è andata anche oltre: l’applicazione dell’esimente
della lettera b) è stata riconosciuta pure nel caso, ben più problematico, in
cui il paese di white list non sia quello, sottostante alla holding, in cui l’utile
risulti generato per effetto di un’effettiva attività economica, bensì quello collocato in posizione intermedia tra la controllata nel paradiso fiscale e il
socio residente - attraverso il quale è transitato il dividendo che risaliva la
catena partecipativa2.
Infine, merita considerare che l’assunto su cui si basa l’interpretazione
dell’Agenzia, secondo cui l’utile che la holding trae dalla propria controllata
deve considerarsi “prodotto” nel paradiso fiscale in quanto derivante dal
capitale detenuto dalla holding stessa e non dall’attività della società
operativa sottostante nel paese di white list, è tutt’altro che condiviso sul
piano comunitario 3. A livello internazionale, infatti, viene operata una
chiara distinzione tra i portfolio dividends, derivanti da partecipazioni non
qualificate e i dividendi from major shareholding, relativi a partecipazioni
qualificate, in particolare se di controllo. I primi sono considerati passive
income perché traggono origine dal capitale detenuto dall’investitore nel
paese di residenza mentre i secondi sono esclusi dai passive income, in
quanto hanno la propria fonte produttiva nell’attività della società
sottostante e dunque nel paese in cui essa è localizzata4.
Si ritiene, in definitiva, necessario rivedere la soluzione interpretativa,
anche tenendo conto, peraltro, che quanto indicato nel citato comma 3
dell’art. 5 del D.M. n. 429 è meramente esemplificativo di una delle possibili
ipotesi che consentono il riconoscimento dell’esimente della lettera b), come
la stessa Agenzia ha in alcuni casi ammesso.
In effetti, occorre aggiungere che nella risoluzione n. 191/E del 27 luglio
2007, l’Agenzia ha adottato una significativa apertura, affermando che
“ancorché, …, i redditi della CFC, formati da utili di partecipazione
provenienti da una partecipata residente in uno Stato non incluso nella
black list, devono considerarsi, in linea di principio, prodotti nel Paese di
residenza della CFC, non è preclusa la possibilità di apprezzare in sede di
interpello le peculiarità della posizione della società controllante – così come
nella fattispecie di cui alla risoluzione n. 63/E del 2007 – in coerenza con la
ratio antielusiva della disciplina in esame, cui dovrà necessariamente
correlarsi il provvedimento di disapplicazione di cui all’articolo 89, comma 3,
del TUIR”.
Si tratta, tuttavia, di un’apertura non del tutto univoca nella sua
impostazione e nelle sue conseguenze e che meriterebbe, pertanto, un
ulteriore e definitivo intervento chiarificatore 5.
2
Cfr.: risoluzione n. 63 del 28 marzo 2007.
Vedi, ad esempio, il documento della Commissione europea CCCTB/WP/057 del 26 luglio
2007.
4
Il tema sarà ripreso più oltre, in sede di esame delle modifiche introdotte all’art. 167
dall’art. 13 del decreto-legge n. 78 del 2009 (cfr: par. 3.4).
5
Merita al riguardo osservare che, nonostante l’anzidetta apertura, la risoluzione perviene ad
una conclusione negativa nel caso posto alla sua attenzione. In particolare, l’Agenzia ha
stabilito che nella fattispecie in esame gli utili della holding residente nella black list,
alimentati dai dividendi della società operativa operante nello Stato wite list fossero
3
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2.3.
Un’altra tematica rilevante attiene alla disposizione dell’art. 168 del
TUIR che estende il regime CFC, con alcuni adattamenti, anche alle società
residenti in Italia che detengono, direttamente o indirettamente, una
partecipazione non inferiore al 20 per cento agli utili di una società collocata
in uno Stato di black list (o del 10 per cento se tale società è quotata in
borsa).
La disposizione dà luogo a problemi applicativi tutt’altro che risolti e,
comunque, andrebbe abrogata perché chiaramente incompatibile con il
diritto comunitario, come emerge dalle pronunce della Commissione UE e
dalle sentenze della Corte di Giustizia. In particolare, desta perplessità non
solo il fatto che, in base a questo regime, il reddito della società partecipata
venga individuato su basi forfettarie e tassato anche quando tale società
non produce alcun reale utile, ma soprattutto che venga applicata una
tassazione per trasparenza nei confronti di una società partecipata nella
quale la società residente in Italia non ha il controllo e neanche un’influenza
notevole: le previste soglie di partecipazioni agli utili prescindono, infatti,
dall’esistenza di corrispondenti diritti di voto, di partecipazione al capitale e
di poteri amministrativi in genere6.
