niente di vero tranne gli occhi

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niente di vero tranne gli occhi
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90014 Casteldaccia (PA)
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NIENTE DI VERO TRANNE GLI OCCHI
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Jerry Kho, completamente nudo, si lasciò scivolare a terra fino a trovarsi in ginocchio sull’enorme telo bianco che
aveva fissato al pavimento col nastro adesivo. Poi, dopo un attimo di raccoglimento che sembrava quello di un’artista
del circo prima della sua performance, tuffò le mani nella grande latta di vernice rossa che teneva tra le gambe e alzò le
mani verso il soffitto, lasciando che il colore scivolasse lentamente fino ai gomiti. C’era in quel gesto la liturgia di un
rito pagano, quando nasconde l’umanità sotto il colore di una pittura sacra, alla ricerca di un’altra forma e un diverso
contatto con uno spirito superiore. Con lo stesso movimento fluido e pieno di voluto misticismo, continuò a spalmarsi il
colore su tutto il corpo, lasciando libere soltanto le zone intorno al pene, alla bocca e agli occhi. A poco a poco
abbandonò il suo corpo di uomo per assumere le sembianze di quello che il colore rosso sangue gli conferiva e che
desiderava rappresentare: una sola unica immensa dolente ferita, che secerneva umori da cui era impossibile staccarsi se
non con la negazione della sua stessa natura umana.
Alzò gli occhi verso la donna che stava in piedi davanti a lui. Anche lei era completamente nuda, ma il suo corpo era
tinto di un colore differente, quella particolare tonalità di azzurro intenso che viene comunemente definita china blue.
Jerry alzò le braccia e congiunse le mani con quelle protese della donna. I loro palmi si strinsero con un rumore
soffocato per effetto ventosa del liquido contro il liquido e i colori iniziarono a fondersi e a macchiarsi l’uno dell’altro.
Lentamente la guidò fino ad averla inginocchiata davanti a lui. La donna, di cui aveva completamente dimenticato il
nome, era qualcosa di indefinibile sia come età sia come aspetto fisico. In condizioni normali Jerry l’avrebbe
considerata poco più che ributtante, ma in quel momento la trovava perfetta per l’opera che intendeva comporre. Al
contrario, riteneva che il disgusto, nella sua mente avvolta negli effetti delle pastiglie che aveva preso quella sera, ne
fosse una componente essenziale. Mentre guardava i suoi seni leggermente penduli e avvizziti che nemmeno la
maschera di quel colore acceso riusciva a migliorare, il suo pene cominciò a gonfiarsi. Non era per la nudità della
donna, ma per l’effetto sessuale che la realizzazione di una delle sue opere aveva sempre su di lui. Si sdraiò lentamente
nel candore immacolato del telo. La sua mente era già presa dal segno di colore che il suo corpo stava tracciando su
quello che sarebbe diventato un solo enorme dipinto, suddiviso in pannelli di uguali dimensioni.
Per Jerry Kho l’arte rappresentata su una tela era soprattutto casualità, un avvenimento che l’artista poteva provocare e
scoprire ma non creare. La creazione era affidata al caso o al caos. E dunque alle sole due cose che dal caso e dal caos
venivano e ci ritornavano con la loro componente di naturale e artefatto: il sesso e la droga.
Jerry Kho era completamente pazzo. O almeno, nel suo assoluto narcisismo, amava considerarsi tale, mentre invitava
con un gesto la donna ad avvicinarsi. La donna di cui non ricordava il nome si mise su di lui appoggiando le mani a lato
dei suoi fianchi, con gli occhi socchiusi e il respiro leggermente affannoso. Jerry sentì i suoi capelli imbrattati di colore
sfiorargli l’ombelico, Le afferrò la testa e la guido verso il membro ora completamente eretto, che spiccava bianco sul
suo corpo fagocitato dal colore. Le labbra di lei si aprirono e l’uomo sentì il calore vischioso e adorante della sua bocca
avvolgerlo completamente.
