1 Diritto europeo e comparato dei contratti di lavoro Appunti delle

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1 Diritto europeo e comparato dei contratti di lavoro Appunti delle
Diritto europeo e comparato dei contratti di lavoro
Appunti delle lezioni a.a. 2014/2015
(in blu, link ai documenti citati)
di Marco Ferraresi
SOMMARIO: A) Introduzione. – B) Basi giuridiche di intervento. – B1)
Considerazioni generali. – B2) Libera circolazione e contratti non standard. –
B3) Parità retributiva uomo-donna e contratti non standard. – B4) Politiche
occupazionali europee e contratti non standard. – C) Il lavoro a tempo
determinato. – D) Il lavoro a tempo parziale. – E) Il lavoro tramite agenzia
interinale. – F) Bibliografia.
A) Introduzione.
Affrontiamo qui il “secondo modulo” di diritto europeo e comparato del lavoro.
Il primo è stato dedicato al diritto sindacale, dunque agli aspetti collettivi di diritto europeo e
comparato del lavoro.
Il secondo è dedicato al diritto europeo e comparato del rapporto individuale di lavoro.
In particolare, trattiamo del tema della “flessibilità in entrata” (a cura dott. Ferraresi) e “in
uscita” (a cura prof. Bollani).
Dunque, trattiamo del diritto europeo e comparato dei contratti di lavoro (Ferraresi) e della
disciplina dei licenziamenti (Bollani).
Quanto al diritto europeo e comparato dei contratti di lavoro, il focus è soprattutto sulle materie
oggetto di direttive comunitarie: il contratto a tempo determinato, il contratto a tempo parziale,
il lavoro tramite agenzia di lavoro interinale (vi è poi il telelavoro, oggetto di disciplina di un
accordo-quadro europeo).
Considereremo la disciplina UE (trattati e diritto derivato) e l’interpretazione della Corte UE
(CGUE), dunque il contenzioso che concerne Italia e vari Paesi europei. Questo ci consente di
esaminare alcune discipline nazionali di attuazione delle direttive e di effettuare una
comparazione tra disciplina italiana e discipline estere.
Ricordiamo, comunque, che a livello UE il diritto del rapporto individuale concerne molti altri
principi e istituti, come:
a) la libera circolazione lavoratori;
b) la non discriminazione e la parità di trattamento;
c) la strategia europea per l’occupazione.
Questi tre, come vedremo appresso, sono rilevanti anche per il diritto europeo e comparato dei
contratti di lavoro.
Ma vi sarebbero altri temi, come:
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d) il finanziamento delle politiche sociali (fondo sociale europeo, ecc.);
e) la tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro;
f) la sicurezza sociale (previdenza);
g) la formazione;
h) il riconoscimento di titoli, diplomi e qualifiche;
i) la prova del contratto;
l) le garanzie in caso di trasferimento d’azienda;
m) le garanzie in caso di licenziamenti collettivi;
n) l’orario lavoro, i riposi, le pause, le ferie;
o) i congedi parentali;
p) la tutela dei crediti del lavoratore in caso di insolvenza del datore di lavoro;
q) il distacco transnazionale nell’ambito di una prestazione di servizi;
r) i diritti di informazione e consultazione dei sindacati e dei lavoratori.
Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 153.5 del TFUE, gli ambiti direttamente esclusi dalle
competenze dell’Unione sono le sole materie della retribuzione, della contrattazione collettiva,
dello sciopero e della serrata. Come visto nel primo modulo del corso, vi sono tuttavia
incursioni della giurisprudenza comunitaria anche su questi temi: si pensi ai giudizi di
bilanciamento tra libertà economiche fondamentali e diritto di sciopero; con riguardo alla
retribuzione, come si vedrà, sia attraverso alcune disposizioni del Trattato sia attraverso
pronunce della Corte comunitaria in tema di non discriminazione, specialmente in relazione a
contratti non-standard (ma anche in pronunce concernenti la disciplina dell’orario di lavoro).
B) Basi giuridiche di intervento.
B1) Considerazioni generali.
Ai fini della comprensione del contenuto dei prodotti normativi, delle modalità della loro
interpretazione, delle modalità di ricezione interna agli Stati membri, ora ci dobbiamo chiedere:
a) perché un intervento dell’UE nell’ambito del diritto dei contratti di lavoro (assai più ampio
che per il diritto sindacale)?
b) su quali basi giuridiche del trattato tale intervento si fonda?
c) con quali strumenti normativi e quali tecniche?
A tal proposito, dobbiamo ricordare che la “prima” CEE è soprattutto, appunto, “economica”:
obiettivo è la costruzione di un mercato comune o unico, l’eliminazione dunque delle barriere
doganali e di altro tipo tra i mercati nazionali.
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Alcuni diritti sociali, come vedremo, sono da subito contemplati nei trattati istitutivi, ma
primariamente nell’ottica delle finalità economiche. Diritti sociali, pertanto, nell’ottica
dell’espansione, del rafforzamento, dell’efficienza di tale mercato.
La parte propriamente sociale si sviluppa a partire da qui e in tale prospettiva. Secondo i più,
anche oggi (dopo i casi Viking, Laval, ecc.), l’Europa sociale resta in ogni caso ancillare a
quella economica. Sarebbe questo l’ostacolo ad una vera integrazione europea che comprenda le
persone, la famiglia, le associazioni, ecc.
Anche il tema del diritto europeo dei contratti di lavoro è per molto tempo visto in tale
prospettiva economica: anzitutto, le differenze normative del lavoro tra gli Stati possono, specie
in tema di contratti non-standard, falsare la concorrenza mediante l’abuso dei c.d. contratti
flessibili, meno costosi del contratto standard a tempo pieno e indeterminato, potendo creare
fenomeni di dumping sociale.
In seguito, si percepisce il pericolo che la discontinuità di lavoro derivante da tale abuso non
giovi comunque allo sviluppo della produzione delle aziende e del sistema economico in genere.
Quindi, si comprende come ciò non giovi nemmeno all’occupazione (e al “miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro”), come bene in sé meritevole di protezione e promozione, già
contemplato dai trattati istitutivi e sempre più valorizzato, prima nell’azione degli organi
comunitari, poi, via via, nelle modifiche dei trattati, in una prospettiva appunto più direttamente
e marcatamente sociale (si v., oggi, l’art. 151.1 TFUE).
Per sé, non mancavano, sin dall’inizio, basi giuridiche “dirette” per intervenire a livello
comunitario sulla disciplina dei contratti di lavoro, anche se inizialmente tali basi erano più
deboli di oggi. La Comunità, circa le “condizioni di lavoro”, poteva promuovere ai sensi
dell’originario Trattato di Roma la “stretta collaborazione” tra Stati (art. 118). Poteva però
anche favorire con direttive il ravvicinamento tra legislazioni, ma solo su materie incidenti
direttamente sul funzionamento del mercato europeo (art. 100). Quando si possa affermare che
una materia incida “direttamente”, viene via via interpretato estensivamente (il che rese
possibile l’adozione di direttive importanti quali quelle in tema di tutela dei lavoratori
nell’ambito di trasferimenti di azienda e di licenziamenti collettivi).
Con Maastricht (1992) sono introdotte due importanti novità: in tema di “condizioni di lavoro”
(materia ampia idonea a ricomprendere la disciplina dei contratti di lavoro), si passa al voto a
maggioranza in Consiglio (non è più richiesta dunque l’unanimità, che sanciva di fatto un
“diritto di veto” da parte di ciascuno Stato membro). Diviene inoltre materia di competenza
“concorrente” tra Comunità e Stati, sulla base di un principio di sussidiarietà (quindi, alla
stregua di parametri di necessarietà e proporzionalità). L’art. 153 prevede oggi che in tema di
condizioni di lavoro “l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri” (§ 1), potendo
adottare, “mediante direttive” (dunque con strumenti normativi che lasciano agli Stati margini di
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discrezionalità attuativa) “le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto
delle condizioni normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro” (§ 2 b).
