Agosto 2001 - Ordine dei Giornalisti

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Agosto 2001 - Ordine dei Giornalisti
Anno XXXII
n. 7, luglio-agosto 2001
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2-20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
Giornalisti
della
Lombardia
http://www.odg.mi.it
e-mail:[email protected]
Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
I ministri dell’Economia e del Lavoro hanno anticipato le iniziative sui sistemi previdenziali anche privatizzati
Tremonti e Maroni:
libertà di cumulo
Inpgi nel panico:
per noi sarà il crack
di Franco Abruzzo
Frattanto l’Istituto
porta a
15 milioni
la somma
esente
cumulabile
a favore
di chi ha
la pensione
di vecchiaia
anticipata
o la pensione
di anzianità
Nei programmi del ministero Berlusconi rientra l’abolizione integrale del divieto di cumulo
tra pensione e redditi di lavoro (autonomo e
dipendente). È un evento, questo, vissuto
con panico nell’Inpgi: un recentissimo studio
attuariale paventa il crack dell’Istituto. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ascoltato il 4 luglio dalle commissioni Finanze di
Camera e Senato, ha spiegato che “quest’operazione si può in qualche modo connettere con i progetti complessivi di emersione
contenuti nella manovra dei cento giorni”. La
legge n. 388/2001 (Finanziaria 2001) ha
introdotto una nuova modifica al divieto di
cumulo, portando al 70% la cumulabilità tra
pensioni di anzianità e redditi di lavoro autonomo o dipendenti, mentre le pensioni di
vecchiaia e quelle liquidate con anzianità
contributiva pari o superiore a 40 anni sono
interamente cumulabili con i redditi di lavoro
sia autonomo che dipendente. Con il prossimo intervento, verrebbe meno anche l’ultimo
divieto; e le regole sono estese automaticamente anche alle case privatizzate, che svolgono funzxioni sostitutivi (come l’Inpgi) nei
riguardi dell’Inps. Il 5 luglio, a margine
dell’assemblea annuale di Confcommercio, il
ministro del Lavoro, Roberto Maroni, ha
confermato che “il Governo abolirà il divieto
di cumulo”. Il cerchio si chiude.
Nelle stesse ore la libertà di cumulo tra
pensione redditi da lavoro dipendente e
autonomo è sbarcata anche nel pianeta
Inpgi, ma riguarda solo i titolari di pensione
di vecchiaia (con 40 anni di contributi). La
novità è contenuta nella delibera approvata il
4 luglio dal Consiglio generale dell’Istituto,
che ha modificato l’articolo 15 del suo Regolamento. Il 15 è l’articolo sulla disciplina del
cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente e autonomo. Il Consiglio ha stabilito,
inoltre, che “il trattamento pensionistico di
vecchiaia anticipata è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al
limite massimo di 15 milioni” (rivalutati ogni
anno in base agli indici Istat). Chi ha una
pensione di anzianità può cumulare fino a 15
milioni a patto che siano soltanto redditi di
lavoro autonomo. La somma dei 15 milioni, a
differenza del passato (quando il tetto cumulabile era di 9,6 milioni), è esente. Queste le
novità (in vigore dal 1° gennaio 2001 una
volta ratificati dai ministeri vigilanti del Tesoro
e del Lavoro):
• Le pensioni di vecchiaia sono cumulabili
con i redditi da lavoro autonomo e dipendente nella loro interezza.
• Il trattamento pensionistico di vecchiaia anticipata è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al limite massimo di
15 milioni. La quota di reddito eccedente tale
limite è incumulabile fino a concorrenza del
50% del predetto trattamento pensionistico, al
netto della quota cumulabile.
• Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con i redditi da lavoro dipendente nella
Il tribunale annulla
le dimissioni forzate
Annullamento delle dimissioni presentate da una giornalista ingiustamente minacciata di licenziamento per incapacità professionale – Vizio della volontà (Tribunale di Roma,
Sezione Lavoro 25 maggio 2001, Giudice Taraborrelli).
La giornalista Carola R., dipendente dell’Ansa come “collaboratrice fissa”, ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare,
per vizio della volontà, le dimissioni da lei presentate dopo
alcuni anni di lavoro. Ella ha sostenuto di essere stata
costretta a dimettersi per evitare un ingiusto licenziamento
per incapacità professionale, minacciatole da un rappresentante dell’azienda. L’Ansa si è difesa sostenendo che alla
giornalista erano state rappresentanti gli inconvenienti derivati da alcuni errori da lei commessi e che in seguito a ciò la
lavoratrice si era spontaneamente dimessa.
Il Giudice ha sentito alcuni testimoni al fine di accertare se
effettivamente la giornalista si fosse resa inadempiente e se
fosse stata minacciata di un ingiusto licenziamento, motivato
in modo tale da ledere la sua immagine professionale.
Completata l’istruttoria, il Giudice, con sentenza del 25
maggio 2001 (Est. Taraborrelli), ha annullato le dimissioni, ha
dichiarato conseguentemente la sussistenza di un rapporto
di lavoro subordinato ed ha condannato l’azienda al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni
maturate dalla data delle dimissioni.
(da “www.legge-e-giustizia.it)
SOMMARIO
Diritto di cronaca / Privacy e giornalismo.
Le regole da rispettare
pag. 4
Abolizione dell’Ordine? /
Botta e risposta
tra Abruzzo e il ministro del Lavoro
pag. 6
Guerra e mass media
pag. 8
Permessi ai consiglieri e ai commissari /
Intervengano Castelli e Maroni
pag. 14
Uffici stampa / Il parere del Consiglio
di Stato sul regolamento
pag. 15
Memoria / Ricordando Gianni Brera
pag. 22
Elezioni dell’Ordine /
Votare in un solo giorno
pag. 24
Elenco speciale /
Illecita l’autocertificazione
pag. 24
Segue a pagina 2
Promosso e organizzato dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Via al 4°
Concorso tesi
di laurea sul
giornalismo
ORDINE
7
2001
Milano, 5 luglio 2001. Promosso dal Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia, prende il via la quarta
edizione del Concorso destinato a valorizzare le tesi di
laurea dedicate al giornalismo e alle istituzioni della professione. Giudice insindacabile del premio è lo stesso Consiglio dell’Ordine. Le tesi (in duplice copia e anche su dischetto in programma word oppure rtf) dovranno pervenire alla
segreteria dell’Ordine (via Appiani 2 - 20121 Milano) entro
il 31 dicembre 2001.
Potranno concorrere le tesi discusse nelle Università italiane
(pubbliche e private) nel periodo gennaio-dicembre 2001. Le
sezioni del premio sono sei e ogni vincitore di sezione riceverà 5 milioni di lire. L’impegno finanziario dell’Ordine è,
pertanto, di 30 milioni complessivi. La cerimonia della consegna avverrà in occasione dell’assemblea degli iscritti all’Albo
dell’Ordine della Lombardia.
La cerimonia, quindi, è prevista per il marzo 2002 al Circolo
della Stampa. Estratti (di 400 righe) delle tesi premiate (e
segnalate) verranno pubblicati su Tabloid, organo mensile
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.
Per la valutazione delle tesi il Consiglio si avvarrà, come lo
scorso anno, dell’opera di consulenti (giornalisti e professori
universitari).
A ogni vincitore 5 milioni.
I candidati
dovranno consegnare
le tesi
entro dicembre
Queste le sezioni:
1) Storia del giornalismo italiano (testate e personaggi).
2) Storia del giornalismo europeo e nordamericano
(testate, deontologia e personaggi).
3) Istituzioni della professione giornalistica. La deontologia e l’inquadramento contrattuale dei giornalisti in
Italia, Europa e Nord America.
4) Professione giornalistica e sue specializzazioni anche
telematiche e radiotelevisive.
5) Giornalismo economico e finanziario.
6) Giornalismo culturale, sociale, scientifico.
1
Inpgi
Tremonti e Maroni:
libertà di cumulo
Istituto nel panico:
per noi sarà il crack
segue dalla pagina prima
loro ínterezza. Sono, invece, cumulabili con
quelli da lavoro autonomo fino al limite
massimo dei quindici milioni. La quota di
reddito eccedente tale limite è incumulabile
fino a concorrenza del 50% del predetto
trattamento pensionistico, al netto della
quota cumulabile.
• II limite di quindici milioni è rivalutato ogni
anno secondo i coefficienti Istat.
• Le pensioni di anzianità sono equiparate,
agli effetti del cumulo, alle pensioni di
vecchiaia quando i titolari compiono l’età
prevista per le pensioni di vecchiaia ovvero
quando sono state liquidate con almeno 40
anni di contribuzione.
• La disciplina vigente per le pensioni di
vecchiaia anticipata si applica anche nel
casi di cumulo della pensione di invalidità
con i redditi di lavoro autonomo e con i
redditi di lavoro dipendente di natura non
giornalistica.
• Ai trattamenti pensionistici liquidati ai sensi
dell’articolo 37 (prepensionamenti, ndr)
della legge 416/1981, agli effetti del cumulo, si applicano le precedenti disposizioni
vigenti per le pensioni di anzianità.
Le preoccupazioni per l’Inpgi nascono, però,
dalla relazione di Roberto Ercole (consulente
attuariale e previdenziale) al quale è stato
“chiesto di valutare cosa accadrebbe se le
norme sul cumulo (di cui alla legge 388/2000,
ndr) fossero recepite nell’ambito del trattamento previdenziale garantito dall’Inpgi”.
Ercole scrive che “appare imprudente introdurre nell’Ordinamento norme che possano
indurre una accelerazione della propensione
al pensionamento le quali hanno rilevanza
notevole sull’equilibrio tecnico gestionale”.
Il ragionamento di Ercole non ammette aperture. Nella ipotesi di aumento della “propensione a richiedere la pensione di anzianità”
dall’attuale 15% annuo degli aventi diritto al
50%, si avrebbe una perdita contributiva nel
quindicennio complessivamente stimabile in
208 miliardi di lire nonché maggiori oneri per
458 miliardi di lire; una perdita patrimoniale a
fine periodo, comprensiva cioè anche dei
mancati interessi, di 920 miliardi di lire; un
dimezzamento circa dell’avanzo previsto a
fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 1.223 miliardi.
Nella ipotesi, invece, di aumento della
propensione alla pensione di anzianità al
70%, si avrebbe una perdita contributiva nel
quindicennio complessivamente stimabile in
258 miliardi di lire nonché maggiori oneri per
595 miliardi di lire; una perdita patrimoniale a
fine periodo, comprensiva cioè anche dei
mancati interessi, di 1.182 miliardi di lire; un
dimezzamento circa dell’avanzo previsto a
fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 959 miliardi. In sostanza sarebbe il
crack per l’Istituto.
L’Inpgi, però, non è paragonabile alle altre
Casse, le quali non hanno disoccupati,
prepensionati, cassaintegrati. È il momento
di ripensare la scelta del 1995 e di dare
all’Inpgi di nuovo una veste pubblica come
l’Inpdai, che ha operato un dietrofront clamoroso nel 1995-96, quando 7 suoi iscritti erano
membri del Governo Dini.
Franco Abruzzo
Casagit:
Andrea Leone
nuovo presidente
Roma, 6 luglio. Andrea Leone, 55 anni, milanese, è il nuovo
presidente della Casagit per il quadriennio 2001-2005. Vice
presidente vicario dell’ente è Laura Delli Colli. Alla seconda
vicepresidenza è stato eletto Giancarlo Domenichini, che
avrà anche il coordinamento della commissione permanente.
Segretario del consiglio è Marcello Zeri. Lo annuncia una
nota della Cassa autonoma di assistenza integrativa dei giornalisti italiani.
Il nuovo consiglio di amministrazione, eletto dall’assemblea
nazionale dei delegati, è composto da: Andrea Leone, Paola
Rubbi, Laura Delli Colli, Giorgio Lombardi, Gino Zasso,
Marcello Zeri, Sergio Borsi, Giancarlo Domenichini,
Pierpaolo Dobrilla, Gianclaudio Bianchi, Pietro Stramba
Badiale. L’ assemblea dei delegati ha eletto inoltre il nuovo
collegio dei sindaci che risulta composto da: Vincenzo
Lucrezi, Giuseppe Falcucci, Rita Fatiguso (membri effettivi).
Franco Chieco e Aldo Sgroj (membri supplenti). Il collegio dei
sindaci ha eletto alla propria presidenza Vincenzo Lucrezi.
(ANSA)
2
Articolo 15
del
Regolamento
dell’Inpgi
sulla
disciplina
del
cumulo
tra
pensioni
e redditi
da
lavoro
dipendente
e
autonomo
1. Le pensioni di vecchiaia sono cumulabili con i redditi
da lavoro autonomo e dipendente nella loro interezza.
2. Il trattamento pensionistico di vecchiaia anticipata di
cui al comma 2 dell’articolo 4 è cumulabile con i redditi
da lavoro autonomo e dipendente fino al limite massimo
di 15 milioni. La quota di reddito eccedente tale limite è
incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile.
3. Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con i redditi
da lavoro dipendente nella loro ínterezza. Sono, invece,
cumulabili con quelli da lavoro autonomo fino al limite massimo dei quindici milioni. La quota di reddito eccedente tale
limite è incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile.
4. II limite di quindici milioni di cui ai precedente commi
2 e 3 è rivalutato ogni anno secondo i coefficienti Istat.
5. Le pensioni di anzianità sono equiparate, agli effetti del
cumulo, alle pensioni di vecchiaia quando i titolari compiono l’età prevista per le pensioni di vecchiaia ovvero quando
sono state liquidate con almeno 40 anni di contribuzione.
6. La disciplina vigente per le pensioni di vecchiaia anticipata si applica anche nel casi di cumulo della pensione di invalidità di cui all’articolo 8 con i redditi di lavoro autonomo e
con i redditi di lavoro dipendente di natura non giornalistica.
7. I trattamenti pensionistici sono totalmente cumulabili con i
redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di programmi di
reinserimento degli anziani in attività socialmente utili,
promosse da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private. I predetti redditi non sono soggetti alle contribuzioni previdenziali né danno luogo al diritto alle relative prestazioni.
8. Agli iscritti, che alla data del 31 dicembre 1994 risultano
già pensionati, ovvero, hanno maturato il diritto a pensionamento di vecchiaia o di anzianità, continuano ad applicarsi,
se più favorevoli, le seguenti disposizioni:
- per i titolari di pensione di vecchiaia, che prestino lavoro subordinato alle dipendenze altrui con una retribuzione non inferiore a un terzo di quella minima di redattore stabilita per l’anno
precedente dal contratto di lavoro giornalistico, opera una
riduzione del trattamento di pensione pari al 50% dell’importo
complessivo, fatto comunque salvo il trattamento minimo;
- per i titolari di pensione di anzianità il trattamento stesso è
totalmente incumulabile con retribuzioni di qualsiasi importo derivanti da rapporti di lavoro a carattere subordinato.
9. Ai trattamenti pensionistici liquidati ai sensi dell’articolo 37 della legge 416/81 e successive integrazioni e modificazioni, agli effetti del cumulo si applicano le precedenti
disposizioni vigenti per le pensioni di anzianità.
10. Nei casi di cumulo con redditi di lavoro autonomo, i
pensionati sono tenuti a produrre all’Istituto una dichiarazione dei redditi da lavoro riferiti all’anno precedente, entro lo
stesso termine previsto per la dichiarazione ai fini Irpef. Nei
casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente, i pensionati
devono produrre all’Istituto la certificazione del datore di lavoro attestante la retribuzione corrisposta.
11. Nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente
o autonomo la trattenuta è effettuata dall’Istituto.
12. Ai titolari di pensione che omettano di produrre la
dichiarazione di cui al comma 10 si applicano le sanzioni previste dalla legge 23 dicembre 1996 n. 662.
13. Le disposizioni contenute nei commi 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del
presente articolo si applicano a decorrere dal 1 ° gennaio 2001.
---------------*I commi in grassetto sono quelli effettivamente modificati rispetto alla versione attualmente in vigore.
Bilancio tecnico Inpgi:
1
Premessa
II bilancio tecnico dell’Inpgi riferito al 1° gennaio 2001 ha
messo in evidenza una situazione di sostanziale equilibrio
tecnico-finanziario per il prossimo quindicennio. In sede, poi,
di estensione delle valutazioni al prossimo quarantennio, è
risultato che tale condizione si dovrebbe protrarre anche nel
prossimo trentennio anche se, dall’anno 2020, si cominciano
ad evidenziare dìsavanzi annuali di gestione e, dal 2033,
deficit tecnico-finanziari.
È però da ricordare che le valutazioni effettuate nel citato
bilancio tecnico contengono, tra l’altro, una ipotesi di “propensione” al pensionamento di anzianità pari al 15% degli aventi diritto in quanto fondata sulla esperienza di questi ultimi
anni e, quindi, connessa alle penalizzazioni cui tale prestazione è attualmente soggetta. Penalizzazioni del tutto identiche a quelle in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria prìma delle modifiche apportate dalla “finanziaria 2000”.
Come noto, infatti, la legge n.338/2000 (finanziaria) ha modificato le norme in materia di trattenute ai pensionati che
proseguono l’attività lavorativa e, di conseguenza, anche le
penalizzazioni sulle pensioni di “anzianità”.
È stato,quindi, chiesto di valutare cosa accadrebbe se tali
norme fossero recepite nell’ambito del trattamento previdenziale garantito dall’Inpgi.
È chiaro che in questo caso, è da attendersi un aumento
della tendenza a richiedere, alla maturazione dei requisiti
minimi (57 anni di età ed almeno 35 di contribuzione), la
prestazione di “anzianità” oggi limitata dalle norme che la
inibiscono.
Pur non essendo possibile prevedere esattamente l’entità
del fenomeno, è stato chiesto di valutarne le conseguenze
sull’equilibrio gestionale in alcune ipotesi che appaiono le più
ragionevoli da prendere in considerazione al fine di poter
formulare un giudizio sulla possibilità ovvero opportunità di
recepire nell’Ordinamento dell’ Inpgi le norme di cui trattasi.
In particolare è stato chiesto di valutare l’impatto sulle condizioni di equilibrio tecnico-finanziario di un aumento della
“propensione al pensionamento di anzianità” dal 15% al 50%
ovvero al 70%.
2
Risultati delle valutazioni
Per rispondere al quesito posto, le valutazioni effettuate in
sede di bilancio tecnico sono state ripetute nelle nuove
condizioni ipotizzate. È chiaro che un aumento del numero
ORDINE
7
2001
Gli altri fronti
caldi dell’Inpgi
L’Inpgi attacca la cessione dei diritti d’autore
Chi cede i propri diritti sulle opere dell’ingegno (articoli, servizi giornalistici o fotografici, progetti grafici) non paga il 12%
all’Inpgi-2 e subisce (da parte dell’editore) una trattenuta del
20% sul 75% del compenso. È un principio vecchio e consolidato. L’Inpgi-2, però, prende di mira i giornalisti-autori, sostenendo che tali prestazioni professionali non possono essere
inquadrate come “cessione dei diritti” in base alla legge n.
633/1941; pertanto i giornalisti-autori sarebbero tenuti a
versare (sempre e comunque) il 12% alla gestione separata,
perché, in sostanza, il ricorso alla “cessione dei diritti” sarebbe una elusione previdenziale e un’attività professionale
“mascherata”.
Il ricorso alla cessione di diritti d’autore (redditi dichiarati nel
modello unico, quadro E, sezione II) è, invece, legittimo,
quando i giornalisti siano autori di articoli o servizi secondo
le definizioni che ne dà l’Ordine nazionale dei giornalisti nel
Tariffario:
a) Articolo: è un testo in chiave di resoconto o di analisi su
fatti o temi diversi, fino a due cartelle da 25 righe di 60 battute l’una (esempio: fatti o temi politici, economici, sociali,
morali, religiosi, culturali, sportivi, etc.).
b) Servizio: è un elaborato oltre le due cartelle più complesso e articolato che presuppone un approfondito lavoro di
indagine o di ricerca.
Appare evidente che articoli e servizi giornalistici vadano
rapportati al medium (giornale, periodico, radio, tv, testata
online) secondo le specificità del medium stesso. Si può,
pertanto, ritenere che si possa configurare la cessione dei
diritti d’autore tutte le volte in cui oggetto della cessione sia
un’opera originale e creativa (articoli, servizi giornalistici,
progetti grafici, servizi fotografici).
L’argomento è stato affrontato nel gennaio 1996 dall’Ordine
della Lombardia. Allora il rischio era quello di dover versare il
10% all’Inps. La legge sul diritto d’autore (n. 633/1941) apparve l’ancora di salvezza. L’Ordine raccomandò: “La cessione
dei diritti d’autore (articolo, servizio giornalistico o fotografico,
progetto grafico) deve risultare da una contrattazione scritta
tra le parti (articolo 2581 del Codice civile e articolo 110 della
legge sul diritto d’autore n. 633/1941)”.
I problemi odierni discendono dall’articolo 2 (comma 25)
della legge n. 335/1995 (riforma Dini delle pensioni) che
intendeva assicurare la “tutela previdenziale in favore dei
soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi”. Quella legge
istituiva una gestione separata presso l’Inps e disponeva un
contributo previdenziale del 10 per cento. Con il successivo
Decreto legislativo n. 103/1996, - in attuazione dei commi 25
e 26 dell’articolo 2 della legge n. 335/1995-, è stato attribuito
alle casse professionali erogatori di pensioni obbligatorie
(com’è l’Inpgi) il potere di istituire gestioni separate per provvedere alle necessità previdenziali dei propri “autonomi”
iscritti negli albi professionali tenuti dai rispettivi Ordini e
Collegi.
Ordine nazionale:
Del Boca presidente
e Roidi segretario
Roma, 21 giugno. Lorenzo Del Boca è stato eletto presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Lo ha deciso al secondo scrutinio (con 60 voti su 109 votanti) il Consiglio nazionale
dell’Ordine. Mario Petrina ha ritirato la sua candidatura dopo il
primo scrutinio (al termine del quale aveva raccolto 46 voti
contro i 55 dell’avversario).
Inviato speciale della Stampa, 50 anni, novarese, Lorenzo
Del Boca è presidente della Federazione nazionale della
stampa: “Per la categoria - ha dichiarato, dopo la sua elezione a presidente dell’Ordine - non è un momento facile, ma
sono convinto che ci sono ampi margini di recupero. I giornalisti possono essere un interlocutore credibile della società
civile e del mondo politico se si presentano non come amici o
nemici, ma come rappresentanti autorevoli e indipendenti di
una categoria professionale che merita rispetto”.
“L’Ordine è un insostituibile organo di autogoverno - ha proseguito - può essere riformato, ma rimane uno strumento a
salvaguardia dell’ autonomia e della libertà della professione.
Auspico, inoltre, che i quattro istituti della categoria, Ordine,
Fnsi, Inpgi, Casagit lavorino insieme e non attuino politiche
divergenti”.
Vicepresidente dell’Ordine è stato eletto Domenico Falco,
pubblicista. Segretario è, invece, Vittorio Roidi; tesoriere è
Michele Urbano. Del Comitato esecutivo, con Del Boca, Falco,
Roidi e Urbano, fanno parte Michelangelo Bellinetti, Francesco De Vito, Alberto Fumi, Stefano Gallizzi e Gianfranco Ricci.
(ANSA)
Una forzatura contro la delega ai danni dei “dipendenti”
Il Dlgs n. 103/1996 compie una forzatura, quando stabilisce
l’obbligo di iscrizione per i soggetti “che esercitano attività
libero-professionale, ancorché contemporaneamente svolgono attività di lavoro dipendente”. Il Dlgs, quindi, va al di là
della originaria finalità della legge n. 335/1996. Il Governo
può essere accusato di aver violato la delega. Questa esten-
sione è sicuramente illegittima. La ratio del legislatore era
totalmente condivisibile: l’obiettivo era quello di assicurare,
con la legge n. 335/1995, una tutela previdenziale solo ai
lavoratori autonomi privi di copertura previdenziale. Bisogna
provocare a questo punto un giudizio della Corte costituzionale.
Una circolare sbagliata contro gli “occasionali”
Tutte le collaborazioni giornalistiche, anche se “sporadiche e
produttive di modesto reddito”, comportano, dice erroneamente una circolare del ministro del Lavoro, l’obbligo di iscrizione (dell’articolista-autore) alla gestione separata dell’Inpgi
e al pagamento dei relativi contributi previdenziali. L’assunto
del ministro, illegittimo, va disatteso con determinazione,
perché contrasta con l’articolo 2 (comma 26) della legge n.
335/1995.
Il comma 26 dell’articolo 2 della legge n. 335/1996 afferma
che, a decorrere dal 1° gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso la Gestione separata “i soggetti che esercitano
per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di
lavoro autonomo” di cui al comma 1 dell’articolo 49 del Tuir
(Dpr n. 917/1986), nonché ‘i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa’, di cui al comma 2 (lettera a)
dell’articolo 49 del Tuir (Testo unico imposte sui redditi)”.
Questa norma, quindi, esclude che debbano iscriversi all’Inpgi-2 coloro che svolgano attività giornalistica occasionale,
saltuaria e sporadica (redditi dichiarati nel modello unico,
quadro L). In sostanza chi produce occasionalmente degli
articoli non è tenuto parimenti a iscriversi all’Inpgi-2, perché
non ha il requisito della “abitualità professionale”. Anche in
questo caso si può affermare che la circolare del ministro del
Lavoro è carta straccia.
Il controllore che controlla se stesso
Michele Daddi, direttore generale per la previdenza del
Ministero del Lavoro (un eccellente professionista) riveste
il ruolo (retribuito) di presidente del Collegio sindacale
dell’Inpgi.
È un caso clamoroso di controllore che controlla se stesso.
Questa anomalia è da attribuire esclusivamente all’articolo 3
(comma 1) del Dlgs n. 509/1994 secondo il quale “nei collegi
dei sindaci (delle Fondazioni, ndr) deve essere assicurata la
presenza di rappresentanti delle Amministrazioni dei ministeri del Lavoro e del Tesoro”.
nota aggiuntiva al 1° gennaio 2001
con la valutazione degli effetti
delle pensioni di anzianità
dei pensionamenti di “anzianità”, cioè di coloro che maturano
i 57 anni di età ed i 35 di contribuzione, comporta oltre ad un
aumento degli oneri anche una, seppure modesta, riduzione
dei gettiti contributivi. Infatti anche se nei nuovi calcoli è stata
mantenuta inalterata la condizione di costanza della collettività iscritta, nelle nuove ipotesi considerate escono individui
ad elevata retribuzione che vengono sostituiti da soggetti
(nuovi ingressi) a retribuzione modesta con conseguente
decremento dei monti reributivi previsti nelle attuali condizioni.
I risultati ottenuti dalle nuove valutazioni effettuate, trovano la
loro sintesi nelle due tavole allegate che evidenziano le
nuove situazioni gestionali ipotizzabili nelle due eventualità
prospettate.
Nella ipotesi di aumento della “propensione a richiedere la
pensione di anzianità” dall’attuale 15% annuo degli aventi
diritto al 50%, si avrebbe:
- una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 208 miliardi di lire nonché maggiori oneri per
458 miliardi di lire;
- una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè
anche dei mancati interessi, di 920 miliardi di lire;
- un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo
che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 1.223 miliardi.
ORDINE
7
2001
Nella ipotesi di aumento della propensione alla pensione di
anzianità al 70%, si avrebbe:
• una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 258 miliardi di lire nonché maggiori oneri per
595 miliardi di lire;
• una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè
anche dei mancati interessi, di 1.182 miliardi di lire;
• un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo
che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 959 miliardi.
È doveroso, inoltre, ricordare che le valutazioni contenute nel
bilancio tecnico sono basate su alcune ipotesi, quali il tasso
inflattivo (1,2% dal 2002) ed il tasso di rendimento delle
giacenze patrimoniali (3% per gli immobili e 4,5% per le altre
attività), che potrebbero non verificarsi con chiare conseguenze negative sulle risultanze previste.
Appare, pertanto, imprudente introdurre nell’Ordinamento
norme che possano indurre una accellerazione della
propensione al pensionamento le quali, come in precedenza esposto, hanno rilevanza notevole sull’equilibrio tecnico
gestionale.
Serventi Longhi
“soddisfatto”
Roma,22 giugno. Il segretario della Fnsi, Paolo Serventi
Longhi, ha espresso “grande soddisfazione per l’elezione di
Lorenzo Del Boca alla presidenza del Consiglio nazionale
dell’Ordine dei giornalisti”.
“Si tratta di una scelta - è detto in una nota - che va nel segno
di un profondo rinnovamento dell’istituzione professionale e
che consente alla categoria di guardare con maggior fiducia
al futuro. Tanto più che Lorenzo Del Boca è affiancato da una
squadra di assoluto prestigio nella quale spicca la figura di
Vittorio Roidi, eletto segretario dell’Ordine, collega che
rappresenta un punto di riferimento per tantissimi giornalisti.
Complimenti ed auguri di buon lavoro vanno quindi a Del
Boca, a Roidi, al tesoriere Michele Urbano e al vicepresidente Mimmo Falco, ai componenti dell’esecutivo e del Consiglio
nazionale”.
“I giornalisti continuano a chiedere la riforma della legge sulla
professione e sanno di poter contare su una istituzione ordinistica capace di guardare al nuovo con intelligenza e senza
timori. Il giornalismo vive un momento delicato, sia dal punto
di vista professionale sia sindacale, e per questo ha bisogno
di regole definite, di autonomia e di grande senso di responsabilità, civile ed etico”, ha detto Serventi Longhi.
“Chiederò una riunione urgente del coordinamento degli istituti della categoria, Ordine, Fnsi, Inpgi e Casagit, dei quali
occorre rilanciare una forte linea unitaria, non appena l’assemblea nazionale dei delegati della Casagit avrà eletto il
proprio gruppo dirigente. Un appuntamento anche questo di
grande rilievo per la categoria”, ha concluso Serventi Longhi.
(ANSA)
Autonomia e Solidarietà:
“Per l’Ordine
gestione unitaria”
Bologna, 23 giugno. Una gestione unitaria per l’Ordine dei
giornalisti: il coordinamento nazionale di Autonomia e solidarietà, componente degli organismi di categoria dei giornalisti
italiani, interviene con una nota sul voto del Consiglio nazionale dell’ Ordine, con il quale inizia una nuova gestione di
questo organismo. “Si è “insediato” un governo unitario - afferma Giovanni Rossi a nome del coordinamento nazionale - i
cui primi obiettivi dovranno essere il rilancio del ruolo dell’Ordine che si è progressivamente appannato negli ultimi tempi,
l’ impegno per l’adeguamento della legge istitutiva alla nuova
realtà professionale, la ricostruzione di un positivo rapporto di
dialogo con gli altri enti della categoria con i quali, nel corso
di questi anni, si era creata una contrapposizione sempre più
profonda”. Autonomia e solidarietà - conclude la nota - “augura ai nuovi dirigenti dell’ Ordine nazionale buon lavoro nell’interesse di tutti i giornalisti italiani”.
(ANSA)
Roberto Ercole
Studi attuariali e Consulenze previdenziali
Roma giugno 2001
3
di Caterina Malavenda e Carlo Melzi d’Eril
D I R I T T O
D I
C R O N A C A
Privacy e giornalismo
le regole da rispettare
Essenzialità
della notizia
PRIMO CRITERIO CUI DEVE RISPONDERE UNA INFORMAZIONE PER ESSERE PUBBLICATA È QUELLO
DELL’ESSENZIALITÀ DELLA NOTIZIA; IN ALTRE PAROLE,
UNA VICENDA (COMPRESI I PARTICOLARI DI CUI VIENE
ARRICCHITA) PER ESSERE RIPORTATA SULLA STAMPA
DEVE POSSEDERE, IN RELAZIONE AL GRUPPO SOCIALE DI RIFERIMENTO, UN INTERESSE TALE - IN SÉ, O
COME FATTO EMBLEMATICO - DA RICONDURRE L’EPISODIO AL DIRITTO DI CRONACA.
L’ESSENZIALITÀ DELLA NOTIZIA COSTITUISCE UN
PARAMETRO CHE DEVE INFORMARE DI SÉ SIA LA
SCELTA DEI FATTI DA RIPORTARE, SIA IL MODO ED IL
TONO CON CUI TALI FATTI VENGONO DESCRITTI.
UNA VOLTA ISOLATO IL FATTO CHE “REALMENTE” E
“SOLAMENTE” COSTITUISCE LA NOTIZIA IN SENSO
STRETTO SOCCORRONO ALTRI CRITERI ED ALTRE
REGOLE COME QUELLE SOTTO ELENCATE.
a) Non sono pubblicabili dettagli e particolari che nulla hanno
a che vedere con la descrizione dell’evento oggetto dell’articolo di cronaca.
b) Anche in presenza di un fatto di interesse pubblico le
cronache non si devono soffermare eccessivamente su dati
sanitari, vicende intime, atti e corrispondenze di natura
personale, convinzioni religiose e di determinate abitudini
personali della vittima di un reato e di altre persone, con scarsa attenzione per i diritti degli interessati diffondendo anche
dettagli non essenziali per la necessaria informazione dell’opinione pubblica.
c) Non sono pubblicabili dati, a maggior ragione sensibili,
come l’indicazione di una precisa patologia, relativi a
congiunti di persone pur coinvolte in fatti d’interesse pubblico, in quanto non essenziali al diritto d’informazione.
d) L’informazione relativa all’indirizzo di un soggetto, che
aveva convissuto in passato con una donna vittima di un
omicidio ma che nell’ambito di tale vicenda delittuosa aveva
avuto il ruolo secondario di chi aveva segnalato la scomparsa della donna, realizza un’interferenza nella sfera privata
non giustificata dall’esercizio del diritto di cronaca, non risultando essenziale rispetto al fatto di interesse pubblico (anche
la diffusione del nome dell’immagine e della professione della
persona può ritenersi giustificata solo quando la loro conoscenza sia essenziale in ragione dell’eventuale, ulteriore
sviluppo dei fatti e del loro accertamento giudiziario).
e) Sono pubblicabili le generalità di vigili urbani vittime di atti di
lesione o di resistenza, o coinvolti in procedimenti amministrativi o giudiziari relativi ad un’infrazione contestata, oppure
imputati per reati riconducibili al servizio prestato, essendo
tutte riconducibili alle informazioni indispensabili per illustrare
una o più vicende di pubblico interesse per la comunità locale.