Si tratta, dunque, di un regime che contrasta non solo e non tanto con la
libertà di stabilimento, ma piuttosto con la libertà di circolazione del capitale
che, come noto, trova applicazione anche nei riguardi dei Paesi extra UE.
In effetti, l’unica ipotesi in cui le legislazioni nazionali possono derogare a
questo principio si rinviene nel caso in cui non sia possibile ottenere dai
Paesi terzi le informazioni relative ai controlli dei movimenti di capitale. Ma
questa è una questione di fatto la cui valutazione deve essere rimessa ai
giudici nazionali e che, comunque, non è possibile eccepire quando tra lo
Stato membro e il Paese terzo sia stata conclusa una convenzione fiscale
che preveda un effettivo scambio di informazioni (ipotesi, questa, che
sussiste con alcuni Paesi di black list).
comunque da sottoporre al regime di CFC presso la società holding e, dunque, a tassazione
nella misura del 5% per cento, secondo le regole della legislazione nazionale e che,
successivamente, in sede di rimpatrio, tali utili, per la parte eccedente, dovessero scontare
l’imposizione in misura integrale presso la controllante italiana, non essendo stato presentato
interpello disapplicativo. Inoltre, anche nel contesto dell’anzidetta apertura interpretativa,
l’Agenzia continua a ribadire che i dividendi provenienti dalla società operativa in Paesi di
wite list devono considerarsi in linea generale prodotti nello Stato di black list della holding;
affermazione questa che mal si concilia, come visto, con la soluzione interpretativa di cui si
discute. Infine, merita anche evidenziare che questa apertura non sembra neanche molto
coerente con altre pronunce coeve o successive emesse dall’Agenzia su tematiche parallele,
per cui vi è il timore che essa rappresenti un’affermazione isolata e non sufficientemente
contestualizzata nell’impianto del sistema.
6
Cfr.: relazione illustrativa al D.M. n. 268 del 2006.
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3.
Nuovi problemi emergenti dalle modifiche introdotte dall’art.
13 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78
3.1.
Le modifiche introdotte dall’art. 13 del decreto legge n. 78 del 2009
attengono, come è noto, sia al regime delle società controllate dislocate in
Paesi di black list, per le quali sono state introdotte alcune limitazioni
all’applicabilità dell’esimente dell’art. 167, comma 5, lettera a) - attinente,
ripetiamo, all’esercizio in tali Stati di attività industriali o commerciali - sia a
quello delle società residenti in Stati di white list, per le quali è stato
introdotto ex novo un autonomo regime CFC ove la tassazione subìta in tali
Stati risulti inferiore al 50 per cento di quella applicabile in Italia e il reddito
della società partecipata sia composto prevalentemente da passive income.
3.2.
Per quanto riguarda le società controllate localizzate in Stati di black
list l’esame va ora incentrato sul concetto di “svolgimento di un’effettiva
attività nel mercato dello Stato o territorio di insediamento”.
Al riguardo, si ribadisce quanto già affermato nel precedente documento
interassociativo e cioè che il riferimento introdotto dalla norma al “mercato”
ha, a nostro avviso, finalità meramente rafforzative dell’esimente della
lettera a). La norma, in altri termini, richiede che la controllata sia integrata
economicamente nel territorio di insediamento e disponga di funzioni,
competenze, struttura organizzativa e dotazione patrimoniale idonee a
svolgere in autonomia la sua attività. La ratio dell’intervento è, infatti, già
rinvenibile nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 427 del 2008.