C’era ovviamente una certa interdipendenza tra originarie basi giuridiche “deboli” e volontà
politiche di contenimento dell’azione europea in questa materia (da parte soprattutto della Gran
Bretagna), sussistendo forti divergenze e diversità di tradizioni tra i singoli stati membri. Per
questo, è sempre stato difficile raggiungere un compromesso politico sull’adozione di direttive
sui contratti non-standard, rimaste a livello di progetti. Naufragarono pertanto i primi progetti di
direttive degli anni ’70 e ’80: progetti peraltro forse un po’ troppo ambiziosi (si pensi che, ad
es., in tema di contratto a tempo determinato comparivano disposizioni sulla delicata materia del
recesso; in tema di part-time, disposizioni sulla materia previdenziale, altrettanto delicata).
I primi interventi comunitari sul diritto dei contratti di lavoro passano perciò dall’opera di
interpretazione della CGCE sui principi fondamentali del Trattato, quelli cioè in cui la Comunità
aveva ed ha competenza “forte”: la libera circolazione in ambito comunitario (con competenza
comunitaria esclusiva) e la parità uomo-donna in materia retributiva (prescritta direttamente dal
trattato e con competenza della Comunità quanto alle misure da adottare anche nei confronti
degli Stati per renderla effettiva). Certo, anche qui inizialmente la prospettiva è puramente
economica: lo sviluppo equilibrato del mercato richiede sia la possibilità per le persone e le cose
di muoversi al suo interno, sia evitare fenomeni di dumping sociale alterando il costo del lavoro
e dunque la concorrenza.
B2) Libera circolazione e contratti non standard.
Quanto al principio di libera circolazione, esso riguarda come noto le merci, i servizi, i capitali e
i lavoratori (oggi, cfr. art. 26 TFUE).
Più in particolare, gli artt. 45 ss. TFUE concernono la libera circolazione dei lavoratori, da
intendersi secondo l’interpretazione unanime quali lavoratori subordinati. Per i lavoratori
autonomi (come per le imprese, le persone giuridiche e i professionisti), i principi di riferimento
sono infatti la libertà stabilimento e la libera prestazione dei servizi (cfr. artt. 49 ss. TFUE).
La libera circolazione lavoratori comprende la non-discriminazione sulla base della nazionalità
quanto ad accesso all’impiego e alle condizioni normative di esso. Comprende inoltre i diritti di
ingresso, soggiorno, mantenimento della residenza anche successivamente all’estinzione
dell’impiego. Il trattato affida la competenza normativa di garanzia in materia al Parlamento e al
Consiglio. Il principio di libera circolazione è stato via via valorizzato dal diritto derivato. Oggi,
per la sua disciplina, cfr. dir. 2004/38 e reg. 2011/492. Dalla Corte è subito considerato,
appunto, un principio fondamentale e immediatamente precettivo, cioè direttamente applicabile
negli ordinamenti interni, e soggetto soltanto a strette eccezioni. Il diritto derivato ha eliminato
gradualmente i vincoli amministrativi alla libera circolazione, nonché le regole di precedenza
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per i lavoratori interni in caso di occasioni di lavoro (salvo per quanto riguarda la p.a., alla quale
di norma l’accesso resta riservato ai cittadini dello stato membro).
Ma chi è più precisamente “lavoratore subordinato”, al fine di beneficiare dei diritti derivanti
dal principio di libera circolazione? La Corte ha sempre affermato che sul punto non può esservi
piena discrezionalità degli Stati sulla definizione, qualora attraverso l’esercizio di tale
discrezionalità si pervenga all’effetto di privare i lavoratori di un diritto fondamentale garantito
dal trattato. La nozione accolta dalla Corte è ampia, finalizzata al godimento di un diritto
fondamentale. La Corte pone tre requisiti: 1) il carattere “reale ed effettivo” della prestazione
(con esclusione di prestazioni del tutto “marginali e accessorie”); 2) il fatto che si tratti di
prestazione retribuita (anche ciò intenso in senso ampio, tale da ricomprendere per es. il
compenso del tirocinante); 3) il fatto che sia svolta sotto la direzione altrui (emerge comunque
un concetto di eterodirezione assai ampio, tale da comprendere in sostanza, utilizzando la nostra
terminologia interna, anche prestazioni semplicemente “personali, coordinate e continuative”).
In alcune fattispecie, la Corte ha precisato la nozione di lavoratore in relazione a rapporti di
lavoro non-standard, garantendo pertanto a tali lavoratori i benefici derivanti dal principio di
libera circolazione. Ha fatto sì che tale nozione comprendesse ad es. part-time a orario molto
ridotto (CGUE C-53/81, Levin; C-357/89, Raulin, un caso di part-time di fatto derivante da un
contratto di lavoro a chiamata; C-197/86, Brown, un caso di contratto di apprendistato) o
contratti a termine molto brevi (CGCE C-413/01, Ninni-Orasche; v. anche C-109/04,
Kranemann, un caso di tirocinio per la professione forense).
La Corte precisa che sono vietate sia discriminazioni dirette sia anche indirette. Si ha
discriminazione indiretta quando un criterio selettivo è apparentemente neutro, ma ha l’effetto
di sfavorire maggiormente una determinata categorie di persone rispetto ad altre (in tal caso, i
lavoratori esteri), a meno che tale criterio non sia adottato per conseguire uno scopo legittimo ai
sensi del diritto UE e giustificato da motivi imperativi di interesse generale, e i mezzi adottati
per raggiungerlo siano necessari, idonei, proporzionati.
A tale proposito, sono da ricordare le pronunce sui “lettori di lingua straniera” in Italia: CGUE
C-33/88, Alluè, C-259/91; C-331/91; C-332/91, Alluè; C-212/99 e C-119/04, Commissione c.
Italia; C-276/07, Delay. Essi venivano assunti reiteratamente da Università italiane con
contratti a tempo determinato di durata annuale. La Corte ha ritenuto ingiustificate le
considerazioni del governo italiano, che rivendicava la necessità di assunzioni a termine in
ragione di una efficiente allocazione del personale docente in relazione alle lingue
effettivamente insegnate, ai corsi effettivamente attivati, al numero di studenti iscritti ai corsi. In
estrema sintesi, la Corte ha ritenuto: a) che per le lingue correntemente insegnate le esigenze
sono stabili e non temporanee; b) che in ogni caso, in ipotesi di eccedenza di personale docente,
è consentito alle Università procedere al licenziamento di docenti in sovrannumero. E’ stata
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pertanto ritenuta illegittima, in quanto indirettamente discriminatoria per i docenti non italiani
(essendo la gran parte dei lettori di provenienza estera), la legislazione italiana che, solo per
questa categoria di docenti, consentiva un lungo utilizzo seriale di contratti a tempo
determinato, in deroga alla allora vigente l. n. 230 del 1962 sul contratto a tempo determinato,
peraltro con ricadute sul trattamento economico dei lavoratori.
B3) Parità retributiva uomo-donna e contratti non standard.
Come dicevamo, un altro importante principio utilizzato dalla Corte per incidere su fattispecie
contrattuali non-standard è il principio di parità retributiva uomo-donna (oggi regolato in
particolare dall’art. 157 TFUE). Da subito, secondo la Corte, tale principio ha efficacia diretta,
orizzontale e verticale. Il diritto derivato ha poi sviluppato anche il principio di parità quanto a
condizioni di impiego e sicurezza sociale. Oggi, cfr. a tal proposito la dir. 2006/54. A tale
principio si sono ispirate anche le altre normative antidiscriminatorie del 2000.