Dati provenienti
da enti pubblici
SONO PUBBLICABILI TUTTI I DATI PROVENIENTI DA
ENTI PUBBLICI QUANDO LA COMUNICAZIONE E LA
DIFFUSIONE SONO PREVISTE DA NORME DI LEGGE O
DA REGOLAMENTI E SECONDO LE MODALITÀ IVI DISCIPLINATE.
a) Sono pubblicabili i risultati degli scrutini scolastici, delle
commissioni d’esame.
b) Sono pubblicabili i dati relativi ai laureati qualora i regolamenti delle università di provenienza prevedano la comunicazione e diffusione dei medesimi.
c) Sono pubblicabili i dati dei dipendenti delle università
contenuti nell’apposito annuario essendo questa prevista da
un’apposita disposizione normativa.
d) Sono pubblicabili i dati anagrafici in possesso del Comune
se rilasciati in base alle norme ed ai regolamenti vigenti in
materia; è invece illegittima la prassi di fornire elenchi e dati
a terzi senza alcuna formalità.
4
e) Sono pubblicabili notizie riguardanti annunci di matrimonio
anche senza il consenso degli interessati, in quanto la loro
diffusione deriva da un obbligo di legge e, per di più, possono essere visionati da chiunque, ma i nominativi debbono
essere tratti dalle pubblicazioni affisse nell’albo pretorio. È da
considerarsi illegittima la prassi seguita dagli uffici comunali
di fornire direttamente a terzi dati o elenchi dello stato civile
con modalità diverse da quelle espressamente previste dalle
leggi o dai regolamenti.
f) Sono pubblicabili i dati personali contenuti negli albi professionali secondo le norme che regolano già il trattamento di
tali specifici dati.
g) Sono pubblicabili notizie relative a provvedimenti disciplinari nei confronti di avvocati in quanto la legge già prevede
un regime di conoscibilità nei confronti di altri professionisti e
di terzi basato su rilevanti motivi di interesse pubblico
connesso anche a ragioni di giustizia ed al regolare svolgimento dei processi.
h) Non viola la privacy pubblicare nel bollettino ufficiale dei
ministeri i provvedimenti disciplinari instaurati nei confronti
dei dipendenti pubblici. Tale pubblicazione si configura, anzi,
come doverosa in base al D.P.R. 686/57 (nell’occasione il
Garante ha anche precisato che i dati contenuti nel provvedimento disciplinare in esame non rientrano fra quelli a carattere giudiziario).
i) Sono pubblicabili i dati relativi agli stipendi dei dipendenti
pubblici (l. 241/90 sull’accesso ai documenti pubblici) o
concessionari di pubblici servizi, mentre restano riservate
vicende estranee alle retribuzione-tipo e relative a circostanze personali o familiari.
j) In base ai principi della l. 675/96 si ritiene lecita, in relazione
alla situazione patrimoniale dei soggetti di cui all’art. 12 l. 441
del 1982, la conoscibilità e la pubblicità dei dati contenuti nelle
dichiarazioni e negli atti da essi presentati, attraverso un bollettino edito a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri.
k) Sono pubblicabili i nominativi dei contribuenti che hanno
dichiarato redditi superiori ad un determinata soglia, anche
senza il consenso degli interessati, in quanto le amministrazioni pubbliche possono divulgare questo genere di informazioni quando la diffusione sia prevista da una norma di legge
o di regolamento (nel caso di specie l’Autorità garante ha
richiamato l’art. 69 del d.P.R. n. 600 del 1973).
l) Sono pubblicabili i dati relativi ai firmatari di petizioni, istanze, proposte all’autorità locale, in quanto, tra l’altro disciplinata dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi.
Atti del processo
penale e
persone coinvolte
SONO PUBBLICABILI SECONDO LE REGOLE DETTATE
DAL CODICE DI PROCEDURA PENALE (ARTT. 114 E 329
C.P.P.) SECONDO LE QUALI, AD ESEMPIO, NON SONO
MAI PUBBLICABILI NOTIZIE DI ATTI DELLE INDAGINI
PRIMA CHE L’INDAGATO NE ABBIA NOTIZIA, NÉ LE FOTO
DI PERSONE AMMANETTATE, SE NON PER ESIGENZE
DI SICUREZZA PUBBLICA E DI GIUSTIZIA O NEL CASO
LO PERMETTANO ESPRESSAMENTE GLI INTERESSATI.
IN QUEST’AMBITO, PARTICOLARI LIMITI SONO PREVISTI PER I MINORI (VEDI INFRA) SANCITI, TRA L’ALTRO,
DALL’ART. 13 D.P.R. 22.9.1988, N. 448, APPROVAZIONE
DELLE DISPOSIZIONI SUL PROCESSO PENALE A CARICO DI IMPUTATI MINORENNI. SI RICORDA CHE I MINORI
“PROTAGONISTI” DI FATTI DI CRONACA GIUDIZIARIA
NON POSSONO MAI ESSERE RESI RICONOSCIBILI NÉ
MEDIANTE FOTOGRAFIE, NÉ RICORRENDO A INEQUIVOCABILI DATI TESTUALI (NOME DEI GENITORI, SCUOLA E CLASSE FREQUENTATI, ABITUDINI, AMICIZIE,
ECC.). IN TALI EVENTUALITÀ È SEMPRE CONSIGLIABILE USARE NOMI DI FANTASIA.
a) Sono pubblicabili gli inviti a comparire solo una volta portati a conoscenza dell’interessato.
b) Sono pubblicabili le notizie relative alla richiesta di rinvio a
giudizio in quanto tale atto non risulta essere un atto d’indagine
che richiederebbe l’applicazione degli artt. 329 e 114 del c.p.p.
c) È pubblicabile la notizia di una sentenza di condanna
emessa a carico dell’interessato, in quanto questa non viola
alcuna norma del c.p.p. relative alla pubblicazione di atti
processuali né altre specifiche norme, purché, come ovvio,
siano rispettati i limiti del diritto di cronaca e quelli dell’essenzialità della notizia (si tengano presente, peraltro, i limiti più
ristretti previsti in altri punti dell’ordinamento nel caso di minori parti o “oggetto” del processo penale).
d) Non sono pubblicabili le trascrizioni delle intercettazioni
telefoniche compiute nell’ambito di un’indagine penale, nella
parte in cui attengono a comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che possono
riguardare la sfera intima del soggetto.
e) Anche l’autorità giudiziaria è sottoposta all’art. 9 della l.
675/96, che sancisce tra l’altro che i dati trattati siano pertinenti e non eccedenti gli scopi per i quali sono raccolti e
successivamente trattati. In base a questo principio i dati il
materiale da acquisire nel procedimento penale va selezionato in base alla necessità di assumere dati, informazioni e
notizie indispensabili per la prevenzione, l’accertamento e la
repressione dei reati. Nel caso non può ritenersi giustificato il
mantenimento della documentazione d’indagine del p.m. di
circostanze relative all’interessato e ai suoi familiari che, in
base alle risultanze dell’indagine stessa, risultavano esclusi
da ogni coinvolgimento nell’azione penale.
f) Il calendario dei processi, le udienze e le sentenze sono
pubblici e conoscibili da chiunque vi abbia interesse.
g) Non sono pubblicabili al di fuori delle finalità predette le
fotografie di persone ammanettate ovvero quelle scattate
dalla polizia per i rituali rilievi segnaletici.
Notizie riguardanti
la salute
PUR ESSENDO DIVULGABILE SIA LO STATO DI MALATTIA DI UNA PERSONA, SIA LA SUA PRESENZA IN OSPEDALE, NON SI POSSONO PUBBLICARE PARTICOLARI
ANALITICI RIGUARDO LE PATOLOGIE CONTRATTE, A
MAGGIOR RAGIONE QUANDO QUESTE ULTIME SIANO
GRAVI ED IN TAL MODO SI SUPERI LA ESSENZIALITÀ
DELLA NOTIZIA. È SEMPRE INDISPENSABILE CHE L’INFERMITÀ E LA DEGENZA SIANO IN QUALCHE MODO DI
PUBBLICO INTERESSE; SOLTANTO QUANDO SIA
STRETTAMENTE LEGATA AL FATTO OGGETTO DI
CRONACA SI PUÒ ACCENNARE ALLA PATOLOGIA CHE
ALTRIMENTI DEVE RIMANERE RISERVATA.
a) Sono pubblicabili le notizie sulla presenza di degenti in
ospedale.
b) Non sono pubblicabili diagnosi precise di patologie, tranne
che in casi limite, ad es. il Presidente della Repubblica (in
particolare non è divulgabile la diagnosi di AIDS).
c) Non sono pubblicabili, nemmeno da parte di riviste medico-scientifiche dati che rendano riconoscibile i soggetti cui
determinate patologie, diagnosi o dati clinici sono riferiti.
d) La sfera privata delle persone note o che esercitino funzioni pubbliche deve venire rispettata se le notizie o i dati non
sono essenziali. La pubblicazione di particolari riguardanti lo
stato di salute di una persona identificata o identificabile,
corredati dalla indicazione della specifica malattia e da dati
analitici di interesse strettamente clinico, specie nel caso di
malattie gravi, viola il rispetto della dignità della persona, il
suo diritto alla riservatezza ed il suo decoro personale.
e) La diffusione di dati idonei a rivelare lo stato di salute è
vietata; pertanto la divulgazione di dati personali ad organi di
stampa, in ordine allo stato di salute di una persona, in
assenza di un consenso dell’interessato o dei suoi legittimi
rappresentanti, è illegittima a prescindere dalla loro esattezza. A maggior ragione se si tratta di persona minore, il cui
diritto alla riservatezza è posto come primario rispetto al diritto di cronaca dal nostro ordinamento che in ogni caso impone di non pubblicare i nomi dei minori coinvolti in fatti di
cronaca, né di fornire particolari in grado di condurre alla loro
identificazione, a meno che la diffusione di notizie sia stata
autorizzata dai genitori o dal giudice e sia fatta nell’esclusivo
interesse del minore (nel caso, alcuni organi di stampa
avevano pubblicato la notizia di un malore che aveva colpito
una ragazzina mentre passeggiava nel centro della propria
ORDINE
7
2001
CASISTICA
QUESTIONARI
a) Anche i questionari che
richiedono dati allegati a
periodici debbono rispettare
le norme a tutela della
privacy, in particolare fornire
un’informativa comprendente la richiesta di consenso
all’utilizzo dei dati di tutti gli
interessati, le finalità e le
modalità di trattamento dei
dati stessi nonché il loro
ambito di diffusione. Per i
dati sensibili è poi richiesto
espressamente un consenso scritto e la preventiva
autorizzazione del Garante.
verifica della loro esattezza
e provenienza (nel caso
preso in esame tali dati
erano ricevuti telefonica-
mente dalla persona che
richiedeva
l’inserzione
senza verificarne l’identità).
ELENCHI DI ISCRITTI
AD ASSOCIAZIONI
INSERZIONI
PUBBLICITARIE
a) I giornali che pubblicano
inserzioni pubblicitarie e
annunci di lavoro devono
verificare l’esatta provenienza dei dati.
L’autorità Garante ha ritenuto le inserzioni relative ad
un’attività commerciale e
non all’attività giornalistica
ed ha deciso di avviare un
procedimento autonomo
per verificare alcuni aspetti
di carattere generale del
trattamento relativo alla
pubblicazione di tali inserzioni, in particolare per
quanto concerne le modalità di raccolta dei dati e la
città, malore che, in conseguenza di alcune affermazioni rilasciate da personale appartenente alla locale U.S.L., sarebbe
stato associato impropriamente dai giornali ai contraccolpi
psicologici determinati dalla cessazione del funzionamento
di un “pulcino elettronico”).
f) Un articolo che riporta la prassi dei vigili urbani di elevare
multe ai veicoli parcheggiati fuori dagli spazi consentiti all’interno di un ospedale cittadino, pur riferendosi ad una questione che può essere di interesse pubblico, riguardando la
correttezza e l’uniformità del comportamento di un ufficio di
polizia, non era caratterizzato da comportamenti in pubblico
che rendessero necessario il riferimento a particolari dati
sanitari delle persone coinvolte (cioè oggetto delle sanzioni).
Il principio di essenzialità dell’informazione deve imporre di
evitare la pubblicazione di dettagli superflui in grado di rivelare le malattie (a maggior ragione se gravi) dei predetti.
g) Anche per finalità di “salute pubblica” la diffusione di dati
relativi alla salute di una prostituta affetta da AIDS deve essere effettuata con tutte le cautele necessarie, affinché vengano
allertate le persone che abbiano avuto contatti con la medesima senza per questo che essa sia da chiunque identificabile
e quindi esposta all’attenzione di tutti i mezzi d’informazione.
h) I dati relativi allo stato di salute contenuti in una perizia
dell’assicurazione sono dati personali e come tali debbono
essere comunicati all’interessato che ne faccia richiesta, a
meno che non siano raccolti al fine di indagini difensive o per
far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. In tal caso
il diritto di accesso è sospeso solo fino a che esso potrebbe
causare un pregiudizio allo svolgimento delle indagini o all’esercizio di un diritto.
Notizie riguardanti
lo svolgimento di
attività economiche
SONO PUBBLICABILI NOTIZIE E DATI RIGUARDANTI GLI
OPERATORI ECONOMICI DI UN DETERMINATO SETTORE
COMMERCIALE QUANDO TALI DATI SONO CONNESSI
ALLO SVOLGIMENTO DI UN’ATTIVITÀ CHE FA PARTE DEL
PUBBLICO MERCATO O CHE COMUNQUE RICALCA
PROFILI DI PUBBLICO INTERESSE (FATTO SALVO IL
RISPETTO DEL SEGRETO AZIENDALE ED INDUSTRIALE).
a) La legge sulla privacy, pur applicandosi sia alle persone fisiche che alle persone giuridiche, non impedisce la divulgazione
delle informazioni sulle attività economiche, comprese quelle
relative agli azionisti delle società, anzi, fatto salvo il rispetto del
segreto aziendale ed industriale, tale legge tende a favorire la
trasparenza e la circolazione di questo genere di informazioni.
b) Le informazioni relative alla solvibilità o allo stato d’insolvenza
di un’impresa, al pari di quelle riguardanti i crediti e i debiti, rientrano tra i dati attinenti allo svolgimento di attività economiche,
possono essere utilizzati e divulgati anche senza il consenso
delle società ed il loro trattamento non è soggetto a notifica
(come del resto tutti i dati riguardanti le persone giuridiche).
Tutela dei luoghi
di domicilio
NON SONO PUBBLICABILI IMMAGINI RIPRESE O SCATTATE IN LUOGHI DI DOMICILIO, DI DEGENZA O DI CURA,
DETENZIONE O RIABILITAZIONE SENZA IL CONSENSO
DEGLI INTERESSATI.
a) Non sono pubblicabili immagini riprese o scattate in luoghi
di domicilio, di degenza o di cura, detenzione o riabiliazione.
NON SONO PUBBLICABILI DATI RIGUARDANTI I MINORI A MENO CHE LA PUBBLICAZIONE, FERMI I DIVIETI
DI LEGGE, NON SIA NELL’OGGETTIVO INTERESSE DEL
MINORE STESSO.
ORDINE
7
2001
a) L’uso a fini di propaganda
elettorale dei dati personali
degli iscritti ad associazioni
di vario tipo incontra alcuni
limiti.
È necessario infatti che tale
uso sia previsto espressamente nello statuto o in una
chiara informativa agli interessati, i quali devono essere messi in condizione di
acconsentire a tale uso, in
riferimento a quanto contenuto nello statuto o
nell’informativa.
b) Un’associazione non
può opporsi alla pubblicazione dei nomi dei propri
iscritti, a meno che non vi
sia stata un espressa delega da parte degli interessati, essendo i diritti di cui
all’art. 13 l. 675/96 strettamente personali.
NON SONO PUBBLICABILI DATI RIGUARDANTI MINORI A
MENO CHE LA PUBBLICAZIONE, FERMI I DIVIETI DI
LEGGE, NON SIA NELL’OGGETTIVO INTERESSE DEL
MINORE STESSO. ANCHE NEL CASO IN CUI VI SIA L’ACCORDO PER LA PUBBLICAZIONE DEI GENITORI; AL GIORNALISTA È RICHIESTA UN’ATTENTA OPERA DI CONTROLLO AFFINCHÉ NELL’ADEMPIMENTO DELLA PROPRIA
PROFESSIONE NON FINISCA PER NUOCERE AL MINORE.
GIÀ LA CARTA DI TREVISO (1990) CON IL RELATIVO VADEMECUM (1995) AVEVANO STABILITO NON SOLO LA
PREVALENZA DELL’INTERESSE DEL MINORE SUL DIRITTO DI CRONACA (IMPONENDO TRA L’ALTRO IL PIÙ STRETTO ANONIMATO NEL CASO DI MINORI COINVOLTI A
QUALUNQUE TITOLO IN FATTI DI REATO), MA ANCHE LA
NECESSITÀ PER IL GIORNALISTA, NEL CASO MANCHI
UNA UNIVOCA DISCIPLINA GIURIDICA DI INTERROGARSI
SE QUANTO STA COMPIENDO SIA NELL’EFFETTIVO INTERESSE DEL MINORE STESSO, ANCHE A PRESCINDERE
DA UN EVENTUALE CONSENSO DEI GENITORI.
UN CASO “LIMITE” È QUELLO DEL MINORE UCCISO O,
COMUNQUE, DECEDUTO. DATO CHE LA NON IDENTIFICABILITÀ TENDE A PROTEGGERE L’INTERESSE DEL MINORE, NELL’IPOTESI PRESA IN CONSIDERAZIONE NON VI È
ALCUN INTERESSE DA PROTEGGERE, SE NON QUELLO
DEI GENITORI CHE POTREBBERO ESSERE TITOLARI DI
UN DIRITTO ALL’IMMAGINE DEL FIGLIO, QUINDI IN QUESTI
FRANGENTI È SEMPRE CONSIGLIABILE PUBBLICARE
FOTO O DATI IN ACCORDO CON I GENITORI.
a) Nel caso di suicidio del minore, in assenza del consenso
dei genitori costituisce grave violazione del diritto alla riservatezza la pubblicazione di dati che rendano riconoscibile la
persona che abbia compiuto il gesto autolesivo.
b) Non sono pubblicabili i dati personali del minore coinvolto
in un incidente stradale, in quanto la loro divulgazione non
risulta essenziale rispetto al fatto di interesse pubblico verificatosi e certamente non essenziale ai fini del diritto di cronaca, considerata la particolare protezione che l’ordinamento
prevede a tutela dei soggetti minorenni.
c) Nel caso i genitori forniscano personalmente il nome della
figlia minore tale nome, a rigore è pubblicabile, anche se il
garante ha ricordato come spetterebbe al giornalista effettuare un autonomo giudizio sui rischi della pubblicazione di
un dato, pur reso noto dai rappresentanti legali della minore.
d) L’utilizzo di nomi di fantasia quando si debba riferire una
notizia che riguarda un minore nulla toglie alla completezza
e all’interesse della notizia stessa.
e) Non viola il proprio codice deontologico il giornalista che,
rispettando i canoni di una corretta cronaca giornalistica,
mostra in un servizio televisivo la foto di una minorenne (al
centro di un’intricata vicenda giudiziaria) e ne cita spesso il
nome, nel caso la foto sia fornita da uno dei genitori nell’ambito di un’intervista televisiva che ripercorre le tappe “di una
complessa vicenda familiare che ha destato più volte il
pubblico interesse”.
f) Il principio dell’essenzialità dell’informazione quando la
notizia riguarda un minore subisce un’ulteriore restrizione,
infatti la tutela del minore si estende anche fuori dei casi di
un suo coinvolgimento in fatti di cronaca nera. La notorietà
della persona non fa venir meno l’esigenza di tutelare la sua
personalità e di valutare se una determinata pubblicazione
risponda ad un suo interesse oggettivo.
g) Il diritto dei minori alla riservatezza deve essere sempre
considerato primario rispetto al diritto di cronaca, anche quando si tratta di figli di personaggi noti. La notorietà di determinate persone o l’esercizio di funzioni pubbliche non può
comportare un affievolimento della tutela riconosciuta a familiari e, in particolare, a minori. Più in generale, la notorietà del
personaggio può giustificare la raccolta di notizie e dati che
hanno rilievo sul ruolo o sulla vita pubblica dell’interessato,
ma non consente di raccogliere o diffondere informazioni
riguardanti la sua vita privata, specialmente quando queste
informazioni non hanno alcun rilievo sul suo ruolo pubblico.
h) Quando si tratta di minori è auspicabile il massimo rigore
deontologico da parte del sistema dell’informazione, anche
al di là del consenso formale espresso dagli interessati.
i) Non sono pubblicabili circostanze relative a molestie che
sarebbero state perpetrate nei confronti di un minore, molestie suscettibili di uno specifico rilievo sul piano penale quali
possibili atti di violenza sessuale, e questo indipendentemente dalla possibile violazione dell’art. 734 bis c.p. (nel caso
specifico il Garante, oltre a disporre il blocco dei dati pubblicati ha deciso che i quotidiani avrebbero potuto unicamente
conservarli astenendosi da ogni altro utilizzo).
Diritto
all’oblio
LA CATEGORIA È DI COSTRUZIONE ESSENZIALMENTE
DOTTRINARIA E GIURISPRUDENZIALE, E SI CARATTERIZZA COME LO STRUMENTO DI DIFESA PER CHI È
STATO PROTAGONISTA DI UN FATTO CHE ALL’EPOCA IN
CUI SI ERA VERIFICATO POTEVA ESSERE RICOMPRESO NEL DIRITTO DI CRONACA, MA CHE NON PUÒ
ASSURGERE A FATTO EMBLEMATICO (ED ESSERE
QUINDI CONTINUAMENTE RIPROPOSTO) DI TUTTI GLI
EPISODI SUCCESSIVI DEL MEDESIMO TENORE.
a) Viola il diritto all’oblio di tutte le persone interessate rispetto a fatti risalenti nel tempo (per non parlare dei possibili
danni agli stessi minori indirettamente identificabili) la pubblicazione di liste di condannati per pedofilia.
Lealtà e correttezza
nei rapporti con
i titolari dei dati
IL GIORNALISTA NON PUÒ CERCARE, MANIPOLARE, ED
INFINE PUBBLICARE DATI RACCOLTI IN MODO MEN CHE
CORRETTO E TRASPARENTE, QUINDI SONO EVIDENTEMENTE OBBLIGATORIE UNA PRECISA INFORMAZIONE
NEI CONFRONTI DELLA PERSONA INTERESSATA DI
COME E IN CHE SEDE VERRANNO TRATTATE LE SUE
DICHIARAZIONI O I SUOI DATI, UNA PUNTUALE RETTIFICA DEI MEDESIMI, MENTRE È VIETATO OTTENERE DATI
DA PERSONE NON CONSENZIENTI O COMUNQUE NON
COSCIENTI DEL LORO UTILIZZO.
a) Non sono pubblicabili le dichiarazioni “carpite” senza che il
soggetto cui poi vengono riferite non sia cosciente del loro
utilizzo e della loro pubblicazione.
b) L’interessato ha diritto di ottenere, a cura del gestore della
banca dati, la comunicazione dell’esistenza e dell’origine dei
dati che lo riguardano e alla sua richiesta deve essere dato
riscontro senza ritardo ed in maniera adeguata. La possibilità
da parte dei giornalisti di opporre segreto professionale sulle
fonti quando ne ricorrono i presupposti non esime il periodico
dal dover fornire riscontro all’interessato, comunicandogli l’esistenza e l’origine dei dati, oppure la circostanza che la fonte
della notizia è coperta da segreto professionale a causa del
carattere fiduciario del rapporto con il soggetto che l’ha fornita.
c) I colloqui tra avvocati non possono essere registrati a loro
insaputa da uno dei presenti. Qualora uno di essi, in casi
eccezionali, effettui una registrazione a fini di difesa in sede
giudiziaria, questa non può essere comunque diffusa per
scopi di tipo politico o giornalistico.
d) La legge 675/96 protegge la dignità delle persone anche
sotto il profilo della loro identità; nel caso in cui la pubblicazione dei dati di una persona possa ingenerare confusione
fra due diversi soggetti il periodico ha l’obbligo di rettifica.
e) Sono pubblicabili dati contenuti in lettere aperte spedite
dall’interessato ad una pluralità indeterminata di soggetti.
Norme particolari
di trattamento
delle fotografie
SONO PUBBLICABILI LE IMMAGINI SCATTATE IN
LUOGHI PUBBLICI O APERTI AL PUBBLICO OVE CHIUNQUE AVREBBE POTUTO VEDERE QUANTO VIENE
RIPRESO (SOPRATTUTTO LADDOVE TRATTASI DI
PERSONAGGI DI UNA CERTA NOTORIETÀ), ED IL FOTOGRAFO PUÒ TRATTENERE I NEGATIVI.
NEL CASO DI FOTO “EMBLEMATICHE”, (UNA QUALUNQUE SCOLARESCA, GIARDINI PUBBLICI, COMPETIZIONI SPORTIVE, LOCALI, RISTORANTI ECC.) ANCHE SE SI
TRATTA DI MINORI, A CONDIZIONE CHE SIANO RIPRESI
IN LUOGHI PUBBLICI O APERTI AL PUBBLICO, SE LA
NOTIZIA È “NEUTRA” O EDIFICANTE LA FOTO È PUBBLICABILE, ALTRIMENTI MEGLIO USARE LA “PECETTA” AL
FINE DI RENDERE ANONIMI ALMENO I MINORI.
a) Non viola la privacy il fotografo che non restituisce i negativi delle fotografie. Tale facoltà gli è attribuita dalla legge sul
diritto d’autore (artt. 87, 88, 89 della l. 22.4.41, n. 633) che
non è stata abrogata dalla legge sulla privacy; ciò non toglie
che, da una parte l’interessato può comunque avere accesso ai dati che lo riguardano, dall’altra il fotografo deve utilizzare i negativi in conformità alle prescrizioni di legge e non
farne un uso improprio.
b) Il fotografo (anche non professionista) che realizza riproduzioni ed ingrandimenti da originali fotografici viola la legge
sulla privacy se al momento di effettuare gli scatti non dichiara la propria identità e l’effettivo utilizzo delle immagini che
debbono quindi essere raccolte, come previsto dai principi
generali, in modo corretto e, appunto, fornendo obbligatoriamente la predetta informativa.
c) Sono pubblicabili immagini raccolte presso un luogo aperto al pubblico dove chiunque avrebbe potuto facilmente filmare o fotografare persone di pacifica notorietà.
5
“
Risposta di Franco Abruzzo a Roberto Maroni, titolare del Lavoro
senza l’Ordine dei giornalisti
rimarrebbero soltanto
gli ordini degli editori-padroni
Milano, 7 luglio 2001. “Caro ministro, senza l’Ordine dei
giornalisti rimarrebbero soltanto gli ordini degli editoripadroni”: questo è il succo della risposta di Franco Abruzzo
(presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e
vicepresidente del Cup di Milano) a Roberto Maroni. Il
ministro del Lavoro ieri ha dichiarato a Bruxelles che
“l’Ordine dei giornalisti è da abolire subito”.
Franco Abruzzo ha replicato con una lettera al ministro trasmessa anche a Umberto Bossi (giornalista pubblicista),
ministro per le Riforme; Roberto Castelli, ministro della
Giustizia e Alberto Brambilla, sottosegretario al ministero del
Lavoro. La lettera è centrata sul “ruolo moderno dell’Ordine
dei giornalisti a tutela del diritto dei cittadini a un’informazione
corretta e completa”. Questo il testo completo della lettera:
Signor Ministro, il 6 e il 7 luglio, l’Ansa e il Corriere della Sera
Le hanno attribuito queste dichiarazioni pronunciate a Bruxelles al termine dell’incontro con il commissario Ue alla concorrenza Mario Monti:
“Non abbiamo una posizione di difesa totale e preventiva
dell’esistente: siamo disponibili a discutere apertamente su
tutto”: lo ha sottolineato il ministro a proposito della necessità
o meno di abolire gli ordini professionali. Maroni, che ha detto
di esprimere un’opinione personale, è stato interpellato al
termine di un incontro con il commissario Ue alla concorrenza Mario Monti che ha in corso un’indagine contro gli ordini
professionali (anche italiani).
“Pur svolgendo alcune funzioni importanti, è vero che in sé
non sempre l’ordine è garanzia di professionalità”, ha detto
Maroni. “Se servono a garantire posizioni di rendita, gli ordini hanno un ruolo negativo, se invece al contrario servono a
garantire il cittadino sul livello di professionalità di chi esercita un mestiere, hanno un ruolo positivo”. Maroni, censurando gli ordini che frenano l’accesso alle professioni, ha fatto
l’esempio di quello degli avvocati.
Riterrebbe invece validi altri organismi simili (come quello
dei medici), quando garantiscono l’affidabilità professionale
degli iscritti.
Per Maroni, negli ultimi anni c’è stata una proliferazione di
ordini “che a mio avviso non hanno ragione di essere”. È un
terreno difficile e complicato, su cui siamo disposti a discutere, non avendo lobby da difendere”, ha aggiunto Maroni, rilevando che un ordine “che andrebbe abolito subito è quello
dei giornalisti”.
Sugli ordini professionali esprimo, però, un’opinione personale perché non è scritto nel programma di governo. Dentro
la Casa delle libertà, del resto, c’è anche chi vorrebbe la fine
della funzione legale per i titoli di studio: questo comporterebbe una revisione totale degli ordini”.
6
1
Premessa
Mi ha colpito in particolare una frase delle sue dichiarazioni:
“Un Ordine che andrebbe abolito subito è quello dei giornalisti”. Mi permetto sommessamente di ricordare che la parola
Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione,
nel caso particolare della professione giornalistica. L’Ordine,
inoltre, è la deontologia. Nel caso specifico le “regole” fissate
dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto
di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini
sono per legge i giudici disciplinari. Fanno la loro parte, certamente con alti e bassi. Gli enti e gli apparati statali camminano sulle gambe delle donne e degli uomini che se ne occupano. Probabilmente sono da mettere sott’accusa donne e
uomini per le loro insufficienze e incapacità. In Italia è di
moda, al contrario, ribaltare le situazioni e sparare solo sugli
enti e sugli apparati...che funzionano!.
Sottolineo l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione (“corretta e completa”), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo
10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo nuovo diritto
fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.
I consiglieri dell’Ordine della Lombardia hanno condiviso sin
dal 1999 quella parte del decreto legislativo sul riordino dei
ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche
della professione giornalistica - all’Università. È augurabile
che le scuole di giornalismo, oggi riconosciute, siano collocate nel nuovo assetto organizzativo degli Atenei italiani,
potendo costituire il ciclo conclusivo biennale di diversi corsi
di laurea (Scienze politiche, Giurisprudenza, Scienze economiche, Lettere, Scienze della comunicazione, etc.).
“
Caro
ministro,
Le considerazioni e i fatti raccontati consentono di risalire
alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. L’eventuale abrogazione della
legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi:
■
■
quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
risulterà abolita l’etica professionale fissata oggi nell’articolo 2 della legge professionale (“È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della
personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto
della verità sostanziale di fatti, osservati sempre i doveri
imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali
errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto
professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito
di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti
e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”). Senza etica,
regnerà, nel mondo dell’informazione, la legge della giungla!!!
■
senza la legge n. 69/1963, cadrà per i giornalisti la
norma che impone il rispetto del “segreto professionale
sulla fonte delle notizie”. Nessuno in futuro darà una notizia
ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale.
■
Senza legge professionale, direttori e redattori saranno
degli impiegati di redazione vincolati soltanto da due
articoli (2104 e 2105) del Codice civile che riguardano gli
obblighi di diligenza e fedeltà. Dice l’articolo 2104 Cc: “Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve
inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la
disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”. Dice l’articolo 2105: “Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non
deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne
uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Gli accordi tra editore e direttore responsabile (su linea politica, organizzazione e sviluppo della testata) non devono, dice oggi
l’articolo 6 del Cnlg, “risultare in contrasto con le norme
sull’ordinamento della professione giornalistica”. In sostanza
l’editore oggi sa che ha di fronte giornalisti professionisti
vincolati per legge al rispetto di determinate regole etiche e,
quindi, non può impartire disposizioni al direttore in rotta di
collisione con quelle regole. In futuro, quando le norme
sull’ordinamento della professione giornalistica non ci saranno, l’imprenditore (o chi per lui) potrà scavalcare l’impiegato-direttore e impartire direttamente disposizioni agli impiegati-redattori sui contenuti del giornale. L’articolo 2104 Cc,
senza la barriera della legge professionale, conferisce all’editore un potere totale che prima non aveva. Il direttore
responsabile, non più giornalista professionista, diventerà,
comunque, un dirigente dell’azienda editoriale alle dipendenze operative dell’amministratore delegato e del suo braccio
destro (il direttore editoriale).
Senza la deontologia calata nella legge professionale, e
quindi vincolante per tutti (editori compresi), il direttore non
potrebbe più garantire l’autonomia della sua redazione e i
redattori dovrebbero solo piegare la testa di fronte agli interessi dell’editore. La professione non ci sarebbe più. Sarebbe
un ritorno al passato e quindi al mestiere.
ORDINE
7
2001
Il ministro Maroni risponde via e-mail
“La mia dichiarazione
sull’Ordine era soltanto
una battuta scherzosa”
Milano, 9 luglio. “Un ordine che andrebbe abolito subito è
quello dei giornalisti”. Questa frase, pronunciata venerdì
scorso dal ministro del Welfare, Roberto Maroni, a Bruxelles, era una battuta. Lo ha spiegato lo stesso ministro al
presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardi, Franco
Abruzzo, che gli aveva scritto a questo proposito. Abruzzo
ha reso noto che Maroni gli ha inviato una e-mail per precisare il suo pensiero. “Caro Abruzzo, La ringrazio - scrive il
ministro al rappresentante dei giornalisti - per il lungo e interessante documento che mi ha inviato sulle ragioni alla
base della necessità di mantenere l’Ordine dei giornalisti.
Lo leggerò con attenzione, per farmi un’opinione fondata.
Se La può rassicurare, la mia dichiarazione sulla necessità
di eliminare l’Ordine dei giornalisti era una battuta scherzosa che ha fatto - appunto - ridere i giornalisti presenti, come
Le potranno confermare i Suoi colleghi presenti alla chiacchierata a Bruxelles. Cordialmente, Roberto Maroni”.