Una diversa interpretazione, che richiedesse come condizione indispensabile
che l’impresa si approvvigioni di materie prime ovvero ceda i propri beni e
servizi nel mercato locale, finirebbe per attrarre al regime CFC anche gli
insediamenti produttivi più radicati nel territorio, dotati di stabilimenti e
risorse umane e materiali. Si pensi, emblematicamente, al caso di una
società che installi nello Stato estero uno stabilimento adeguatamente
attrezzato di tutti i fattori produttivi per produrre beni destinati al mercato
mondiale. Risulterebbe fortemente depotenziata, in questo modo, la portata
dell’esimente della lettera a) nella sua specifica funzione di circoscrivere il
regime di CFC solo alle delocalizzazioni fittizie di utili in realtà prodotti in
Italia. La CFC finirebbe, in altri termini, per diventare strumento di
contrasto alle delocalizzazioni reali di redditi genuinamente prodotti
all’estero, con effetti irrazionali sia sotto il profilo economico che giuridico.
3.3.
Analoghi problemi si pongono per la nuova previsione del comma 5bis, la quale non consente al contribuente di far ricorso all’esimente della
lettera a) laddove l’utile della società controllata sia formato
prevalentemente da passive income e dai proventi dei servizi infragruppo.
Al di là delle varie questioni, anche procedimentali, che questa disposizione
solleva (e per le quali si rinvia al precedente documento interassociativo),
ad essa non può assegnarsi il valore di una presunzione assoluta, pena la
creazione di un regime ancora una volta irrazionale e non rispondente alle
sue finalità di fondo.
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Al riguardo, è bene anzitutto sottolineare che l’attività di impresa costituisce
un continuum, nel quale il reddito prodotto non è riconducibile sic et
simpliciter alla somma delle sue componenti, nel senso che la natura
complessiva di tale reddito va valutata unitariamente e non presa
acriticamente esercizio per esercizio sulla base del mero confronto dei dati
numerici dei singoli componenti.
Più in generale, occorre sottolineare che ove fosse letta come una
presunzione assoluta, la norma sarebbe ben più invasiva di quella esistente
in Francia, dalla quale pure è stata mutuata; ne tradirebbe, anzi, la ratio di
fondo. Nel sistema francese, improntato al principio di territorialità,
l’effettiva attività industriale o commerciale si presume automaticamente
esistente in presenza di una struttura organizzativa reale e di un’attività di
produzione, trasformazione e vendita di beni o di prestazioni di servizi,
compresi quelli finanziari e assicurativi. La prevalenza di passive income in
determinati esercizi ha il solo effetto di rovesciare sul contribuente l’onere di
provare, in sede di eventuale controllo, che le motivazioni non fiscali
dell’insediamento estero sono comparativamente più rilevanti di quelle
fiscali (motive test).
Il comma 5-bis non dovrebbe, dunque, avere effetti preclusivi, in assoluto,
della possibilità di ottenere il riconoscimento dell’esimente della lettera a).
Né, comunque, dovrebbe essere preclusa – anche in coerenza con il dato
letterale della norma – la possibilità di invocare, ove ce ne sia bisogno,
anche l’esimente della lettera b) alla quale deve essere restituito – come
nella CFC francese da cui è stata testualmente ‘tradotta’ –
il suo originario significato di motive test generale. Come già emergeva
dalla relazione di accompagnamento alla legge n. 342 del 2000, la portata
dell’esimente va oltre la prova dell’esistenza di un livello congruo di
tassazione che la controllata potrebbe aver subito conducendo la propria
attività, al di fuori del paradiso fiscale, attraverso una stabile organizzazione
da cui promana almeno il 75 per cento del suo reddito, ipotesi che il D.M. n.
429 del 2001 propone – ripetiamo - a titolo meramente esemplificativo.
3.4.
A parte ciò, si evidenzia che nella disposizione in esame viene fatto
riferimento in modo generico a componenti per le quali è tutt’altro che
chiara la natura di passive income e ciò, a maggior ragione, induce a non
assegnare alla norma in commento valore di presunzione assoluta. Una di
queste attiene ai redditi di partecipazione. In campo internazionale7, come
già osservato (v. precedente punto 2.2), i redditi di partecipazione non
sempre sono qualificati come passive income. Viene operata, al riguardo,
una distinzione di fondo fra income from portfolio shareholding e income
from major shareholding (cioè tra portafoglio di trading e partecipazioni)
7
CCCTB/WP057 del26 luglio 2007 e il relativo documento annotato con i commenti degli
Stati membri CCCTB057 del 20 novembre 2007. Cfr anche il documento UNICE (ora
Business Europe) FAG Task Force on CCCTB Room Document for the Joint Meeting on
december 12,2006, nel quale, sempre in relazione al progetto di base imponibile comune
consolidata fra gruppi di imprese europee, la fonte dei dividendi era individuata “nel paese
di residenza in cui l’impresa è condotta".