Anche questo principio inizialmente è percepito eminentemente in chiave economica, in
funzione preventiva della concorrenza sleale (è inserito nel trattato di Roma su pretesa della
Francia, che già si era dotata una disciplina antidiscriminatoria in materia).
E’ principalmente nell’ambito dei contratti di lavoro non-standard che la Corte affina il concetto
di discriminazione indiretta, perché utilizzati in gran parte per la manodopera femminile. Si
tratta di fattispecie di lavoro a tempo parziale: C-96/80, Jenkins; C-170/84, Bilka; C-317/93,
Nolte; C-243/95, Hill e Stapleton (un caso di lavoro ripartito); C-281/97, Krueger.
Ci furono anche, come dicevamo, proposte di direttive in materia negli anni ’70 e ’80, in tema di
contratto a termine e a part-time, che non ebbero seguito soprattutto per ostacoli politici. Tali
ostacoli furono “aggirati” solo grazie alle nuove procedure di dialogo sociale introdotte con
l’accordo sulla politica sociale annesso al trattato di Maastricht. Si giunse così ad accordi
recepiti in direttiva in tema di contratto a termine e a part-time. In precedenza, unica eccezione
fu la direttiva, emanata già nel 1991, per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori
temporanei (dir. n. 91/383): essa prevede un obbligo di sorveglianza medica speciale e diritti di
informazione e formazione in loro favore, in quanto lavoratori più facilmente soggetti ad
infortuni sul lavoro. Si trattava comunque di materia con base giuridica distinta e per la quale
l’Atto Unico Europeo del 1987 aveva già introdotto la regola della decisione a maggioranza.
B4) Politiche occupazionali europee e contratti non standard.
Da ultimo, base giuridica di intervento nella materia del diritto europeo dei contratti di lavoro è
quella riferita nei trattati alle politiche occupazionali, in particolare in seguito al Trattato di
Amsterdam del 1997. Oggi le relative disposizioni sono contenute nel Titolo IX, artt. 145-150
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TFUE. Nei trattati sono previsti obiettivi, in ambito europeo, di “piena occupazione” o di
“elevata occupazione”, considerata “interesse comune degli Stati”.
Pur restando le politiche occupazionali materia riservata agli Stati membri, il Trattato di
Amsterdam introduce la c.d. Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), attraverso un “metodo
aperto di coordinamento” delle politiche occupazionali degli Stati membri al fine di conseguire
gli obiettivi occupazionali in ambito europeo. La procedura coinvolge il Consiglio europeo, la
Commissione, il Consiglio: quest’ultimo adotta orientamenti, in base ai quali gli Stati formulano
piani nazionali per l’occupazione. Il Consiglio, esaminatili, può rivolgere raccomandazioni agli
Stati. E’ un metodo di soft law, basato sul dialogo e la persuasione, non su disposizioni
strettamente precettive. Nonostante ciò, è un metodo in grado di veicolare almeno in parte le
scelte degli Stati membri in ordine alle politiche del lavoro.
Tra i principali esiti della SEO, ricordiamo gli orientamenti del Consiglio in ordine ai c.d.
“quattro pilastri” delle politiche del lavoro, che dovrebbero favorire: a) occupabilità (es.
formazione, active ageing); b) imprenditorialità (es. sviluppo delle imprese, lotta al lavoro
sommerso); c) adattabilità di imprese e lavoratori (vedi infra); d) pari opportunità.
Il “pilastro” della “adattabilità” introduce quindi il vocabolo e il tema della “flessicurezza”
(flexicurity). Esso si sviluppa con vari documenti, quali il Libro Verde della Commissione
sulla modernizzazione del diritto del lavoro del 2006 e la Comunicazione sulla
flessicurezza della Commissione del 2007. Recente documento in materia è la Comunicazione
della Commissione, Europa 2020.
La tesi fondamentale di tale pilastro – per la quale le politiche degli stati membri dovrebbero
favorire un equilibrio tra flessibilità, soprattutto in uscita, dei rapporti di lavoro, e sicurezza del
lavoratore, non nel rapporto, ma nel mercato del lavoro – suscita un grosso dibattito. Con la
flexicurity si intenderebbe di fatto promuovere un modello particolare, quello del Nord Europa
(soprattutto danese): dovrebbe favorirsi l’assunzione a tempo indeterminato, i licenziamenti per
motivi economici non dovrebbero soggiacere a vincoli stringenti, dovrebbero essere disponibili
adeguati ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione) ed efficaci strumenti di impiego,
formazione e reimpiego.
Lascia perplessi però il fatto che, da un lato, i legislatori nazionali in base a tali orientamenti
dovrebbero finanziare maggiormente gli ammortizzatori sociali; mentre, dall’altro, sugli stati
stessi gravano tuttavia stretti vincoli di spesa derivanti dal c.d. “patto di stabilità”, cioè da
prescrizioni in materia economica (queste decisamente più hard), che l’Unione ha il potere di
dettare in base ai trattati e che condizionano pesantemente le scelte nazionali sulla spesa sociale.
A parte il fatto che documenti, quali quelli citati, sono spesso “verbosi”, vertono su molti
svariati temi e non sono in grado di suggerire utilmente priorità di azione, è proprio il modello
generale di “flessicurezza” proposto ad essere contestato: sia perché non è affatto dimostrato
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che strette regole sui licenziamenti sfavoriscano l’occupazione; sia perché tale modello non
tiene conto delle tradizioni di alcuni stati che, al fine di favorire la ripresa economica delle
aziende dopo un periodo di crisi, preferiscono soluzioni che consentono la sospensione dei
rapporti di lavoro con trattamenti di integrazione salariale; sia perché, in realtà, lo stesso
modello danese ha dimostrato difficoltà nell’occasione dell’ultima crisi economica, a causa
della sua lunga durata, che può rendere insufficiente il periodo indennizzato di disoccupazione.
Come si accennava sopra, nondimeno simili orientamenti sortiscono una influenza sulle
politiche occupazionali degli stati. Le recenti riforme italiane del lavoro (cc.dd. riforma Fornero
e Jobs Act), tese ad un allentamento dei vincoli in ordine al licenziamento per “motivi
economici”, ad una restrizione nell’utilizzo del lavoro parasubordinato, all’ampliamento del
trattamento di disoccupazione, risentono del modello europeo.
C) Il lavoro a tempo determinato.
Falliti i tentativi di raggiungere un accordo in seno al Consiglio, al fine di una direttiva sul
contratto a tempo determinato, la Commissione decise di consultare le parti sociali in ordine alla
possibilità di pervenire a un accordo su tale materia (cfr. artt. 154-155 TFUE). L’accordo
UNICE-CEEP-CES del 18.3.1999 è recepito in dir. n. 1999/70 del 28.6.1999.
Si tratta di un istituto di interesse comune degli Stati membri, ma assai variamente disciplinato.
Il testo normativo, se da un lato costituisce un risultato atteso da decenni, dall’altro sconta due
ordini di limiti: a) regola solo specifici aspetti del lavoro a tempo determinato; b) le
disposizioni, contenute nell’accordo sindacale europeo, presentano difetti di redazione tecnica.
Come vedremo appresso, un ruolo interpretativo decisivo è comunque giocato dalla Corte
dell’Unione.
Notiamo alcuni significativi richiami nei considerando della direttiva, nei quali ritroviamo
alcuni dei concetti sopra espressi:
- la direttiva sul contratto a tempo determinato fa parte di una serie di misure finalizzate, come
dai Trattati e dalla Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, al
“miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro” (n. 3). Inoltre, vi è un richiamo alla allora
nascente SEO e, in particolare, agli orientamenti proposti dal Consiglio per la ricerca di un
“equilibrio tra flessibilità e sicurezza”, per un’economia più competitiva (n. 5);
- finalità della direttiva è fissare “principi generali” e “requisiti minimi”, in particolare la “non
discriminazione” tra lavoratori impiegati con contratti a termine e lavoratori impiegati con
contratto a tempo indeterminato; nonché la “prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di
una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato” (n. 14).