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Adesso loro due, agli occhi di Jerry, erano due macchie sovrapposte di diversa intensità riflesse nel grande specchio
montato sul soffitto. Il movimento leggero della testa della ragazza si perdeva nella prospettiva. Sentiva il movimento
senza riuscire a vederlo. Provò un senso di esaltazione, per quello che stava facendo e per il numero imprecisato di
pastiglie che aveva in corpo. Aprì le braccia e premette le mani con il palmo aperto sul panno bianco sotto di lui.
Quando riportò le mani sulla testa della donna, vide la traccia di colore che aveva lasciato sulla tela e questo aumentò la
sua eccitazione. Lo specchio e il gioco con il riflesso erano trucchi vecchi come il mondo, di un tempo in cui qualcuno
aveva l’abitudine di definire arte il patetico affannarsi di pennelli su una tela. Velazquez, Norman Rockwell e altri, tutti
protagonisti di un passato che sapeva di muffa e di decomposizione.
Perché perdere tempo a dipingere un corpo su una tela quando il corpo poteva dipingersi da solo? E, nella sua estrema
accelerazione, perché lospreco di un supporto quando il corpo poteva diventare la tela di se stesso?
Vide nello specchio e sentì sulla pelle le mani blu della donna senza nome salire lungo i suoi fianchi, lasciando sul
corpo rosso due strisce di colore.
Vide e sentì la sua voce soffiata arrivargli alle orecchie attraverso il riflesso.
“Oh, Jerry, io sono così…”
“Shhhhhh…”
Jerry la zittì appoggiandole un dito sulle labbra. Alzò la testa per guardarla. Il suo dito le aveva lasciato una traccia
rossa sulla bocca. Rosso su rossetto. Sangue e vanità. Il crollo e la distruzione di ogni mito contemporaneo.
La sua voce fu un sussurro nella luce soffusa del loft, imbastardita a tratti da una fila di schermi televisivi senza audio,
collegati tra di loro programmati da un computer secondo una sequenza di screen saver con una serie di mescolanze di
colori casuali e apparentemente senza soluzione di continuità. Solo ogni tanto quel delirio cromatico si interrompeva
con un passaggio di dissolvenza che riduceva l’immagine in frammenti e li ricomponeva in un’altra di senso compiuto,
una riproduzione fotografica di avvenimenti catastrofici che avevano sottolineato momenti orribili della vita sul pianeta.
Immagini di migliaia di corpi che galleggiavano portati dalla corrente del fiume durante la pulizia etnica dei Tutsi nei
confronti degli Hutu o immagini dell’Olocausto o il fungo atomico di Hiroshima che si alternavano a scene esplicite di
sesso nelle sue più ardite varietà e interpretazioni.
“Silenzio, ora. Non posso parlare. Non devo parlare…”
Jerry si rimise sdraiato e obbligò la donna senza nome a stendersi al suo fianco e le indicò le loro figure nello specchio
sul soffitto.
“Adesso devo pensare. Adesso devo vedere…”
In qualche modo Jerry riuscì a sentire l’emozione e l’eccitazione della donna senza nome rivestirla come un’aurea. Si
girò di scatto, le spalancò le gambe e la penetrò quasi in un solo movimento. Nell’irruenza di quel gesto ruvido urtò e
fece cadere la latta di colore con cui si era dipinto e che era rimasta a terra accanto a loro. Il rosso della vernice si
spalancò come una bocca stupita sul candore del telo.
Dalla sua posizione supina la donna vide la macchia aprirsi come se di colpo si fosse sparso tutto il sangue contenuto
nel suo corpo. In quel momento divenne completamente partecipe dello scopo quasi liturgico di quella unione. Il suo
desiderio divenne furia e cominciò a gemere sempre più forte, in sincrono perfetto con i violenti colpi che sferrava
l’uomo che teneva fra le reni. Iniziò fra loro due un frenetico balletto orizzontale che il colore disegnava sul panno
come graffiti, la testimonianza di un movimento ancestrale che aveva come duplice scopo la soddisfazione del desiderio
e il desiderio che quella soddisfazione non arrivasse mai.