“Gentilissimo ministro - ha replicato Abruzzo - La ringrazio
per la risposta. È accaduto che mi sono fidato di quanto Le
hanno attribuito le agenzie di stampa. Il documento, comunque, può essere una base di discussione in vista della riforma complessiva degli Ordini professionali. Colgo l’occasione per richiamare la Sua attenzione sui problemi che Le ho
segnalato a proposito del Contratto nazionale del lavoro
giornalistico (rinnovato il 24 febbraio 2001): l’esame di Stato
dei
giornalisti è a rischio, perché il Cnlg non prevede più che i
permessi per i giornalisti commissari siano retribuiti. È
urgente richiamare le parti al tavolo delle trattative. L’articolo 23 del Cnlg, così come è stato scritto, viola due articoli
della Costituzione e la nostra legge professionale”.
“La ringrazio - ha concluso Abruzzo - per la tempestiva
risposta. È la prima volta che un ministro risponde a stretto
giro di... e-mail. Cordiali saluti, Franco Abruzzo”.
(ANSA)
Sono convinto che la distruzione degli Ordini e dei Collegi
costituisca una minaccia per l’autonomia dei professionisti
italiani. Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi e di tutelare i saperi dei
professionisti stessi, saperi che sono una ricchezza senza
confini e una inesauribile fonte di progresso. Gli esami per
l’accesso devono, invece, essere delegati a un altro soggetto
(l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i giornalisti a
giudicare chi debba entrare nella cittadella della professione.
Lo stesso discorso vale per gli avvocati e per le altre professioni regolamentate.
Il titolo della mia relazione all’assemblea dei giornalisti
lombardi del marzo 2001 (“La deontologia della professione
giornalistica attraverso le pronunce dell’Ordine di Milano nel
corso del 2000. Un impegno al servizio dei cittadini e volto
alla tutela della dignità della persona, norma costituzionale e
valore costituzionale, che animano l’ordinamento della
Repubblica)” suona come una assunzione di responsabilità
precisa e incontrovertibile. E si collega all’impegno del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia di difesa e
sviluppo della professione giornalistica. Abbiamo cercato in
questi anni di far prevalere la legge, vista come il momento
più alto della politica, e di alimentate le virtù civili dei giornalisti. Virtù civili che ciascuno di noi deve far crescere con una
condotta personale improntata all’imparzialità, all’equidistanza dai fatti, recuperando la cultura della responsabilità e mai
abdicando alla libertà di informazione e di critica, libertà che,
con la deontologia, è il cuore della professione giornalistica.
Questa impostazione ci ha sorretto:
quando, all’inizio del 2000, abbiamo bollato su
Tabloid la contropiattaforma della Fieg come fatto umiliante
della professione giornalistica;
quando
abbiamo discusso di vicende disciplinari o di
praticantato d’ufficio;
quando abbiamo chiesto (primi in Italia) e poi ottenu-
to il ripristino dell’appello nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa;
quando abbiamo difeso contro una potente lobby la
presenza dei giornalisti negli uffici stampa della Pubblica
amministrazione;
quando
ci siamo battuti per la riforma della legge
sulla stampa e per la registrazione delle testate on-line (misura approvata dalla legge n. 338/2000-Finanziaria per il 2001
e dalla legge n. 62/2001 sull’editoria);
quando abbiamo difeso il ricorso alla cessione dei
diritti d’autore da parte dei giornalisti liberi professionisti o la
libertà del cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo
o dipendente (nel rispetto dell’articolo 72 della legge n.
338/2000);
quando,
con il Cup, abbiamo chiesto una legge
moderna di riforma delle professioni regolamentate;
quando
abbiamo chiesto al Governo Amato parità di
trattamento tra la nostra professione e le altre professioni intellettuali, tutte ancorate all’Università, attraverso una riforma
dell’esame di Stato che tenga conto della laurea specialistica
in giornalismo e che così sancisca il principio ineludibile
dell’accesso collegato in futuro soltanto alla via universitaria.
ORDINE
7
2001
Bisogna cogliere i suggerimenti offerti dalle sentenze della
Corte costituzionale per inquadrare la professione giornalistica con una nuova legge al fine: 1) di dare regole innovative sul piano etico-disciplinare e della formazione all’attività giornalistica professionale; 2) di offrire garanzie ai cittadini lesi, nei loro diritti fondamentali, dagli articoli pubblicati
su quotidiani e periodici nonché dalle notizie radioteletrasmesse oppure trasmesse da reti telematiche. Deputati e
senatori devono sciogliere in via prioritaria un nodo e in
sintesi dire se quella dei giornalisti sia una professione
intellettuale collegata a funzioni costituzionali come quella
dei medici e degli avvocati. La Corte di Cassazione sottolinea da decenni che quella dei giornalisti è una professione
intellettuale. La Corte costituzionale, con le sentenze n.
11/1968 e n. 71/1991, “ha affermato che non osta al principio della libera manifestazione del pensiero il fatto che i
giornalisti siano così organizzati, anche perché tale Ordine
ha il compito di salvaguardare, erga omnes e nell’interesse
della collettività, la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica dei propri iscritti”. E con le sentenze n.
11 e 98/1968 e n. 2/1977 ha sottolineato, inoltre, “la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta
da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un’attività d’informazione giornalistica”.
2
Ripensare l’organizzazione
delle professioni intellettuali
L’organizzazione delle professioni va, quindi, ripensata. E
va ripensata soprattutto quella dei giornalisti, che trattano
una materia - il diritto di manifestazione del pensiero - che
è un diritto di tutti i cittadini e non un privilegio dei giornalisti stessi. Basti dire che l’attuale legge quadro delle professioni è un decreto luogotenenziale (n. 382) del 1944. Sono
passati 57 anni e l’Italia solo oggi si accorge che c’è un
problema “professioni” da regolamentare. Quando si parla
dei ritardi nazionali, questa vicenda appare esemplare e
istruttiva! Oggi il problema si pone in termini diversi.
Nessuno può negare che, in considerazione del ruolo e
della rilevante responsabilità sociale dell’informazione,
l’esercizio dell’attività giornalistica vada regolato e tutelato
dalla legge.
L’informazione ha senz’altro carattere di preminente interesse generale (concetto mutuato dall’articolo 43 della
Costituzione e ripreso dall’articolo 1 della legge 223 del 6
agosto 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato). Altri studiosi configurano l’informazione anche come
servizio pubblico essenziale (concetto mutuato sempre
dall’articolo 43 della Costituzione). La liberalizzazione nel
campo delle professioni non può comportare il trionfo del
Far West nel mondo dell’informazione, perché tutto ciò si
scontrerebbe con passaggi essenziali della Costituzione.
Una riforma non può prescindere dalla tutela di valori
primari. C’è bisogno, quindi, di una nuova legge per garantire la libertà e l’autonomia dei giornalisti nonché il diritto
dei cittadini a una informazione “qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e
correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell’ordine
pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico
e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui (i
giornalisti, ndr) attingono conoscenze e notizie in modo
tale che il cittadino possa essere messo in condizione di
compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista
differenti e orientamenti culturali contrastanti”.
La libertà di informazione in Italia, affermata dalla Costituzione e sostenuta dalla Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
dal Patto internazionale di New York sui diritti civili e politici,
appare un albero robusto, che sostiene tutta l’impalcatura
dei diritti inviolabili dell’uomo. Il discorso diventa problematico
quando si affronta il diritto di cronaca e il tema della libertà
dei giornalisti di informare.
3
Le aperture dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia
Signor ministro, tenga conto che l’Ordine dei giornalisti non è
corporativo e chiuso alle istanze dei giovani sul tema dell’accesso alla professione.
Nella seduta di insediamento (18 giugno 2001), il Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha approvato un
documento programmatico sull’accesso diretto a garantire a
tutti i cittadini il godimento degli articoli 2 (tutela della dignità
della persona: essere di diritto quello che si è di fatto) e 4
della Costituzione (diritto al lavoro). In sostanza i praticanti
giornalisti si dividono secondo queste linee:
a) quelli normalmente assunti (quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web);
b) i pubblicisti assunti ex articolo 36 del vigente Cnlg (trattati
economicamente come redattori professionisti e con il
diritto contrattuale di sostenere l’esame di Stato);
c) quelli che hanno superato il concorso presso l’Ifg e la
Scuola della Università Cattolica;
d) i redattori “di fatto” (cioè coloro che lavorano normalmente, senza essere assunti, presso quotidiani, periodici, tg,
radiogiornali, testate web);
e) i “redattori staccati” o “corrispondenti” con incarichi di lavoro su pagine di cronaca elaborate con le tecniche delle
cronache cittadine (pubblicisti anche assunti ex articolo 12
del vigente Cnlg);
f) “pubblicisti free lance”, che abbiano compensi complessivi
pari al costo di un redattore praticante normale (cioè dai
35 milioni lordi annui in su).
Il praticantato può essere svolto anche nelle testate estere
(quotidiani e periodici, agenzie di stampa, tg, radiogiornali,
web) che abbiano le caratteristiche di quelle italiane. L’esame di Stato può essere sostenuto in una lingua della Ue.
I dipendenti delle Pubbliche amministrazioni con rapporto di
lavoro a tempo parziale possono chiedere l’iscrizione negli
albi dei giornalisti e nel Registro (articolo 1, commi 56 e 56bis, della legge n. 662/1996; sentenza 11 giugno 2001 n. 189
della Corte costituzionale).
4
La disciplina degli Ordini
non è in contrasto con la Ue.
La disciplina comunitaria
è sostanzialmente neutra
rispetto all’esistenza o meno
degli Ordini professionali
Con le leggi comunitarie del 1990 (n. 428/1990) e del 1994
(n. 52/1996) - in base alle quali i cittadini comunitari possono iscriversi agli elenchi dei pubblicisti e dei professionisti
dell’Albo e al Registro dei praticanti nonché possono essere editori e direttori di quotidiani e periodici nel nostro Paese
- l’Italia ha imboccato la via della compatibilità dell’Ordine
dei giornalisti con la Ue attraverso il riconoscimento dell’organizzazione in essere della professione e della reciprocità. Alla Ue interessa che ai cittadini comunitari siano
accordati gli stessi “diritti” dei cittadini italiani, che esercitano la professione giornalistica. I cittadini comunitari, inoltre,
possono sostenere nella loro lingua l’esame di Stato per
diventare giornalisti professionisti in Italia. Il Consiglio d’Europa, nella risoluzione 1° luglio 1993 (n. 1003) relativa all’etica del giornalismo, scrive che “per la vigilanza sul rispetto
dei principi deontologici, è necessario creare organismi o
meccanismi di autocontrollo, che elaborino risoluzioni sul
rispetto dei precetti deontologici da parte dei giornalisti, che
i mezzi di comunicazione si impegneranno a rendere
pubblici”. L’Italia, con l’Ordine dei Giornalisti, ha già creato
“l’organismo di autocontrollo” dal 1963.
L’Europa in sostanza, fatti salvi i principi della concorrenza e
della libera circolazione dei professionisti, non ci impone un
modello preciso. Con la direttiva sul commercio elettronico
(approvata il 4 maggio 2000 dal Consiglio europeo), la Ue ha
dato una serie di regole che riguardano le libere professioni
e ha chiamato gli Ordini italiani a vigilare su Internet (Il Sole
24 Ore del 13 giugno 2000). La direttiva affida un ruolo particolare agli Ordini professionali nazionali che sono chiamati,
oltre che a vigilare sul comportamento dei propri iscritti, a
redigere a livello comunitario dei veri e propri codici di
condotta. In particolare l’articolo 8 della direttiva, che tratta
proprio dell’attività professionale, richiede agli Ordini (e alle
associazioni professionali) di predisporre regole comuni circa
le informazioni che possono essere fornite ai fini della prestazione di servizio, in modo da garantire i principi propri della
professione, quali: indipendenza; dignità; onore; segreto
professionale; lealtà verso clienti e colleghi.
5
Il ruolo moderno dell’Ordine
posto a tutela degli interessi
della collettività
Gli Ordini, enti pubblici, hanno la specifica competenza
della tenuta dell’Albo, dei giudizi disciplinari, della proposta
della tariffa professionale nonché della liquidazione dell’onorario. Tali funzioni sono assegnate a tutela non degli interessi della categoria professionale ma della collettività nei
confronti dei professionisti: tale principio è fissato nella
sentenza n. 254/1999 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (magistratura equiparata al
Consiglio di Stato). Molti sostengono, invece, che “gli Ordini
hanno la finalità di tutelare (solo) gli interessi della categoria”. Ma non è così. Secondo il Consiglio della Giustizia
amministrativa della regione siciliana, invece, gli Ordini,
devono tutelare gli interessi dei clienti dei professionisti. “Le
specifiche competenze della tenuta dell’albo, dei giudizi
disciplinari, della redazione e della proposta della tariffa
professionale nonché della liquidazione dei compensi —
scrive il Cgars – sono assegnate dalla legge agli Ordini
essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti
degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l’obbligo dell’appartenenza all’Ordine, e non già per una tutela
degli interessi della categoria professionale che farebbe
degli Ordini un’abnorme figura d’associazione obbligatoria,
munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati
settoriali”. Un concetto, questo, che prefigura un ruolo
moderno degli Ordini non più intesi come corporazione ma
come enti pubblici che concorrono ad attuare valori e finalità propri della Costituzione repubblicana.
In conclusione, senza l’Ordine dei giornalisti rimarrebbero
soltanto gli ordini degli editori-padroni.
Con stima,
dott. Franco Abruzzo
Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
e vicepresidente del Cup di Milano
7
T
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L’informazione
A nel conflitto
Il ruolo della stampa italiana nel conflitto dell’ex Jugoslavia / di Emiliano Bos
Guerra e
mass media
Pubblichiamo un estratto
della tesi di laurea in Storia
del giornalismo di Emiliano
Bos, pubblicista di Renate
(Milano), dal titolo “Guerra
e mass media - Il ruolo della
stampa italiana nel conflitto
dell’ex Jugoslavia”.
Bos, che ha partecipato
al Premio tesi di laurea
dell’Ordine dei giornalisti
della Lombradia, si è laureato
nel 1998 in Lettere moderne,
indirizzo Comunicazioni
sociali, all’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano.
Relatrice la professoressa
Anna Lisa Carlotti, correlatore
il professor Massimo Ferrari.
Votazione 110 e lode.
Ventotto anni, vicedirettore
della rivista Brianze,
Emiliano Bos ha realizzato
reportages da Bosnia,
Kosovo e Rwanda
per diverse testate
(tra le quali Avvenimenti,
Il Diario,
Il Corriere di Como,
La Prealpina, Jesus).
Attualmente vive e lavora
come freelance a Belgrado.
Collabora con Avvenire,
Radio Vaticana,
Rediotelevisione
della Svizzera italiana
e con la Cattedra di Storia
del giornalismo
dell’Università Cattolica
di Milano.
Per oltre quattro anni, dal giugno del 1991
all’ottobre del 1995, i Balcani sono stati dilaniati da un conflitto feroce, consumatosi a
poca distanza dal nostro Paese. L’indagine
ruota intorno allo stretto rapporto tra guerra
e mass-media: i mezzi di informazione
hanno svolto un ruolo fondamentale sia nella
fase di incubazione di questo scontro che nel
suo svolgimento. Il periodo che precede lo
scontro armato rappresenta con evidenza il
tentativo dell’élite jugoslava di impossessarsi
dei media, per esercitare una pressione e un
controllo fondamentali per esasperare il
sentimento nazionalistico, tanto in Serbia
quanto in Croazia. La centralità di stampa e
televisione in questo scenario è tale da poter
affermare che “la guerra è scoppiata prima
nelle redazioni” che sul terreno di battaglia.
La guerra civile che dalla Slovenia e dalla
Croazia si è estesa alla Bosnia è andata di
pari passo con un’intensa battaglia mediatica fatta di “propaganda astiosa e di informazione tendenziosa e menzognera”. Per tutte
le parti in causa, alcuni organi di informazione si sono messi al servizio della guerra.
Una guerra contro la gente indifesa, prima
vittima della “pulizia etnica”, dei martellanti
bombardamenti, dei cecchini, degli stupri di
massa, delle deportazioni e delle altre tragiche pratiche messe in atto in un conflitto di
inaudita ferocia, che ha provocato circa
duecentomila morti, mezzo milione di feriti e
oltre tre milioni di profughi. Al di là dell’Adriatico si è consumato il primo conflitto armato
nel cuore dell’Europa dopo la fine della
seconda guerra mondiale: come si è
comportato il sistema mediatico italiano? E,
in particolare, quale atteggiamento e quale
ruolo ha avuto la stampa italiana? In che
modo i giornali italiani hanno “raccontato”
questo tragico fatto?
Il breve arco temporale non ha ancora
consegnato del tutto ai libri di storia le drammatiche pagine del crollo della Jugoslavia. I
documenti più attendibili, le fonti primarie di
una storiografia ancora tutta da scrivere
sono stati proprio i giornali. La nostra osservazione si sofferma su alcuni quotidiani italiani: comprende i più diffusi (il Corriere della
Sera, la Repubblica, La Stampa), alcuni che
presentano una più marcata caratterizzazione ideologico-culturale e politica (l’Unità, il
manifesto, Avvenire, Il Giornale) e altri regionali (Il Giorno e Il Piccolo di Trieste). Il loro
confronto si è protratto per tutta la durata
della guerra, a partire dal 26 giugno 1991. Il
giorno precedente Slovenia e Croazia dichiarano la propria indipendenza dal governo di
Belgrado, dando il via alla dissoluzione dello
stato jugoslavo. La fine “ufficiale” del conflitto
viene sancita negli Stati Uniti, con la firma
degli accordi di Dayton (21 novembre 1995),
poi ratificata dal trattato di pace di Parigi (14
dicembre ‘95) sottoscritto dai presidenti di
Bosnia, Croazia e Serbia.
Mass-media strumenti
di guerra nei Balcani
Il pianto di un bambino croato (da Panorama del 1° dicembre 1991).
8
Pochi mesi prima che si incendi il focolaio
balcanico, i riflettori della ribalta mediatica
internazionale si accendono tutti sul conflitto
nel Golfo Persico. Un evento che rappresenta, per la storia del giornalismo moderno,
un’incredibile battuta d’arresto, un esempio
di manipolazione delle informazioni che non
ha eguali nella nostra storia recente.
La guerra, scoppiata in seguito all’invasione
del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam
Hussein, ha catalizzato l’attenzione del
mondo intero: tutti i quotidiani se ne sono
occupati con una copertura eccezionale mai
vista prima e che mai si è ripetuta finora,
neppure per la guerra nell’ex Jugoslavia. Nel
primo caso infatti i media hanno facilmente
individuato oppressori ed oppressi mettendoli in scena nei modi tipici del giornalismospettacolo, mentre nel secondo caso la
situazione storica molto più complessa
richiedeva precise conoscenze per decifrarla
in maniera corretta. Inoltre il primo avvenimento si è svolto in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, il secondo invece si è
prolungato negli anni.
Molti degli inviati che si trovano a “coprire” gli
eventi bellici della guerra nei Balcani sono
reduci dall’esperienza del conflitto nel Golfo.
Gioverà ricordare che ai giornalisti internazionali giunti in Arabia fu imposta, pena
l’espulsione, la sottoscrizione e l’osservanza
di un decalogo che escludeva, da parte loro,
qualsiasi contributo all’informazione: divieto
di dare notizie sugli equipaggiamenti, sulle
operazioni militari, sulle località, sull’esito
delle eventuali battaglie.
Esiste dunque un rapporto diretto tra il ruolo
svolto dall’informazione nella guerra nel
Golfo e nel conflitto che ha insanguinato i
ORDINE
7
2001
Un mezzo corazzato dell’esercito jugoslavo colpito
ed incendiato durante la guerra del 1991,
che ha portato alla “secessione” di Slovenia e Crozia
dalla Federazione jugoslava.
Un alpino dell’Afor in Albania monta la guardia a
protezione del convoglio destinato ai profughi del Kosovo.
Un soldato del 1° bgt del Reggimento Genio ferrovieri
di guardia presso la stazione di Kosovo Polje/Teretna
a Pristina.
Riesumazione dei cadaveri delle vittime
dei massacri compiuti prima del ritiro dei reparti militari
e paramilitari di Belgrado.
Foto tratte dal libro Kosovo e informazione.
ORDINE
7
2001
Balcani dal 1991 al 1995? Probabilmente si
è verificato un “effetto-rivincita” su alcuni giornalisti inviati a seguire le vicende dell’ex
Jugoslavia, dove, dopo il 1991 “non vi sarebbe stata mai più un’ecatombe così a portata
di telecamera, mai più la stampa avrebbe
potuto entrare in una città subito dopo la sua
distruzione totale”, come afferma Paolo
Rumiz, inviato de Il Piccolo di Trieste riferendosi a Vukovar, città-martire della Slavonia
assediata ed espugnata dall’esercito serbo e
dalle bande paramilitari.
Nella ex Jugoslavia la centralità del ruolo
svolto dai mass-media non si riferisce solo
agli eventi bellici, ma anche alla fase di incubazione della guerra. Il ruolo dei “media”, il
loro uso da parte dei regimi di Belgrado e
Zagabria, le epurazioni all’interno di giornali
e televisioni, le manipolazioni delle informazioni hanno costituito un’opera di “pulizia
informativa” condotta dalle autorità che ha di
fatto cancellato i mezzi di comunicazione
indipendenti.
I mass-media hanno avuto un ruolo fondamentale nell’organizzare il consenso collettivo attorno ai nuovi leader, lo sloveno Kucan,
il croato Tudjman e il serbo Miloševic (in
particolare a questi ultimi due) che, non a
caso, si erano assicurati preventivamente il
controllo delle fonti di informazione. Le vicende politiche che hanno anticipato l’esplosione del conflitto dimostrano l’attenzione dei
leader politici ai mezzi di informazione. Il
primo passo per attuare la strategia della
fomentazione dello sciovinismo nella popolazione e di crescita del consenso, è stato
stabilire il controllo sulle stazioni radiotelevisive e sui giornali, operando drastici interventi per eliminare le voci libere e alternative
al potere e massicce epurazioni di giornalisti
sgraditi al regime.
Grazie ad un sapiente uso della propaganda
ed un’interruzione delle comunicazioni interregionali tra le diversi componenti del Paese,
la gente ha ceduto infine “all’ubriacatura
nazionalista”: l’elemento etnico, entrando
nelle case attraverso il linguaggio televisivo,
ha demonizzato i “nemici”, risvegliando i
fantasmi del passato (i massacri della seconda guerra mondiale). L’aumento delle tensioni etniche, il conflitto e infine la guerra
compongono un processo che non può
avvenire senza l’apporto dei media e soprattutto della televisione.
Prima del conflitto vero e proprio, nella ex
Jugoslavia è iniziato, orchestrato dai partiti di
governo, lo scontro per il controllo dei mezzi
di comunicazione. Prima che sul campo di
battaglia, la guerra è scoppiata nei programmi televisivi. È stato creato soprattutto da
parte dei serbi, dal momento che in Serbia è
iniziato nel 1987 e in Croazia nel 1990.
Secondo Nenad Pejic, direttore responsabile
di TeleSarajevo “dobbiamo parlare delle
responsabilità della televisione per la guerra
nell’ex Jugoslavia: non sono grandi quanto
quelle dei partiti politici dei loro leader, ma
sono comunque una parte della responsabilità complessiva”.
Dopo l’opera di “pulizia informativa” condotta
dalle autorità, che pure hanno riconosciuto
formalmente il principio della libertà di stampa, “è difficile trovare in Croazia - ha scritto
Catherine Humblot su Le Monde - mezzi di
comunicazione che siano rimasti indipendenti”.
In Serbia il governo di Miloševic, oltre ad aver
cacciato dalla Tv giornalisti e tecnici, ha fatto
vere e proprie epurazioni all’interno di Politika e Nin. Ci sono state pressioni e minacce
nei confronti dei giornalisti non asserviti.
Paradossalmente, è stato l’ex-organo della
Lega dei comunisti, Borba, tra i pochi a
conservare autonomia critica.
l ruolo
dei giornalisti
In una guerra costruita sull’intossicazione dei
mass-media, il giornalista era visto “come un
killer su commissione o un pericoloso rompiscatole. Prima della Bosnia, dirsi giornalista
in guerra equivaleva a esibire un salvacondotto. In Bosnia, invece, scrivere Press
sull’automobile significava farsi impallinare”.
Questa testimonianza di un inviato italiano
rende perfettamente l’idea di quale sia stato
il “ruolo” dei giornalisti nell’ex Jugoslavia.
Anche loro nel mirino, non solo metaforico,
delle forze schierate in campo.
Le parti in lotta non hanno infatti risparmiato
giornalisti, cameramen, tecnici e fotografi.
Anzi, nel perseguimento di quelle strategie
politiche che volevano impedire al mondo di
conoscere ciò che stava effettivamente accadendo nei Balcani, gli “osservatori” della
stampa e della televisione erano particolarmente sgraditi. Nel corso del conflitto dell’ex
Jugoslavia il numero di giornalisti uccisi supera enormemente quello dei reporter caduti
nella guerra in Vietnam o nel Libano. Durante
la guerra hanno perso la vita oltre ottanta
operatori dell’informazione, il più alto numero
dell’epoca moderna, che cercavano di documentare la guerra e le sue atrocità. Questo
dipende non solo dal fatto che giornalisti e
inviati abbiano frequentato luoghi pericolosi,
dove c’era un rischio elevato di rimanere
coinvolti negli eventi bellici, ma dalla constatazione che, essendo i media uno strumento
di conflitto, i giornalisti erano automaticamente visti come un’arma. E quindi come un pericoloso obiettivo da colpire.
La stampa italiana:
nel segno
della discontinuità
Come si è comportata dunque la stampa
italiana in occasione del conflitto nel “castello di sangue dei Balcani”? Renzo Cianfanelli
del Corriere della Sera, ha parlato di un
paese “chiuso per restauri”, con una felice
definizione che sintetizza un quadro abbastanza desolante: un paese percorso da una
crisi politico-istituzionale profonda come è
accaduto in Italia a partire da primi anni
Novanta, quando l’esplosione di una serie di
inchieste (denominate “Mani Pulite”) ha
portato allo scoperto meccanismi di corruzione capillarmente diffusi in tutti i livelli della
società, si è innanzitutto rilevata una tendenza a non concedere molto spazio alle notizie
provenienti dalla Bosnia.
Di ritorno dall’ex Jugoslavia, un inviato ha
così descritto ha parlato della “sostanziale
ignoranza circa le cause degli eventi che si
andavano consumando, l’errata interpretazione ideologica delle motivazioni, il chiaro
disinteresse” che hanno creato “un gravissimo ritardo culturale e di comprensione”.
Per arginare, con risultati solo parziali,
questa carenza, la modalità utilizzata
maggiormente risulta il ricorso alle tematizzazioni. Oltre al dato di cronaca, il conflitto
provoca conseguenze sociali di rilievo, ripercussioni culturali significative e conseguenze
che trascendono la circostanza. Si è notato,
in modo sporadico ma a volte pregevole, il
tentativo di presentare al lettore approfondimenti tematici sulla situazione umanitaria
delle popolazioni in guerra, dei disagi vissuti
dai civili, delle drammatiche condizioni di
centinaia di migliaia di profughi. Non sono
mancate, benché troppo occasionali, interviste a esponenti del mondo culturale jugoslavo, che hanno contribuito con i loro interventi, ad andare in profondità delle questioni.
In questo andamento altalenante del flusso
informativo proveniente dalla ex Jugoslavia,
è possibile individuare periodi in cui la stampa ha fatto sentire la propria voce, talvolta
chiedendo l’intervento armato dell’Occidente, in altre occasioni denunciando la gravità
della situazione della popolazione civile. Ma
si è trattato sempre di interventi tardivi, post
eventum in un certo senso, quando ormai le
violazioni dei diritti umani erano state
abbondantemente perpetrate da parte
soprattutto dei serbo-bosniaci (che hanno
fatto di Sarajevo “il più grande lager del
mondo”, secondo una definizione di Guido
Rampoldi), ma anche da parte di croati e
musulmani.
La stampa ha dato l’impressione di una svolta una prima volta intorno alla fine di aprile
del 1993, quando la caduta di Srebrenica
(due anni dopo ancora protagonista delle
cronache di guerra per essere stata teatro di
orrendi massacri di massa) ha trovato spazio
sulle prime pagine dei quotidiani. Pochi mesi
dopo, nell’agosto dello stesso anno, il volto
di una bambina, Irma Hadzimuratovic,
cinque anni, di Sarajevo, viene usato dai
mass-media come simbolo della tragedia
della capitale, tanto da far parlare di un “Irma
show”. Infatti in quei giorni a Sarajevo si è
visto il più alto numero di inviati, non solo
italiani ma anche stranieri. La bambina fu
trasformata in un simbolo: il volto sofferente
di Irma fu utilizzato dai mezzi di comunicazione occidentali (non solo italiani) per colpire l’opinione pubblica e far crescere il
consenso sull’intervento armato. La fotografia ad effetto di un primo piano della bambina, in coma in un ospedale di Londra con
due schegge di granata, venne pubblicata in
prima pagina da numerosi quotidiani italiani
(il Corriere della Sera titolò : “Sì ai raid su
Sarajevo”, e la Repubblica: “Salviamo i
bambini di Sarajevo / E la Nato approva i
piani di attacco”).
Nel febbraio del 1994, la strage del mercato
di Sarajevo con i suoi 68 morti scuote la
coscienza del mondo: la stampa accende i
riflettori sullo “scannatoio balcanico”, e il
dramma dei suoi abitanti ritorna di bruciante
attualità. Almeno in altre due occasioni la
tragedia bosniaca occupa con insistenza
intere pagine di giornale: quando il Papa
rinuncia alla visita a Sarajevo (settembre del
1994) e quando, nell’estate del ‘95, si consumano le tragedie di Srebrenica e Zepa. In
quell’occasione si assiste a uno dei più gravi
9
black-out informativi della stampa italiana
sulla Bosnia. Quando se ne parla, gli uomini
del generale Mladic ormai hanno prelevato e
massacrato migliaia di uomini di età compresa tra i 14 e i 65 anni (le stime variano da 8
a 12 mila).
Del tutto inesistente, sui giornali, è stata la
cosiddetta “classe intellettuale” del nostro
paese. Sui giornali hanno trovato voce e
spazio numerosi commentatori, ma raramente abbiamo assistito a prese di posizione nette, con denunce o azioni clamorose da
parte di intellettuali italiani. Piuttosto i giornali ospitavano abbastanza frequentemente i
contributi di scrittori o filosofi stranieri.
La difficoltà di capire
e il bisogno
di approfondire
La complessità del conflitto balcanico ha
reso spesso difficile la comprensione degli
eventi. Quando scoppia la guerra, le direzioni dei giornali italiani si trovano di fronte non
ad un semplice fatto di cronaca, ma ad un
evento di politica estera assai complesso e
articolato.
I direttori sono così costretti ad affidarsi ai
reportage dei propri inviati, cui spesso, in
occasione di episodi particolarmente significativi o di impatto sull’opinione pubblica
(stragi o massacri) si affiancano i commenti
politici nei fondi o negli editoriali. In questi
spazi, spesso, oltre agli editorialisti “politici”
si trovano i commenti di esperti di questioni
balcaniche.
La Stampa, per esempio, si affida spesso alle
dissertazioni di Enzo Bettiza, scrittore dalmata; Il Giornale (più vicino a una linea di centrodestra o comunque moderata), affida alcune
analisi allo storico ungherese Francois Fejto,
sostenitore dell’indipendenza croata. L’Unità,
invece, pubblica in diverse occasioni interventi di Stefano Bianchini, uno dei massimi
esperti delle questioni balcaniche in Italia,
mentre sul manifesto si trovano con frequenza commenti di Nicole Janigro, scrittrice e
traduttrice di origine jugoslava, che negli anni
precedenti ha seguito le vicende dell’Europa
Orientale per il quotidiano di sinistra. Il Piccolo di Trieste si affida invece ai commenti di
Paolo Rumiz, inviato e profondo conoscitore
di questioni balcaniche.
T E S I
D I
L A U R E A
Gli inviati di guerra
e la distanza
dalle redazioni
10
La complessa realtà storico-politica di cui gli
inviati sono testimoni, oltre ad essere articolata e di non facile comprensione, risulta
ancora più complicata da trasmettere alle
redazioni. Al tavolo dei desk, dove inizia il
percorso di selezione delle notizie che poi
vengono sottoposte alla valutazione delle
direzione per le scelte editoriali complessive,
giungono i numerosi dispacci di agenzia che
riportano, nel flusso quotidiano, anche informazioni provenienti dai Balcani.
La scelta delle redazioni appare quella di
non trascurare nulla di quanto provenga dai
circuiti informativi internazionali, per evitare
di “bucare la notizia” come si dice in gergo.
C’è poi un secondo genere di problema per
gli inviati, di tipo “culturale”. Il muro di disinteresse che spesso ha accompagnato gli
eventi sull’altra sponda dell’Adriatico ha
avuto un andamento altalenante: l’opinione
pubblica ha oscillato tra fiammate d’indignazione in occasione dei massacri più efferati
e lunghi periodi di oblio. Proprio in questi
prolungati “black-out informativi” il carico
degli inviati si è fatto particolarmente pesante. Come richiamare l’attenzione dei lettori
sui fatti dell’ex Jugoslavia quando, negli stessi mesi, in Italia scoppiava il caso clamoroso
di Tangentopoli?
Nei giornali abbiamo assistito a una fortissima predisposizione ad accettare i luoghi
comuni, (oppure dividendo i belligeranti in
“cattivi e pessimi”, come fece Paolo Garimberti su la Repubblica riprendendo una
distinzione già proposta dall’Economist)
specialmente quello della guerra dei “tutti
colpevoli”, un argomento eccellente per
giustificare l’assenteismo diplomatico e militare. La rivista di geopolitica Limes ha individuato inclinazioni politiche o geopolitiche di
alcune testate: “I giornali del gruppo Fiat
erano all’inizio forti partigiani di parte croata,
perché la nostra principale industria aveva
aspettative con il regime di Zagabria”.
Si è inoltre imposta una divisione sempre più
netta tra chi è stato sul campo, gli inviati e i
corrispondenti di guerra, e chi si è limitato ai
commenti da scrivania.
Quando una granata uccide tre giornalisti
della Rai di Trieste a Mostar (28 gennaio
1994), per la prima volta dall’inizio delle ostilità la stampa italiana si trova improvvisamente di fronte alla necessità di riflettere sul
proprio ruolo, su quello degli inviati e sulle
condizioni in cui questi ultimi operano. Tutti i
quotidiani sono “moralmente obbligati” a
parlare dei giornalisti di guerra e dei pericoli
che devono affrontare ogni giorno nei territori dilaniati dallo scontro armato. Ma non capiterà più, durante la guerra nella ex Jugoslavia, che i giornali italiani affrontino una riflessione approfondita sul proprio ruolo e su
quello dei giornalisti.