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che assume rilievo sotto diversi profili: in particolare, ai fini della loro
inclusione o meno fra le componenti passive di reddito e per stabilire in
quale ordinamento si collochi la loro fonte produttiva, se in quello di
residenza dell’investitore che possiede il capitale o in quello di residenza
della partecipata che produce, con la sua attività, l’utile che poi viene
distribuito. Sono questi, del resto, i principi propri della stessa direttiva
435/90/CEE, c.d. madre-figlia, improntata alla territorialità del prelievo sugli
utili di impresa e all’esenzione (o all’imponibilità con credito indiretto) dei
dividendi alimentati con tali utili per le partecipazioni superiori a qualificate
soglie di affiliazione. Ed è questa, inoltre, l’impostazione fatta propria dalla
Commissione europea nell’ambito del progetto di determinazione di una
base imponibile comune consolidata per le società dell’Unione, con il
consenso di tutti gli esperti degli Stati membri, nonché dell’Associazione
delle grandi imprese europee (Unice, ora Business Europe).
Secondo la Commissione, che sul punto ha registrato l’accordo degli esperti
dei paesi membri, i dividendi e i capital gain non possono essere considerati
elementi autonomi di reddito per il socio – e, in particolare, passive income
generati dalla mera detenzione del capitale – quando derivano da
partecipazioni qualificate, perché, in tali ipotesi, l’evento generatore della
ricchezza e il luogo di produzione devono essere individuati,
rispettivamente, nell’attività della partecipata e nel paese in cui essa si
svolge. Tale impostazione consentirebbe di escludere queste componenti dal
computo di cui al comma 5-bis e, nel contempo, anche di superare il
problema interpretativo creato – come detto - dalla risoluzione n. 18 del
2003, che si basava sul presupposto che i dividendi (anche quelli relativi a
partecipazioni qualificate) fossero da considerare redditi ‘prodotti’ nel paese
di residenza della holding.
3.5.
Analoghe considerazioni vanno fatte con riguardo alle royalties
derivanti da beni immateriali. Se, infatti, rientrano in linea generale
nell’ambito applicativo della norma antielusiva le royalties relative ai beni
che il gruppo ha acquisito da terzi o che ha autogenerato in Italia, è
discutibile che questa disposizione possa applicarsi alle royalties dei beni
immateriali autonomamente ed effettivamente generati dai fattori produttivi
esistenti nella struttura situata nel Paese di black list.
3.6.
Considerazioni similari vanno fatte per ciò che riguarda i servizi
infragruppo. In generale, i redditi da prestazioni di servizi derivano, per loro
stessa natura, da una attività. Non essendo di natura “passiva” (salvo il
caso dei proventi per locazione, noleggio e simili di beni) non dovrebbero
neppure essere attratti in questa disciplina. In ogni caso, poi, dovrebbero
essere esclusi dal computo dei passive income (come avviene in alcuni paesi
che hanno adottato l’approccio transactional, tra cui la Spagna) i servizi
infragruppo estero su estero, qualora le operazioni non intercorrano con
soggetti residenti in Italia e non abbiano, dunque, comportato deduzioni dal
reddito assoggettato a tassazione in Italia.
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3.7.
Le considerazioni che precedono, per quanto riguarda sia i dividendi,
sia le royalties, sia i proventi dei servizi infragruppo, valgono ovviamente,
stante l’identità di formulazione e di finalità delle norme, anche con riguardo
al comma 8-bis, relativo alla nuova disciplina CFC delle società controllate
che risiedono in Stati di white list.
3.8.
Sempre in tema di passive income un problema peculiare si pone,
infine, per le banche e le assicurazioni che conseguono proventi finanziari
da titoli, crediti e altri strumenti finanziari gestiti nell’ambito della loro
attività caratteristica di intermediazione bancaria ed assicurativa. Proprio
perché conseguiti nell’ambito di tali attività imprenditoriali – caratterizzate
dal coordinamento di complessi fattori produttivi, da una alta professionalità
e dalla aleatorietà dei risultati – i proventi in esame non possono avere sic
et simpliciter la natura di passive income. Il problema è evidente, in
particolare, nella gestione specifica di capitali di terzi la cui oggettiva e
generalizzata riconducibilità nell’ambito dei commi 5, 5-bis e 8-bis dell’art.
