Principio di non discriminazione in base all`età: Mangold e beyond

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Principio di non discriminazione in base all`età: Mangold e beyond
Principio di non discriminazione in base all’età: Mangold e beyond
di C. Carta - 21 luglio 2016
La CGUE stabilisce che il principio generale di non discriminazione in ragione dell’età, espresso dalla dir. 2000/78/CE con riferimento alla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, osta ad una normativa nazionale che impedisca ad un lavoratore subordinato di godere dell’indennità di licenziamento a causa del regime previdenziale
adottato.
Nel caso di specie, il lavoratore aveva optato, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della legge danese relativa ai rapporti giuridici tra i datori di lavoro e i lavoratori subordinati, per la corresponsione della pensione di vecchiaia da parte del datore al momento della cessazione del
rapporto di lavoro. In base alla norma, a tale scelta, se compiuta (come nel caso di specie)
prima del cinquantesimo anno di età, conseguiva l’esclusione del lavoratore dal beneficio
dell’indennità altrimenti dovuta in caso di licenziamento. Convenuto in giudizio dal sindacato del lavoratore in ragione della supposta contrarietà della norma alla direttiva e al principio
generale di non discriminazione, il datore di lavoro replicava che un’interpretazione della
fattispecie volta a disapplicare detta esclusione sarebbe stata lesiva del legittimo affidamento
e della certezza del diritto, in quanto palesemente contra legem. Il giudice del rinvio domandava se il principio di non discriminazione in ragione dell’età potesse essere applicato direttamente nei rapporti fra i privati e se il giudice nazionale fosse competente in materia di bilanciamento tra tale principio comunitario e quello generale di certezza del diritto.
La Corte di Giustizia, confermando le precedenti sentenze Mangold e Kücükdeveci (rispettivamente C. giust. grande sez., 22 novembre 2005, n. 144/04 e C. giust., grande sez., 19
gennaio 2010, n. 555/07), ritiene che il principio di non discriminazione in ragione dell’età
costituisca un principio generale dell’Unione, comune alle tradizioni degli Stati membri,
sancito all’art. 21 della Carta di Nizza e concretizzato nella direttiva in questione. Di conseguenza, il giudice, in quanto Autorità nazionale garante del rispetto del diritto dell’Unione,
sarebbe tenuto, in prima battuta, all’interpretazione conforme del diritto nazionale a quello
dell’Unione. Ove ciò non si renda possibile per assoluta incompatibilità delle discipline, il
giudice nazionale dovrebbe disapplicare la disposizione del diritto nazionale, non potendo
giustificarne la vigenza né ricorrendo all’esistenza di un orientamento giurisprudenziale (nazionale) consolidato (come già per la sentenza C. giust., 13 luglio 2000, n.
456/98, Centrosteel) né al principio del legittimo affidamento (come da sentenze Defrenne e Barber, rispettivamente C. giust., 8 aprile 1976, n. 43/75 e C. giust., 17 maggio 1990, n. 262/88). Secondo la Corte, neanche l’esistenza di un diritto risarcitorio del privato nei confronti dello Stato per mancata attuazione del diritto comunitario potrebbe consentire l’applicazione del diritto nazionale (in conformità alla nota sentenza Francovich e a.,
C. giust., 19 novembre 1991, nn. 6/90 e C9/90), in quanto ciò contrasterebbe con l’esigenza
di garantire l’effettività del diritto dell’Unione.
La pronuncia attribuisce al divieto di disparità di trattamento in base all’età, espresso nella
direttiva agli artt. n. 2, paragrafo 1, lettera a) e n. 6, paragrafo 1, lettere a) e b), un’ampiezza
equivalente al principio di non discriminazione. Quest’ultimo è da tempo considerato un
principio generale dell’Unione: sin dalla sentenza Mangold, la giurisprudenza lo riteneva tale per la sua derivazione dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Successivamente,
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e sicuramente dopo l’attribuzione alla carta Carta di Nizza dello stesso valore giuridico dei
Trattati, il divieto di discriminazione in base all’età ha trovato collocazione fra i principi di
diritto positivo dell’Unione. La novità comportata dalla sentenza in esame non riguarda tanto
tale principio, quanto il fatto che il ragionamento adoperato dalla Corte si basa sulla sovrapposizione fra norme della direttiva e principio generale; sovrapposizione dalla quale discenderebbe l’applicazione diretta del divieto contenuto nella direttiva anche nei rapporti fra i
privati. Ciò si renderebbe necessario nonostante la mancata attuazione della direttiva nel diritto interno, ossia nonostante l’assenza del requisito previsto dal diritto dell’Unione precisamente al fine di dotare la disciplina comunitaria di effetti vincolanti non solo nei rapporti
fra il privato e lo Stato, ma anche fra i cittadini.
Cinzia Carta, dottoranda di ricerca nell’Università di Bologna
Visualizza il documento: C. giust., 19 aprile 2016, C-441/2014
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