Il problema
delle fonti
Il problema della valutazione delle fonti e
dell’accertamento delle notizie provenienti
dalle diverse parti in conflitto si colloca nel
complesso quadro di “dezinformacija” in cui
sono costretti a operare i giornalisti nell’ex
Jugoslavia.
Può accadere che il “virus della disinformazione” sia contenuto in una sola immagine.
Un esempio indicativo può essere la foto,
diffusa ad arte, che ritraeva un mujhaiddin,
presunto mercenario arabo, schierato dalla
parte dei bosniaci, che mostrava trionfante
la testa mozzata di un soldato serbo (1 ottobre 1992). L’immagine fu esaminata dai
consigli di redazione delle principali testate e
“giudicata pubblicabile o non pubblicabile
soltanto sulla base di criteri di criteri di tollerabilità dello stomaco dei lettori”. La valutazione venne fatta non sulla base del criterio
della veridicità o meno della notizia. Grazie
alle misurazioni eseguite successivamente
si scoprì che in effetti questa testa in proporzione all’uomo sarebbe appartenuta ad una
persona di circa tre metri. Era chiaramente
un fotomontaggio.
I quotidiani in analisi si dividono di fronte alla
scelta se pubblicare oppure no questa immagine: su Avvenire, il manifesto, Il Giornale, Il
Piccolo e l’Unità non si trova riscontro,
mentre gli altri operano scelte diverse. Il
Corriere della Sera pubblica la foto in prima
pagina, nel taglio basso (titolando: “Orrore
dalla Jugoslavia: nemici decapitati”); La
Stampa, colloca l’immagine in una foto in
prima pagina, con al seguente didascalia:
“Orrore in Bosnia / Teste mozzate ai serbi”.
La stessa immagine trova spazio invece
nelle pagine di “esteri” su la Repubblica
(che parla di “macabro trofeo”), mentre Il
Giorno pubblica l’immagine (in prima pagina) con un titolo provocatorio: “Ricordate la
Bosnia?”.
Il problema delle fonti non riguarda solo le
redazioni, ma coinvolge anche e soprattutto
il lavoro degli inviati e dei corrispondenti di
guerra. Alla luce di quanto sopra esposto,
sembra opportuno chiedersi che possibilità
essi abbiano di verificare le fonti e quale
atteggiamento mantengano verso le versioni
ufficiali.
L’analisi
dei quotidiani italiani
Il Corriere della Sera ha preferito i fatti di politica interna: ha inviato alcuni giornalisti (tra i
quali Eros Bicic, un collaboratore che non
sempre si è dimostrato affidabile) e dedicato
ampio spazio. Le tematizzazioni sono state
di buona qualità ma risultano isolate e senza
continuità.
La Repubblica è la testata che ha speso più
energie per mandare “sul posto” gli inviati, i
quali hanno cercato di far capire cosa stesse
succedendo. Grandi reportage, accanto ai
quali non sono mancati interventi di
commento da parte della redazione/direzione, che in alcune occasioni contenevano
idee e osservazioni in netto contrasto con lo
sforzo degli inviati di cogliere i motivi profondi del conflitto, al di là del dato di cronaca.
In occasione di episodi clamorosi, il quotidiano di Scalfari non ha esitato a “sparare” titoli
a tutta pagina (si ricordi “La strage degli innocenti”), ma l’interesse per la ex Jugoslavia
scemava piuttosto facilmente. Si potrebbe
riassumere così l’atteggiamento del tabloid
romano: alta qualità, quando c’è stata, ma
labile continuità.
Diversa invece la scelta de La Stampa che
per tutta la durata del conflitto ha fatto affidamento praticamente sullo stesso inviato e
sulla medesima corrispondente. Con uno
schema abbastanza consolidato l’uno ha
battuto le zone di guerra, l’altra ha seguito
l’andamento della guerra da Zagabria. Il giornale torinese ha ospitato occasionalmente
reportage di giornalisti stranieri, grandi firme
della stampa europea e anche americana,
che hanno arricchito indubbiamente l’offerta
della Stampa.
I quotidiani che hanno una matrice ideologico-culturale e politica più marcata hanno
avuto il pregio di mantenere viva l’attenzione
sulla Bosnia anche quando la maggior parte
dei media non ne parlava.
In alcune occasioni i giornali con meno risorse hanno garantito più continuità nella copertura informativa. Per esempio Avvenire e il
manifesto sono stati vigili sulla tragedia che
si consumava nella ex Jugoslavia, anche se
con evidenti divergenze di impostazione. In
particolare il quotidiano comunista, soprattutto nella prima fase, ma comunque in
numerose occasioni, si è dimostrato cristallizzato sui propri preconcetti politico-culturali,
(occasionalmente degenerati in aperta faziosità) che gli hanno impedito di distinguere tra
aggressore e aggredito arrivando a cercare
una “compensazione della colpa”. Comunque insieme al giornale dei vescovi ha avuto
la costanza di insistere su questi argomenti
con copertine e titoli gridati, denunciando
crimini in corso.
Il Piccolo di Trieste è uno dei pochi che ha
assolto con dignità la funzione di informare il
lettore. Soprattutto per merito di Paolo Rumiz
e delle sue lucide analisi, che hanno
permesso ai lettori della testata friulana di
aprirsi gli occhi e avere gli strumenti per
cercare di leggere gli eventi che si consumavano a poche centinaia di chilometri.
Titoli e foto:
la strage
fa sempre notizia
Soffermandoci nell’analisi dettagliata di titoli,
linguaggio, fotografie e grafica, si rileva che
l’evento tragico riesce quasi sempre a catturare l’attenzione dei giornali. Il rischio è quello di un’assuefazione alle notizie di eccidi e
atrocità, tuttavia è proprio in occasione di
questi episodi che si è osservato l’alto grado
di interesse della stampa. La granata che
uccide quasi settanta persone a Sarajevo
richiama più attenzione del macabro stillicidio quotidiano operato dai cecchini, né
riesce ad attirare l’attenzione la dozzina di
morti al giorno in circostanze che, soprattutto nella capitale assediata, venivano definiti
di “normalità” da parte degli osservatori internazionali.
Linguaggio espressivo, titoli gridati, immagini
di bimbi sofferenti: sembra essere questa la
chiave di interpretazione preferita dalla stampa, che spesso proprio di fronte a episodi di
particolare gravità e ferocia “scende in
campo” per far sentire che l’opinione pubblica non si è dimenticata della Bosnia e della
sua guerra.
L’esempio più evidente di questo tipo è legato alla città di Sarajevo che, a partire dall’inizio dell’assedio da parte dei serbo-bosniaci
(5 marzo 1992), diviene simbolo della distruzione e della tragedia dei suoi cittadini, di
luogo dove si consuma un dramma di
immense proporzioni: l’intera città è vittima
di un’aggressione che dura come mai non
era accaduto nella storia di questo secolo.
Tra metafore e allegorie presenti sui giornali,
prevale di gran lunga l’immagine dell’inferno,
che ricorre nei titoli dei giornali analizzati
circa settanta volte e spesso si trova associato alla città di Sarajevo. Ecco alcuni esempi: si va dal “Viaggio nell’inferno di Sarajevo”
(Corriere della Sera, dicembre 1992), a “Un
giorno nell’inferno di Sarajevo” (la Repubblica, 23/08/1995). Si trova ancora Avvenire: “A
Sarajevo è tornato l’inferno” (20 settembre
1994), l’Unità, che parla di un viaggio “da
Firenze verso l’inferno” o lo speciale del
manifesto dedicato alla ex Jugoslavia, nel
settembre del 1993, intitolato: “L’Europa
all’inferno”.
Si riscontra l’atteggiamento comune a tutti i
quotidiani di una titolazione fortemente
espressiva e dura in occasione di episodi
cruenti. Due di questi, la strage del mercato
di Sarajevo e l’assedio di Srebrenica,
mostrano efficacemente questa tendenza. Il
6 febbraio 1994 (strage del mercato), Avvenire apre la prima pagina titolando: “A
Sarajevo scempio d’umanità”; lo stesso
termine è usato da il manifesto, che scrive
invece: “Lo scempio di Sarajevo”, mentre Il
Giorno sceglie “Macelleria Bosnia” e in modo
simile l’Unità titola a tutta pagina: “Mattatoio
Sarajevo”. Si può notare che vocaboli come
“macelleria”, “scannatoio”, “mattatoio” ricorrono spesso nella titolazione dei quotidiani in
queste tragiche circostanze.
I titoli delle prime pagine, se si considera
che la prima pagina costituisce il “manifesto
ideologico” del quotidiano, permette di
cogliere la rilevanza che essa occupa
nell’economia complessiva delle scelte
editoriali. L’uso di titoli strillati sulla “copertina” del giornale nel corso della guerra
avviene soprattutto in concomitanza di
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Kosovo e informazione.
La guerra
vista da vicino
eventi di grande rilievo, tali da richiedere
l’apertura della prima pagina.
In queste circostanze i quotidiani non esitano a “gridare” titoli a nove colonne: efficace,
per esempio, la Repubblica del 6 febbraio
1994, che strilla in prima pagina: “Fermate la
strage: bombe serbe sul mercato di Sarajevo, 66 morti”, lanciando un appello dallo
spazio più visto del giornale. Pochi giorni
prima tutti i quotidiani (con l’eccezione de Il
Giornale) “aprono” sulla morte di tre giornalisti italiani uccisi a Mostar da una granata
sparata dai croati: titoli urlati e linguaggio
duro caratterizzano questa giornata nera del
giornalismo italiano: “Una strage nella strage” per il manifesto, “Bosnia, tre croci italiane” l’apertura del Giorno, solo per citare due
esempi.
Da questo punto di vista la Repubblica può
essere considerata il giornale che, insieme a
quelli che in questa ricerca abbiamo definito
schierati come Avvenire o il manifesto, richiama più frequentemente l’attenzione del lettore con una titolistica d’impatto e ad alto
contenuto emotivo.
Gli inviati:
il parere
degli “addetti ai lavori”
voluto incontrare gli inviati
La guerra e l’informazione,
dei media che avevano
un tema sempre d’attualità
seguito le operazioni in
nel mondo giornalistico.
Albania, in Macedonia e
Anche oggi, in un momennel Kosovo stesso. In quelto di crisi della figura dell’inl’occasione in primo luogo
viato di guerra. Dai primi
li ho ringraziati, a nome di
dispacci trasmessi con il
tutto l’Esercito, per l’attività
telegrafo ai mezzi di comue il servizio altamente
nicazione del villaggio
professionale svolti per
globale si sono succeduti
informare la pubblica
infiniti dibattiti sull’importanopinione
esponendosi
za, sui limiti, sulla continua
anche a rischi notevoli; ho
evoluzione dell’informaziopoi ascoltato con molto
ne di guerra, nella quale si
interesse le loro esperiencontrappongono esigenze
ze e il loro giudizio sulla
e interessi diversi. Da una
preparazione e sull’efficienparte i reporter impegnati
za operativa delle nostre
nel loro ruolo di “testimoni”
unità, in relazione a quella
per conto della collettività,
degli altri Paesi compartedall’altra il potere politicocipi della missione”.
militare che conduce una
Da quell’incontro e da una
doppia guerra: quella reale
successiva tavola rotonda,
sul campo e quella virtuale
svoltasi il 19 novembre
(ma non troppo) attraverso
1999, è nato il volume che,
i media.
spiega il generale Cervoni,
È significativo che, accanto
ai numerosi
Kosovo e informazione.
libri sull’arLa guerra vista da vicino,
gomento
a cura di Andrea Nativi,
p u bbl i c a t i
Stato Maggiore Esercito
negli ultimi
Agenzia pubblica informazione
anni
ad
Editore Video Immagine, pp. 200, s.i.p.
opera
di
giornalisti,
si rivela una sorta di
ne esca ora uno promosso
“manuale pratico di estredall’Agenzia pubblica informa valenza sociologica e
mazione
dello
Stato
professionale”.
Maggiore
dell’Esercito,
Tra i numerosi capitoli
“Kosovo e informazione. La
suddivisi in quattro parti si
guerra vista da vicino”. Per
segnalano quelli della
la verità si tratta di un voluterza, riguardanti le probleme contenente testimomatiche specifiche di guernianze di giornalisti che
ra e informazione. Intervenhanno seguito da vicino i
gono Ennio Remondino
conflitti nell’ex Jugoslavia, e
(controllo delle notizie, fonti
in particolare l’intervento
d’informazione, rapporti
italiano nel Kosovo.
con le autorità), Maurizio
Ma il filo conduttore di
Molinari (l’informazione sul
queste testimonianze è
conflitto negli altri Paesi
originale, poiché dalla
Nato), Marco Nese (Accescontrapposizione di esigenso alle informazioni, reporze e interessi si passa al
ting indipendente), Vincendialogo e al confronto tra
zo Nigro (Ricerca, verifica
forze armate e giornalisti.
e gestione delle informazioAnche perché, in questo
ni), Angela Virdò (fonti ufficaso, l’Esercito italiano è
ciali e Nato), Renato Capristato impegnato come
le (l’inviato di guerra in
forza di pace. Spiega FranKosovo nell’era dell’inforcesco Cervoni, capo di
mazione globale).
Stato Maggiore dell’EserciCompleta il volume una
to: “Dopo l’ingresso del
ricca documentazione fotocontingente Kfor nel Kosografica.
vo e il rientro dei profughi
(gi.ba.)
kosovari nella loro terra, ho
ORDINE
7
2001
Sebbene la professione di “inviato speciale”
sia sempre più minacciata dal ridimensionamento del suo ruolo, per l’invadenza di
una comunicazione tecnica priva di controlli
e di testimoni e per la rapidità con cui le
immagini televisive e i comunicati delle
agenzie propongono realtà sintetiche da
tutto il mondo, il giornalismo degli inviati ha
conservato la sua insostituibilità anche nel
conflitto dei Balcani. Nella ex Jugoslavia i
giornalisti hanno svolto un ruolo difficilmente sostituibile: sono stati testimoni personali
di una tragedia umana di immense proporzioni.
Gli inviati italiani hanno cercato l’approfondimento, l’analisi storica, l’osservazione
diretta. Non si sono fermati alle “veline” di
regime, propugnate all’inizio dal governo
sloveno e croato, poi dalle dichiarazioni dei
serbo-bosniaci e a un certo punto anche dai
Caschi Blu delle Nazioni Unite, che sul
terreno della Bosnia hanno palesato la loro
totale incapacità a fermare il massacro.
Alcuni di questi professionisti hanno fatto
entrare nei giornali il dubbio “che la guerra
non fosse etnica, che non si trattava di odio
atavico, che non c’era nessuna barbarie
congenita” (Guido Rampoldi, inviato della
Repubblica). Tra questi “pericolosi rompiscatole” c’è chi ha scritto apertamente che in
Bosnia “non era in corso un conflitto etnico
balcanico, ma un’offensiva della barbarie
contro la civiltà, una sistematica violazione
dei diritti umani” (Paolo Rumiz de Il Piccolo
di Trieste).
Le interviste raccolgono le dichiarazioni di un
giornalista per ciascun quotidiano esaminato: Paolo Rumiz del Piccolo di Trieste, Guido
Rampoldi della Repubblica, Renzo Cianfanelli del Corriere della Sera, Giuseppe
Zaccaria della Stampa, Marco Ventura del
Giornale, Gigi Riva del Giorno, Mauro
Montali dell’Unità, Maurizio Blondet dell’Avvenire e Nicole Janigro del manifesto.
Il loro giudizio sulla stampa italiana appare,
in sintesi, decisamente negativo. Viene sottolineata una “distanza” dalle redazioni, una
“frattura” tra chi seguiva gli eventi dal desk e
chi invece si trovava sotto le bombe: spesso
l’inviato si trova in difficoltà a comunicare con
la redazione e le notizie che invia, se non
trovano il riscontro oggettivante delle agenzie o della televisione, spesso vengono
accettate con riserva.
Vi è sostanziale unanimità nel riconoscere
che i giornali, nel loro complesso, non hanno
posto sufficiente attenzione a un conflitto che
si combatteva alle porte di casa nostra. In
particolare la stampa quotidiana, posta sotto
analisi dai suoi stessi professionisti, viene
giudicata negativamente in quanto superficiale e poco approfondita (Rumiz, Rampoldi,
Zaccaria, Ventura, Blondet), attenta soprattutto agli eventi tragici come stragi e massacri, che vengono tuttavia eccessivamente
spettacolarizzati: “ho visto una stampa prigioniera della spettacolarizzazione, sui giornali
abbiamo letto decine di storie ‘strappalacrime’” (Rampoldi); “quello che ‘faceva notizia’
era il dato di cronaca: la strage, i morti, le
granate” (Ventura).
C’è chi rileva anche la mancanza di continuità nella copertura informativa degli eventi:
“a pochi giorni di distanza da episodi gravi i
giornali tendevano ad occuparsi di altri argomenti” (Zaccaria), e il tentativo di minimizzare: “abbiamo visto dei giornali che hanno
clamorosamente minimizzato quanto stava
accadendo” (Janigro).
Quasi tutti riconoscono che la ex Jugoslavia ha ricevuto poca attenzione da parte
della stampa, che invece in quegli anni ha
dedicato molto più spazio ad altre vicende,
per esempio, la serie di inchieste condotte
dalla magistratura milanese denominata
“Mani Pulite”: “ il direttore […] avrebbe voluto concedere maggior spazio alle vicende
interne del nostro paese”; (Cianfanelli). Da
più inviati viene inoltre osservata un’eccessiva tendenza a semplificare (“indicare
responsabilità generiche e diffuse, come
generico è stato, sulla nostra stampa, il
concetto di colpa”, Rumiz) e la mancata
distinzione tra aggressore e aggredito: “tutti
descritti come ‘cattivi’, protagonisti di uno
scontro tribale in una specie di grande
scannatoio dove tutti erano contro tutti: è
questa l’immagine che la nostra stampa
quotidiana ha fatto passare sui giornali”
(Ventura).
Emerge con evidenza la consapevolezza
che i giornali si trovino ad affrontare una
realtà complessa e difficile, che tuttavia viene
spiegata ai lettori semplicemente come una
guerra “etnica”, senza approfondire la vera
natura e le cause reali del conflitto: “abbiamo
assistito a una diffusissima tendenza a usare
termini come ‘scontro tribale’ e ‘odio irrazionale’, ai quali poi ci si è abituati” (Rumiz); “c’è
stata la mistificazione dell’idea etnica”
(Rampoldi).
Questo quadro a tinte fosche si stempera
quando i giornalisti esprimono una valutazione del lavoro dei singoli reporter. Il loro
operato viene valutato meno drasticamente
di quanto appare nel giudizio sulla stampa:
riconoscono l’impegno e la volontà profusi
da alcuni colleghi.
Di fronte
a un discorso
piuttosto negativo
Di fronte a un discorso piuttosto negativo
sui mass-media del nostro Paese, in alcuni
casi vengono espressi dei “distinguo” sull’operato dei singoli giornalisti: “gli inviati
hanno coperto egregiamente la guerra e i
servizi sono stati di ottima qualità” (Rumiz);
“ci sono stati colleghi e giornali che hanno
compiuto un grosso sforzo, cercando di
andare a fondo e scavare sotto gli eventi”
(Ventura); “l’impegno di una certa parte di
giornalisti della nostra carta stampata”
(Rampoldi).
Il ruolo degli inviati, in certi casi, ha assunto
una valenza civile: la loro testimonianza è
servita a far conoscere al mondo quanto
stava accadendo: “in un certo senso è stata
una specie di missione” (Riva); “era talmente
forte il senso di dover rendere una testimonianza civile” (Montali); “a Sarajevo la battaglia l’hanno vinta i giornalisti: eravamo l’unica arma che potesse davvero aiutare la
popolazione tenuta in ostaggio dai serbi”
(Blondet); “alcuni giornalisti hanno vissuto
questa occasione professionale come una
sorta di ‘missione civile’ di cui rendere conto
ai lettori” (Janigro).
Infine l’ultimo dato, i pareri espressi su il
manifesto. Da più parti questa testata viene
indicata come la meno incisiva nel denunciare l’aggressore serbo-bosniaco. Accuse di
“colpevolezza” articolate con varie sfumature: c’è chi parla dei “vecchi automatismi
comunisti tipici del manifesto (Zaccaria); o
del “tentativo della sinistra che ha cercato di
difendere l’ultimo baluardo del comunismo: il
manifesto non si è accorto di quello che
stava accadendo” (Blondet); il manifesto, tra
l’altro, non mandava nemmeno i suoi inviati
in Bosnia, tranne qualche rara eccezione”
(Montali), come osserva anche la giornalista
di questa testata, che biasimare il suo giornale per non aver mandato nessuno a
Sarajevo: “non va dimenticato che per due
anni il manifesto non ha inviato nessun giornalista a Sarajevo, evitando il più possibile di
parlarne” (Janigro).
Alla luce di queste considerazioni, espresse
da chi ha vissuto in presa diretta il conflitto
per motivi professionali, lo scenario complessivo della stampa italiana nella guerra dell’ex
Jugoslavia appare di basso profilo: un understatement che rispecchia la pressoché totale
inerzia e mancanza d’iniziativa della classe
politica italiana e, più in generale, di quella
dell’Occidente, secondo una valutazione
espressa da tutti gli inviati.
Può essere utile, ancora una volta, ricorrere allo sguardo disincantato di chi ha assistito a tutto ciò che, a poco più di un anno
di distanza dalla fine del conflitto così sintetizzava l’operato dei giornali: “L’atteggiamento ufficiale della stampa è lo specchio
fedele di un vuoto. Quello di una diplomazia
internazionale che, in nome del business,
ha chiuso e chiude un occhio sulla repressione in casa d’altri” (Paolo Rumiz, Il Piccolo, 29.1.1997).
Emiliano Bos
11
Si è svolto a Milano il Convegno nazionale dell’Associazione “Medicina e persona”
Confronto
su
comunicazione
e informazione
nel settore
sanitario
all’incontro
“Medico,
cura te stesso”
Giornalista,
informa
te stesso
di Ivo Spagnoli *
“Medico cura te stesso”. Con questo intrigante titolo si è tenuto a Milano il primo Congresso nazionale dell’Associazione “Medicina e
Persona” a cui hanno preso parte dal 7 al 9
giugno scorso oltre 800 persone tra medici,
infermieri, dirigenti e operatori della sanità
pubblica e privata. Il titolo del Convegno è
d’altra parte in linea con gli scopi di questa
Associazione che riunisce a livello nazionale
più di 2000 iscritti tra tutti gli operatori del
pianeta sanità siano essi diretti protagonisti
della prestazione oppure amministratori o
figure istituzionali. Essa è stata fondata da
poco più di due anni e tra i suoi principali fini
vi è la difesa del carattere professionale
dell’esperienza di lavoro in sanità fondato sul
rapporto fiduciario tra operatore e paziente;
la conferma di una reale collaborazione e di
un confronto tra le diverse professionalità e
la riaffermazione del diritto-dovere, anche a
soggetti diversi dallo Stato, di costituire risposte efficaci al bisogno di salute del Paese,
nel rispetto del principio autentico di sussidiarietà.
La persona come
valore epicentrico
dell’atto sanitario
La persona come valore epicentrico dell’atto
sanitario. Questo è stato il motivo conduttore
N
O
delle tre giornate di lavori che hanno visto la
partecipazione del Presidente della Regione
Lombardia Roberto Formigoni, e quella degli
assessori regionali alla Sanità e all’Assistenza. Oltre 60 relatori hanno animato numerose sessioni tematiche; di particolare rilevanza la lezione magistrale di mons. Scola,
rettore della Pontificia università lateranense,
sul significato etimologico e antropologico di
“Carità e Cura” nonché la sessione “Una
scienza senza politica?” nella quale l’ex-ministro della Sanità Elio Guzzanti ha dato prova
della sua ben nota vivida e arguta intelligenza nel delineare i possibili e realistici rapporti tra la medicina basata sull’evidenza e il
servizio sanitario e Piero Micossi, assessore
alla Sanità della regione Liguria, ha esposto
una lucida analisi critica del sistema sanitario nazionale tra statalismo e devoluzione.
Intervenendo al termine del Congresso, Felice Achilli, presidente di Medicina e Persona,
ha dichiarato che “l’originalità del convegno
sta nell’aver posto, giudicando gli aspetti più
scottanti della medicina e della sanità, una
riflessione sulla natura e sullo scopo del lavoro del medico e delle professioni sanitarie.
Riflessione di estrema attualità come evidenzia un recentissimo editoriale della prestigiosa rivista British Medical Journal intitolato
“Perché i medici sono così insoddisfatti?”.
Achilli così prosegue: “In un momento di
notevole difficoltà di tutti i sistemi sanitari e di
urgenza di cambiamenti legislativi, legati alle
mutate condizioni del welfare, il convegno ha
ribadito la necessità di un riconoscimento
decisivo del carattere professionale del lavoro in medicina, riappropriandosi del suo
carattere umanitario di accoglienza integrale
del bisogno della persona”.
T
Giornalisti precari Rai:
la direttiva Ue sul lavoro
a termine “ci dà ragione”
Roma, 29 giugno. Il coordinamento dei giornalisti precari
Rai esprime soddisfazione per il recepimento ieri da parte
del governo delle direttive comunitarie in tema di contratti
a termine. E sottolinea: l’esecutivo “ha sancito pienamente
il diritto garantista del diritto di precedenza sui cui il coordinamento dei giornalisti a tempo determinato delle Testate
Rai si batte da mesi”.
“Mai come in questo caso - scrive in una nota il coordinamento dei giornalisti a tempo determinato delle Testate
Rai - ci sentiamo legittimati a dire: avevamo ragione noi”.
La facoltà di esercitare il diritto di precedenza in caso di
assunzione per la stessa qualifica, spiega il comitato, “ora
non solo assume il carattere di principio fondante nella
parte del ddl del Governo dedicata al lavoro a tempo determinato, ma diventa un meccanismo automatico”.
Da questo momento, annuncia, “l’azione del coordinamento, che ha prodotto ad oggi 150 adesioni di colleghi che
hanno esercitato il diritto di precedenza, si intensifica per
avviare da subito sia con l’Azienda Rai sia con l’Usigrai
iniziative concrete per ridiscutere tutta la materia delle
assunzioni dei giornalisti”.
(ANSA)
12
I
Z
Gli articoli e le foto
devono tutelare
le persone malate
Dimensione etica
da riaffermare
Giornalista, informa te stesso: così si potrebbe sintetizzare la conclusione, a metà strada
tra la garbata provocazione e la seria riflessione, con la quale si è conclusa la tavola
rotonda su “Comunicazione e informazione
in sanità” che ha visto il sereno confronto tra
operatori della comunicazione istituzionale e
giornalisti della carta stampata.
Un punto ha saldato le varie esperienze: la
forte, e purtroppo in tanti casi solo auspicabile, riaffermazione della dimensione etica
dell’atto comunicazionale. E da questa considerazione è nata la provocatoria domanda,
ed è scaturita anche una unitaria proposta
rivolta alle facoltà, alle scuole e agli Ordini
professionali di includere l’insegnamento
dell’etica nel corso degli studi e nell’aggiornamento continuo.
Forse questa è la strada affinché tutti gli
operatori di due settori delicati e importantissimi come la sanità e l’informazione, in modo
consapevole e condiviso, vedano nel loro
“entusiasmo etico” non solo un valore
aggiunto di importanza critica nella valutazione della qualità del loro atto professionale
ma anche la propria soddisfazione nel quotidiano, rapportandosi ad una intierezza di
professionalità ed eticità.
*Vicepresidente del Comitato Unitario delle
Professioni di Milano e Responsabile Area della
Comunicazione dell’Istituto nazionale dei tumori
di Milano
I
Roma, 26 giugno. Il giornalista che svolge
inchieste presso ospedali o case di cura deve
osservare particolari cautele a tutela della
dignità delle persone malate. Particolarmente
delicata è la pubblicazione di fotografie di ricoverati. Lo ha stabilito l’Autorità per la protezione dei dati personali, presieduta da Stefano
Rodotà e composta da Giuseppe Santaniello,
Gaetano Rasi, Mauro Paissan.
Il Garante, è detto nella Newsletter dell’Authority, si è espresso esaminando la
segnalazione relativa ad un settimanale che
aveva pubblicato un’inchiesta sull’anoressia,
corredata da foto di degenti e commenti su
loro vicende personali e familiari.
L’Autorità ha ricordato che “la dignità del
malato deve essere assolutamente garantita
dell’esercizio del diritto di cronaca e che la
normativa sulla privacy e il codice deontologico dei giornalisti prevedono per queste persone una tutela speciale, soprattutto quando si
tratta di minori”.
Le particolari cautele da adottarsi nei confronti di persone malate devono essere seguite dal giornalista anche quando, come nel
caso sottoposto al Garante, “l’inchiesta sia
realizzata con la collaborazione di una struttura sanitaria che, oltre ad autorizzare l’ingresso dei giornalisti nell’ospedale, si sia attivata per informare gli interessati e per raccogliere il loro consenso. Il consenso raccolto
dal medico deve basarsi su una informativa
adeguata e deve tener conto delle condizioni
psicofisiche degli interessati e della concreta
capacità di manifestare la loro volontà.
Devono essere tra l’altro chiariti agli interessati gli effetti che potrebbero derivare dalla
divulgazione di dati ed immagini”.
Nella decisione Garante ha riconosciuto che
“il servizio giornalistico pubblicato dal settimanale non ha violato le norme sulla privacy
essendo state adottate le necessarie cautele.
È risultato, infatti, che le degenti erano maggiorenni ed erano state tutte preventivamente
informate sia dalla struttura sanitaria, sia dal
giornalista ed avevano espresso il proprio
consenso a figurare nel servizio fotografico.
Per l’unica degente di minore età, poi, era
stato utilizzato un nome di fantasia e si erano
omessi riferimenti specifici per evitarne l’identificabilita”.
(ANSA)
E Validità della
Giornalisti:
da senatori Biancofiore
ddl su diffamazione
Roma, 18 giugno. Un disegno di legge che prevede, tra
l’altro, il ripristino dell’appello per le condanne in primo
grado per diffamazione a mezzo stampa è stato presentato a Palazzo Madama dai senatori del Biancofiore. Il testo,
in tutto nove articoli, è a firma dei senatori Eufemi, Cutrufo,
Ciccanti, Meleleo, Gaburro e Zanoletti.
Nella relazione al Ddl, viene fatto notare come nell’attuale
normativa nella materia della diffamazione a mezzo stampa vi sia un “evidente squilibrio che va corretto. È allora
opportuno rivedere tale disposizione, ripristinando l’appello e prevedendo adeguate rettifiche per coloro che dovessero risultate diffamati”.
Tra le altre novità del testo, l’allargamento delle disposizioni anche ad Internet e agli altri mezzi elettronici di diffusione, la soppressione della responsabilità colposa da omissione di controllo, con l’introduzione di una forma di
responsabilità oggettiva limitata alle ipotesi in cui l’autore
della pubblicazione o della diffusione sia ignoto o non
imputabile. Inoltre, il Ddl dà una nuova formulazione della
figura del reato a mezzo stampa (con reclusione fino a tre
anni e multa fino a quattro milioni), introducendo alcune
cause di non punibilità, riducendo ad un anno il termine
ordinario per l’azione di risarcimento del danno.
Il Ddl, uno dei primi presentati a palazzo Madama, ritorna
su una materia che la precedente legislatura non è riuscita a riformare, nonostante i numerosi testi di modifica
presentati, confluiti poi in un unico Ddl, che però non è poi
stato approvato.
(ANSA)
tessera dell’Ordine:
precisazione
del Comune di Milano
In riferimento all’articolo pubblicato su Tabloid di maggio
2001 - pagina 24 - si ritiene di dover precisare quanto
segue.
Il suddetto articolo riporta testualmente: “Le tessere degli
Ordini professionali sono validi documenti di riconoscimento al pari delle carte di identità. L’Ufficio anagrafe del
Comune di Milano ha diramato una circolare in tal senso
dopo una segnalazione del presidente dell’Ordine dei
giornalisti della Lombardia all’ingegner Giancarlo Martella, (assessore ai Servizi civici di Palazzo Marino)”
mentre, come si evince dalla lettera pubblicata dell’assessore medesimo le disposizioni in parola sono state
diramate a tutti gli Uffici anagrafici in data 20.12.2000,
pertanto precedentemente alla lettera del presidente
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, datata
30.01.2001. Corre, inoltre, l’obbligo di evidenziare che
non è stato tenuto alcun comportamento illecito da parte
del funzionario responsabile dell’Ufficio anagrafe, avv.
Carmine D’Alessio, citato nella lettera, né dagli operatori
della Delegazione anagrafica di via Sassetti. Invito,
pertanto, ad approfondire lo svolgimento dei fatti avvenuti presso la Delegazione anagrafica di largo De Benedetti, cogliendo l’occasione per ringraziare pubblicamente
tutti gli operatori comunali che hanno contribuito all’esame e soluzione della problematica in questione.
Detta problematica trovava soluzione nell’art. 292 R.D.
635/40 (ora art. 35 D.P.R. 445/2000) e non nell’art. 293 R.D.
citato, richiamato invece nella segnalazione pervenuta.
A disposizione per ulteriori eventuali chiarimenti si coglie
l’occasione per porgere distinti saluti.
Il direttore del settore Anagrafe, Stato civile,
Leva elettorale del Comune di Milano
Dr.ssa Daria Maistri
ORDINE
7
2001
Incontro al Ministero delle Comunicazioni
G I U R I S P R U D E N Z A
Sentenza della Corte di Cassazione sul diritto alla riservatezza
È possibile diffondere
le notizie su provvedimenti
e atti definitivi
di Arturo Bianco
Gli amministratori
possono diffondere,
senza violare il diritto
alla riservatezza,
informazioni su
provvedimenti
assunti, anche se in
tal modo si rendono
note informazioni che
contengono dati
sensibili.
È questo il principio
sancito dalla sentenza
17 maggio n. 20097
della VI Sezione penale
della Corte di
Cassazione che ha
riformato la condanna
comminata a un
presidente di
Comunità montana
dalla Corte d’appello
Campobasso.
In particolare, si
sancisce che non è
imputabile per
rivelazione di segreti
d’ufficio
l’amministratore
locale che renda note
notizie su un proprio
provvedimento di
sospensione
cautelare di un
dipendente dopo che
lo stesso sia stato
adottato.