167 del TUIR, confligge, se non ricollegata a specifici e qualificati indici di
abuso, non solo con la ratio legis del regime in commento, ma anche con le
libertà economiche riconosciute all’interno dell’Unione europea.
3.9.
Venendo all’esame della nuova disciplina CFC introdotta per le
partecipazioni in società dislocate in Paesi di white list, occorre incentrare
l’attenzione sulla prova liberatoria che il legislatore ha posto a carico del
contribuente per non vedersi applicata la tassazione per trasparenza in
presenza dei presupposti indicati dalla norma (tassazione effettiva inferiore
al 50 per cento di quella applicabile in Italia e prevalenza di passive
income); prova consistente nella dimostrazione che la società partecipata
non è una costruzione di puro artificio volta a conseguire un indebito
vantaggio fiscale.
Al riguardo non può che farsi riferimento – come già evidenziato nel
precedente documento interassociativo – al concetto di costruzione di puro
artificio elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e approfondito
dalla Commissione nella sua COM(785)2007.
All’indomani della sentenza Cadbury Schweppes, ne discussero a Londra i
maggiori Stati dell’Unione, Italia compresa. Ci fu concordia, in tale
occasione, nel ritenere – in coerenza con i principi affermati dalla Corte - i)
che il concetto di “wholly artificial arrangements” fosse da considerare
l’opposto di “genuine economic activity or activities”, ii) che l’esercizio di
un’attività economica effettiva fosse sufficiente ad escludere la presenza di
una costruzione di puro artificio e iii) che nel concetto dovessero essere
incluse anche le attività civili, comprese quelle di investment activity e di
gestione attiva di immobili e, in genere, tutte le attività tutelate dalla libertà
di stabilimento.
Del pari, secondo la Comunicazione della Commissione europea
COM(785)2007, l’espressione “costruzioni di puro artificio” è l’equivalente di
“pratiche abusive”, e può riguardare sia la qualità delle transazioni, sia la
natura dell’ente che, come tale, non costituisce uno schema di puro artificio
quando sia da considerare “stabilito” nel territorio secondo il significato che
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questo concetto (real establishment) assume ai fini della libertà di
stabilimento.
In coerenza con tale orientamento, le Istruzioni diramate il 16 gennaio 2007
dall’Amministrazione finanziaria francese dopo le modifiche alla disciplina
CFC, seguite alla sentenza Cadbury Schweppes, hanno chiarito che non è
ravvisabile uno schema artificioso quando l’ente situato in uno Stato
membro sia in grado di svolgere ed effettivamente svolga un’attività
economica indipendente idonea a produrre reddito. Entro i confini
dell’Unione europea, l’Amministrazione francese richiede semplicemente “la
réalité de l’implantation et l’exercice effectif d’une activité économique”8.
Solo al di fuori dell’Unione, si richiede un quid pluris, ossia “l’exercice
d’activités industrielles et commerciales“, “operations formant un cycle
commerciale complet”9; l’esercizio, cioè, di attività d’impresa tali che, se
svolte all’estero direttamente dal soggetto residente, prefigurerebbero
l’esistenza di una stabile organizzazione.10
In definitiva è ravvisabile un’effettiva attività economica quando, nel paese
di localizzazione, la controllata crea valore economico e il capitale utilizzato
è adeguato a generare questo valore.
Il concetto di genuine economic activity è dunque più ampio di quello di
effettiva attività industriale o commerciale, che, ai sensi del comma 5
dell’art. 167, deve sussistere per escludere la tassazione per trasparenza
del reddito delle controllate situate nei paesi di black list.
Tornando alla nostra legislazione, è su tale base che occorre definire il
rapporto tra le due esimenti, rispettivamente previste dal comma 5, lettera
a) e dal comma 8-ter dell’art. 167. In tutti i casi in cui il contribuente può
dare prova dell’esistenza di un’effettiva attività industriale o commerciale è
sicuramente liberato anche dall’onere di dimostrare che la controllata e le
operazioni da essa condotte non costituiscono una costruzione di puro
artificio. La dimostrazione dell’inesistenza di una costruzione di puro artificio
rimane, tuttavia, possibile anche in mancanza dei più rigorosi requisiti
richiesti dalla lettera a) del comma 5. È sufficiente, in altri termini, che la
controllata localizzata in un Paese non compreso nella black list svolga
realmente un’attività economica indipendente con adeguati fattori produttivi
in loco (adeguati, cioè, al tipo di attività): non deve trattarsi, quindi,
necessariamente di un’attività industriale o commerciale, potendo trattarsi
anche di una mera attività di gestione di immobili, partecipazioni o altri
assets finanziari e immateriali. Se poi la società svolge un’attività d’impresa
fornendo servizi infragruppo, si dovrà valutare, altresì, che le transazioni
non siano artificiose e, per esse, uno dei criteri suggeriti dalla Commissione
è il rispetto del transfer pricing.