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Nel preambolo e nelle considerazioni generali dell’accordo sociale allegato alla direttiva
notiamo inoltre:
- che il contratto a “tempo indeterminato” resta la “forma comune” dei rapporti di lavoro fra i
datori di lavoro e i lavoratori: una affermazione considerata per sé priva di valore precettivo, ma
talora utilizzata in argomentazioni della Corte dell’Unione e anche dei nostri tribunali, per
sottolineare come l’utilizzo del contratto a termine soggiaccia comunque a limitazioni (al di là
delle quali possono prevedersi varie conseguenze sanzionatorie);
- un riferimento al principio di parità di trattamento in base al sesso che, come dicevamo sopra,
ha avuto un certo peso in tale materia prima dell’emanazione della direttiva: “considerando che
più della metà dei lavoratori a tempo determinato nell’UE sono donne”.
Per sé, l’articolato della direttiva vera e propria è limitato a conferire la vincolatività propria
dell’atto comunitario all’accordo collettivo (cfr. art. 1). E’ significativa però (come si vedrà in
particolare in relazione agli aspetti sanzionatori) la norma dell’art. 2.1, secondo cui “gli Stati
membri devono prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire
i risultati prescritti dalla presente direttiva”.
Esaminiamo ora i contenuti dell’accordo trasposto in direttiva, particolarmente in relazione al
diritto italiano:
- Cl. 1. Con la direttiva si vuole promuovere la “qualità” del lavoro a termine attraverso il
principio di non discriminazione e un quadro normativo finalizzato a prevenire abusi derivanti
da una successione di contratti a termine.
In Italia la direttiva è stata attuata con d.lgs. n. 368/2001 (che abroga la storica l. n. 230/1962),
salve discipline speciali (come per la pubblica amministrazione). Decreto più volte modificato,
da ultimo con il d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014.
- Cl. 2.2. Gli Stati membri possono decidere di escludere dalle tutele della direttiva contratti a
termine formativi, di inserimento, di riqualificazione.
La CGUE ha per es. considerato legittima l’esclusione dei lavoratori socialmente utili nel diritto
italiano (C-157/11, Sibilio).
- Cl. 3.1. La direttiva concerne contratti instaurati “direttamente” tra datore e lavoratore, con
esclusione dunque del lavoro interinale (per il quale è poi intervenuta la dir. 2008/104), come
confermato dalla Corte di Giustizia (C-290/12, Della Rocca).
- Cl. 4. Principio di non discriminazione. Secondo la giurisprudenza della Corte, è principio
direttamente applicabile anche nei rapporti interprivati (cfr. C-444/09, Gavieiro) e, trattandosi
di principio che deriva a sua volta dai principi di non discriminazione più generali di cui ai
trattati, è da considerarsi fondamentale (sicché le eccezioni consentite soggiacciono in ogni caso
al test di idoneità, necessarietà, proporzionalità).
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- Cl. 4.1. Quanto all’oggetto, il principio di non discriminazione va riferito alle “condizioni di
impiego”, espressione ampia e tale da ricomprendere ogni aspetto di regolazione del rapporto di
lavoro (anche della fase estintiva: cfr. C-361/12, Carratù). Ci si è domandati se esse includano
anche la retribuzione, in quanto questa costituisce materia per sé esclusa dalle competenze
dell’Unione. Ma la CGUE, ai fini della direttiva, in particolare ai fini dell’applicazione del
principio di non discriminazione, include anche la retribuzione: a) sia perché, altrimenti, ciò
varrebbe a privare la direttiva di ogni effetto utile, posto che normalmente le discriminazioni di
trattamento ineriscono aspetti retributivi (pensiamo alle diverse pronunce della CGUE sul tema
del riconoscimento degli scatti di anzianità, cui si fa peraltro espressa menzione nella cl. 4.4.);
b) sia perché è da ritenere che l’esclusione della retribuzione dalle competenze dell’Unione vada
riferita alla sola diretta determinazione dei livelli retributivi (cfr. C-307/05, Del Cerro Alonso).
Il principio di non discriminazione implica l’esistenza di un parametro di riferimento, che è
identificato con il lavoratore a tempo indeterminato “comparabile”, come definito dalla cl. 3.2.,
con un criterio essenzialmente incentrato, per dirla con una terminologia a noi familiare,
sull’inquadramento contrattuale e sulla professionalità.
Al principio è possibile derogare solo in presenza di “ragioni oggettive”: come detto, trattandosi
di un principio fondamentale, le deroghe devono consistere nella necessità di perseguire un
obiettivo di preminente interesse generale, legittimo ai sensi del diritto UE, e le misure in
deroga devono essere, in relazione, al fine, idonee, necessarie e proporzionate, non andando al
di là di quanto è necessario per conseguire il fine medesimo.
La Corte ha per es. decisamente escluso che rientrino nel novero delle ragioni oggettive il mero
fatto che si tratti di rapporti a termine nel pubblico impiego o che si tratti, tout court, di rapporti
a tempo determinato.
L’ordinamento italiano è stato investito più volte del controllo della Corte con riguardo alla
parità di trattamento in riferimento all’anzianità di servizio, sulla base di disposizioni speciali
del diritto interno. Si tratta di casi concernenti procedure, disciplinate dalla legge, destinate a
favorire la “stabilizzazione”, a tempo indeterminato, di pubblici dipendenti assunti a tempo
determinato (v. CGUE C-393/11, Bertazzi, sull’anzianità dei dipendenti dell’AEEG stabilizzati;
C-302/11 - C-305/11, Valenza et al., con riferimento ai dipendenti dell’AGCM). Si trattava
essenzialmente di decidere se l’assunzione a termine, effettuata in assenza di un pubblico
concorso, giustificasse una deroga al computo dell’anzianità di servizio in sede di assunzione a
tempo indeterminato attraverso la procedura di stabilizzazione (posto che invece, normalmente,
i lavoratori a tempo indeterminato sono selezionati attraverso un pubblico concorso che verifichi
rigorosamente il possesso delle capacità professionali necessarie all’espletamento delle
mansioni). Secondo la Corte, la procedura assuntiva di per sé non giustifica la disparità di
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trattamento. Potrebbe invece essere giustificata in relazione alle diverse competenze
rispettivamente possedute dai lavoratori a termine e di quelli in servizio a tempo indeterminato.
- Cl. 4.2. Si può applicare un principio di riproporzionamento in relazione alla durata del
contratto (pro rata temporis: ad es. per quanto concerne il calcolo delle ferie).
- Cl. 4.3. Si fa rinvio alle disposizioni degli Stati per l’applicazione puntuale di tali principi
(fatto salvo ovviamente l’eventuale controllo della Corte per la verifica del loro rispetto). Si v.
l’art. 6, d.lgs. n. 368/2001.
Correlata al principio medesimo è la cl. 7.1, secondo cui i lavoratori a termine devono essere
computati al fine di verificare il superamento delle soglie necessarie per il diritto a costituire
organismi di rappresentanza sindacale (con rinvio comunque agli Stati per l’attuazione di tale
disposizione: cfr. cl. 7.2: si v. l’art. 8, d.lgs. n. 368/2001).
- Cl. 5.1. Con riguardo alla successione di contratti a tempo determinato e al fine di prevenire
abusi, gli Stati dovranno adottare, in assenza di norme equivalenti, “una o più” misure tra le
seguenti: a) previsione di ragioni oggettive di rinnovo; b) previsione di una durata totale dei
contratti; c) previsione di un numero massimo di rinnovi. La Corte comunitaria ha in molte
occasioni affermato che è sufficiente l’integrazione di una tra queste misure, tra le quali non è
posta alcuna gerarchia.