La sentenza prende le mosse dalla definizione di ciò che oggi si deve ritenere protetto
dal dovere di segretezza, cioè: «la notizia di
ufficio deve rimanere segreta... tutte le volte
che il pubblico ufficiale o l’incaricato di
pubblico servizio abbia l’obbligo giuridico di
non rivelarla».
Ma esso si deve intendere ristretto all’ambito
delle notizie «che non possono essere date
alle persone che non hanno il diritto di riceverle» e che quindi sono sottratte non solo
all’accesso, ma anche alla nozione di “notizie accessibili”.
Siamo, come si vede, dinanzi a una rigorosa
individuazione dell’ambito, da ritenere eccezionale, delle informazioni che non possono
essere diffuse.
Il principio della tutela del segreto d’ufficio si
applica alla disciplina del rapporto di lavoro
nella pubblica amministrazione, ai sensi
dell’articolo 15 del Dpr n. 3/57 e dell’articolo
28 della legge n. 241/90 e si applica anche
agli amministratori, oltre che ai dipendenti, in
virtù dell’articolo 58 della legge n. 142/90.
Anche su questo versante, dunque, la
pronuncia offre una nozione assai ampia del
novero dei soggetti tenuti a uniformarsi alla
disciplina dettata a tutela del diritto alla riservatezza.
Sulla base di tali presupposti, argomenta la
sentenza della Corte di Cassazione, è
evidente che «nel corso dell’iter amministrativo propedeutico al provvedimento di
sospensione e fino all’emanazione dello
stesso, sussiste l’obbligo del mantenimento
del segreto d’ufficio... Tale segretezza viene
meno nel momento in cui la sospensione dal
servizio ha effettiva esecuzione». Momento,
questo, che viene definito come la fase in cui
il provvedimento si «esteriorizza nel mondo
relazionale, in quanto la stessa collettività
viene posta nella condizione di conoscere il
mutamento soggettivo intervenuto nell’organizzazione interna».
Anzi, si deve evidenziare che si forma un
interesse della pubblica amministrazione a
«informare la collettività della mutata situazione soggettiva di un proprio organo». Quindi, è possibile concludere che gli effetti di un
provvedimento di sospensione equivalgono,
ai fini della conoscibilità da parte dei terzi, a
quelli della misura dell’arresto. In altri termini, ed è questo un principio di carattere generale, l’assunzione del provvedimento segna
una sorta di momento di cesura ai fini della
sua accessibilità.
Assumono un notevole rilievo, anche ai fini
di una precisa definizione dell’interesse
personale alla tutela della riservatezza, le
considerazioni conclusive della sentenza,
per le quali «tale interesse deve cedere il
passo di fronte al preminente interesse
pubblico dell’Ente di apparire all’esterno
attraverso le persone fisiche che sono effettivamente legittimate a operare per esso».
Con il che si stabilisce un ulteriore principio
di carattere generale che circoscrive in modo
preciso gli ambiti di applicazione della
normativa di tutela della riservatezza,
sancendo che essa deve cedere il passo alla
tutela degli interessi più generali che sono
oggetto di disciplina da parte di specifiche
norme di legge.
da Il Sole 24 Ore
del 18 giugno 2001
Gasparri alla Fnsi
sulla Rai:
“Agiremo
in modo equilibrato”
Roma, 25 giugno. Il ministro delle Comunicazioni
Maurizio Gasparri ha incontrato stamane una delegazione della Federazione
nazionale della stampa
italiana guidata dal segretario Paolo Serventi Longhi e
composta dai vicesegretari
Federico Pirro e Franco
Siddi, dal Direttore Giancarlo Tartaglia e dal segretario
dell’Usigrai Roberto Natale.
All’incontro hanno partecipato i sottosegretari alle
Comunicazioni
Massimo
Baldini e Giancarlo Innocenzi. “La delegazione del
sindacato dei giornalisti spiega una nota - ha sottolineato l’esigenza che sia
assicurato al settore dell’emittenza radiotelevisiva uno
sviluppo equilibrato nell’ambito dell’applicazione delle
leggi esistenti ed anche
attraverso il completamento
del processo riformatore del
sistema. La Fnsi e l’Usigrai
hanno sostenuto la necessità di salvaguardare il ruolo
del servizio pubblico radiotelevisivo, assicurando certezza di risorse, in una gestione equilibrata dei gettiti da
canone e da pubblicità, e la
valorizzazione delle professionalità in Rai. Il sindacato
dei giornalisti ha anche chiesto al ministro Gasparri che
sia garantito lo sviluppo
dell’emittenza
nazionale
privata in una dimensione
pluralista e che guardi alle
prospettive di cambiamento
dei sistemi di comunicazione a cominciare dal digitale
terrestre. La Fnsi ha inoltre
nuovamente sollecitato iniziative governative di tutela
del ruolo dell’emittenza locale e delle professionalità
degli addetti. La Federazione nazionale della stampa
italiana ha infine apprezzato
la decisione del Governo di
confermare il ruolo importante del ministero delle
Comunicazioni ed ha auspicato una rapida approvazione del relativo decreto”.
Sempre secondo quanto
spiega la nota Fnsi, “il ministro Gasparri ha annunciato
che nei prossimi giorni sarà
definita dal ministero una
agenda di lavoro che tenga
conto delle priorità rispetto
alle quali ha manifestato la
volontà di agire in misura
equilibrata. Il ministro, nel
ricordare le competenze del
proprio dicastero e quelle
degli altri organi istituzionali
e di controllo, ha sottolineato il proprio impegno ad
approfondire in tempi rapidi i
problemi aperti e ad avanzare le relative proposte”.
(ANSA)
Sentenza della Corte suprema
Il freelance Usa
deve autorizzare
il riutilizzo
degli articoli
sulle testate web
Washington, 25 giugno 2001. La Corte suprema
americana ha stabilito che un gruppo di editori -Time
Inc., editore del New York Times in testa - ha violato la
normativa in materia di copyright, rendendo accessibili
da banche dati elettroniche, senza autorizzazione, articoli redatti da giornalisti freelance.
Di conseguenza, gli editori dovranno risarcire i sei freelance, rappresentati dalla National Writers Union, in
causa dal 1993. Ed è probabile che per la stessa ragione alle parti vincitrici si aggiungeranno le richieste di
moltissimi altri autori di articoli inseriti nei database.
La Corte ha deliberato a larga maggioranza: 7 a 2 le
opinioni favorevoli rese dinanzi al giudice Ruth Bader
Ginsburg. Gli editori, oltre che risarcire i danneggiati,
dovranno al più presto rimuovere dai loro archivi elettronici gli articoli contestati, a meno che i freelance non
comunichino esplicitamente all’azienda la volontà che i
loro articoli restino nel database.
Esultanti i responsabili dell’Unione degli scrittori: la prassi degli editori di inserire nei loro database articoli di
freelance, senza pagare i diritti di ripubblicazione, andava avanti da anni. Il riconoscimento della violazione del
diritto d’autore, ora, costringe l’industria dei media a
ripensare ai diritti di pubblicazione on line: gli editori,
infatti, sono titolari del copyright, e dunque dei diritti di
pubblicazione anche in archivi elettronici, del solo lavoro dei redattori dipendenti (da www.altalex.com).
ORDINE
7
2001
Petizione
telematica
contro
la nuova
legge
sull’editoria
I giornalisti italiani hanno una diversa tutela rispetto ai
colleghi americani. Dice l’articolo 38 della legge n.
633/1941 sul diritto d’autore:
“Nell’opera collettiva, salvo patto in contrario, il diritto di
utilizzazione economica spetta all’editore dell’opera stessa,
senza pregiudizio del diritto derivante dall’applicazione
dell’art. 7 (“È considerato autore dell’opera collettiva chi
organizza e dirige la creazione dell’opera stessa”, cioè il
direttore responsabile, ndr).
Ai singoli collaboratori dell’opera collettiva è riservato il diritto
di utilizzare la propria opera separatamente, con la osservanza dei patti convenuti e, in difetto, delle norme seguenti”.
L’articolo 14 del Cnlg attenua il potere degli editori,
prevedendo un compenso per il riutilizzo degli articoli.
Questo il testo: “Nel rispetto della autonomia delle singole
testate, secondo le norme degli artt. 6, 34 e 42, la cessione
ad altre aziende o testate di servizi di corrispondenza di
collaborazione forniti dai giornalisti dipendenti darà luogo per
la durata della utilizzazione ad un maggiore compenso nella
misura del 30% dello stipendio mensile.
Tale maggiore compenso non sarà però computabile ad
alcun effetto e nessuna indennità sarà dovuta al termine
della cessione.
Per la cessione di singoli articoli sarà dovuto al giornalista
Sulla carta, i giornalisti italiani hanno più diritti dei loro
colleghi americani. Ma i diritti devono essere difesi ogni
giorno dagli uomini e dalle donne, che lavorano nei gior-
Roma, 25 giugno. La petizione telematica contro la legge
sull’editoria, sostenuta da più di 3 mila siti italiani, si è chiusa
con la raccolta di 54 mila adesioni. Lo sostiene il quotidiano
Internet Punto-Informatico.it, promotore dell’iniziativa. La
legge di riforma era stata infatti contestata dal popolo di Internet che temeva di dover registrare obbligatoriamente le testate online. La petizione verrà consegnata nelle prossime settimane al Parlamento, attraverso l’ufficio di Presidenza della
Camera dei deputati, e al Governo, attraverso il ministro delle
Comunicazioni Maurizio Gasparri. La petizione chiede al legislatore di abrogare la legge sull’editoria o almeno di modificarne il primo articolo. “Chi ha firmato la petizione - spiega in
una nota Paolo De Andreis, promotore della mobilitazione e
direttore editoriale di Punto-Informatico.it - intende aprire un
dialogo con il Governo e il nuovo Parlamento, affinché siano
garantite le libertà di espressione e di stampa”.
(ANSA)
un equo compenso da concordarsi in sede aziendale e
comunque non inferiore a L. 15.000 per articolo.
La cessione di articoli, servizi di corrispondenza e di collaborazione può avvenire soltanto previa autorizzazione del
giornalista interessato. Dall’applicazione del presente articolo sono esonerate le agenzie di informazioni per la
stampa.
NOTE A VERBALE
1) L’obbligo del pagamento del compenso discende dalla
utilizzazione economica da parte della azienda del servizio originale e dell’articolo del giornalista indipendentemente dalla qualifica che il medesimo riveste.
2) Agli effetti dell’applicazione di questo articolo, per
stipendio mensile si intende: minimo tabellare, indennità di contingenza, aumenti periodici di anzianità,
superminimi individuali ed eventuali maggiorazioni per
lavoro notturno.
3) Qualora la cessione di articoli, servizi, corrispondenze e
collaborazioni venga fatta per servizi di informazione destinati ad emittenti radiotelevisive di ambito locale, si applica
il protocollo sulle “radiotelevisioni locali” annesso al
presente contratto (allegato B)”.
nali, nei tg, nei periodici, nei radiogiornali e nelle testate
web. La parola ai Cdr, ai sindacati regionali, alla Fnsi e
anche all’Ordine professionale.
13 (17)
Appello di Franco Abruzzo ai ministri della Giustizia e del Lavoro
Permessi ai consiglieri
dell’Ordine e ai
commissari d’esame
Castelli e Maroni
devono intervenire
Milano, 3 luglio. Nella bufera sia l’attività dei
Consigli dell’Ordine dei giornalisti e sia quella della Commissione per l’esame di giornalista. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico firmato il 24 febbraio 2001 al ministero
del Lavoro ha modificato l’articolo 23 del
Cnlg, limitando i permessi accordati ai consiglieri dell’Ordine e ai commissari per l’esame di giornalista. Dall’articolo 23 si arguisce:
a) che ai giornalisti che fanno parte degli organi direttivi degli Ordini professionali saranno
concessi permessi (per il tempo strettamente
necessario per lo svolgimento delle funzioni)
retribuiti nei limiti di 20 giorni all’anno;
b) che ai giornalisti componenti della
Commissione esaminatrice per la prova
d’idoneità professionale saranno concessi
permessi (per il tempo strettamente necessario per lo svolgimento delle funzioni), ma
gli stessi non riceveranno alcuna retribuzione nemmeno per 20 giorni all’anno.
Franco Abruzzo ha chiesto ai ministri del
Lavoro e della Giustizia, Roberto Maroni e
Roberto Castelli, di convocare le parti sociali
(Fieg e Fnsi), perché l’articolo 23 del Cnlg
sia riscritto, riparando agli errori commessi
dalle parti in sede di contrattazione sindacale sia sul piano del rispetto del dettato costituzionale e sia sul piano del rispetto delle
norme sull’ordinamento della professione
giornalistiche ritenute legittime dalla Corte
costituzionale con le sentenze 11 e 98/1968;
2/1971; 71/1991; 505/1995. “Il nuovo articolo
23 del Cnlg - secondo Abruzzo - viola gli
articoli 33 (quinto comma) e l’articolo 51
(terzo comma) della Costituzione nonché la
legge n. 69/1963 sull’ordinamento della
professione giornalistica e l’annesso Regolamento (Dpr n. 115/1965)”. L’assunto di
Abruzzo è molto semplice: i consiglieri,
che sono dei giudici disciplinari e che
sono anche giudici delle iscrizioni all’Albo, non possono limitare la loro attività a
20 giorni all’anno. Anche i commissari
d’esame svolgono funzioni pubbliche e
devono essere retribuiti, quando sono
impegnati a Roma. I permessi sono una
burla se sono svincolati dallo stipendio.
L’esame di giornalista, quindi, è sull’orlo
della paralisi per effetto di una norma
contrattuale, chiaramente illegittima, che
corregge un articolo della Costituzione, l’articolo di una legge e un altro articolo di un Dpr.
Gli editori hanno il coltello nelle loro mani,
potendo operare trattenute sugli stipendi dei
giornalisti in attività chiamati alle funzioni
“pubbliche” di commissari d’esame. Un
esempio non guasta. È come se il ministero
della Pubblica istruzione designasse i
commissari della maturità, dicendo loro:
“Farete i commissari, avete il diritto ai
permessi ma non alla retribuzione”. “La Fieg
- sottolinea Abruzzo - pretende, e lo ha scritto in un documento, che i giornalisti-commissari (e i consiglieri) rinuncino alle ferie e alle
corte per svolgere funzioni pubbliche”.
Il documento è una lettera (datata 13 giugno
2001) firmata dalla direzione generale della
Fieg e indirizzata alla direzione del personale della Mondadori.
Il nuovo
contratto
viola
due articoli
della
Costituzione
e la legge
professionale.
Nella bufera
sia l’attività
dei Consigli
dell’Ordine
dei giornalisti
sia quella
della
Commissione
per l’esame
di giornalista
1
I consiglieri degli Ordini professionali
sono giudici. Afferma l’articolo 51 (terzo
comma della Costituzione): “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di
disporre del tempo necessario al loro
adempimento e di conservare il suo posto
di lavoro”.
L’Ordine nazionale dei giornalisti e gli Ordini
regionali sono persone giuridiche di diritto
pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge
n. 69/1963) ed enti pubblici non economici
(Dlgs n. 29/1993).
I consiglieri dell’Ordine sono, quindi pubblici
ufficiali, svolgono una funzione pubblica
elettiva (articolo 51, terzo comma della
Costituzione) e in particolare le funzioni
previste dall’articolo 2229 del Codice civile:
sono giudici amministrativi disciplinari di I
grado e sono giudici amministrativi di I grado
delle iscrizioni negli elenchi dell’Albo.
Pertanto i permessi retribuiti non possono
essere limitati annualmente a venti giorni.
Lo stesso discorso vale per i consiglieri
dell’Ordine nazionale. L’attività giudicante
non può subire limitazioni di sorta. Le limitazioni determinerebbero la paralisi dei Consigli dell’Ordine e lo svuotamento delle loro
funzioni pubbliche svolte a tutela della
correttezza dell’informazione e del diritto dei
cittadini a un’informazione corretta (“valori
costituzionali” ex sentenze n. 105/1972; n.
225/1974; n. 94/1977; n. 112/1993; n.
505/1995 della Corte costituzionale).
L’esame
di giornalista
è sull’orlo
della paralisi.
La Fieg pretende
che i giornalisticommissari
e i consiglieri
rinuncino
alle ferie e alle
corte per svolgere
funzioni
pubbliche
previste dalla
Costituzione,
dal Codice civile
e dalla legge
professionale
2
I commissari dell’esame di giornalista svolgono funzioni pubbliche. Afferma l’articolo
33 (quinto comma) della Costituzione: “È
prescritto un esame di Stato per l’ammissione
ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio
professionale”. L’articolo 32 della legge professionale n. 69/1963 recita: “L’esame dovrà
sostenersi in Roma, innanzi a una Commissione composta di sette membri, di cui cinque
dovranno essere nominati dal Consiglio nazionale dell’Ordine fra i giornalisti professionisti
iscritti da non meno di 10 anni. Gli altri 2
membri saranno nominati dal presidente della
Corte d’appello di Roma, scelti l’uno tra i magistrati di tribunale e l’altro tra i magistrati di
appello; questo ultimo assumerà le funzioni di
presidente della Commissione in esame. Le
modalità di svolgimento dell’esame, da effettuarsi in almeno due sessioni annuali saranno
determinate dal regolamento”. Dall’intreccio
Costituzione-legge ordinaria si ricava che i
commissari svolgono una funzione pubblica.
Dall’articolo 45 del Regolamento, pertanto,
si evince che almeno 4 dei 5 commissari
giornalisti dovranno essere “attivi” ed esercitare la professione presso quotidiani, periodici, agenzie di stampa... e presso un servizio giornalistico radiotelevisivo, in ragione di
uno per ciascuno di detti settori di attività.
Sul rovescio si può affermare che soltanto uno dei 5 commissari potrà essere non
attivo e, quindi, pensionato Inpgi.
Seduta del Consiglio dell’OgL del 18 giugno 2001
Gli incarichi all’interno del Consiglio e degli uffici
Linee operative
1
e di indirizzo:
9
5
10
2
6
11
7
12
1
Il presidente, in base agli articoli 4 e 5
della legge n. 241/1990 e al successivo
Regolamento del Cnog (recepito dall’OgL il 10 maggio 1994), assegna a
singoli consiglieri istruttori i procedimenti amministrativi inerenti alle iscrizioni e alle cancellazioni nonché ai
procedimenti disciplinari, ma “ne
conserva la responsabilità”.
Mensile Ordine Tabloid: direttore
responsabile Franco Abruzzo; condirettore Bruno Ambrosi. Le prestazioni
del direttore e del condirettore sono
gratuite. I collaboratori, invece, vengono
retribuiti di massima in base al tariffario
dell’Ordine come nel passato. Tutela
legale automatica a carico dell’Ordine
per il direttore responsabile di Tabloid e
copertura integrale dell’Ordine per
quanto riguarda richieste di risarcimento danni in sede civile e penale nonché
le spese legali. Il Consiglio dell’Ordine
ha, comunque, stipulato una polizza a
copertura dei rischi che derivano ai
consiglieri e ai revisori dall’esercizio
delle loro funzioni previste dalla legge
n. 69/1963 o da delibere del Consiglio.
Praticanti (assunzioni normali) e all’Elenco speciale dell’Albo (si tratta di atti
dovuti): Franco Abruzzo. Si tratta di
pratiche semplici, che vengono esaurite in 24 ore.
devono sostenere la prova di idoneità
professionale: Paola Pastacaldi.
Consigliere istruttore per le iscrizioni
(art. 6, lett. a-b-c-e, della legge
241/1990) all’Elenco pubblicisti dell’Albo: i procedimenti vengono assegnati
dal presidente a Brunello Tanzi e a
Cosma Damiano Nigro.
Pareri di congruità (artt. 633 e
636 Cpc): Franco Abruzzo, che
agisce con i poteri del Consiglio,
utilizzando come consulente l’avv.
Luisa Nicosia. I casi complessi
restano, comunque, di competenza del Consiglio.
Consigliere istruttore per le iscrizioni
d’ufficio (art. 6, lett. a-b-c-e, della legge
241/1990) al Registro dei Praticanti: i
procedimenti vengono assegnati dal
presidente a Letizia Gonzales.
3
Consigliere istruttore per i procedimenti disciplinari (art. 6, lett. a-b-c-e,
della legge 241/1990): i procedimenti
vengono assegnati dal presidente a
Sergio D’Asnasch.
Affari del personale: Franco Abruzzo
(che, come “capo struttura”, esercita i
poteri disciplinari di cui all’articolo 55
del testo unico del Pubblico impiegoDlgs n. 165/2001 limitatamente alle
sanzioni del rimprovero verbale e della
censura). Gli altri provvedimenti disciplinari più gravi sono di competenza del
Consiglio al quale il presidente Abruzzo
riferisce. In questi casi il Consiglio va
integrato con un rappresentante del
personale.
Sono di competenza del Consiglio le
assunzioni del personale e l’accettazione delle dimissioni.
4
Consiglieri istruttori per le iscrizioni (art.
6, lett. a-b-c-e, della legge 241/1990)
all’Elenco professionisti, al Registro dei
Organizzazione degli esami di cultura
per l’ammissione al praticantato e dei
corsi di viale Murillo per i praticanti che
14 (18)
8
Iniziative culturali (anche per quanto
riguarda Tabloid): Paola Pastacaldi.
Assistenza legale e fiscale
gratuita agli iscritti. L’avv. Luisa
Nicosia è incaricata del recupero
crediti a favore degli iscritti liberi
professionisti. L’assistenza fiscaleamministrativa viene gratuitamente
agli iscritti dallo studio del dott.
Roberto Marcianesi.
Direzione (coordinamento, vigilanza
ed attuazione delle decisioni del
Consiglio, affari del personale) degli
Uffici dell’Ordine: Elisabetta
Graziani (posizione C4 del Cnl
parastato, già 9° livello= funzionario
capo). Isabella Massara (posizione
C 3, già VIII livello=funzionario
amministrativo) svolge funzioni vicarie rispetto a Elisabetta Graziani.
13
Urp (articolo 11 del Dlgs n.
165/2001): incarico a Letizia
Gonzales, che avrà la collaborazione di Liviana Nemes Fezzi.
per quanto riguarda i praticanti d’ufficio, il Consiglio opera nel rispetto della
delibera 12 luglio 1991 del Consiglio
nazionale (che ribadisce principi fissati già
nel 1986), dell’articolo 36 del contratto di
lavoro, dell’articolo 11 della legge professionale, e degli articoli 43 e 46 del Regolamento per l’esecuzione della legge professionale. Bisogna garantire a tutti i cittadini
il godimento degli articoli 2 (tutela della
dignità della persona: essere di diritto quello che si è di fatto) e 4 della Costituzione
(diritto al lavoro). In sostanza i praticanti
giornalisti si dividono secondo queste
linee:
ORDINE
7
2001
CONSIGLIO DI STATO
Uffici
stampa
nella Pa:
il parere del Consiglio
di Stato sul regolamento
Sezione Consultiva per gli atti normativi
Adunanza del 21 maggio 2001
N. Sez. 137/2001
Oggetto: PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Schema DPR - Regolamento recante norme per la determinazione
dei titoli per l’accesso alle attività di informazione e di comunicazione
e per l’individuazione e la disciplina degli interventi formativi, ai sensi
dell’articolo 5 della legge 7 giugno, n.150, e comunicazione delle
pubbliche amministrazioni
LA SEZIONE
Vista la Relazione n. 02196/UL/46.635 del 17 maggio 2001 con cui
la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha chiesto il parere di questo
Consiglio in ordine allo schema di D.P.R. suindicato.
Letti gli atti e udito il relatore-estensore, Consigliere Francesco
D’OTTAVI,
PREMESSO:
Il richiedente ministero
nella richiamata relazione
premette che lo schema
di regolamento in esame
è stato approvato in sede
preliminare dal Consiglio
dei Ministri in data 7
febbraio 2001, successivamente inoltrato alla
Conferenza
Unificata
Stato-Regioni e Stato-Città ed autonomie locali, è stato da questa
esaminato, dapprima, in sede tecnica, nelle riunioni del 22 marzo e
del 12 aprile 2001, nel corso delle quali sono state convenute alcune
modifiche proposte dalle regioni e dall’ANCI e, da ultimo, in via definitiva, nella seduta della Conferenza Unificata del 19 aprile 2001.
In tale data, è stato acquisito il parere favorevole all’intesa dell’UPI,
dell’UNCEM, dell’ANCI e dei Presidenti delle regioni, e del Governo,
che ha raccolto le ulteriori richieste di modifica avanzate in quella
sede dalle regioni e dall’ANCI, come risulta dal verbale che qui si
allega. La Presidenza rappresenta poi che lo svolgimento, da parte
delle pubbliche amministrazioni, di attività di informazione e comunicazione è stato normativizzato, in via generale, con il decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, il cui articolo 12 ha istituito gli URP - Uffici per le
Relazioni con il Pubbico. Rileva peraltro la Presidenza che lo svolgimento di tale tipo di attività, necessita di talune, specifiche, professionalità che non sempre sono attualmente presenti nelle pubbliche amministrazioni.
Sulla base di tale avvertita circostanza il legislatore è quindi intervenuto, con la legge 7 giugno 2000 n.150 - recante “Disciplina delle
attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni” - per porre delle regole, sia di principio che operative, cui la
Pubblica amministrazione deve attenersi nella predisposizione e nella
comunicazione delle informazioni.
La legge (art.5), dovendo altresì affrontare la disciplina dei requisiti di
cui il personale pubblico deve essere in possesso per poter svolgere le
funzioni di informazione e comunicazione, ha demandato tale compito
ad una fonte regolamentare.
Nel presente schema regolamentare, evidenzia la Presidenza, si è
cercato di far sì che il personale addetto agli uffici cui sono affidate
le funzioni istituzionali di comunicazione sia adeguatamente formato
ed addestrato, in modo tale da garantire un elevato livello minimo di
professionalità, che possa rendere più agevoli e produttivi i rapporti
della cittadinanza con la pubblica amministrazione e che possa
consentire a quest’ultima di disporre, al proprio interno, delle risorse
umane adeguate ai compiti di comunicazione - diversi dalle tradizionali funzioni amministrative - che assumono sempre maggior impor-
tanza correlativamente allo sviluppo delle I.C.T (Information &
Communication Technology).
L’impianto del regolamento è sostanzialmente ripartito lungo le due
direttrici della disciplina a regime, che riguarda i titoli che consentono
al personale pubblico di essere utilizzato per le attività di informazione e comunicazione, e di quella transitoria, che concerne le attività
formative prescritte per coloro che, pur se già addetti agli uffici che
svolgono attività di comunicazione e informazione istituzionale, e
quindi dotati di una certa esperienza nel settore, tuttavia non possiedono quegli strumenti conoscitivi, adeguatamente aggiornati, che
consentono di adempiere al proprio ufficio in modo da tenere il passo
con le crescenti innovazioni tecnologiche e con la messa a punto di
sempre nuove tecniche comunicative.
CONSIDERATO:
Come rilevato nelle premesse e come più diffusamente illustrato dalla
richiedente Presidenza nella richiamata relazione, con lo schema di
D.P.R. in esame viene data attuazione alla previsione di cui all’art.5
della L. 7 giugno 2000, n.150, recante la disciplina delle attività di
informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni.
Lo schema di regolamento, in linea con le previsioni e le finalità fissate dalla richiamata norma primaria, prevede in dettaglio i requisiti di
professionalità specifica che devono possedere i dipendenti addetti
ai servizi di informazione e comunicazione. Il provvedimento e suddiviso in due previsioni, quella futura, e quella temporale-transitoria
relativa alla situazione attuale.
Sul contenuto del provvedimento, che appare conforme agli scopi
previsti dalla normativa, la Sezione esprime parere favorevole.
Ritiene tuttavia opportuno che il provvedimento sia confrontato con il
contenuto del recente D.Lgs 30 marzo 2001, n.165 (pubblicato sulla
G.U. n.106 del 9 maggio 2001) i cui estremi (cfr. artt.10 e 11) dovranno essere citati nel testo. Alcune integrazioni formali sono evidenziate nello schema allegato.
P.Q.M. Nelle suesposte considerazioni é contenuto il parere favorevole espresso dalla Sezione. Visto: Per estratto dal verbale:
Il Presidente della Sezione
Il Segretario della Sezione
Tommaso Alibrandi
Maria Barbagallo
dell’OgL (approvata all’unanimità)
a) quelli normalmente assunti (quotidiani,
periodici, tg, radiogiornali, testate web);
b) i pubblicisti assunti ex articolo 36 del
vigente Cnlg (trattati economicamente
come redattori professionisti e con il diritto
contrattuale di sostenere l’esame di Stato);
c) quelli che hanno superato il concorso presso l’Ifg e la Scuola della Università Cattolica;
d) i redattori “di fatto” (cioè coloro che lavorano normalmente, senza essere assunti,
presso quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web);
e) i “redattori staccati” o “corrispondenti” con
incarichi di lavoro su pagine di cronaca
elaborate con le tecniche delle cronache
cittadine (pubblicisti anche assunti ex articolo 12 del vigente Cnlg);
f) “pubblicisti free lance”, che abbiano
compensi complessivi pari al costo di un
redattore praticante normale (cioè dai 35
milioni lordi annui in su).
I dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a
tempo parziale possono chiedere
l’iscrizione negli albi professionali (articolo 1,
commi 56 e 56-bis, della legge n. 662/1996;
sentenza 11 giugno 2001 n. 189 della Corte
costituzionale).
2
3
Retrodatazioni nel Registro e nell’elenco professionisti dell’Albo: sono
sollecitate spesso dall’Inpgi per permet-
ORDINE
7
2001
tere il recupero di contributi che, invece,
andrebbero restituiti agli interessati e alle
aziende. In passato gli Ordini iscrivevano i
praticanti assunti dalla data della seduta del
Consiglio, che non coincideva con quella
dell’assunzione. Ciò era in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione.
Una testata con redattori professionisti, pubblicisti e praticanti non può
essere diretta da un iscritto all’Elenco
speciale. Così una testata precedentemente
diretta da un professionista o da un pubblicista non può essere diretta da un iscritto all’Elenco speciale, a meno che non rispecchi le
caratteristiche dell’articolo 28 della legge
professionale (pubblicazioni anche on-line a
carattere professionale, scientifico o tecnico).
4
Iscrizioni all’Elenco Pubblicisti. Gli
aspiranti pubblicisti dovranno dimostrare di aver versato il 12% alla gestione
separata dell’Inps a meno che non abbiano
accordi scritti di data certa (e con anticipo
rispetto all’inizio delle collaborazioni) con gli
editori, che prevedano la cessione dei diritti
d’autore (legge n. 633/1941). Va anche ribadito che i compensi dovranno avvenire con
periodicità e che il Consiglio non accetta
pagamenti unici al termine del biennio delle
collaborazioni giornalistiche.
5
Iscrizioni all’Elenco speciale. Il
Consiglio ha sempre concepito e
concepisce l’Elenco speciale come
«elenco della libertà» con il pieno sostegno
del tribunale di Milano, nel senso che i cittadini, i quali vogliono assumere la direzione
6
di una testata con le qualità fissate dall’articolo 28 della legge professionale, possono
liberamente farlo senza particolare formalità. In questo elenco vengono iscritti anche
i direttori di periodici religiosi, dei periodici
delle amministrazioni locali, dei sindacati,
dei movimenti del volontariato.
Bisogna garantire a tutti i cittadini il godimento pieno dell’articolo 21 della Costituzione. Dopo due anni, i direttori hanno
facoltà di presentare domanda per l’iscrizione all’elenco pubblicisti dell’Albo, qualora il
loro giornale non sia pubblicitario o
commerciale. La quinta sezione del Tribunale civile di Milano (sentenza 11 gennaio
2000 Zanardi contro Cnog, depositata il
12.2.2001) ha accolto l’impostazione
dell’Ordine di Milano: “...le motivazioni del
Consiglio nazionale non sono condivisibili
nella parte in cui escludono che l’iscritto
all’elenco speciale di cui all’articolo 28 della
legge 3.2.1963 n. 69 possa chiedere l’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti, e questo a
prescindere da una valutazione di merito
circa l’attività svolta in concreto dall’interessato... Ad avviso del Tribunale, non sussiste
un’incompatibilità assoluta tra iscrizione
agli elenchi speciali e iscrizione all’elenco
dei pubblicisti, che deve invece ritenersi
possibile qualora ne sussistano i presupposti di fatto (svolgimento di attività pubblicistica regolarmente retribuita per almeno
due anni)”.
Acquisti. L’Ufficio acquisti dell’OgL è
impegnato a chiedere tre preventivi ad
esclusone delle piccole spese di economato e di quelle di routine.
7
“Il Premiolino”
di metà 2001
a Colin, La Licata,
De Gregorio,
Fiori, Franco,
Frandino e Rossi
Milano, 5 luglio. Il premio “Il Giornalista del
Mese” (Premiolino) sponsorizzato dalla
Parmalat premia quei giornalisti che dal
gennaio al giugno 2001 si sono distinti per
l’originalità dei loro servizi o per pregi professionali. Un riconoscimento ambito che da
oltre quaranta anni è stato assegnato a oltre
400 giornalisti. Questo premio - nato nel
1960 - dopo diverse alternanze di sponsor e
un interregno di due anni, finalmente dal
1985 ha acquisito una consolidata continuità
sostenuta da Parmalat, l’attuale mecenate.
Costituito dal diploma con il tradizionale disegno del Pittore Manzi e da un assegno di tre
milioni, per quest’edizione il Premiolino è
stato assegnato a:
Gianluigi Colin
(Corriere della Sera, gennaio 2001)
Tra i maggiori artefici della rivoluzione grafica che ha trasformato i nostri quotidiani, ha
mutato l’immagine del Corriere con innovazioni che gli hanno valso l’Award of Excellence 2001 della “Society for New Design” e
hanno portato le pagine del quotidiano milanese alla “Uma Gallery” di New York.
Francesco La Licata
(La Stampa, febbraio 2001)
Giornalista appassionato ma di raro equilibrio, grande esperto di immigrazione e di
criminalità organizzata, nell’articolo di fondo
del 23 febbraio, subito dopo il terribile delitto
di Novi Ligure, è stato il primo a mettere in
guardia contro la tendenza ad attribuire qualsiasi crimine agli immigrati.
Antonella Fiori e Barbara Frandino
(Candide-Rai Radio 3, marzo 2001)
Autrici, con Marco Drago, del programma
radiofonico “Candide” che ha il grande pregio
di dare risposte chiare, semplici, esaurienti a
domande difficili e a problemi complessi.
Felice esempio di giornalismo colto a servizio del pubblico.