Anche se la donna senza nome non lo sapeva, Jerry era convinto dell’inutilità di quel patetico sobbalzare di natiche che
qualcuno aveva paragonato allo sbattere d’ali di farfalle sulla seta.
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Ne era sicuro, come era sicuro del fatto che qualunque artista, per il semplice fatto di esserlo, portava dentro di sé i
germi del proprio annichilimento, tutto ciò che al tempo era nemesi e benedizione dell’arte.
Ognuno di loro era un fallito.
Per quante donne senza nome avessero scopato su tele assicurate al pavimento o pennelli portato a girovagare su una
superficie disposta ad accoglierli e per quanto colore avessero fuso o sparso, ci sarebbe sempre stata un’opera a cui
anelavano e che era sparita nella mente senza lasciare traccia di sé dopo una breve fugace apparizione, il lampo
sublimale di un’idea subito oscurata dalle immagini false e reali che la vita obbligava a portare negli occhi. Non poteva
esistere l’uomo nel cerchio e nel quadrato perché non esistevano né il cerchio né il quadrato, ma soprattutto non esisteva
l’uomo…
Con un lungo gemito sibilato la donna senza nome raggiunse l’orgasmo, tentando invano con le mani di aggrapparsi alla
stoffa tesa sul pavimento. Nella mente di Jerry gli effetti della droga e del sesso avevano ormai scavalcato il grado di
fusione giusto per non permettergli di resistere ancora. Scattò in piedi e masturbandosi freneticamente sparse il suo
seme sui segni tracciati dai loro movimenti, quasi volesse in qualche modo innaturale e blasfemo inseminare la tela o
manifestarle il suo ribrezzo infinito.
La donna senza nome capì quello che stava facendo e la consapevolezza di essere parte di quella creazione la coinvolse
in un nuovo orgasmo, ancora più forte del precedente, che la obbligò a rinchiudersi in posizione fetale con lo scatto di
un coltello a serramanico.
Svuotato di colpo di ogni motivazione, Jerry si lasciò scivolare a terra e si trovò sdraiato con il viso rivolto verso le
grandi vetrate che illuminavano la parete della casa che dava sull’East River. Nonostante fossero al settimo piano,
riusciva a percepire il riverbero della luna piena sull’acqua sporca del fiume, che solo quella luce poteva con il suo
riflesso nobilitare in parte. Girò leggermente la testa e la trovò, un disco luminoso al centro della finestra all’estrema
sinistra.
La sera prima, la radio aveva detto che ci sarebbe stata un’eclissi e che sarebbe stata visibile da quella parte della costa.
In quel momento, un sottile bordo nero iniziò a rosicchiare il cerchio impassibile della luna.
Jerry si mise a tremare per l’emozione.
Gli tornò alla mente quello che era stato un giorno fatidico per tutta l’America, l’11 settembre 2001, il giorno che aveva
trasformato le poche certezze in molte paure. Dopo l’impatto del primo aereo il clamore successivo aveva raggiunto le
sue finestre aperte, un miscuglio fatto di urla umane e sirene e quel rumore inconfondibile generato dal panico di gente
in fuga. Era salito sul tetto della sua casa in fondo a Water Street e da lì aveva contemplato serenamente l’impatto del
secondo aereo e quel capolavoro di distruzione che era stato il collasso delle Twin Towers. L’aveva trovato semplice e
perfetto nella sua catastrofica enormità, un esempio di come la civiltà che avevano creato intorno a loro solo nella sua
cancellazione poteva trovare un riscatto. E se questo valeva per gli elementi della civiltà, tanto più era valido per l’arte,
che della civiltà rappresenta l’avamposto più avanzato in territorio nemico. Il fatto che migliaia di persone fossero
morte in quel crollo non lo coinvolgeva più di tanto. Tutto era etichettato con un prezzo e, secondo lui, quelle morti non
erano che pochi spiccioli di fronte a quello che il mondo aveva guadagnato dal rombo polveroso di quell’esperienza.