- Cl. 5.2. Spetta allo Stato precisare quando un contratto possa dirsi “successivo” e quando si
debba ritenere a tempo indeterminato.
Nulla si dice, invece, circa il primo contratto a tempo determinato e l’eventuale obbligo di
giustificazione causale. L’ordinamento italiano ha sempre previsto, salve limitate eccezioni, un
obbligo di giustificazione anche del primo contratto (oltre che di tutti quelli successivi al
primo), sino alla introduzione del contratto a termine a-causale in base alla “riforma Fornero”,
ex l. n. 92/2012 e succ. modif. Sicché nel nostro diritto interno, sino ad allora, si aveva:
- l’obbligo di giustificare il primo contratto;
- l’obbligo di giustificare la proroga;
- l’obbligo di giustificare ogni contratto a termine successivo;
- l’obbligo di rispettare intervalli minimi tra un contratto a termine e quello successivo;
- la durata massima di 36 mesi.
Con riferimento ai casi di contratto acausale, la CGUE si è trovata ad esaminare la disciplina
speciale del settore postale, per il quale è prevista ex art. 2 una mera limitazione quantitativa e
temporale di utilizzo dei contratti a termine. Nei procedimenti Vino I e Vino II (C-20/10; C161/11), la Corte ha sancito che sulla base del diritto comunitario non vi è l’obbligo di
giustificare il primo contratto. I limiti riguardano infatti la sola successione dei contratti.
Il d.l. n. 34/2014 ha tuttavia profondamente modificato la disciplina del contratto a termine: ha
abrogato l’obbligo di giustificazione causale dei contratti; ha sancito l’ammissibilità di un
11
massimo di cinque proroghe della durata del contratto, purché in relazione alla stessa attività; ha
mantenuto il limite massimo di trentasei mesi complessivi di rapporti di lavoro a termine, in
relazione a mansioni equivalenti, tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro; ha
introdotto una clausola legale di contingentamento nell’utilizzo dei contratti a termine nella
misura del 20% degli occupati presso il medesimo datore di lavoro. La CGIL ha denunciato
presso la Commissione europea la nuova disciplina per contrasto con il diritto comunitario.
Tuttavia, poiché continua a essere prevista la durata massima complessiva di trentasei mesi, la
disciplina italiana sembra quantomeno contemplare la misura di cui alla lett. b) della cl. 5.1. (e,
forse, della lett. c), in relazione al numero massimo di “rinnovi”, se il termine possa dirsi
inclusivo delle proroghe).
La Corte è tuttavia intervenuta di recente rilevando l’incompatibilità della normativa italiana sul
reclutamento a termine del personale docente e tecnico-amministrativo nella scuola pubblica
(C-22/13 e altre). La disciplina di settore (v. lo schema di cui all’all. 1), infatti, in espressa
deroga a quella generale esclude il limite della durata massima di trentasei mesi, non solo in
relazione a contratti a termine per ragioni sostitutive di natura temporanea, ma anche per la
copertura di posti “vacanti in organico”. Sotto tale ultimo profilo, secondo la Corte, difettano le
ragioni obiettive di cui alla lett. a) della cl. 5.1. Tali ragioni, per giurisprudenza costante della
Corte stessa (si v. ad es. C-586/10, Kücük), devono ritenersi temporanee e debbono poter essere
verificate in concreto dal giudice. Pertanto, non possono né includere esigenze in realtà stabili e
durature, né consistere semplicemente in disposizioni con cui il legislatore astrattamente
afferma la sussistenza di una esigenza oggettiva (cfr. a tal proposito l’art. 10, c. 4-bis, d.lgs. n.
368/2001). Inoltre, diversamente da quanto aveva ritenuto la Corte di Cassazione (n.
10127/2012), le regole legali sulle immissioni in ruolo non possono costituire “norme
equivalenti”, ai sensi della cl. 5.1., poiché, attesa l’assenza in concreto di una regolare
periodicità di concorsi nonché l’aleatorietà dell’assunzione a tempo indeterminato mediante il
prelievo di personale dalle c.d. graduatorie, sono possibili reiterate assunzioni a termine senza
una prospettiva certa di stabilizzazione dei rapporti.
Resta infine, ai sensi dell’art. 2 della direttiva, l’obbligo degli Stati di adottare le misure
necessarie per prevenire gli abusi, il che implica la previsione di sanzioni sufficientemente
dissuasive e adeguatamente riparative (cioè proporzionate), nonché tali da non rendere
“praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti
dall’ordinamento giuridico dell’Unione” (principio di effettività; ciò che difetta qualora ad es. la
prova del danno sia particolarmente complessa per il lavoratore: cfr. C-50/13, Papalia). Nella
pronuncia Affatato (C-3/10), la Corte sancisce che per sé il diritto comunitario non impone la
sanzione della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Così, nel
caso del pubblico impiego italiano, può anche prevedersi il solo risarcimento del danno (cfr. art.
12
36, c. 5, d.lgs. n. 165/2001), purché sia adeguato, spettando in definitiva al giudice interno tale
valutazione.
- Cl. 6.1. Si fa obbligo agli Stati di prevedere che i datori di lavoro offrano informazioni ai
lavoratori a tempo determinato sui “posti vacanti”, in modo da garantire la possibilità di accesso
a “posti duraturi”. Il diritto italiano a tal proposito, all’art. 5, cc. 4-quater e ss., d.lgs. n.
368/2001, contempla a determinate condizioni diritti di precedenza.
- Cl. 8.3. Salve disposizioni interne più favorevoli, “l’applicazione della direttiva non costituisce
valido motivo per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori” (c.d. clausola di non
regresso). E’ disposizione presente nelle direttive in materia sociale. Serve per evitare che una
direttiva in tale ambito, in sede di trasposizione interna, produca effetti opposti a quelli
desiderati, cioè una restrizione, anziché un ampliamento delle tutele, posto che prevede
normalmente solo disposizioni generali e prescrizioni minime.
E’ clausola di incerto significato. Comunque, secondo la CGUE, è legittima una reformatio in
peius della materia oggetto della direttiva, se una tale riforma risponde ad obiettivi di politica
sociale distinti dalla semplice occasione dell’attuazione della direttiva. Inoltre, occorre
verificare il complesso delle disposizioni (per riscontrare ad es. se, a fronte di specifici
trattamenti peggiorativi, ve ne siano altri compensativi). Nel citato caso Vino, la Corte ritiene
che l’efficienza del sistema postale sia obiettivo derivante da un obbligo comunitario: ciò ha
potuto giustificare una modifica in peius delle norme sul contratto a termine in tale settore (con
la previsione della acausalità del contratto).
Nel caso Sorge vs. Poste Italiane (C-98/09), si discute della violazione della clausola di non
regresso per il caso di omissione formale del nome del lavoratore sostituito, in una fattispecie di
contratto a termine con ragione, appunto, sostitutiva. Secondo la Corte non vi è violazione
perché: a) la categoria dei contratti con ragione sostitutiva è una categoria ristretta, inidonea ad
incidere sul “livello generale” di tutela; b) comunque, il d.lgs. n. 368/2001 prevede una serie di
altre garanzie per i lavoratori a tempo determinato.
Tale orientamento (col quale sembra contrastare quello precedentemente espresso in Corte cost.
n. 214/2009) è fatto proprio dalla Cassazione in controversie nel settore postale (cfr. ad es. Cass.
n. 11659/2012). Per la Cassazione, allorché in una organizzazione complessa non sia possibile
individuare precisamente il lavoratore sostituito, perché occorre far fronte ad esigenze
sostitutive riferibili a diversi lavoratori assenti, è sufficiente che vi sia coincidenza tra il numero
dei lavoratori sostituiti e il numero dei contratti a termine, sempre che sussista, naturalmente, il
nesso di causalità rappresentato dalla coincidenza delle mansioni svolte.