Concita De Gregorio
(La Repubblica, aprile 2001)
Per la vivacità e l’ironia delle sue cronache
politiche sempre graffianti ma contrassegnate da sottile distacco. In specie per quelle,
particolarmente brillanti, apparse durante la
campagna per le elezioni del 13 maggio.
Massimo Franco
(Panorama, maggio 2001)
Per l’acume, la precisione, la vivacità con cui
affronta problemi e descrive personaggi nei
suoi servizi di inviato speciale di Panorama,
nonché per la chiarezza e l’obiettività dei
suoi editoriali su Avvenire.
Guido Rossi
(L’Espresso, giugno 2001)
Grande avvocato, protagonista della vita
economica italiana, nella rubrica che firma
con lo pseudonimo di “Devil” prosegue la sua
battaglia per legalità, trasparenza, cultura
delle regole. In particolare per la puntata
“Robin alla rovescia” sulla politica economica USA.
“Il Giornalista del Mese” è il più caratteristico
e forse anche il più “storico” premio giornalistico. Nato nel 1960 con il nome di “Premiolino”, il premio è andato nel tempo a oltre 400
giornalisti, selezionati mese per mese da
una giuria di colleghi che critica, commenta
e sceglie gli articoli ai quali attribuire il riconoscimento.
Il premio “Il Giornalista del Mese” viene assegnato due volte all’anno, in gennaio e in
luglio, e viene attribuito ai sei giornalisti selezionati dalla giuria per il semestre. È costituito dal diploma ispirato al tradizionale disegno del pittore Riccardo Manzi e da un assegno di tre milioni messo a disposizione dalla
Parmalat, sponsor del Premio.
LA GIURIA. I componenti della giuria de “Il
Giornalista del Mese” sono: Gaetano Tumiati
(presidente), Giancarlo Galli (vicepresidente), Bruno Ambrosi, Giulio Anselmi, Chiara
Beria di Argentine, Pier Boselli, Francesco
Conforti, Genesio Fornari, Enrico Gramigna,
Elio Maraone, Morando Morandini, Donata
Righetti, Bruno Rossi, Valeria Sacchi, Guido
Vergani, Demetrio Volcic.
15 (19)
L I B R E R I A
D I
T A B L O I D
Michela Dazzi
L’Albania di Matilde
è sempre meravigliosa
di Gian Luigi Falabrino
È noto, anche perché Dino
Buzzati lo raccontò in Un autoritratto, pubblicato nel
1973, che l’idea di scrivere Il
deserto dei Tartari gli venne
quando, fra il 1933 e il ‘38, lavorava di notte al Corriere
della Sera: “Accanto a me
c’erano dei colleghi della mia
stessa età, ma la maggior
parte erano più vecchi di me.
Alcuni anche erano già molto
anziani”. Tutti avevano sperato di fare carriera, di avere
una grande occasione, ma la
loro vita si era consumata
nella routine. “Questa monotonia del lavoro (….) mi ha
fatto venire in mente di scrivere una storia in cui venisse
riassunto il destino dell’uomo
medio, dell’uomo che spera
in questa grande occasione,
che fa di tutto per farla venire,
e questa occasione appare,
sembra che stia per realizzarsi e poi scompare e se ne
va via”.
Ciò che colpisce in questo ricordo è anche il fatto che lo
stesso Buzzati, assunto al
Corriere nel 1928, vi facesse
per molti anni un lavoro di
routine, anche se nel ‘34 aveva già pubblicato con successo Bàrnabo delle montagne.
La modestia di Buzzati, il suo
lavorare a riscrivere gli articoli
dei corrispondenti della provincia, il suo lavoro di cronista
anche dopo aver già fatto l’inviato speciale in guerra e in
pace, sono note costanti nei
molti saggi e interventi al convegno internazionale “Buzzati giornalista”, del quale
Mondadori e la Fondazione
Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e
Ancona hanno pubblicato gli
atti da poche settimane.
Il congresso era stato promosso dall’Associazione internazionale Dino Buzzati,
presieduta da Nella Giannetto, e vi avevano partecipato studiosi, giornalisti, antichi
colleghi. La modestia e la
grande umanità di Buzzati
sono messe bene in luce,
con la consueta aneddotica
fra l’affettuoso e il divertente,
da Gaetano Afeltra, così come da Franco Di Bella e da
Guido Vergani. Di Bella, in
quel convegno del 1995, raccontò delle notti passate da
Buzzati in giro con le volanti
della polizia, come un cronista esordiente; ma ciò che
scriveva Buzzati era degno
del grande scrittore, per
esempio: “Un nemico invisibile, che non ha nessun nome
e ne ha mille, sta assediando
la città…..”.
Vergani, parlando di Buzzati
inviato speciale, come del resto fa Indro Montanelli in un
breve intervento, mette in rilievo due aspetti: la singolarità delle sue corrispondenze
di guerra; in Buzzati non c’era
“nessun trionfalismo, un basso calore di retorica, nessuna
enfasi, e invece un continuo
affiorare della morte”. Il secondo aspetto è, anche per
Vergani, il piacere della cronaca, l’umiltà della cronaca:
“Oggi – dice Vergani – per
molti giornalisti fare carriera
significa approdare al ruolo di
editorialista, il giornalista che
scrive articoli di fondo.
Questo è il difetto della mia
generazione e della generazione che mi ha immediatamente preceduto e che im-
16 (20)
Buzzati giornalista
mediatamente mi segue”.
L’esatto contrario del modo di
essere e di lavorare di Dino
Buzzati, cronista e inviato
speciale, dalla strage perpetrata da Rina Fort nel ‘47 (in
un saggio di Walter Geerts)
alle catastrofi (Ivo Prandin), ai
viaggi a Tokio (Kyoko Masuyama) e in India (Monica
Farnetti).
Molto interessante, a conferma delle capacità professionali di Buzzati e della sua
operosa modestia, è la comunicazione di Maria Antonietta Cruciata su Dino
Buzzati e la Domenica del
Corriere. Il giornalista-scrittore fu di fatto direttore del settimanale, senza mai apparire,
dal 1950 al 1963. Direttore
pro forma era Eligio Possenti
ma, fino al ‘50, il settimanale
era fatto da Carlo Manicotti.
Andato questi in pensione,
Afeltra consigliò di sostituirlo
con lo scrittore bellunese,
che “era – dice il vecchio collega – un uomo geniale e
umile. Ne apprezzavo la sapienza giornalistica che egli
sapeva ben conciliare con il
suo mestiere di scrittore.
Si rivelò un tecnico di primissimo ordine”. Racconta la
Cruciata che Buzzati fece il
settimanale con tre redattori
e un grafico, e con due disegnatori, Walter Molino, erede
di Achille Beltrame, e Achille
Patitucci. Con questa piccola
squadra e con le grandi firme
delle quali Buzzati riuscì a circondarsi (Orio Vergani,
Domenico Bartoli, Leonardo
Borgese, Cesco Tomaselli,
Arturo Lanocita), Buzzati riuscì a portare la diffusione della Domenica a un milione e
trecentomila copie (agosto
1962). Ma il successo viene
premiato soltanto nello
happy end dei film americani:
un anno dopo il nuovo amministratore del Corriere, Egidio
Stagno, volle modificare la
Domenica e avvicinarla agli
altri rotocalchi, e tolse l’incarico a Buzzati. E la vecchia
Domenica cominciò un’inarrestabile decadenza.
Molti altri sono gli aspetti del
giornalista-scrittore esaminati
nel congresso: la sua scrittura del fantastico e del paranormale (Alessandro Scarsella e Felix Siddell), i molti
scritti di Buzzati come “cronista d’arte” (Giorgio Soavi,
Antonio Donat-Cattin, Yves
Frontenac, Anna Paola Zugni-Tauro); e poi Buzzati critico teatrale e cinematografico
(rispettivamente nelle relazioni di Paolo Puppa e Michele
Amato) e critico letterario
(Giulio Carnazzi). La montagna non poteva mancare nel
giornalismo di Buzzati, bellunese e alpinista (Maurizio
Trevisan).
Giuliano Gramigna apre la
serie dei saggi dedicati ai
rapporti fra giornalismo e letteratura, indicando “con che
modalità il mestiere di Buzzati sia passato in certi suoi
testi narrativi, diventandone
la materia”. Gramigna cita e
illustra a questo proposito
L’alienazione, Riservatissima al signor Direttore, e Il
critico d’arte.
Lo seguono Claudio Marabini
(“Buzzati e l’elzeviro”), Giovanna Finocchiaro Chimirri
(“Dalla ‘terza pagina’ al volume: un lavoro ‘in progress’”),
Maria Altieri Biagi (“L’incipit
cronistico nei testi narrativi di
Buzzati”), Patrizia Zambon (“I
racconti di Natale”), Ada
Neiger (“Scrittori in terza pagina ai tempi di Buzzati”).
Ma vorrei citare un po’ meno
frettolosamente tre altre relazioni che riportano al giornalista. Buzzati, che confessò di
non aver mai visto prima una
corsa su strada, fu inviato
speciale al Giro d’Italia del
1949, come ricorda Alberto
Brambilla, che, all’analisi dello stile romanzesco dei reportages aggiunge qualche citazione, per me importante.
Come Orio Vergani che più
tardi si occupò dei “portatori
d’acqua” assegnando una
“maglia nera” all’ultimo arrivato, un certo Malabrocca, anche Buzzati, a differenza di
tutti gli altri inviati attenti solo
ai campioni, si occupa degli
ignoti servitori dei grandi ciclisti: “Sogna il piccolo fantaccino delle strade che mai ha
udito le folle urlare il proprio
nome e mai è stato sollevato
sulle spalle da una turba frenetica in trionfo…..”.
Ma Dino Buzzati non è stato
soltanto redattore e inviato
del Corriere della Sera: Cesare De Michelis dedica una
relazione alla sua esperienza
del rotocalco d’attualità, “Fra
Longanesi, Pannunzio e Benedetti”. De Michelis ricorda
la collaborazione di Buzzati
all’Omnibus di Longanesi, il
primo rotocalco alla fine degli
anni Trenta e, dieci anni dopo
la collaborazione a L’Europeo. E non è un caso che Il
deserto dei Tartari sia pubblicato nel 1940, come primo titolo di una nuova collana, diretta per Rizzoli proprio da
Leo Longanesi.
Fra il 1939 e il ‘40 Dino
Buzzati passò un anno nell’Etiopia da poco conquistata,
e Marie-Hélène Caspar gli
dedica un saggio, straordinariamente interessante ( un
tempo si sarebbe detto
“istruttivo”) “per esaminare la
questione di sapere come si
potesse essere giornalisti durante il fascismo”. Buzzati si
destreggiava fra la censura,
che gli proibiva la pubblicazione di certi pezzi (“Pena
provvedimenti di fortissimo rigore – diceva una nota di servizio – astenersi dalle sdolcinature e tenerezze riguardo
gli abissini. Nessun episodio
sentimentale, nessuna fraternizzazione. Assoluta e netta
divisione fra la razza dominatrice e quella che è dominata”) e l’obbligo di esaltare la
nuova realtà imperiale. Ma
Buzzati sapeva occuparsene
senza cadere nella retorica e
nella
piaggeria
verso
Mussolini e gli altri gerarchi.
Ci riusciva perché non li nominava mai, né parlava, come tanti altri, delle opere “volute e potenziate dal regime”,
ma esaltava le grandi opere
pubbliche come frutto dell’ingegno e della fatica e soprattutto esaltava il lavoro degli
operai: italiani, ma anche eritrei ed etiopici, nonché sudanesi e yemeniti immigrati: anche verso di loro c’è un’attenzione allora insolita e davvero
“umana”.
La Caspar ricorda che
Buzzati, nell’articolo sulla
strada della Dancalia, dedica
agli indigeni un quarto del
suo articolo, in contrasto con
le direttive ministeriali.
Un episodio poco conosciuto,
ma che Buzzati stesso ricorda con nostalgia per tre volte
nell’Autobiografia, è che durante un giro fatto con la cavalleria indigena, lui, civile,
partecipa volontariamente ad
un attacco contro i ribelli, e
viene proposto per la medaglia d’argento (“Per pura passione, senza obblighi di sorta,
volontariamente seguiva un
reparto nelle operazioni di
polizia coloniale”, ecc.).
L’umano, malinconico e bene
educato Buzzati scriverà
molti anni dopo che quello fu
l’unico momento in vita sua in
cui fu veramente felice.
Buzzati giornalista,
a cura di Nella Giannetto,
Atti del Convegno
Internazionale,
Mondadori,
pagine 570,
lire 45.000
di Emilio Pozzi
Gli albanesi chiamano ‘freddo amaro’ il vento gelido che
scende dai Balcani, già nei
primi giorni d’autunno.
Questo freddo aveva fatto
ghiacciare il fiume permettendo ai ragazzini di scivolare dalle sponde, ma a
Gjalika aveva impedito di lavarsi i capelli; così erano arrivati i pidocchi ed era stata
necessaria la rasatura a zero. Una storia, tante storie.
Sono bambini albanesi i protagonisti del nuovo libro di
Michela Dazzi, e raccontano
con le loro voci vicende autentiche, sullo sfondo di strade fangose e disseminate di
buche, di macchie di mirto e
corbezzoli rossi e di erica
selvaggia in un paesaggio
punteggiato, sulla costa, dai
settecentomila funghi di ferro e cemento, fatti costruire
dal mitomane Hoxa, più di
trent’anni fa.
Dopo aver raccontato, in altri
libri, della droga e del manicomio, del colonialismo in
Eritrea, Michela Dazzi è stata attratta da queste realtà
che costituiscono, da anni,
un sofferto quotidiano richiamo per le nostre coscienze.
Lo stile conferma il dominio
del linguaggio sul fatto, è perentorio nell’accusa, attentissimo nella descrizione, preciso nella citazione.
Ecco che così resteranno indimenticabili questi albanesi
ai quali la scuola raccontava
delle radici, guarda un po’, illiriche o cercava di comunicare l’orgoglio di paese delle
aquile, con l’eroe nazionale
Skanderberg, dominatore da
due monumenti: quello in
pietra nella piazza principale
di Tirana e quello che sgorga
dalle pagine del grande
scrittore Ismail Kadarè, in I
tamburi della pioggia.
Non spiegava però perché la
testa della statua di Stalin
era finita fra le macerie,
mentre il regime di Hoxa
aveva fatto il resto, senza
contare che prima anche noi
italiani con Mussolini e
Galeazzo Ciano, avevamo
fatto la nostra parte. Così la
retorica non poteva spiegare
perché questi ragazzini fossero “fagotti di stracci con la
pancia in rivoluzione”, perché ambissero ad una bambola verde, di tal colore perché fabbricata con la plastica verde usata per più prosaici catini.
Le bambole, quelle belle,
eleganti, apparivano alla televisione italiana, strumento
per certi versi nefasto, divenuto veicolo di illusioni e di
richiami tentatori. E non solo
per l’Albania.
I bambini italiani erano tirati
a lucido, vestiti di raso azzurro o rosa, i piccoli albanesi
erano miserabili contadini.
Alla disuguaglianza delle etnie, come più volte è stato rilevato in studi, dibattiti e inchieste, si aggiungeva l’ingiusta disuguaglianza dei
sessi. Il padre di Gjalika si risposa con una maestra, tradendo la sua famiglia, cinghia la piccola Gjalika, l’apostrofa con un insulto premonitore (puttana!), l’abbandona al suo destino. È la figura
del padre padrone che viene
mostrata in tutta la sua crudeltà e il suo egoismo.
Mentre il fratellino Zef si propone come uomo che può
proteggerla, Gjalika risponde: “E io invece sono una
donna, porca miseria, e mio
Duilio Pallottelli
Il fortino
della Terza Avenue
Il fortino della Terza Avenue è
un palazzo nel cuore di
Manhattan e il protagonista,
Frank Collant, nome americanizzato di Franco Collanti, è
un fotoreporter italiano arrivato a New York a metà degli
anni Sessanta per un servizio
sull’assassinio
di
John
Kennedy e poi rimasto negli
States. Frank lavora per la
White Star, una grande agenzia d’attualità, ed è costretto
a spostamenti continui, a
partenze e ritorni improvvisi,
spaziando dalla California al
Centroamerica. Suoi compagni di ventura sono altri due
italiani, lo scultore Tony
Caselli, trascinato a New York
dalla bellissima moglie Kay e
subito dopo da lei abbandonato, e l’illustratore Remo
Giannini, farfallone napoletano affascinante ma superficiale. Tre professionisti che
hanno lasciato l’Italia non per
fame, ma per saturazione,
per mancanza di orizzonti e di
speranza.
Il racconto si snoda in maniera articolata nell’America di
quei tempi, nel momento in
cui la speranza nel Nuovo
Mondo vacilla sta per crollare. Personaggi e situazioni si
accavallano, si sovrappongono, si aggrovigliano. I tre
passano attraverso i mutamenti di quegli anni, si imbatORDINE
7
2001
L’edizione 2001 del Premio Cenacolo “Editoria e Innovazione”
potrebbe non finire in una
bella passeggiata tra le nuvole di bambagia dei caroselli, però noi almeno siamo
impegnati a essere una famiglia. Se poi si volesse la
perfezione ci dovremmo impegnare tutti, ma proprio tutti
e con molta buona volontà, a
ripensare il mondo dalla
creazione, come un continente unico denominato
Pangea circondato dal mare
Panthalassa. Si avrebbe così la certezza di essere abitanti della stessa terra”.
Sogni ad occhi aperti, quelli
di Zef, che scopre la speranza di non essere stranieri ma
fratelli, sogni che sembrano
ispirati proprio a quelli di
Matilde, quando diceva
“Mamma, ho conosciuto un
albanese… vedessi che occhi ha… occhi così belli che
io non li ho visti mai”.
Era un marinaio quello, finito
poi chissà dove. Ma quello
sguardo l’ha poi ritrovato negli occhi di Zef, occhi color
del sole. Anche se potevano
sembrare quelli di un cane.
Figlio o fratello, non ha importanza. Se poi c’è un atto
ufficiale, che si chiama ‘affido’, meglio ancora. E Zef
non è più un cane abbandonato. È diventato, e si sente,
un bambino, con sogni da
bambino.
Anche per questo, per
Matilde dagli occhi azzurri,
l’Albania è sempre meravigliosa.
Michela Dazzi
L’Albania di Matilde
è sempre meravigliosa,
Editrice Berti,
Piacenza,
pagine 214,
lire 20.000
Duilio Pallottelli, romano di nascita, è morto a Milano nel
marzo 2000 a 67 anni. Ha iniziato la sua carriera come fotografo dell’Europeo, per il quale è stato corrispondente da
New York per 12 anni. Ha lavorato anche alla Domenica del
Corriere, al Secolo XIX come caposervizio cultura, ad Airone, a Vie del mondo, di cui è stato vicedirettore esecutivo.
tono in delitti, in situazioni
sconcertanti, diventano i
protagonisti di una straordinaria avventura. Mentre Tony e
Remo tengono in qualche
modo le posizioni, barricati
nella metropoli, Frank scava,
scava con il suo obbiettivo. Il
libro è quasi per intero un
dialogo (che a volte diventa
un monologo): i personaggi,
sia i protagonisti che le figure
minori, si materializzano e
prendono forma attraverso le
parole, più che con descrizioni particolareggiate. Tutti
parlano, raccontano, argomentano. E vanno avanti.
Fino a un finale drammatico.
Rimarrà sulla scena soltanto
Frank Collant photographer,
al quale non resterà altro che
aggrapparsi ancora di più alle
sue macchine fotografiche.
Forse è l’unico che, sopravvivendo, riuscirà a integrarsi nel
mondo americano.
Nel romanzo postumo di
Duilio Pallottelli – seconda
opera di narrativa dopo
Voglia di famiglia, edito da
Rusconi, che nel 1997 vinse
il Premio Stresa – il gusto
narrativo si intreccia di continuo con l’esperienza personale, dal momento che l’autore fu per dodici anni corrispondente dall’America del
ORDINE
7
2001
settimanale L’Europeo. La
personalità di Pallottelli si
ritrova in queste pagine
dense di emozioni, che restituiscono l’immagine di un
uomo che non ha mai rinunciato ad essere se stesso
ovunque si trovasse: in Park
Avenue come in mezzo a una
guerra, nella foresta amazzonica come a cena con gli
amici davanti a un caminetto
sulle colline toscane. FrankDuilio, pur essendo riuscito a
integrarsi nel mondo americano, è sempre alla ricerca di
una dimensione umana.
Così, dopo il lungo periodo
trascorso negli Stati Uniti,
Pallottelli non poté resistere al
desiderio di ritrovare la sensibilità, i sapori e gli umori della
sua terra. Per questo si rifugiò
in un rustico tra Toscana e
Umbria, il suo secondo “fortino”, pur tornando spesso in
America. Perché quel mondo
lo affascinava soprattutto per
un motivo: la sensazione di
rimettersi continuamente in
gioco, di poter ricominciare
tutto daccapo in qualsiasi
momento.
Duilio Pallottelli
Il fortino della Terza
Avenue
Tullio Pironti editore,
pagine 262, lire 24.000
Una spinta ai prodotti
lombardi e nazionali
La realtà editoriale, con la decisa affermazione di Internet, è oggi in continuo fermento. I
tempi del cambiamento, in passato molto lunghi, si sono ridotti in maniera impressionante. Ogni giorno, forse anche ogni ora, da qualche parte, nel mondo, esperti o principianti,
sperimentano nuove forme di comunicazione. L’Assolombarda, con Il Sole 24 Ore, Mediaset, Mondadori, RCS Editori, Radio e Reti, e con la collaborazione di Baio Editore, Editoriale Elsevier e Federico Motta Editore, allo scopo di promuovere la realtà editoriale nazionale, milanese e lombarda, lancia la seconda edizione del Premio Cenacolo “Editoria e
Innovazione”.
di Ida Sconzo
Chi può partecipare
Alle selezioni per il Premio
nazionale possono partecipare tutte le imprese con
sede legale in Italia il cui
“prodotto candidato” è stato
immesso sul mercato tra
giugno 2000 e giugno 2001.
Sono ammesse tutte le tipologie di prodotti editoriali
senza distinzione di categorie.
Alle selezioni per il “Premio
giovani” possono partecipare tutte le persone fisiche,
nate dopo il 30/9/1966, residenti in Lombardia. I prodotti
editoriali presentati dovranno
essere stati immessi sul
mercato nel periodo tra
giugno 2000 e giugno 2001.
I progetti candidati dovranno
essere già in fase di avanzata definizione.
Modalità
di partecipazione
La partecipazione al Premio
è gratuita. I candidati devono
compilare una scheda
d’iscrizione, che si trova sul
sito, che dovrà essere corredata da dati anagrafici e
sintetica presentazione del
prodotto/progetto. La scheda
d’iscrizione dovrà pervenire
via e-mail entro il 30 settembre 2001. La scheda in
versione cartacea dovrà
essere inviata, entro la stessa data, per posta alla segreteria del Premio Cenacolo
“Editoria e Innovazione” via
Pantano, 9 – 20122 Milano,
unita a qualsiasi materiale
documentario utile ad illustrare il prodotto.
Obiettivo del Premio, che si suddivide in due
sezioni, nazionale e lombarda, è quello di
promuovere i prodotti e i progetti editoriali
che, nel corso dell’ultimo anno, abbiano
saputo cogliere meglio le opportunità dell’attuale fase di cambiamento nel comparto
editoriale. Sono esclusi dall’iniziativa tutti i
prodotti di mera informazione commerciale o
aziendale. Il Premio, infatti, è riservato ai
prodotti caratterizzati da un valore informativo e innovativo nei contenuti.
Il Comitato promotore del Premio, presieduto da Benito Benedini dell’Assolombarda, è
composto da Enzo Campione di Radio e
Reti, Fedele Gonfalonieri di Mediaset, Maurizio Costa della Mondadori, Maurizio Galluzzo del Sole 24 Ore e Gaetano Mele della
RCS Editori.
L’iniziativa comprende due sezioni dedicate
ai premi e una riservata alla ricerca. Il
“Premio nazionale ai migliori prodotti editoriali” sarà assegnato a prodotti d’informazione innovativi che agiscono tra l’editoria tradizionale e la nuova editoria, allo scopo di
evidenziare tutti gli aspetti dell’attuale
momento di transizione. Possono partecipare al concorso le imprese con sede legale in
Italia, il cui prodotto candidato è stato immesso sul mercato nel periodo dal 30 giugno
2000 al 30 giugno 2001. Sono ammessi a
partecipare, senza distinzione in categorie,
tutte le diverse tipologie di prodotti editoriali:
carta stampata, radio, TV, Internet, editoria
elettronica off-line.
I criteri di valutazione comprendono tutti gli
aspetti del prodotto dalla creazione ai contenuti, dalla modalità di produzione alla promozione e alla distribuzione. In particolare
saranno considerate la potenzialità di ibridazione e di declinazione su diversi media, la
novità e l’efficacia del format in relazione al
medium utilizzato, la dinamicità e la funzionalità delle caratteristiche di interfaccia con
l’utente, la novità, la qualità e l’efficacia comunicativa dei contenuti; la veste grafica, l’orientamento verso nuovi segmenti di mercato e
l’apertura a nuovi mercati internazionali.
Un Comitato tecnico composto da giornalisti, direttori editoriali ed esperti della comunicazione, procederà alla selezione delle
candidature da sottoporre al giudizio finale
della Giuria.
Il “Premio Cenacolo” – sezione nazionale –
sarà assegnato ad un primo premio assoluto
PREMIO
padre compra anelli di fidanzamento invece che pannolini”. L’iniziazione mestruale
sottolinea l’inferiorità femminile, prelude alla sottomissione, alla prostituzione.
Sembra che ci sia tutto il calvario - la fame, la sete, la
poppata della capra, l’emozione di essere soli al mondo - ma non è ancora tutto.
Si compie la traversata, ma
nessuno fa caso all’azzurro
del mare: se poi è notte, tutto
è nero.
Lo abbiamo imparato. Gli
esuli, attratti dal grande miraggio del lavoro e di un altro
futuro, trascorrono orribili
notti, rinchiusi come topi nella stiva, poi affluiscono nello
stadio della Vittoria di Bari,
divenuto un gran deposito di
merci, merce umana per tutti
i mercati, da quello ‘flessibile’ del lavoro sfruttato, a
quello predisposto dal destino con la bellezza delle ragazze albanesi. E qui lo
squarcio sulla realtà: l’Italia e
l’occidente non sono quelli
strombazzati dalla pubblicità, cioè un bendiddio di lustrini, ma solo il palcoscenico delle disuguaglianze, visto dalle quinte.
Il libro – anche quando nella
narrazione si sovrappongono altri personaggi, reminiscenze di storie vissute nell’altrove della memoria – procede con un linguaggio fluido, quasi una trascrizione di
dialoghi in diretta, talvolta di
intensa efficacia come nelle
ispirate conclusioni di Zef.
“Lo so che è più facile assomigliare ad un albanese che
a un angelo, quando non si
hanno nemmeno le scarpe
oppure una bambola decente o un passato credibile, e
so anche che la nostra storia
più tre premi speciali, nel corso di una manifestazione pubblica che si svolgerà a Milano
nel novembre 2001.
Al “Premio giovani” ai migliori prodotti e/o
progetti editoriali a Milano e in Lombardia,
possono partecipare, singolarmente o in
gruppo, persone fisiche che non superano i
35 anni d’età (nati dopo il 30/9/1966) residenti in Lombardia. Sono ammessi alla selezione sia i prodotti già commercializzati sia i
progetti non ancora immessi sul mercato nel
periodo compreso tra giugno 2000 e giugno
2001. I progetti invece dovranno già essere
in fase di avanzata definizione, al fine di
poter tutelare i diritti di copyright.
I criteri di valutazione sono uguali a quelle
del Premio nazionale. Per quanto riguarda i
progetti non ancora commercializzati, sarà
valutata la fattibilità concreta: rapporto
costi/benefici, tecnologia, aspetti organizzativi, skill necessari.
Il Premio Cenacolo – sezione Lombardia –
sarà assegnato a tre prodotti o progetti ai
quali andrà un primo premio di 30 milioni, un
secondo premio di 20 e un terzo di 10 milioni. I vincitori inoltre potranno usufruire di un
servizio tutoring offerto dalle aziende promotrici per lo sviluppo del progetto.
Per l’edizione 2001 la giuria è presieduta da
Umberto Eco ed è composta da Gianfranco
Bettetini (Università Cattolica di Milano),
Adriano De Maio (Politecnico di Milano),
Giampaolo Fabbris (IULM Milano), Giulio
Giorello (Università statale Milano), Guido
Martinotti (Università statale Milano Bicocca), Severino Salvemini (Università Bocconi
Milano). Segretario del Premio è Paolo Pasini, direttore centrale rapporti istituzionali
Assolombarda.
La sezione dedicata alla ricerca, nella prima
edizione, ha analizzato un rapporto sul
“Sistema – Editoria” che ha evidenziato le
tendenze evolutive dell’editoria in Italia e il
ruolo di leadership milanese nel panorama
nazionale. Lo studio ha inoltre analizzato le
trasformazioni in atto nel settore con l’introduzione di nuove tecnologie. In questa
seconda edizione è prevista la presentazione della ricerca “New York: capitale mondiale
dell’editoria e dell’informazione” a cura di
Booz Allen & Hamilton Italia. Attraverso il
confronto e l’analisi di alcuni casi di straordinario successo nel campo dell’editoria cartacea, televisiva, radiofonica ed elettronica,
saranno individuate le specificità del sistema
milanese e i possibili ambiti d’intervento per
il contesto editoriale italiano.
Informazioni
Per ulteriori informazioni
contattare la segreteria
del Premio Cenacolo
“Editoria e Innovazione”
telefono 02/89549382,
e-mail: [email protected]
sito www.editoria.milano.it
CENACOLO
Editoria e innovazione
17 (21)
LIBRERIA DI TABLOID
Dario Biagi
Vita scandalosa
di Giuseppe Berto
di Vincenzo Ceppellini
Qual è lo scandalo? Avere indossato la camicia nera e non
averla ripudiata né conservata poi nel ruolo assunto di
“afascista”? Oppure, prigioniero di guerra degli Alleati,
non aver firmato per Badoglio
dopo l’armistizio, sopportando per questo un supplemento particolarmente duro di prigionia nel Texas? Aver frequentato un anticonformista
come Leo Longanesi e aver
pubblicato da lui il suo primo
romanzo, Il cielo è rosso?
Oppure, sul piano privato,
aver prediletto le ragazzine,
scegliendo come pin-up l’acerbissima Shirley Temple? O
l’esser stato amante e marito
infedele? O, ancora, aver
contaminato l’attività letteraria
con quella imprenditoriale di
ristoratore in Calabria? O forse l’aver travasato nelle pagine senza punteggiatura de Il
male oscuro il dramma della
sua depressione? O, ancora,
l’aver mondanizzato la sua
missione di scrittore nel più
redditizio lavoro di sceneggiatore cinematografico, contribuendo persino alla love story
di Anonimo veneziano? Nella
vita romanzesca di Giuseppe
Berto, ora rievocata, a 21 anni
dalla morte, in una giografia di
nuovo genere, da Dario Biagi,
scrittore lui stesso e giornalista della Rai, certamente
emergono irregolarità e irrazionalità, intuizioni geniali e
bizzarrie di un carattere difficile, inconstanze ed eccessi,
colpi di teatro e mutamenti di
umore e di parola, audacie
narrative e violazioni di stile.
Biagi ha il merito di aver condotto una ricerca che ha la
meticolosità della cronaca
puntuale e la profondità dell’analisi psicologica, l’attenzione
per la specificità del prodotto
letterario e la navigata conoscenza del costume, pervenendo ad un risultato di grande interesse. Ma lo scandalo,
allora? Lo scandalo più grande fu, a parere dell’establishment della società letteraria
del tempo, proprio il successo
tributato dal pubblico ad uno
scrittore indipendente e non
impegnato nell’ideologia egemonica, giudicato corrivo verso il gusto dei lettori, premiato
dalla popolarità “cineletteraria” de Il cielo è rosso, sostenuto, lui sempre in cerca di
danaro, dalle vendite dei bestsellers Il male oscuro e La
cosa buffa, incoronato persino da due munitissimi premi
letterari come il Viareggio e il
Campiello, e, colmo dei colmi,
indicato da Hemingway come
uno dei tre autori italiani da lui
preferiti su tutti, gli altri essendo Vittorini e Pavese. Contro
questo imperdonabile successo la Cosa nostra della letteratura, i frequentatori della
Terrazza per dirla con Scola,
o, se si vuole, quelli di via
Veneto e dei salotti buoni, cercarono di elevare il muro del
silenzio, incaricarono i killer
delle stroncature di calcare la
mano, ordinarono di chiudere
le porte in faccia a Berto in
tutte le occasioni possibili e
relegarlo nel “ghetto dei mediocri che piacciono al grande
pubblico”. Come si vede, un
caso esemplare tra i molti di
cui si potrebbe scrivere per
raccontare la storia del costume letterario italiano del dopoguerra oltre la facciata del
conformismo ideologico o
clientelare. Biagi ha costruito
un vero e proprio dossier, appassionante come un romanzo e nobilitato da una scrittura
controllata e al tempo stesso
partecipe, portando documenti circostanziati (integrati
da 30 pagine fitte di note), nei
quali compaiono amici e avversari, editori e produttori,
critici e attrici, giornalisti e docenti, familiari ed amanti: 800
lemmi nell’indice dei nomi,
tutti con buone ragioni per esserci, compreso Alberto
Moravia, con 25 rimandi ad
altrettante pagine spinose.
Dario Biagi,
Vita scandalosa
di Giuseppe Berto,
Bollati Boringhieri 1999,
pagine 180, lire 30.000
Vieri Poggiali
1 – Giornalismo economico
2 – Uffici stampa
di Emilio Pozzi
Achille, anzi Vieri, è uscito
da sotto la tenda e lo fa con
due utilissimi volumi che trattano argomenti specialistici
della professione, nelle quali
l’autore è particolarmente
versato. E, visto che da tempo è diventato un instancabile giramondo musicale (non
si perde una ‘prima’ di opere
liriche ovunque siano) salutiamo questi libri con un fatidico “Si ridesta il leon di
Castiglia”.