Da quel giorno aveva deciso di cambiare il suo nome in Jerry Kho, un gioco di parole volutamente facile con la parola
Gerico, la biblica città le cui mura inespugnabili erano cadute al semplice suono di una tromba. Aveva deciso che
avrebbe fatto cadere le mura e sarebbe caduto con loro.
Per quanto riguardava il suo vero nome, preferiva dimenticarlo, come tutta la sua vita precedente. Non c’era niente in
quello che aveva vissuto che valesse la pena di essere conservato, nemmeno la memoria. Se l’arte era casualità, la sua
distruzione era programmabile al pari della distruzione della sua stessa vita.
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Percepì un movimento accanto a lui. Il corpo della donna senza nome che si avvicinava strisciando al suo, ostacolato dal
colore che si stava asciugando. Sentì una mano toccargli la spalla e la voce di lei, fatta di fiato ancora caldo di piacere
accanto all’orecchio.
“Jerry, è stato belliss…”
Jerry alzò le braccia e batté le mani fra di loro. Il sensore spense di colpo tutte le luci, facendoli cadere in una penombra
che solo il totem degli schermi televisivi illuminava con la sua luce ambigua.
Appoggiò una mano sulla spalla della donna e la allontanò da sé con un gesto brusco.
Non ora, pensò.
“Non ora”, disse.
“Ma io…”
La voce della donna si perse in un mugolio indistinto quando Jerry con una nuova spinta la allontanò ancora di più da
sé.
“Taci e non ti muovere”, ordinò seccamente.
La donna senza nome rimase immobile e Jerry tornò a fissare il cerchio della luna, che adesso era per metà inghiottito
dal buio. A lui non interessava che quello a cui stava assistendo avesse una ferrea spiegazione scientifica. Solo il
sensodi quello che vedeva era importante, contavano solo l’allegoria e la mistificazione.
Rimase a guardare l’ecclissi sentendosi sprofondare nei postumi della droga e della fatica fisica, finché la luna non
divenne un disco nero bordato di luce appeso nel cielo dell’inferno.
Allora chiuse gli occhi e, mentre scivolava nel sonno, Jerry Kho desiderò che non tornasse mai più.
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Queste pagine sono tratte dal libro scritto da Giorgio Faletti dal titolo “Niente di vero
tranne gli occhi” pubblicato dalla Baldini Castoldi Dalai editore.
Jordan Marsalis e Maureen Martini, così lontane e differenti da non avere
apparentemente nulla in comune, si troveranno unite di fronte a un lucido e
spietato assassino che si diverte a comporre i corpi delle sue vittime come
personaggi dei Peanuts. La prima è il pittore maledetto Jerry Kho, pseudonimo di
Gerald Marsalis, figlio del sindaco di New York e nipote di Jordan. Ne seguiranno
altre due, collegate fra di loro da una misteriosa e indecifrabile logica.
Sullo sfondo di una Roma assolata e distratta e di una sfavillante e cupa New York,
dove tutto agli occhi appare vero ma nulla è come sembra, fra incomprensibili
messaggi e istantanee di orrori, i due protagonisti saranno travolti dall’affannata
ricerca dell’omicida, fino alla scoperta della sua e della loro verità.
In questo nuovo romanzo, Giorgio Faletti affina le sue capacità di scrittore di trame
avvincenti e nerissime da cui fa filtrare ad arte il tenue chiarore della sua vena
poetica.
Casteldaccia (PA), lì 26.10.2016
Ing. Francesco Solazzo
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