Per l’attuazione della direttiva in altri ordinamenti, si v. il distinto file con le slide (all. 2).
13
D) Il lavoro a tempo parziale.
La Dir. 97/81 sul part-time del 15.12.1997 pure recepisce un accordo quadro europeo delle
parti sociali (del 6.6.1997).
Vediamo alcuni “considerando” introduttivi, che aiutano a contestualizzare il disposto
normativo vero e proprio.
- Come per il contratto a termine, la disciplina è finalizzata all’obiettivo, previsto dal trattato, di
miglioramento delle condizioni di vita e lavoro mediante il ravvicinamento delle legislazioni in
tale materia (n. 3).
- Vi è un richiamo agli orientamenti di cui alla SEO e al tema della “flessicurezza” (n. 5).
Si tratta, a ben vedere, di un accordo con prescrizioni davvero “minimali”: ad es. non contempla
profili di disciplina rilevanti, quali le clausole elastiche e flessibili e il lavoro supplementare;
inoltre, norme (minimali) di hard law si affiancano, come vedremo, a norme di soft law.
- Nel preambolo dell’accordo quadro, si indicano tre finalità della direttiva: sulla base della
SEO, incrementare l’occupazione in certi settori ed attività (in realtà, soprattutto per determinate
categorie di soggetti deboli nel mercato del lavoro, ovvero giovani, donne e anziani, per le quali
il contratto a tempo parziale può essere un volano occupazionale: v. anche le considerazioni
generali, n. 5, dell’accordo quadro); perseguire un principio di non discriminazione tra parttimers e lavoratori a tempo pieno; far sì che il part-time sia disponibile su “basi accettabili” per
datori e lavoratori (si tratta del c.d. principio di “volontarietà”, sul cui significato e sulla cui
portata precettiva, v. infra; cfr. le considerazioni generali, nn. 4 e 5, dell’accordo quadro).
- Il regime previdenziale, come da preambolo dell’accordo quadro, è per sé escluso dall’oggetto
della direttiva: tuttavia, diverse pronunce della CGUE intervengono su tale materia sfruttando il
principio di non discriminazione (v. infra).
Passando più direttamente all’articolato:
- Cl. 1a) e 1b): indicano i principi di non discriminazione e di “volontarietà”. Quest’ultimo, in
via di prima approssimazione, dovrebbe principalmente significare, da un lato, il non coattivo
passaggio del lavoratore da un rapporto di lavoro a tempo pieno al part-time, o viceversa, per
decisione unilaterale del datore di lavoro (tuttavia, v. infra); dall’altro, come si evince da altre
disposizioni che si vedranno appresso, favorire la scelta del lavoratore nell’optare, sia in sede di
costituzione del rapporto, sia nel corso della sua esecuzione, tra un regime orario a tempo pieno
oppure uno a tempo parziale.
- Cl. 2.1: è part-time ciò che è definibile come tale in base a leggi, contratti collettivi e prassi
nazionali; Cl. 2.2. gli Stati hanno possibilità di escludere dall’ambito di applicazione della
direttiva forme di part-time occasionali, se vi sono ragioni obiettive (è disposizione che tiene
conto di alcune normative nazionali, che escludono i lavoratori part-time a orario molto ridotto
dal godimento di determinati istituti).
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- Cl. 3: è lavoratore part-time, più in particolare, colui il cui orario di lavoro sia normalmente
inferiore a quello di un lavoratore comparabile a tempo pieno; ed è comparabile “il lavoratore a
tempo pieno dello stesso stabilimento, che ha lo stesso tipo di contratto o di rapporto di lavoro e
un lavoro/occupazione identico o simile, tenendo conto di altre considerazioni che possono
includere l’anzianità e le qualifiche/competenze. Qualora non esistesse nessun lavoratore a
tempo pieno comparabile nello stesso stabilimento, il paragone si effettuerebbe con riferimento
al contratto collettivo applicabile o, in assenza di contratto collettivo applicabile,
conformemente alla legge, ai contratti collettivi o alle prassi nazionali”. Una definizione, questa,
non molto dissimile a quella del lavoratore a tempo indeterminato comparabile, rispetto al
lavoratore a tempo determinato, che si è vista sopra, e che consente di far riferimento, in
definitiva, al criterio dell’inquadramento contrattuale e della professionalità posseduta.
L’ampia definizione di lavoratore a tempo parziale consente di ricomprendere nell’ambito di
applicazione della direttiva anche il lavoro ripartito e intermittente (v. la sentenza della CGUE,
C-313/02, Wippel), poiché concernono prestazioni lavorative di fatto destinate a svolgersi a
orario ridotto rispetto all’orario normale di lavoro.
Ricordiamo che, in base al d.lgs. n. 61/2000, di attuazione della direttiva in commento, per
l’ordinamento italiano è part-timer chi presta la propria attività lavorativa a orario ridotto
rispetto all’orario normale di lavoro (40 ore settimanali, o il minor orario previsto dai contratti
collettivi).
- Cl. 4.1: è la disposizione centrale della direttiva e pone il divieto di discriminazione del
lavoratore part-time circa le condizioni di lavoro, per il solo motivo che egli sia occupato a
tempo parziale, salva l’esistenza di ragioni obiettive (ovvero, per il perseguimento di un fine
legittimo ai sensi del diritto dell’UE, per una ragione di preminente interesse generale, e purché
con mezzi idonei, necessari, proporzionati). Dunque, la direttiva ha oggettivato il divieto di
discriminazione, sicché, ove si tratti di lavoratrici a tempo parziale, non sarà più necessaria la
prova di una discriminazione indiretta in base al sesso, utilizzata dalla Corte prima dell’entrata
in vigore della direttiva.
- Cl. 4.2. prevede la possibilità di applicare il principio del pro rata temporis (anche se non è
sempre semplice, in pratica, comprendere quando tale applicazione sia consentita).
L’ordinamento italiano (cfr. art. 4, d.lgs. n. 61/2000) ha elencato una serie di istituti, per i quali
non è previsto il riproporzionamento: ad es. la retribuzione oraria, la durata del periodo di prova
e delle ferie, il periodo di comporto (ma, per il part-time verticale, il periodo di prova e quello di
comporto possono essere diversificati in base a disposizioni dei contratti collettivi). In qualche
caso, l’applicabilità del principio del pro rata temporis può essere dubbia: si pensi alle indennità
legate non alla durata della prestazione, ma alla esecuzione di determinate mansioni.
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La Corte di Giustizia ha applicato il principio di non discriminazione soprattutto in ordine a due
questioni: il calcolo delle ferie (v. ad es. C-415/12, Brandes), sancendo ad es. che il passaggio
dal tempo pieno al tempo parziale non possa comportare il riproporzionamento delle ferie
maturate durante il periodo di rapporto a tempo pieno; la materia pensionistica (cfr. ad es. C395 e 396/08, Inps vs. Bruno e Pettini; C-385/11, Moreno), sancendo ad es. che l’anzianità di
servizio, ai fini dell’anzianità contributiva, in assenza di ragioni oggettive non possa essere
computata in modo diverso tra i part-timers orizzontali (con un calcolo dell’anzianità del tutto
analogo ai lavoratori a tempo pieno) e quelli verticali (tenendo conto solo delle giornate
effettivamente lavorate, con esclusione di quelle di programmata sospensione delle prestazione:
il che implicherebbe in definitiva un doppio riproporzionamento del trattamento previdenziale).
- Cl. 5.1.: gli stati (e le parti sociali) “dovrebbero” identificare e rimuovere ostacoli vari alla
diffusione del part-time.