8
Bulletin Officiel des Impots 4H-1-07 n. 6 del 16 gennaio 2007 parr.182-185.
Ibidem parr. 186-194
10
Le istruzioni francesi utilizzano l’identica espressione per individuare l’esistenza di una
stabile organizzazione.
9
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3.10. Sotto altro profilo, occorre porre attenzione alla periodicità o meno
dell’interpello volto a dimostrare l’inesistenza di una costruzione di puro
artificio.
Il comma 8-bis, come detto, introduce una presunzione legale relativa di
sussistenza di costruzioni di puro artificio che, in presenza dei presupposti
indicati dalla norma, trasferisce sul contribuente l’onere di fornire la prova
liberatoria in sede di interpello preventivo.
Al riguardo – ferme restando, in linea di principio, le considerazioni critiche
formulate nel precedente documento e per l’eventualità che non si voglia ad
esse aderire, riformulando, se del caso, anche la norma introdotta – si
ritiene che:
a)
per ottenere il riconoscimento dell’inesistenza di una costruzione di
puro artificio, il contribuente possa presentare, in via preventiva, l’interpello
ai sensi del comma 8-ter, indipendentemente dall’avverarsi dei requisiti di
applicabilità del comma 8-bis, che, quindi, non richiedono di essere
monitorati;
b)
qualora non sia mutata la situazione di fatto che ha consentito di
escludere l’esistenza di artifici, l’eventuale risposta positiva non possa che
conservare validità anche per gli esercizi successivi.
Qualora il contribuente fosse, viceversa, tenuto a monitorare in ogni
esercizio i requisiti del comma 8-bis, calcolando analiticamente il tax rate
estero e domestico e a ripetere l’istanza in ogni esercizio, verrebbero in
evidenza rilevanti profili di incompatibilità comunitaria: i costi di
adempimento risulterebbero, infatti, del tutto sproporzionati rispetto
all’obiettivo e senza precedenti in alcun altro ordinamento europeo.
3.11. Infine, occorre ribadire un’ulteriore grave criticità della procedura di
interpello obbligatorio. Non sono, infatti, chiari gli effetti che si
produrrebbero in caso
di mancata presentazione dell’istanza di
disapplicazione della normativa CFC. I vincoli comunitari escludono che la
valutazione dell’esistenza di pratiche abusive possa essere sottratta alla
valutazione del giudice; pertanto, non può essere preclusa al contribuente la
possibilità di fornire la prova per la disapplicazione della disciplina di CFC,
anche in sede di ricorso giurisdizionale.
In sostanza, si ritiene che il mancato assolvimento dell’onere dell’interpello
preventivo avrebbe il solo effetto di inibire la possibilità di ottenere, in via
amministrativa, il riconoscimento dell’inesistenza di una costruzione di puro
artificio che, giusto il dato letterale della norma, richiede sempre il vaglio
preventivo dell’Agenzia cui sono conferite le specifiche competenze.
Pertanto, il contribuente che non presenti l’interpello resterebbe
interamente gravato dall’onere di dimostrare, in giudizio, che l’insediamento
non è una costruzione artificiosa, senza la possibilità di eccepire il vizio di
motivazione all’accertamento dell’Ufficio che si fondi sui presupposti indicati
dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter, del TUIR: è questa, ripetiamo, l’unica
preclusione che è possibile ravvisare ove si voglia mantenere la norma
aderente ai principi comunitari. Il contribuente che, invece, avendo ricevuto
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risposta negativa alla sua istanza di interpello, non si sia ad essa adeguato,
può anche eccepire il vizio di motivazione, ove né tale risposta né l’atto di
accertamento siano soddisfacenti sotto questo profilo.
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