Infatti “dottrina e tecnica dell’informazione sui ‘fatti’ dell’economia” e “dottrina e tecnica della comunicazione ‘timbrata’ di aziende enti e istituzioni” (questi i sottotitoli scelti
dall’autore), rappresentano
un contributo aggiornato,
chiaro e perfino scanzonato
(quindi di godibilissima lettura), con un pizzico di ironica
autocritica, rivolto ad aspiranti giornalisti, ma anche a
chi sente la necessità di stare al passo con i tempi, che
bruciano in qualche mese
esperienze maturate in anni
di lavoro. Le basi restano, o
almeno dovrebbero restare;
quello che si consuma e si
rinnova sono le metodologie,
per dirla con parola impegnativa, gli usi e i costumi (e
i malcostumi), per dirla alla
spiccia. Entrambi i testi, limpide sintesi di lezioni universitarie, seguono percorsi lineari, anticipando addirittura
possibili domande che possono giungere anche da un
lettore non specializzato,
che funge, come nel mio caso, da cavia, sulla comprensibilità. La premessa vale
per entrambi i libri. E per entrambi il rammarico che siano privi di una, almeno sommaria, bibliografia.
A questo punto un’avvertenza: queste note seguiranno
due itinerari diversi perché
gli argomenti, anche se contigui e complementari, meritano illustrazioni e analisi separate.
Giornalismo economico.
Articolato in nove capitoli e
in un’appendice, dedicata
quest’ultima a una breve (fin
troppo) storia del giornalismo economico in Italia, il
percorso affronta anzitutto
compiti, ruoli e responsabilità di un tipo di informazione
che pur rientrando nel mare
magnum del giornalismo, alle principali regole del quale
si deve ispirare, ha un suo
identikit preciso, quasi fosse
una branca autonoma.
Dati alla mano, sostiene
Poggiali che “in rapporto a
quanto ne esiste in altre nazioni più forti, da noi oggi si
produce in proporzione
maggiore informazione economica”. Sono parecchi i
quotidiani specialistici, con
una tiratura che si avvicina al
mezzo milione di copie e nei
giornali d’informazione generalistica molte pagine sono ogni giorno dedicate all’economia nei suoi diversi
aspetti, ivi compreso il listino
delle borse. L’autore, prima
ancora di addentrarsi nelle
tecniche, con suggerimenti e
svelamento di segreti del
mestiere, si pone il problema, molto correttamente, del
lettore e intitola un capitolo
“Informare spiegando e
spiegando informare” contro
gli ermetismi, le strizzatine
d’occhio e le cadute di tono.
Molto acute, e illuminanti
sulle connessioni fra notizia
e notizia, le osservazioni
contenute nel terzo capitolo
dedicato alla ‘materia prima’,
riconducibile a tre grandi
aree: le notizie economiche
in senso stretto, l’interpretazione in chiave economicistica di fatti che in sé non sembrano attinenti all’economia,
e l’utilizzazione sempre in
chiave economicistica di fatti
ed eventi di altra natura (politica, culturale, sportiva, di
cronaca bianca o nera) che
danno spunti e a riflessioni
in chiave economica. Da qui
si può arrivare alla conclusione che l’economia è barometro della società. Alcune
teorie ideologiche l’hanno
sostenuto da tempo, così come abbandono e morte delle
ideologie porta in politica, al
feticismo del mercato.
Poggiali però rimane con il
suo testo nell’ambito strettamente tecnico. Un terreno
minato, del quale non mi pare ci sia riscontro, nel libro, è
quello dell’etica del giornalista economico. Due parole
chiare , a mio avviso, ci sarebbero state bene. Anche
perché qualche digressione
c’è. Infatti parlando del come
la materia economica è trat-
***
E l’ultima parola del libro di
Vittorio Emiliani è proprio
‘ancora’. A chiusura di queste frasi: “Abbiamo assistito
a un autentico psicodramma
per i funerali di Bettino Craxi,
la cui morte è stata certamente drammatica. Ho ripetuto e scritto, anche in questa occasione, che, come
non avevo partecipato alle
incensazioni, così non partecipavo ai roghi, e viceversa.
La politica per tanti come
me, è stata passione, passione laica e socialista, certo. Per una sinistra ricca di
feconde diversità. Pluralista
al suo interno, capace di discutere, di elaborare, di progettare. Ancora”.
Concetti chiari e precisi,
espressi prima di assistere
da parte di alcune figure del
socialismo che sono anche
state carismatiche, a tanti
balletti, a sdraiamenti sulla linea dei vincitori delle elezioni del 13 maggio. A maggior
ragione, si rileva il valore di
taluni sentimenti che non sono cancellati ma ribollono.
Guardando con speranza,
avanti. Per l’analisi del dramma del socialismo italiano.
Questo è un libro del quale
si dovrà tener conto. Il legame, invece, che ho individuato con il libro di De Poli è
forte nella prima parte.
Emiliani infatti prende le
mosse da altre realtà di provincia fra Urbino, Predappio,
Ferrara, vissute da ragazzo
e nell’adolescenza. E poi
Voghera (il padre di Emiliani
aveva vinto il concorso di segretario generale al Comune) e Pavia, dove ha frequentato l’Università.
Emiliani ha respirato, negli
anni Cinquanta, odor di socialismo nelle terre giuste
dove si diceva ancora
“Passa un socialista, passa
un uomo onesto”. Metà del
libro è dedicato agli anni fervidi di approccio alla politica.
L’altra metà è dedicata, in
chiave autobiografica, agli
anni della vita professionale,
come giornalista al Giorno
(su questa importante testata Emiliani ha già scritto
un’ampia testimonianza) e
come direttore del Messaggero e sui rapporti, in parallelo, con le vicende politiche
interne ed esterne al Partito
socialista. Molto puntigliosamente Emiliani annota (la
sua è una memoria formidabile o deve avere tenuto,
giorno per giorno, pagine di
diario) fatti significativi, alcuni del tutto sconosciuti, mettendo in relazione piccoli
episodi e grandi eventi. Ci
sono pagine che si leggono
Franco De Poli
La maestra e la bandiera rossa
Vittorio Emiliani
Benedetti, maledetti socialisti
di Emilio Pozzi
Il caso ha voluto che due libri
(autori Franco De Poli l’uno,
Vittorio Emiliani l’altro) tra
quelli in lettura, si trovassero
uno accanto all’altro, nello
scaffale delle “urgenze”.
Diversi nella narrazione - anche se entrambi con rigore
stilistico, in una lingua piana
e limpida - si nutrono della
linfa vitale della provincia.
Ma non è il caso che mi induce a parlarne parallelamente: mi appaiono infatti
come due tasselli con sfumature non contrapposte di
un composito mosaico con
le luci e le ombre di una società italiana vista in due differenti momenti del secolo
XX, con gli occhi di chi crede
nella democrazia e nell’impegno sociale. Un volume,
per la verità, stazionava, su
quello scaffale, da qualche
mese: mi era arrivato quasi
contestualmente alla notizia
che l’autore, Franco De Poli,
era morto. Ne ero rimasto
addolorato e non me la sentivo di recensire quel libro
asetticamente. Franco era
stato un antico collega
all’Unità di Milano dopo la
Liberazione, poi amico intelligente e spiritoso (era il primo a ridere quando per via
18 (22)
della ‘vocetta’, chi lo cercava
al telefono diceva ‘signorina,
mi passi il dottor De Poli) anche se le nostre frequentazioni erano scarse perché
camminavamo su strade diverse.
Lui, colto e finissimo poeta,
aveva diretto riviste, negli
anni Sessanta, come Il Discanto, Il Canguro, Tre Rosso; aveva tradotto poeti come Nazim Hikmet, dal grande impegno civile in Turchia,
e Senghor, scrittori come
Poe, Queneau, Whitman;
nell’ambito della critica d’arte aveva posto la sua attenzione a Bruegel, Bosch,
Duerer, Renoir, Turner; aveva scritto romanzi; si era dedicato ai viaggi non banalmente turistici, approfondendo la conoscenza di antiche
civiltà; negli ultimi anni, con
amore filiale si era dedicato
alla riscoperta della figura
della madre, maestra di
scuola, segretaria a vent’anni della Camera del lavoro di
Crema, fervente socialista,
pubblicando nel 1997 un’antologia di suoi scritti intitolando il libro Anna Adelmi, donna in guerra. Rileggere quei
testi e documenti dell’epoca,
gli ispirò il romanzo biografico La maestra e la bandiera
rossa, scritto con tenero
amore, in una prosa fluida e
nitida.
Drammatico e doloroso l’approccio alla vita di Anna
Adelmi, ‘figlia del brefotrofio’
e la sua adolescenza, testimone di una esperienza nel
mondo delle cascine, in un
Paese in trasformazione
economica che si preparava,
tra opposte ideologie, alla
guerra mondiale. E lei che
da ‘figlia di ignoti’ stava crescendo come ‘figlia del popolo’, imbevuta di pacifismo.
Le sue prime battaglie le fece, puntigliosamente, con la
‘macchina dattilografica’ appena nata a Ivrea, sulla quale nacquero i comunicati dell’organizzazione sindacale
per la quale lavorava. Aveva
16 anni e il suo obiettivo era
diventare maestra. E la capacità di scrivere, di diffondere le sue idee, la portarono a diventare, di fatto, giornalista. E a vivere, malamente, continuando a credere
nei suoi ideali, in una società
più giusta. Una vita in minoranza. Erano tempi ancora
immaturi per la ‘questione
femminile’ da lei intimamente propugnata.
Anna non ebbe molta fortuna neanche nella vita privata. Molti i lutti. Molte le sconfitte. L’Italia era diventata ‘nera’. Morì a 42 anni, nel 1939.
Le fu risparmiata l’altra guer-
ra mondiale, quella proclamata da Palazzo Venezia in
Roma davanti a una folla
‘oceanica’ il 10 giugno 1940.
Il volume si conclude con 15
paragrafi in cui il biografo,
raccontate le battaglie della
madre, scrive in prima persona, e in ventisei dense pagine ‘l’anziano figlio di Anna’
ripercorre tre quarti di secolo, ma rinuncia sconsolato a
tentare un paragone tra i
tempi passati e quelli odierni: “Dalla ‘globalizzazione’ alle ingannevoli realtà virtuali,
si moltiplicano le trappole
nelle quali la ragione umana
sembra destinata a sprofondare”.
Franco De Poli non sa più
trovare una battuta di spirito.
Nelle ultime righe del libro,
un uomo delle pulizie, riordinando una sala di riunioni,
va a slegare una bandiera
rossa (che per Anna Adelmi
fu un simbolo entusiasmante) dimenticata sul podio, la
piega con cura e dopo una
breve esitazione se la infila
sotto la camicia, mormorando: “Forse potrà servire ancora”.
Franco De Poli,
La maestra
e la bandiera rossa,
Edizioni Leva-Crema,
pagine 384, lire 20.000
ORDINE
7
2001
tata nei periodici, Poggiali ha
ritenuto utile ampliare il discorso, delineando il contesto di questo forte settore
dell’editoria. Pagine queste
che si potrebbero considerare un ‘inserto’, quasi la base
di un volume a se stante.
Uffici stampa. In questo caso la lacuna che ho riscontrato nell’altro volume qui
non c’è. Anzi, ai temi dell’etica e della deontologia nella
comunicazione d’azienda un’ardua convivenza, la definisce l’autore, espertissimo
in materia - è dedicato il capitolo conclusivo. E da qui
partiamo, dopo aver ricordato che la delicata e annosa
materia degli uffici stampa è
da sempre controversa,
spunto per convegni, dibattiti, oggetto di proposte di legge specifiche, di vertenze e
contrattazioni
sindacali.
Sull’argomento si sono cimentati in molti a scrivere –
la produzione di libri ad hoc
occupa parecchi scaffali manuali di tecniche, istruzioni per l’uso, ricette di comportamento.
Considerato per molti e per
molto un ruolo professionale
non gratificante, spesso ambiguo – tant’è che si è cercato di distinguerlo da quello di
addetto alle pubbliche relazioni (chiamate anche relazioni esterne) si è andato
configurando come figura
utile all’azienda e ai colleghi,
purché riuscisse ad avere
autonomia e dignità, come si
conviene ad un serio professionista.
Anche in questo caso la lettura dell’indice dà la chiave di
come Poggiali intenda funzioni e ruolo degli uffici stampa,
anticipando la convinzione
che chi è addetto a quella
che spiritosamente definisce
l’informazione col timbro, ricopra un ruolo più che mai di
peso o documentazione d’origine controllata (doc).
Non sono consigli in pillole: rispecchiano una seria filosofia della comunicazione, analizzata attraverso tutte le fasi
del processo, dalle finalità
dell’azienda all’utilità per il
consumatore lettore, il tutto
mediato attraverso il ruolo del
giornalista che non sta (o non
dovrebbe stare) acriticamente dalla parte di chi fornisce
l’informazione. Chi ha una
carriera alle spalle come comunicatore - e qui siamo in
un caso esemplare - sente,
come gli antichi maestri del
sapere, il piacere di far partecipi i nuovi colleghi delle proprie esperienze, riversando
su di essi consigli e ‘trucchi
del mestiere’, accumulati sulla propria pelle, giorno dopo
giorno. Anche in questo campo il mondo corre in fretta,
quello che valeva ieri oggi
non ha più importanza, le dichiarazioni di un ‘portavoce’
servono a coprire le gaffes
del capo, pronto a smentire
l’uomo di fiducia anche il giorno dopo (nella storia politica
italiana ci sono stati esempi
clamorosi). Tuttavia le pagine
di questo volume servono come riepilogo di una metodologia ma lasciano aperte le
porte alle tendenze in progress. Non un altro libro sugli
uffici stampa quindi, ma quello da tener sottomano.
Vieri Poggiali,
Giornalismo economico.
Dottrina e tecnica dell’informazione sui ‘fatti’
dell’economia,
Centro documentazione
giornalistica,
pagine 126, lire 35.000
d’un fiato, perché ad alcuni
consentono di rivivere momenti di una storia italiana
entusiasmante, ad altri trovare le risposte ad alcuni
perché, a qualche rabbioso
interrogativo sul comportamento di un partito al quale
erano state affidate tante
speranze per un rinnovamento della società, per la
vittoria delle battaglie delle
classi lavoratrici e che aveva
deluso le aspettative, invischiato nel confronto con
l’altra sinistra, imbastardito
dall’ingresso di personaggi
che con i valori del socialismo proprio nulla avevano
da spartire. I nomi Emiliani
non li lascia nella penna.
Piccoli ras di provincia e
grandi cortigiani sono consegnati alle loro responsabilità. Non certamente alla storia. Anche sul piano strettamente giornalistico ci sono
pagine rivelatrici di operazioni che eufemisticamente si
definiscono poco pulite.
Sono invece pagine appassionati quelle nelle quali
Emiliani racconta la stimolante esperienza a Mondo
Operaio ai tempi di Cafagna,
Coen, Vasconi e dei fervidi e
avvincenti dibattiti ai quali
partecipavano Giuliano Amato, Gino Giugni, Giorgio
Ruffolo, Paolo Sylos Labini,
Massimo L. Salvatori, Luigi
Spaventa, Stefano Rodotà. I
nomi citati da Emiliani sono
molti di più , con l’articolazione dei ruoli e delle posizioni,
(“tutte intelligenze che il Psi
seppe dissipare in pochi anni” annota amaramente
Emiliani).
***
Qualcuno troverà arbitrario
l’accostamento di questi due
libri. Io però credo che alcune considerazioni finali di
Emiliani sarebbero state
condivise da De Poli: “Se ripenso al mio debutto in politica nel 1953, o all’adesione
al Psi nel 1958, mi dico che
non ho nulla da rimpiangere
né qualcosa di cui pentirmi.
È stato giusto battersi nella
sinistra per idee di libertà
(tutte le libertà) di giustizia
sociale, di solidarietà, di rispetto per l’ uomo, di disinteresse personale e di pulizia
morale
E certo, queste parole, nella
loro purezza, sarebbero piaciute anche ad Anna Adelmi,
la coraggiosa segretaria della Camera del lavoro di
Crema, nei primi decenni del
Novecento.
Vittorio Emiliani,
Benedetti,
maledetti socialisti,
Baldini e Castaldi,
pagine 298, lire 28.000
ORDINE
7
2001
Vieri Poggiali,
Uffici stampa.
Dottrina e tecnica della
comunicazione ‘timbrata’
di aziende,
enti e istituzioni,
Centro di documentazione
giornalistica,
pagine 176 , lire 35.000
G I U R I S P R U D E N Z A
Si può essere redattore
lavorando anche da casa
di Umberto Accomanno
La Corte di Cassazione ha costantemente affermato che
conta, ai fini della individuazione del rapporto di lavoro giornalistico subordinato, la posizione tecnico-gerarchica del
lavoratore. I supremi giudici (sentenza 9 febbraio 1996 n.
1024) sottolineano tra l’altro come la natura subordinata del
rapporto di lavoro giornalistico sia compatibile con l’esecuzione della prestazione lavorativa a domicilio e con la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni.
La stessa Cassazione, inoltre, nel precisare, sempre in relazione all’attività giornalistica, gli estremi della subordinazione, ha stabilito che detto requisito - anche alla luce del
contratto nazionale di lavoro giornalistico del 10 gennaio
1959, reso efficace erga omnes con Dpr 16 gennaio 1961 n°
153, il quale peraltro non altera la nozione di subordinazione
desumibile dall’articolo 2094 Cc - va riconosciuto in presenza della continuità della prestazione, della responsabilità di
un servizio e del vincolo di dipendenza, e cioè in presenza
dello svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad
assicurare le esigenze informative riguardanti uno specifico
settore, della sistematica redazione di articoli su specifici
argomenti e di rubriche, e della persistenza, nell’intervallo tra
una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria
opera a disposizione del datore di lavoro, in maniera di essere sempre disponibile per soddisfare le esigenze ed eseguirne le direttive.
Il requisito della subordinazione non è di contro ravvisabile in
ipotesi di prestazioni singolarmente convenute e retribuite in
base a distinti contratti succedutisi nel tempo, e cioè nel caso
in cui siano convenute singole, sebbene continuative, prestazioni in una sorta di incarichi professionali (vedi Corte di
Cassazione, 9 febbraio 1996 n°1024; Corte di Cassazione 21
febbraio 1992 n°2166; Corte di Cassazione, 27 settembre
1991n°10086; Corte di Cassazione, 27 giugno 1990 n° 6512).
La subordinazione nel lavoro giornalistico è “affievolita”
- Un giornalista pubblicista lavora per 6 anni come corrispon-
dente del quotidiano La Nazione senza alcun inquadramento come dipendente, fino a quando non gli viene comunicata
la risoluzione del rapporto di lavoro, qualificato dall’editore di
“collaborazione autonoma”.
Il pubblicista lavoratore subordinato si rivolge al giudice del
lavoro al fine di accertare l’esistenza della subordinazione e
di far applicare il contratto di lavoro giornalistico. Chiede,
altresì, l’annullamento del licenziamento.
Il giudice del lavoro accoglie la domanda annullando il licenziamento e ordina la reintegrazione del giornalista pubblicista nel posto di lavoro con la qualifica di corrispondente e il
trattamento previsto dall’articolo 12 del contratto giornalisti.
La decisione viene confermata in grado di appello. Il giudice
del secondo grado di giudizio individua come indici della
subordinazione del giornalista pubblicista i contatti giornalieri
con la redazione e l’esecuzione della prestazione secondo le
istruzioni che gli venivano quotidianamente impartite sulle
notizie da reperire e da approfondire, sui pezzi in corso di
esecuzione e su quelli in preparazione, nonché il fatto che la
redazione indicasse il giornalista pubblicista come persona
con la quale mettersi in contatto nella località prestabilita
(luogo di corrispondenza).
La Corte di Cassazione (Sezione Lavoro), sentenza n°3272
del 27 marzo 1998, ha ritenuto corretta l’interpretazione dei
giudici di primo e secondo grado ed ha confermato il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza secondo
cui il vincolo della subordinazione assume nel lavoro giornalistico un contenuto attenuato (affievolito), così da individuarsi soprattutto nell’inserimento continuativo del collaboratore
nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, essendo sufficiente il suo impegno permanente a porre le proprie energie
lavorative a disposizione del datore di lavoro anche negli
intervalli tra una prestazione e l’altra, in funzione di sue
richieste verbali. Tale elemento rappresenta in simili casi l’indice più significativo del vincolo di dipendenza, la cui sussistenza può essere esclusa solo nel caso in cui siano convenute singole ,sebbene continuative, prestazioni in una sorta
di successione di incarichi professionali.
Pubblicare foto “shock”
non è diritto di cronaca
La pubblicazione di fotografie del cadavere della vittima di un
omicidio può costituire reato se le immagini sono caratterizzate da particolari impressionanti e raccapriccianti, lesivi
della dignità umana. Questo il senso di una sentenza della
Cassazione penale.
Il direttore e due redattori del settimanale Visto sono stati
condannati dalla Corte d’Appello di Milano alla pena di tre
mesi di reclusione e di lire trecentomila di multa per avere,
in concorso tra loro e con un pubblico ufficiale non identificato, realizzato e pubblicato un servizio dedicato alla morte
per omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuta nel luglio 1991, corredandolo con tre fotografie a colori raffiguranti il cadavere della vittima così come era stato
rinvenuto nell’immediatezza del delitto, con particolari
impressionanti e raccapriccianti delle tracce lasciate sul
corpo nudo e sugli indumenti e delle modalità di esecuzione del crimine.
La condanna è stata pronunciata in base all’art. 15 della
legge 8 febbraio 1948 n. 47 che punisce con la pena della
reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa non inferiore a lire duecentomila la pubblicazione di “stampati i quali
descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o
raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche
soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune
sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter
provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.
I giudici di appello hanno ritenuto che il normale esercizio del
diritto di cronaca non giustificasse la pubblicazione delle
immagini, considerato anche il “carattere insistito e quasi
martellato dell’intero articolo, foto più testi”.
La Suprema Corte (Sezione Terza Penale n. 23356 dell’8
giugno 2001, Pres. Malinconico, Rel. Postiglione) ha rigettato
il ricorso degli imputati, richiamando la sentenza della Corte
Costituzionale n. 293 del 2000 che ha ritenuto non fondata la
questione di legittimità dell’articolo 15 della legge n. 47 del
1948.
L’esercizio del diritto di cronaca - ha affermato la Cassazione
- pur pienamente legittimo in una società democratica ed
aperta, deve salvaguardare come valori fondamentali il
comune sentimento della morale e la dignità umana tutelate
dall’art. 2 della Costituzione. I giudici di appello - ha osservato la Suprema Corte - hanno correttamente motivato la loro
decisione rilevando che le immagini della vittima dell’omicidio “sono tali da destare impressione e raccapriccio nell’osservatore di normale emotività, improntata ad impulsi di solidarietà umana, pietà per la defunta, rispetto per la sua
spoglia, repulsione istintiva verso le ferite efferatamente
impresse, salvaguardia della dignità della persona già uccisa
in quel modo ed ulteriormente oltraggiata dalla pubblica
ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza
verso l’intimità fisica personale rinforzata dalla condizione
mortale del soggetto”.
19 (23)
L I B R E R I A
D I
T A B L O I D
Sergio Romano
L’Italia negli anni
della guerra fredda
di Gigi Speroni
Quando radio e televisioni
hanno bisogno a tambur battente di un opinionista, il primo che cercano di catturare
è l’ambasciatore Sergio
Romano per l’analitica capacità di rendere comprensibili
i problemi più complicati. E
non solo. Perché quell’“ambasciatore” che viene sempre legato al cognome
“Romano” ci dice che l’attuale saggista è stato per 35 anni in diplomazia sino a rappresentare il nostro paese
alla Nato e a Mosca. Il binomio diventa, così, un marchio di garanzia, soprattutto
quando l’“ambasciatore Romano” affronta temi di politica estera, e spiega il successo delle venti “lezioni”
che il commentatore Doc ha
tenuto su Radio 2, nella
scorsa primavera, per il programma “Alle otto della sera”.
Ora quelle conversazioni sono diventate un libro: L’Italia
negli anni della guerrra fredda, ovvero, Dal piano
Marshall alla caduta del
Muro; e oltre, visto che il racconto arriva sino alla nascita
dell’euro. Racconto? Sì, perché l’arte di Romano è, per
l’appunto, quella di raccontare la storia, e qui lo si sente
in modo tangibile nella trasposizione scritta delle sue
parole: lo leggi e ti sembra di
ascoltarlo quando, con pacatezza e apparente semplicità, illustra, chiarisce i grandi eventi degli ultimi cinquant’anni.
Sostiene l’autore: «In alcuni
degli avvenimenti l’Italia ebbe una parte importante, per
sé o per gli altri. In molti ebbe
una parte marginale. In altri
infine fu soltanto testimone
interessata, senza alcuna
possibilità d’influire sul corso
delle cose». È un diplomatico, Romano, ma più di tanto
non può sfumare la realtà di
un’italietta sullo scacchiere
internazionale. Quella, d’altronde, che emerge dal
Romano divulgatore, spesso
testimone in prima persona
degli avvenimenti.
L’“io c’ero” s’intuisce spesso
a dar spessore a fatti e personaggi.
Andiamo, allora, al 1985,
quando Sergio Romano era
ambasciatore a Mosca. In
marzo Gorbaciov diventa segretario generale del partito
comunista dell’Unione Sovietica e «la parola chiave del
suo programma divenne nei
mesi seguenti perestrojka (in
russo “ristrutturazione”). Essa
dimostra che Gorbaciov non
pensava a cambiamenti radicali. Riteneva che tutto dovesse essere rinnovato, riformato, ristrutturato. Accanto a
perestrojka, ristrutturazione,
Gorbaciov cominciò a fare
largo uso di glasnost, parola
che significa “pubblicità” e
che noi abbiamo, forse non
del tutto correttamente, tradotto con “trasparenza”.
Con l’uso di questa parola
Gorbaciov proclamava la necessità che l’apparato politico
e amministrativo sovietico
fosse pubblicamente responsabile delle proprie azioni»….« Fu questa la glasnost. Chi l’ha interpretata come
espressione di una deliberata
politica liberale, destinata a
creare le condizioni di una libera stampa e una libera opinione, ha commesso un erro-
Luigi Garlando
La vita è una bomba!
di Antonino Padovese
Il piccolo Milan ha otto anni.
Si è rifugiato a Milano, scappando dalla guerra che insanguina da anni la Jugoslavia. A Sarajevo ha lasciato il padre, partito per
combattere sulle montagne,
la madre e una gamba, che
è volata via dal corpo a causa di una bomba scoppiata
al mercato cittadino nella capitale della Bosnia. Il piccolo
Milan è il protagonista del libro La vita è una bomba!,
scritto dal giornalista della
Gazzetta dello Sport Luigi
Garlando. Perché un giornalista sportivo ha deciso di
scrivere un libro per bambini
il cui tema dominante è la
guerra? Che cosa può mai
unire lo sport e la guerra? Lo
spiega l’autore attraverso
una domanda che sorge
spontanea nella mente ancora ingenua del bambino
Milan: “Come è possibile che
20 (24)
una delle cose più belle del
mondo, il calcio, e una delle
più brutte, la guerra, parlino
con le stesse parole?…
Boban ‘tira una bomba’ dal limite, il portiere si tuffa e respinge una punizione del
‘cecchino’, ‘raffica di conclusioni a rete’, ‘attacco a mitraglia’, ‘palla morta’, il Milan ‘ha
ucciso il campionato’, la difesa passa ‘al contrattacco’,
avanza Tassotti ed ‘esplode
il destro’…”.
L’intreccio fra guerra e calcio
è costante in tutto il racconto, che ha vinto il Premio
“Battello a vapore - Città di
Verbania” nel 2000. Si comincia con il nome del personaggio di fantasia cui
Garlando dà vita così bene
da sembrare vivo: Milan è un
nome abbastanza comune
nei Paesi dell’Est, ma allo
stesso tempo è anche il nome della squadra di calcio
dove negli anni Novanta giocano assieme il croato
Zvonimir Boban e il serbo-
Romano Battaglia
Sulla riva
dei nostri pensieri
re». Gorbaciov «nel 1988
promosse una grande riforma costituzionale che avrebbe permesso le prime elezioni con una pluralità di candidati. Badate bene: pluralità di
candidati, non di partiti».
La precisione, innanzitutto, a
fronte di tanto giornalismo
strillato e deformante.
E sempre per amor di precisione l’autore ripercorre la
nostra storia arricchendola
di particolari sconosciuti o
dimenticati.
Prendiamo il Patto atlantico.
L’Italia «… non poteva difendersi da sola. Non ne aveva i
mezzi e aveva un forte partito
comunista che rendeva la
sua posizione particolarmente delicata e vulnerabile.
Occorreva quindi poter contare sulla protezione di paesi
più forti. Fu in questo spirito
che De Gasperi decise la
candidatura dell’Italia al Patto
atlantico…. Fu una battaglia
lunga e difficile… Il dibattito in
parlamento si potrasse per
molte ore in una situazione di
grande tensione politica.
Nenni scrisse e pronunciò
parole di fuoco contro quello
che egli definiva il “cappio
delle alleanze”. Finalmente, il
Parlamento votò la ratifica del
Patto e l’Italia divenne da
quel momento membro
dell’Alleanza. Uscì dal limbo
in cui si era lungamente trovata dopo la fine della guerra
e dalla condizione di paese
sconfitto, considerato dagli
alleati occidentali con un certo riserbo, con una certa reticenza. Divenne finalmente, a
tutti gli effetti, un paese alleato. Per noi l’Alleanza atlantica
fu un esame di passaggio, un
esame di maturità».
E sin qui siamo ai fatti, in-
contestabili, e a un’opinione
ormai largamente condivisa.
Ma con una memoria storica
come quella di Romano, ecco il qualcosa in più: quello
che l’autore rivela come «l’aspetto paradossale dell’intera vicenda». Nelle trattative
che precedettero l’adesione
del nostro paese, proprio gli
americani «cominciarono a
esprimere parecchie riserve
perché temevano, anche se
non lo dissero esplicitamente, che l’Italia fosse una palla
al piede», mentre «i francesi
volevano l’Italia nel Patto
perché desideravano che gli
americani estendessero le
loro
responsabilità
al
Mediterraneo. Fu così che
riuscimmo a ottenere l’adesione al Patto atlantico».
Ci siamo diffusi su questo
episodio perché bene rappresenta lo stile e il dipanarsi
del libro.
Ricco anche di notazioni
personali. Come questa, che
lasciamo alla riflessione del
lettore: «Gli uomini politici,
anche quando hanno le migliori e le più nobili intenzioni, non tengono conto del
fatto che la storia, con i suoi
disegni difficilmente decifrabili, finisce per produrrre risultati completamente diversi da quelli che essi avevano
immaginato».
Vogliamo riparlarne tra una
decina d’anni?
Sergio Romano,
L’Italia negli anni
della guerra fredda.
Dal piano Marshall
alla caduta del Muro,
Ponte alle Grazie,
pagine 166,
lire 20.000
“I pensieri sono spiriti in movimento, come le onde del
mare che fanno sentire la loro voce infrangendosi sulla
riva”: così Romano Battaglia
presenta il suo nuovo libro
Sulla riva dei nostri pensieri,
raccolta di riflessioni disincantate e malinconiche sul
fluire delle cose e della vita.
“Amo i pensieri”, spiega,
“perché nella loro brevità riescono a trasmettere molto
più di intere pagine superficiali e vuote. Sono semplici,
profondi, facili da ricordare”.
Tra la stesura di un libro e
l’altro (ultimi volumi usciti, tra
il 1997 e il 2000, Con i tuoi
occhi, Il dio della foresta, Ho
incontrato la vita in un filo
d’erba, Serenata al mondo,
Il silenzio del cielo, Cielo)
Battaglia ha scoperto il gusto dei testi brevi, dei pensieri appunto, che a volte sono pungenti e ironiche osservazioni sulla quotidianità
e sulla stupidità che ci circonda, a volte riflessioni sul
confronto giovani-anziani (“i
giovani conoscono le regole,
i vecchi le eccezioni”), sui
sentimenti. E anche sulla politica. A proposito della quale
scrive: “Mi auguro che mio figlio sia ignorante e insensibile, così avrà una vita serena e, forse, potrà diventare
anche un importante uomo
politico”.
Suddivisi in nove capitoli dai
titoli che sono essi stessi un
invito alla riflessione (La
speranza, come la primavera, rinasce sempre; La vita è
come una partita a carte;
Amare è l’unica illusione di
eternità che ci è conces-
montenegrino Dejan Savicevic. I due calciatori giocano
nella stessa squadra e sono
grandi amici, ma se non fossero stati calciatori, invece di
giocare nel Milan in Italia sarebbero saliti sulle montagne
e si sarebbero sparati contro, come i cow-boy con gli
indiani. Solo che, nota il piccolo Milan nel racconto, “gli
indiani hanno i capelli lunghi
e la faccia pitturata e non li
confondi mica con i cow-boy;
i nostri indiani invece erano
come noi, uguali uguali,
mangiavano il nostro pane”.
Il bambino non capisce perché a un certo momento in
una terra con tante religioni
(musulmani, cattolici, ortodossi) e “sotto un cielo così
pieno di dei sia scoppiato
l’inferno”. Quando chiede
spiegazioni gli viene detto
che capirà quando sarà più
grande. “Poi finisce che a
uno, da grande, gli resta appena il tempo per capire le
cose che non ha capito da
piccolo. E allora che gusto
c’è a crescere?”, s’interroga
il protagonista. Il racconto,
che si legge tutto d’un fiato,
è stato pensato da Garlando
qualche anno fa. L’autore, 38
anni, è una delle penne più
brillanti della Gazzetta dello
Sport; i suoi corsivi mostrano
un approfondimento e una
comprensione dei fatti che
va oltre il semplice evento. A
metà degli anni Novanta seguiva per il quotidiano diretto
da Candido Cannavò il
Milan. Si portava ogni giorno
a Milanello, dove i rossoneri
si allenano, e parlava con il
tecnico e con i giocatori. In
quegli anni gli capitava spesso di parlare con Zvone
Boban. I colloqui erano lunghi, ma di quelle interviste
restava poca traccia nel taccuino del cronista. Si parlava
poco del Milan e delle altre
squadre del campionato, degli arbitri e di gare-scudetto.
Con Boban Garlando parlava soprattutto della guerra in
Jugoslavia. Il giocatore, che
per il libro La vita è una
bomba! ha scritto una bellissima prefazione, ha riconosciuto che “è limitativo definire Luigi Garlando un giornalista sportivo; lui è soprattutto uno scrittore”. Alle lunghe
chiacchierate con il calciatore croato vanno aggiunte come fonte di ispirazione la lettura di reportage dalle zone
di guerra, come quello scritto dal collega Paolo Condò
sulla squadra dello Stoccarda fra il 1996 e il 1997,
dove emergeva quale grande valore di libertà assumesse lo sport in un Paese in
guerra; contro questa voglia
di libertà si accanivano i cecchini, che sparavano contro i
ragazzi che, incuranti del pericolo, attraversavano il ponte per andare al Palazzetto a
fare sport. La ricerca nel documentato archivio del
Corriere della sera ha fatto il
resto.