Quella che appare una norma soft, è in realtà interpretata dalla CGUE come un obbligo: v. ad es.
C-55 e 56/07, Michaeler, che ha sancito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione della
speciale sanzione amministrativa prevista dal nostro ordinamento, per il caso di mancata
comunicazione alla Direzione provinciale del lavoro dell’assunzione a tempo parziale entro
trenta giorni dalla costituzione del rapporto.
- Cl. 5.2.: il rifiuto di passaggio dal tempo pieno al part-time o viceversa non dovrebbe causare
il licenziamento, salva l’esistenza di altra ragione che possa giustificarlo (come nel caso di
sussistenza di un motivo “economico”).
Così è anche, espressamente, in Italia (cfr. art. 5, d.lgs. n. 61/2000). Si tratta di divieto esteso dal
legislatore italiano anche al caso di rifiuto del consenso individuale da parte del lavoratore allo
svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare, qualora questo non sia previsto come
obbligatorio dal contratto collettivo; nonché al rifiuto di sottoscrivere clausole elastiche e
flessibili (per le quali, inoltre, la l. n. 92/2012 ha delegato i contratti collettivi a regolare lo ius
poenitendi, cioè il diritto di recedere dal, o di modificare il, patto di flessibilità ed elasticità).
- Cl. 5.3.: i datori di lavoro “dovrebbero prendere in considerazione” le richieste dei lavoratori
di passaggio dal part-time al tempo pieno e viceversa; dovrebbero dare notizia, a tal fine, di
posti vacanti nello stabilimento; dovrebbero favorire la diffusione del part-time a tutti i livelli
dell’impresa, offrire occasioni di formazione, informare i sindacati sull’utilizzo del part-time
nell’impresa.
Tali disposizioni, prive di valore cogente e dotate al più di valore esortativo, intendono
valorizzare il principio di “volontarietà”, nel senso di favorire per il lavoratore maggiori
opportunità di scelta in ordine al regime orario della prestazione, sia nella fase genetica sia in
quella funzionale del rapporto, senza tuttavia spingersi sino al punto di prevedere ad es. un
“diritto al part-time”.
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A tal proposito, in Italia, un diritto del lavoratore, pressoché perfetto, di ottenere la
trasformazione in rapporto di lavoro a tempo parziale vigeva nella p.a. (art. 1, c. 58, l. n.
662/1996), ma è stato abrogato dal d.l. n. 112/2008 (che ha modificato la disposizione testé
citata). Lo stesso decreto ha consentito alle p.a. di revocare, entro 180 ottanta giorni dalla sua
entrata in vigore, i part-time già concessi, con il solo limite della buona fede e della correttezza.
Rinviata alla Corte di Giustizia tale nuova misura, per sospetto contrasto con il principio di
volontarietà, il giudice europeo ha osservato (C-221/13, Mascellani) che in realtà la direttiva
non impedisce la coattiva trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a
tempo pieno. La clausola 5.2, infatti, si limita a disporre che il rifiuto del lavoratore non
costituisca, per se stesso, un valido motivo di licenziamento, senza vietare, dunque, che ciò
possa accadere sulla base di altre ragioni obiettive.
Un diritto perfetto al part-time (reversibile) attualmente vi è solo per i malati oncologici (cfr. art.
12-bis, d.lgs. n. 61/2000). Vi sono poi diritti di precedenza, come ad es. per il lavoratore, che
abbia già trasformato il rapporto di lavoro dal tempo pieno al part-time, per un rapporto di
lavoro a tempo pieno (cfr. art. 12-ter, d.lgs. n. 61/2000). Un obbligo di informazione a carico del
datore di lavoro è previsto in caso di disponibilità di posti part-time, nell’ambito delle unità
produttive del medesimo comune. Infine, il datore di lavoro ha un obbligo di informare le r.s.a.
sull’andamento del lavoro a tempo parziale in azienda.
Per l’attuazione della direttiva in altri ordinamenti, si v. il distinto file con le slide (all. 3).
E) Il lavoro tramite agenzia interinale.
Il lavoro interinale, o temporaneo, o somministrato, è disciplinato dalla recente Dir. 2008/104
del 19 novembre 2008. A differenza delle due direttive precedentemente esaminate, questa non
dà attuazione ad un accordo quadro delle parti sociali. Nei considerando nn. 5-7 si dà conto del
tentativo di pervenire a un tale accordo. I sindacati europei, nell’escludere dal campo di
applicazione dell’accordo sul lavoro a termine l’istituto in esame, avevano infatti manifestato
l’intenzione di avviare trattative sul punto. Il fallimento di esse deriva, essenzialmente, dalla
mancata intesa sul bilanciamento tra le opposte esigenze di una liberalizzazione della
somministrazione di lavoro, espressa da parte datoriale, e quella della previsione di un principio
di parità di trattamento per i lavoratori interinali rispetto a quelli direttamente dipendenti dal
soggetto utilizzatore, espressa dai sindacati europei dei lavoratori.
Si tratta, in sostanza, della medesima difficoltà incontrata poi dal legislatore comunitario, in
aggiunta a quella segnalata significativamente nel considerando n. 10: la grande varietà di
regolazioni nazionali, con i conseguenti problemi di armonizzazione. Della necessità di
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conciliare polarità contrastanti si trovano, come si vedrà, importanti tracce nel testo normativo,
ove ad affermazioni di principio seguono immediatamente ampie facoltà di eccezione.
Dopo un omaggio alla “flessicurezza”, di cui al considerando n. 9, ai nn. 11 ss. sono indicate le
due finalità principali della direttiva: a) promuovere lo sviluppo dell’istituto, attesa la sua
capacità di reperire opportunità di lavoro attraverso la funzione, ad esso connaturata, di
intermediazione tra domanda e offerta di lavoro (n. 11); b) garantire un trattamento non
discriminatorio per i lavoratori interinali (n. 12). Per favorire lo sviluppo dell’istituto, si richiede
agli stati una revisione delle restrizioni e dei divieti vigenti (n. 18; salvi casi particolari, come il
divieto di ricorso al lavoro interinale per la sostituzione di lavoratori scioperanti: cfr. n. 20).
D’altro canto, il principio di non discriminazione dovrebbe comportare la garanzia di condizioni
di lavoro “almeno identiche” rispetto a quelle godute dai dipendenti diretti dell’utilizzatore (n.
14). Ma i considerando introduttivi della direttiva già anticipano le possibili eccezioni al
principio: a) in caso di lavoratori assunti a tempo indeterminato presso l’agenzia (n. 15); b) sulla
base di un potere conferito dagli stati alle parti sociali (n. 16); c) ad opera degli stati stessi, a
determinate condizioni (n. 17). Si tratta di profili meglio esplicitati, come si vedrà, nel dettato
normativo.
L’art. 1.1. definisce il campo di applicazione della direttiva: essa “si applica ai lavoratori che
hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale e che sono
assegnati a imprese utilizzatrici per lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione
delle stesse”. A tale ampia definizione corrisponde l’altrettanto ampia definizione di lavoratore,
ai sensi dell’art. 2.1., lett. a): “qualsiasi persona che, nello Stato membro interessato, è protetta
in qualità di lavoratore nel quadro del diritto nazionale del lavoro”. Il combinato di queste
disposizioni consente di affermare con sufficiente certezza che la direttiva si applichi pure a
fattispecie di fornitura di lavoro autonomo o, quantomeno, di lavoro “parasubordinato” (come è
ad es. ammesso in Inghilterra).
L’art. 4 si occupa della promozione dell’istituto mediante il “riesame dei divieti e delle
restrizioni”. Questi possono giustificarsi (art. 4.1.) “soltanto” per “ragioni d’interesse generale
che investono in particolare la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale, le prescrizioni in
materia di salute e sicurezza sul lavoro o la necessità di garantire il buon funzionamento del
mercato del lavoro e la prevenzione di abusi”. Sulla base di ciò, appunto, gli stati (cfr. art. 4.2.)
sono chiamati a un riesame delle restrizioni vigenti. Ciò che, peraltro, andrebbe coordinato con
la “clausola di non regresso” di cui all’art. 9.2. Anche se, a dire il vero, essa sembra formulata in
maniera più ampia rispetto a quella contenuta nelle direttive esaminate in precedenza. La
versione in commento, infatti, anche tenendo conto della giurisprudenza della Corte formatasi
sul significato di simile clausola, lascia agli stati la possibilità di tenere conto di “eventuali
cambiamenti della situazione” al fine di poter modificare la normativa interna nella materia
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regolata dalla direttiva. Sicché si può dire che l’obbligo di riesame non sia inconciliabile con la
clausola di non regresso, anche se forse il legislatore europeo non ha posto sufficiente
attenzione alla possibile contraddizione.
E’ difficile stabilire, ai sensi dell’art. 4.1. citato, l’esatto significato delle fattispecie
giustificative delle restrizioni o dei divieti, considerata la loro ampia formulazione. Si potrebbe
forse sostenere che l’obbligo di giustificazione causale del contratto di somministrazione a
tempo determinato mediante norme a precetto generico (come nel testo dell’art. 20, c. 4, d.lgs.
n. 276/2003, nella versione anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 34/2014) possa rispondere
all’esigenza di “tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale” e anche alla “prevenzione di
abusi”. Qualche dubbio in più potrebbe sorgere, invece, in relazione a fattispecie tassativamente
predeterminate per legge (come nel caso della nostra disciplina sullo staff leasing), o a settori
cui il lavoro interinale sia totalmente precluso (come quello edilizio, per l’ordinamento tedesco),
considerata, appunto, la ratio di promozione dell’istituto della disposizione in commento, che
vorrebbe tendenzialmente come eccezionali le restrizioni.
In ogni caso, l’esito generale a livello europeo sembra essere stato quello di una liberalizzazione
della somministrazione di lavoro. In Italia, ciò si è verificato dapprima con il d.lgs. n. 24/2012,
di recepimento della direttiva, poi con la l. n. 92/2012 e, infine, con il d.l. n. 34/2014, che ha
reso acausale il contratto di somministrazione a tempo determinato.
Misure promozionali sono poi contenute nell’art. 6: all’art. 6.1. si prevede l’obbligo di
informazione sui posti vacanti nell’impresa utilizzatrice in favore dei lavoratori interinali (si v. a
tal proposito l’art. 23, c. 7-bis, d.lgs. n. 276/2003). L’art. 6 prevede inoltre, da un lato, la nullità
di clausole che “vietano o che abbiano l’effetto d’impedire la stipulazione di un contratto di
lavoro o l’avvio di un rapporto di lavoro tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia
interinale al termine della sua missione” (art. 6.2.); dall’altro, il divieto per le agenzie di
richiedere compensi ai lavoratori a fronte di assunzioni presso imprese utilizzatrici (art. 6.3.).
La dottrina ha giustamente sollevato dubbi di compatibilità con l’art. 6.2., ora citato, della
disciplina italiana, la quale, all’art. 23, c. 9, d.lgs. n. 276/2003, prevede la validità di clausole
che limitino la facoltà del soggetto utilizzatore di assumere direttamente i lavoratori al termine
della missione, purché a fronte di una “adeguata indennità” in favore di questi ultimi, stabilita
dal contratto collettivo applicabile al somministratore. Si discute invece della conformità
comunitaria della disciplina inglese in ordine al transfer fee, ovvero al compenso esigibile dalle
agenzie di lavoro interinale nei confronti del soggetto utilizzatore, al termine della missione del
lavoratore e al fine della sua diretta assunzione. A differenza della fattispecie italiana, che
esplicitamente deroga al principio di nullità di dette clausole, il transfer fee non ha infatti un
effetto impeditivo delle assunzioni presso l’utilizzatore, ma, al più, costituisce un disincentivo.
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Con riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, l’art. 5.1., in combinato disposto con l’art.
3.1. lett. f), garantisce ai lavoratori interinali la parità di trattamento in ordine alle “condizioni di
base di lavoro e d’occupazione”, ovvero con riguardo al tempo di lavoro e alle ferie nonché alla
retribuzione (impregiudicate le nozioni nazionali di retribuzione). La direttiva, tuttavia, non si
preoccupa di fornire una espressa definizione del lavoratore comparabile, ai fini della verifica
del rispetto del principio di parità di trattamento. L’art. 5.1. parla tuttavia di “condizioni almeno
identiche a quelle che si applicherebbero [ai lavoratori interinali] se fossero direttamente
impiegati dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro”.
Come anticipato, le possibilità di deroga al principio sono ampie.
L’art. 5.2. consente di derogare in merito all’importo della retribuzione, allorché il lavoratore sia
assunto a tempo indeterminato presso l’agenzia, per il periodo intercorrente tra una missione e
l’altra (ciò che rende legittima, per es., l’indennità di disponibilità, in misura inferiore alla
retribuzione, prevista nell’art. 22, c. 3, d.lgs. n. 276/2003).
Negli ordinamenti in cui sia prevista l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi, gli stati
possono concedere alle parti sociali di determinare “modalità alternative” in ordine alle
condizioni di lavoro e d’occupazione, nel rispetto di un generalissimo principio di “protezione
globale” dei lavoratori interinali.
Negli ordinamenti, come il nostro, in cui i contratti collettivi sono (perlopiù) ad efficacia
soggettiva limitata, la possibilità di disporre “modalità alternative” è rimessa direttamente agli
stati, previa consultazione delle parti sociali a livello nazionale e sulla base di un accordo
concluso con le stesse. Si specifica che tali modalità alternative possono includere la previsione
di un “periodo di attesa” per il conseguimento della parità di trattamento (come nel caso del
Regno Unito, in cui l’obbligo di parità è escluso per le missioni inferiori a dodici settimane).
Da ultimo, l’art. 5.5. dispone che gli Stati “adottano misure necessarie […] per evitare il ricorso
abusivo all’applicazione del presente articolo e, in particolare, per prevenire missioni successive
con lo scopo di eludere le disposizioni della presente direttiva”. Si noti che il legislatore europeo
non richiede per sé un limite alle missioni successive, con ciò dimostrando di aver chiara la
distinzione dell’istituto in esame, dotato di una peculiare funzione occupazionale, con il lavoro a
tempo determinato (per il quale, come visto, la reiterazione di contratti deve invece essere
assoggettata a specifiche limitazioni). Piuttosto, esso richiede agli stati di reprimere missioni
reiterate in chiave elusiva. Considerato ancora il caso inglese, si può ad es. immaginare che la
reiterazione di contratti di durata inferiore alle dodici settimane, al solo fine di impedire
l’applicazione del principio di parità di trattamento, sia incompatibile con la direttiva.
20
F) Bibliografia. Su tali temi possono consultarsi:
M. D. FERRARA, La direttiva 2008/104/Ce relativa al lavoro tramite agenzia interinale: aspetti
problematici e modelli di implementazione, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.INT, n.
101/2013 (reperibile a questo link).
M. ROCCELLA – T. TREU, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, Padova, ult. ed.
(2012).
S. SCIARRA – B. CARUSO (a cura di), Il lavoro subordinato, in G. AJANI – G.A. BENACCHIO
(diretto da), Trattato di diritto privato dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2009.
Allegati:
1- Schema della disciplina sul reclutamento del personale nella scuola.
2- Il lavoro a termine: disciplina spagnola, tedesca, francese (slide).
3- Il lavoro a tempo parziale: disciplina tedesca, francese, inglese (slide).
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