Garlando è riuscito a creare
un personaggio che si fa volere bene da tutti. Non gli ha
creato una storia attorno. Il libro, infatti, non ha una trama
vera e propria. La vita è una
bomba! non è altro che il
racconto dei pensieri che
vengono alla mente al bambino il 13 ottobre 1995, giorno in cui è chiamato a comporre il primo tema in lingua
italiana.
È così che Milan capisce
quanto utile sia stata la lettura della Gazzetta all’albergo
Holiday Inn di Sarajevo, perché le parole che vengono
utilizzate normalmente dai
cronisti sportivi gli ritornano
utili quando è chiamato a descrivere la guerra. Il libro La
di Massimo Cobelli
sa…), i pensieri di Romano
Battaglia sono affiorati da un
metaforico mare della memoria nei momenti più impensati e subito trascritti sul
taccuino. Mentre il mare reale, tanto amato dall’autore,
con i suoi paesaggi che spaziano sull’infinito, con le
spiagge coperte da conchiglie, con i gabbiani in volo, fa
da contrappunto allo scorrere della parola attraverso le
belle fotografie in bianco e
nero di Stefano Sabella intercalate nel testo.
“Ho sempre passeggiato
sulla riva del mare raccogliendo ogni volta conchiglie,
stecchi, bambole rotte”, scrive Battaglia. “Mi è sembrato
di vedere in quegli oggetti,
depositati dalle onde sulla
sabbia, l’intera umanità con i
suoi dolori e le sue gioie”.
C’è un filo conduttore che
tiene insieme queste eterogenee riflessioni: la ricerca
di un’antica saggezza, oggi
troppo spesso calpestata in
una società dominata dalla
vanità e dalla ricerca spasmodica del profitto. Scrive
l’autore: “Dice un proverbio
cinese, un po’ eccessivo:
l’uomo veramente saggio è
colui che arriva alla fine della
vita con i soldi contati per il
suo funerale”.
Romano Battaglia,
Sulla riva
dei nostri pensieri,
Rizzoli,
pagine 142, lire 16.000
vita è una bomba! ha vinto il
premio dedicato alla letteratura per bambini, ma, come
dice Boban, è più adatto ai
grandi. Forse perché attraverso gli occhi ingenui di
Milan, bambino che a otto
anni ha visto cose che farebbero crollare il mondo addosso a un adulto, il lettore
può capire quanto terribile
sia stata la guerra nei
Balcani, dove sono caduti
tanti, troppi bambini. La cronaca di quegli anni era piena
di bimbi ammazzati e lasciati
sanguinare sulla neve, di
bombe lanciate contro le
scuole. La scelta di far descrivere la guerra, questa
guerra, a un bambino forse
può aiutare i grandi a crescere con una maggiore cultura della pace.
Luigi Garlando,
La vita è una bomba!,
prefazione
di Zvonimir Boban,
illustrazioni
di Marco Matis,
Edizioni Piemme Junior.
Premio Battello a vapore
Città di Verbania 2000
ORDINE
7
2001
I
Nando dalla Chiesa
La partita
del secolo
di Gianni de Felice
Per aver voglia di rivivere
una fettina – naturalmente
felice – della propria vita, bisogna essere in pace con se
stessi, contenti di ciò che si
è e di ciò che si è stati; disposti a rifare daccapo tutto
ciò che si è fatto, sciocchezze comprese, ed a riconoscere senza imbarazzo di
avere l’animo attraversato
da una profonda vena romantica. Ma come confessarlo, se è finita da un pezzo
l’età di certe debolezze, si è
deputati in Parlamento, si insegna sociologia economica
all’università e si ha un labbro fisionomicamente conformato a broncio?
Semplice: si mette al microscopio una notte memorabile per sé e per milioni di connazionali e si rivede in riflessione reciproca, come in un
gioco di specchi, se stessi e
gli altri: un giovane e una
città, un paese, un momento, una generazione. Notte
storica, anche se la storia è
poi quella – apparentemente
futile – di una partita di calcio
stramba, straordinaria e vinta. Uno studente della
Bocconi la vede, ancora in
bianconero, su una tele del
pensionato universitario. La
celebra scendendo subito
dopo, in una notte di giugno,
in piazza con migliaia di gente.
E la studia dopo trent’anni,
rileggendone le cronache.
Spiandone mosse, gesti,
reazioni e i commenti di un
telecronista fervidamente
presago. Passando e ripassando la videocassetta sul
registratore. Parlandone con
un protagonista in campo,
che ora siede – come lui – in
Parlamento: giusto trascurare un intervento a Montecitorio di cui nessuno dirà
mai nulla, per rievocare momenti che hanno fatto invece
scorrere fiumi d’inchiostro e
torrenti di parole.
Riparlandone con un protagonista in piazza: il poliziotto,
divenuto poi questore e prefetto, che quella notte faceva
servizio d’ordine e finalmente vide, a volti scoperti, i ragazzi dell’eskimo e del passamontagna.
Il “sessantottino” d’allora
scopre così che per gli
Italiani casinisti c’è gusto
doppio a battere i Tedeschi
perfezionisti, che si può andare in piazza e fare corteo
anche per essere non “con-
tro” ma “con”, che anni di lacrimogeni e di marxismo-leninismo non tolgono il compiacimento – non dico il brivido – per un tricolore sbandierato; che il protagonista,
Gianni Rivera, confessa che
il ricordo suo più bello non è
quella partita ma “i tornei all’oratorio, dove si amava il
calcio per il calcio” ed è convinto che quella partita l’ha
vinta, proprio perché l’ha
giocata con lo spirito dell’oratorio. Con l’amore del calcio per il calcio. Con il coraggio.
Ero all’Azteca quella notte.
Evento e personaggi – fra
molti dei quali, da Rivera a
Schnellinger, al prefetto
Lucchese, ho cari amici –
sono perfettamente restituiti
al lettore. Ma attenti: La partita del secolo – Storia di
Italia-Germania
4-3
di
Nando dalla Chiesa non è
storia solo per sportivi, già
informatissimi: i pignoli possono perfino eccepire che il
nome di Mandelli è Walter,
non Pasquale, e che
Anastasi non partì neppure:
restò in Italia per una perfida
torsione di testicolo, non per
appendicite.
Questa bella rivisitazione è
piuttosto storia per ignari di
calcio, desiderosi di scoprire
come infinito e coinvolgente
sia – aldilà della tecnica –
l’universo di una “semplice”
partita di calcio; e di capire
perché “quella” partita segnò, con l’Italia in piazza finalmente per gioire e non
per lottare, uno spartiacque
tra la stagione romantica
della disarmata contestazione studentesca, della libertà
femminista, dell’affermazione anti-razzista (il guanto
nero di Carlos e Smith sul
podio olimpico di Messico
‘68) e la stagione tragica –
presto annunciata dal primo
choc petrolifero – del terrorismo palestinese, latinoamericano, italiano.
Qualcuno dice che la
Grande Emozione calcistica
si fermò su quel crinale.
Spero che abbia torto. Ma
ogni domenica che passa in
tivù e ogni tuffo nel calcio
che fu – come questo di cui
sono grato a Nando dalla
Chiesa – rendono, ahimè, la
mia speranza più flebile.
Nando dalla Chiesa,
La partita del secolo.
Storia di
Italia-Germania 4-3,
Rizzoli,
pagine 190, lire 27.000
L’ECO
DELLA STAMPA
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Via Compagnoni 28, 20129 Milano
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ORDINE
7
2001
N
O
S
T
R
I
L
U
T
T
I
Nicola Cattedra, il dovere
e la capacità di indignarsi
Morto Mario Tortello
difensore dei “deboli”
Torino, 12 giugno - Mario Tortello, giornalista del quotidiano La Stampa di Torino, è
morto oggi pomeriggio colto da un malore
improvviso subito dopo aver parcheggiato
l’auto nel garage del giornale. Avrebbe
compiuto 52 anni il 28 ottobre di quest’anno.
Tortello, che era sposato con una docente
universitaria ed aveva una figlia di 15 anni,
lavorava come redattore agli interni.
Si occupava, in particolare, di scuola. Impegnato sui grandi temi sociali in difesa delle
fasce più deboli, Tortello aveva sempre
mostrato particolare sensibilità sul tema dei
diritti dell’ infanzia.
Oltre ad essere direttore di un prestigioso
mensile giuridico-pedagogico sull’ handicap
e l’integrazione scolastica, da molti anni
faceva parte del Gruppo Interprofessionale
Minori-Informazione che da anni opera a
Torino per difendere la privacy dei bambini.
Da due anni, inoltre, aveva un incarico da
insegnante presso la facoltà di Scienze della
formazione.
(ANSA)
di Guido Vergani
I ragazzi dell’Ora di Palermo hanno
ricordato il suo semplice coraggio, il
suo saper dirigere senza stare un
palmo sopra i propri redattori. Uliano
Lucas, un grande fotografo che ha
lavorato con lui al settimanale
Tempo, ha raccontato il suo spirito
libero. Lo scrittore, l’artista Emilio
Isgrò ha detto che quella sua libertà
ha giovato agli altri, a noi suoi
compagni di strada, non alla sua
serenità di carriera. Io ricordo un
amico a cui il mio temperamento,
portato forse troppo al sorriso e
all’accomodamento, deve una lezione di vita e di mestiere: il dovere e la
capacità di indignarsi, di non cedere
all’italianissimo “chi te lo fa fare?”, di
credere che questa nostra professione possa almeno minimamente
incidere, di andare sotto le apparenze e le verità ufficiali.
Nicola Cattedra arrivò nel 1969 al
Tempo, la più vecchia testata settimanale italiana, dopo essere stato
un artefice del successo di Paese
Sera nell’epoca del caso Montesi e
il responsabile degli inserti - allora, li
si chiamava “speciali” - di cui Il Giorno di Italo Pietra fu pioniere nel
panorama dei quotidiani.
Al giornalismo, era approdato dalla
militanza politica nel Pci dopo una
stagione di bohème, di darsi freneticamente alla vita che, una sera, gli
aveva tolto padre, madre e sorella,
uccise da un bombardamento alleato su Bari. Alle Frattocchie, la scuola
di partito, s’era presentato, giovanissimo, con un bottiglione d’acqua di
colonia e due valigie di cuoio grasso, troppo sfacciatamente borghesi.
Lo misero a lavorare a Botteghe
Oscure, sullo stesso piano di Togliatti e di Robotti, il cognato del Migliore, che - raccontava - stava al buio
in un ufficio, rigido davanti a una
vuota scrivania: rigido perché le
torture alla Lubianka gli avevano
fatto a pezzi la spina dorsale e dove-
va portare un busto di ferro. Dal Pci
era uscito poco dopo i fatti d’Ungheria del 1956. Al Tempo era l’ultima
stagione di Arturo Tofanelli che lo
dirigeva da oltre vent’anni e che perdonate un altro ricordo d’affetto mi aveva preso per mano nella
professione. Cattedra gli subentrò
mentre il Paese stava cominciando
a vivere anni di grandi trasformazioni e già entrava nel tunnel di quella
che venne definita la “strategia delle
tensione”.
Tempo raccontò quella stagione con
grande coraggio politico e lucidità,
aprendosi anche a temi che parvero
di costume e che sarebbero diventati addirittura ideologici come l’ecologia. Anche in politica estera, l’attenzione si concentrò sull’Europa
Nera: la Spagna ancora franchista, il
Portogallo ancora per poco salazariano, la Grecia dei colonnelli.
La rubrica di commenti che era stata
di Malaparte fu affidata a Pier Paolo
Pasolini (il Corriere di Piero Ottone
e di Gaspare Barbiellini Amidei lo
portò più tardi in prima pagina) e,
successivamente, a Giorgio Bocca.
Nel 1974, finì quell’avventura anche
per la troppa indipendenza della
direzione. Cinque anni dopo, Cattedra fu chiamato a dirigere L’Ora di
Palermo, il quotidiano più radicalmente nella trincea della lotta antimafia.
Erano tempi difficilissimi per quel
giornale. Nicola lo fece bene, con
passione, con rigore e con quattro
lire, con una pattuglia di giornalisti,
giovani, quasi ragazzi, che divennero grandi e bravi alla sua scuola di
mestiere, di generosità, di slanci.
Hanno scritto che assomigliava a
Orson Welles. Aveva una testa da
antico romano.
Qualcuno al Giorno, sfottendolo, lo
chiamò Tigellino, l’ombra di Nerone,
ma sapendo che Nicola non aveva
un Nerone e non aveva lati oscuri,
ambiguità. Era un uomo diretto, leale
che, pagandola, ha vissuto sempre
a braccia aperte, generosamente.
L E T T E R E
Avanti, magari
migliorando lo stile
Milano, 30 giugno 2001
Caro Presidente,
non conosco la risposta della gentile signora
Letizia Gonzales alla lettera firmata Stefano
M. (“Bravo, continua così!”, Ordine/Tabloid di
giugno 2001) ma, se fosse stata rivolta al
sottoscritto, gli avrei detto poche ma ferme
cose:
1) scrivere oltre quattromila battute per una
sola domanda finale - ma qual è il mio
futuro? - mi sembra davvero eccessivo;
2) moderare l’uso delle parentesi, dal
momento che ne ho contate ben tredici;
3) evitare di mettere in risalto, per ben tre
volte, la propria bravura;
4) rifuggere, anche se si tratta di un giovane,
dall’uso di espressioni banali o gergali alla
maniera di “Whow...”;
5) rileggere sempre i propri scritti onde non
lasciarsi sfuggire espressioni sconnesse
tipo “a me, che oltre il confine di Magenta
non mi conosce nessuno!”, oppure “Europress avrebbe potuto spiegarmi di cosa
diamine si tratta essendo io a conoscenza che il periodico dell’Ordine è Tabloid,
ma, magari, mi sbaglio”;
6) spiegare a cosa alludesse denunciando:
“c’è gente che s’impossessa delle mie
notizie per farle apparire in bella mostra
nelle pagine di quotidiani appaganti”;
7) cancellare dal proprio lessico “il” Casagit,
trattandosi di un’affabile Cassa e non di
un grossolano Cassone;
8) infine, ringraziare Iddio per la condizione
di studente-lavoratore, che gli permette di
incassare già un milione e settecentomila
lire al mese.
Adesso pensi soltanto ad andare avanti,
magari migliorando lo stile, e senza dubbio
farà - con un po’ di umiltà, la grinta non
manca - una splendida carriera!
Giacomo de Antonellis
21 (25)
M
E
M
O
R
I
A
Voglia
di Brera
Un uomo e il suo mondo
Una mostra
a Salice Terme
ha ricordato
il mitico
“Gioannbrerafucarlo”.
Mentre per il
decennale
della morte,
l’anno prossimo,
sono in cantiere
altre iniziative.
Per non dimenticare
“Gioannbrerafucarlo, un uomo, il suo mondo” è il titolo della
mostra fotografica dedicata a Gianni Brera tenutasi a Salice Terme (Pavia) e realizzata da Evaristo e Alberto Fusar,
in collaborazione con l’assessorato alla Cultura della
Provincia di Pavia.
La rassegna ha ripercorso tutta la vita del grande giornalista e scrittore pavese: dagli anni di studio al liceo Taramelli di Pavia e all’università, alle partite di calcio nelle squadre della periferia milanese, dal servizio militare all’esordio
e al successo nel giornalismo e nella letteratura.
Molte le istantanee dei felici momenti di vita privata, per
esempio nella sua cantina di Pusiano o mentre falciava
l’erba al suo paese natale, San Zenone Po, nella Bassa
Pavese.
Le fotografie che pubblichiamo in queste pagine sono tratte dalla mostra (Fusar Video, Ottobiano, Pavia).
di Pilade del Buono
“C’invidiano, dunque siamo”. Chi frequenta il
freschissimo Palazzetto dello sport di Broni
(complimenti e auguri) fatalmente s’imbatte
nel detto breriano, raccolto in una piccola
targa, prossima all’ingresso. Il compito di far
affiorare qualche sua non marginale parola,
sintesi dei milioni prodotte in oltre mezzo
secolo di lavori forzati, era stato affidato a un
breriano doc e compagno di mille avventure,
Giulio Signori.
Il tragico incidente automobilistico nel quale,
oltre a Giovanni, hanno perso vita due amici
fraterni, Pietrino Mauri e Vittorio Ronzoni, è
avvenuto all’alba del 19 dicembre del 1992
nelle strade di casa, dunque quasi nove anni
fa. Era un sabato. Due giorni prima aveva
partecipato all’ultimo Giovedì, tenuto come
sempre al ristorante Riccione di Giulio Metalli - e prima di lui dei fratelli Tonino e Gino -,
tutti ora assenti all’appello (Giovedì che
rappresentava, e rappresenta ancora, a
mezzo secolo di distanza, l’appuntamento
conviviale di un gruppo di amici che stavano
e stanno bene assieme e che di Brera
avevano fatto, per così dire, la loro ragione
sociale).
Nella settimana precedente Paolo Mieli gli
aveva spalancato le porte del Corrierone. Il
Corriere rappresentava la tappa, dolorosamente mancante, alla sua carriera di scrittore lombardo di cose sportive e non sportive
(dopo aver nobilitato Gazzetta, Giorno, Giornale e Repubblica), in attesa di potersi dedicare compiutamente alla dolce fatica dei libri.
Ma aveva 73 anni, festeggiati come al solito
nella villa sul lago di Pusiano (per brindare
Vittorio Moretti aveva portato dalla Franciacorta le sue preziose bollicine), e Repubblica non meritava un tradimento dopo dieci
anni di corrisposta fedeltà, alla vigilia soprattutto del varo del numero del lunedì che lo
avrebbe nuovamente spinto nell’arena, pronto a brandire il telefono e ad avventurarsi in
cronache scintillanti, non importa se strimpellate sulla Olivetti d’ordinanza o improvvisate a braccio.
Per questo, sicuramente commosso, respinse l’offerta del numero 1 di via Solferino. “Ora
però, Pilaffio - mi disse quell’ultimo giovedì dovremo chiedere un sostanzioso conquibus
a don Eugenio per il mio sacrificio...”. Sorridendomi, chiese conforto al mio senso pratico: quella richiesta non avrebbe mai raggiunto, ammesso che davvero fosse partita, la
scrivania romana direttoriale di Eugenio
Scalfari. Il giorno successivo infiammò un
dibattito medico e s’avviò infine per la sua
ultima cena.
Una cosa è certa. Lo sport sporco che negli
ultimi tempi emergeva, lo metteva a disagio.
“Ero a un Giro di Francia, e non avveniva
nulla. Facevamo una pena negra dopo gli
anni gloriosi di Bartali e di Coppi. Quindi ho
cercato spunti guardando l’Altro pedalare (e
ricordati di mettere la maiuscola sulla a!) in
certi protagonisti che poi sarebbero saltati su
una mina di sicuro. Il primo dei quali era
Robic, poi lo stesso Poblet che voleva fare il
bullo...”. Così disse in una intervista per il
Sole-24 Ore dell’87. Amava visceralmente la
pratica agonistica pulita e il doping - Ben
Johnson e il suo sprint drogato non avrebbero abbandonato per giorni e giorni le prime
pagine di ogni rispettabile giornale un anno
più tardi e niente, dopo, sarebbe stato come
prima - incarnava la presenza dell’ignobile
mostro che presto o tardi avrebbe dovuto
affrontare.
Ci si potrebbe chiedere, a nove anni, come
la sua assenza abbia influenzato il dibattito
sportivo. Rappresenterebbe forse un pretesto interessante - cosa avrebbe scritto e
sostenuto oggi -, ma l’argomento sino a
questo momento non ha trovato sponsor.
Pure, la presenza di agguerritissimi “Senzabrera” (copyright di Gianni Mura, la Repubblica, domenica 19 dicembre 1993, a un
anno esatto della tragedia) renderebbe
corposo il tema, non solo sul versante pedatorio, e in proposito è doveroso aggiungere
altri e due o tre nomi nomi di primissima
fascia a quelli già affiorati di Signori e Mura:
Mario Fossati, il collega più amato, Gianni
Clerici, Rolly Marchi e anche Rino Tommasi,
scremati da una succosa platea di fedelissimi che mi guarderò bene dal comporre per
evitare inevitabili, colpevoli omissioni.
In verità la voglia di Brera, alimentata soprattutto dalla sua terra, non si è mai sopita e le
iniziative in cantiere per il decennale - i figli
Paolo e Franco inevitabili punto di riferimento - non si contano. Se ne ebbe già percezione nella serata di Ruth Shammah al teatro
Parenti, nella ripubblicazione di molteplici
suoi testi ad opera della Baldini & Castoldi
con la regia di Oreste del Buono come in
occasione di premi letterari, tornei pedatori e
gastronomici a lui intitolati; una voglia che ha
portato da tempo il Gazzettino di Venezia, e
ora il suo Giorno, a ripercorre il cammino
breriano, esplorando un fenomeno dei nostri
tempi.
L’ultima domenica di aprile, domenica 29
aprile, la parrocchia breriana si è data
appuntamento a Broni la mattina e a Salice
Terme il pomeriggio. A Broni dove il sindaco
ha voluto intestare il nuovissimo Palazzetto
dello sport al Principe della zolla (in attesa
Gianni Brera nel 1992, pochi mesi prima
della tragica morte, con le testate
con le quali ha più strettamente collaborato.
che il suo omologo milanese, Gabriele Albertini, si ricordi della vecchia promessa, l’Arena), e a Salice Terme dove la premiata ditta
Fusar & Fusar ha raccolto una prima, ricca,
sintesi iconografica.
La grande stampa, a partire dalla Gazzetta
dello Sport che vide per quasi cinque anni
la rivoluzionaria regia dello scrittore pave-
se, ha dato sempre puntuale riscontro.
Forse, chissà, un giorno di Brera si ricorderanno anche gli eroi da lui creati, legittimati
e sublimati, puntualmente e rigorosamente
assenti alla cerimonia di San Zenone. Ma si
sa, dicembre è un mese freddo, che sconsiglia scomodi viaggi. Chi parte, dovrebbe
tenerne conto.
Gianni Brera
paracadutista
a Pisa,
nel 1942,
e, a destra,
nel 1952
con i figli
Carlo
e Paolo.
22 (26)
ORDINE
7
2001
Pubblichiamo l’articolo di Gianni Mura uscito in prima pagina su “la Repubblica” del 20 dicembre 1992
A centro pagina:
1946,
Gianni Brera,
dopo una partita
di calcio
a Lugano.
Ti sia lieve la terra,
Giovanni.
Comincio
come avresti concluso
tu se fossi morto io,
come hai concluso tante
volte i coccodrilli. Sono
pezzi che toccano ai più
vecchi, o a quelli che
hanno più memoria, e
del calcio di Repubblica
il più vecchio adesso
sono io. E comincio a
capire il peso che hanno i coccodrilli, e mi
viene in mente di quando tu mi hai raccontato
della morte di Consolini, il discobolo. L’ avevi
saputo che stavi in America, e ti eri messo a
piangere e a imprecare, da solo, nel parcheggio di un motel di Dallas, o forse era Chicago.
Adesso qui a Malta è quasi uguale, solo che
c’è il mare oltre il parcheggio, e molto vento,
Giovanni. Ti chiamo così perché l’ ultima volta
che ci siamo visti, la settimana scorsa, hai
scherzato sui nostri nomi, sul Gianni piccoloborghese imposto da zie, sorelle o madri. Mi
hai anche regalato due pacchetti di Super col
filtro, la solita generosità, in un momento di
astinenza forzata. Qui ti piangono e ti
rimpiangono, li conosci tutti e tutti ti
conoscevano. E molti dicono la cosa
più ovvia, che se venivi qui non eri su
quella strada tra Codogno e Casal
Pusterlengo. Dove finisce il territorio
dei gallo-liguri e inizia quello dei celti,
Giovanni? Qui sappiamo così poco
e ognuno si taglia coi suoi ricordi. Io ne ho tanti. Per cominciare, ti devo la scelta del
lavoro, se tu non avessi
scritto come scrivevi, sul
Giorno, oggi sarei un
insegnante di lettere o
di francese, in qualche
scuola lombarda. E
scrivevi come vivevi,
da persona piena di
umori e di amori, con
una cultura larga e
profonda che andava
dalla pesca degli storioni all’ uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di
parole. Ti avevo chiesto un
appuntamento nel ’65, in
Gazzetta ero il ragazzo di
bottega, per capire qualcosa
di questo mestiere, degli strumenti da usare. E venendo
da te sentivo di non tradire
Gualtiero Zanetti, il mio direttore: eravate amici, sulla stessa linea ideologica, vi univa
Il tesserino
di immatricolazione
di Gianni Brera
studente
universitario.
di Gianni Mura
Ti sia lieve la terra...
Nereo Rocco. “Venga sul lago verso le 11, poi
parliamo”. Mi aveva colpito l’ uso del lei. E, poi,
il fatto che appena arrivato tu mi chiedesti di
aiutarti a raccogliere le uova, facendo attenzione a un’ oca feroce ribattezzata De Gaulle.
Questo Brera inventa anche sulle oche,
pensavo, e in verità l’ oca somigliava molto al
generale, e intanto stavo attento a non scivolare sul pesticciato del pollaio.
E per un pomeriggio ero stato ad ascoltarti
spiegare tutto, anche cose non richieste,
anche la tua nascita settembrina col fatto che
nella Bassa Pavese le donne non potevano
uscire a lavarsi, d’ inverno, per il freddo, post
coitum. E la laurea in scienze politiche (figlio di
un sarto povero, ma tutti i figli mandati all’università, perché il pezzo di carta avrebbe dato
pezzi di pane), e i paracadusti, e la Resistenza senza sparare un colpo, e il pallone
preso a calci con la maglia dei Boys
a Milano, con Cina Bonizzoni allenatore. Lo sport. Certo sapevo
che eri stato direttore della
Gazzetta, a trent’ anni, e te ne eri
andato sbattendo la porta per una
bega amministrativa. Non sapevo,
me lo avresti detto tu, che lo sport
aveva due tipi di cantori: quelli che
definivi i professori, gli epigoni del
Vate Gabriele, digiuni di tecnica ma
ben provvisti di parole alate, e
gli scribi, i cronisti, quelli che
seguivano lo sport da vicino,
con qualche nozione ma
senza lingua, senza le parole
adeguate. E tu con coscienza
e scrupolo artigianale (ma io
non dimentico tutti i libri che
hai in casa) avevi inventato
una lingua viva, piena di
venature, di rimandi, come
uno che aveva letto
Runyon ma anche Folengo. Eri nato con l’ atletica
e il ciclismo, sapevi
raccontare gli uomini e le
strade. È sempre più
dura, Giovanni, con
questo pezzo spezzato
dalle telefonate e dai
colleghi che mi chiedono un ricordo di te. Uno
della Rai mi ha presentato come tuo erede e
so che ne era convinto,
ma io non voglio. Mi è
venuto in mente e mi sono commosso, ma con
un microfono sotto il naso non si può piangere, di quando tu hai detto a tua moglie Rina,
guardandomi: ma hai visto il profilo del naso di
Giovannino, la barba? Potrebbe essere nostro
figlio, sputato. Sì, aveva detto la Rina, che ha
occhi di un azzurro incredibile. E adesso io
vorrei essere vicino a lei, non qui. Mentre sta
suonando una banda. Io non sarò il tuo erede,
Giovanni. Siamo onesti, come te non c’ è stato
nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo
per lo sport. Se c’è un libro di gastronomia da
salvare, è La pacciada, che hai scritto tu con
Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in
memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di
ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna
leggere Addio bicicletta, l’hai scritto tu un
sacco di anni fa. E pochi
letterati da Strega e da
Campiello avrebbero
descritto il paese di
Coppi come hai fatto tu.
Io non sarò il tuo erede,
ma continuerò a portarti
in giro, Giovanni. Lo
facevo già prima, lo farò
ancora. Lo facevamo in
tanti. Anche venerdì
sera, a tavola con gli altri
di Repubblica, ci siamo
chiesti se quel Cabernet Sauvignon maltese a
te sarebbe piaciuto. No, ho deciso io, non ti
sarebbe piaciuto.
È strano, ma negli ultimi tempi ci si vedeva
poco, proprio adesso che lavoravamo nello
stesso giornale. Ma era normale, se tu stavi a
San Siro io andavo a Torino, se tu eri a Roma
io a Parma, se io ero a Malta, tu fra Codogno
e Casal Pusterlengo. E adesso che sta partendo il pullman per lo stadio, in un sole assurdo.
Non sappiamo nemmeno se c’era nebbia lì, a
quell’ ora, ma non importa. Ricordo di quanto
avessi paura, in macchina, tu, e come strillavi
appena si passavano i 120 in autostrada.
Conosco anche quelli che sono morti con te,
ci abbiamo mangiato assieme e giocato a
carte, da Giuliano.
Sei morto come avresti sperato, ammesso che
si possa sperare di morire, il come se non il
quando. Tu che giravi pieno di pilloline contro
tutto, nel tuo leggendario borsello di pelle d’
ippopotamo, hai evitato l’ orrida vecchiezza,
dicevi tu, l’ infermità, il bussare insistente della
signora dai denti verdi. Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un
carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di
fegato né di polmone,
Giovanni, tu che fumavi
cento sigarette al giorno
e non parliamo di quello
che hai bevuto, oppure
parliamone, e parliamo
del culo che ti sei fatto
sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il
computer mai, avevi
ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole
già in testa) da più di cinquant’ anni. Sei morto
con gli amici, come avevi vissuto. Non è il
maestro di giornalismo che ci manca, né il
suscitatore di polemiche sempre affrontate a
testa alta. Ci manca il compagno di strada e
d’avventure, anche avventure intorno a un
tavolo che era la rampa di lancio per sentirti
raccontare delle storie, poteva essere Alarico
o Girardengo, eri tu che le raccontavi, e chi ti
poteva contestare la data della dieta di
Worms? O la vera ricetta della zuppa alla
pavese? Solo una volta ti ho beccato, su un
vino di Giacomo Bologna, morto anche lui,
fegato. Anche lui ricco d’avventure e di
umanità.
Passa il tempo e si fa la conta e i debiti coi
morti sono i più difficili da pagare. Ne ho tanti,
da oggi uno in più. Per esempio, se hai bisogno chiamami, non te lo sentirò più dire. Se mi
ammalo farò come il cinghiale solengo, che si
apparta e non vuole vedere più nessuno, dicevi. Ti è andata bene, è forse l’ unica consolazione, amico, maestro, pezzo di cuore che se
ne va. Sei morto nella Bassa, vicino a dove sei
nato. Non avrei mai voluto scriverne. Dicevi
che non si deve scrivere barocco, anche se un
po’ è inevitabile, nello sport: il muscolo si gonfia
come il lessico. Come il cuore, Giovanni, come
il cuore. Anche la morte può aprire autostrade
di retorica. Ma questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel
mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci
righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un’ ora in più con gli amici
che un’ ora in meno. Meglio il fiotto che la
goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la
sincerità, anche quando può far male, che la
reticenza o la bugia. E adesso basta, tiremm
innanz, come ha detto uno della tua sponda.
Quel po’ di strada che
c’è ancora da fare la
faremo insieme, tu non ti
stancherai, neanche al
Tour. E io se sentirò un
peso al petto o un
bruciore agli occhi darò
la colpa alle sigarette, al
vino, ai chilometri. Sto
dettando dallo stadio Ta’
Qali, gioanbrerafucarlo,
siamo già partiti.
1984, Brera
in compagnia
di Ottavio
Missoni e
Andrea Cascella,
e, a destra,
nella cantina
della sua villa
a Bosisio Parini
(Como),
sul lago
di Pusiano.
ORDINE
7
2001
23 (27)
Richiesta
del presidente
dell’Ordine
dei giornalisti
della Lombardia
ai ministri
dell’Economia
e della Giustizia,
Tremonti
e Castelli
Gli iscritti agli
Ordini professionali
devono votare
in un solo giorno
convocati con avviso
per posta prioritaria
Milano, 2 luglio 2001. Regole vetuste e pesanti disciplinano
le elezioni degli Ordini e dei Collegi professionali. I sistemi
elettorali stabiliscono addirittura due votazioni in prima (con
la presenza impossibile del 50,1% degli aventi diritto al voto)
e in seconda convocazione e una terza di ballottaggio. In ogni
singola votazione le urne restano aperte soltanto per otto
ore. Questo sistema arcaico riflette le indicazioni del Decreto
legislativo luogotenenziale (Dlgslgt) 23 novembre 1944 n.
382 (firmato da Umberto di Savoia, luogotenente del Regno
d’Italia), che, all’articolo 3, prevede la convocazione delle
assemblee “mediante avviso spedito per posta”. Le leggi
successive delle singole professioni hanno aggravato le
procedure, stabilendo che la convocazione va fatta “mediante avviso per posta raccomandata”. Anche l’approvazione dei
bilanci degli Ordini e dei Collegi passa attraverso la convocazione (con raccomandata agli iscritti) di un’assemblea. Nel
corso del 2001, soltanto l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha speso £ 150 milioni per la convocazione delle due
assemblee (bilanci e votazioni).
Franco Abruzzo ha chiesto, appena rieletto, la riforma immediata di queste regole ai ministri dell’Economia e della Giustizia, Giulio Tremonti e Roberto Castelli. La convocazione delle
assemblee può avvenire con lettere spedite per posta prioritaria e si può votare, come per le politiche, in un solo giorno
per 16 ore di fila. L’istanza avanza la “richiesta di modifica
(da introdurre nella legge finanziaria per il 2002) di norme
relative agli Ordini e ai Collegi professionali, stabilendo che
la convocazione delle assemblee (sia per l’approvazione dei
bilanci e sia per il rinnovo delle cariche) avvenga in un’unica
tornata (della durata massima di 16 ore) e mediante avviso
spedito per posta prioritaria, pubblicazione sulla Gazzetta
ufficiale della Repubblica e annuncio sul più diffuso dei giornali della regione o della provincia di riferimento”. Questo il
testo della lettera, che è stata trasmessa anche al sottosegretario all’editoria Paolo Bonaiuti e al presidente del Cup (e
del Consiglio nazionale forense) Emilio Nicola Buccico:
Premessa
L’articolo 4 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della
professione giornalistica (Elezione dei Consigli dell’Ordine)
dice:
“L’assemblea per l’elezione dei membri del Consiglio deve
essere convocata almeno venti giorni prima della scadenza
del Consiglio in carica. La convocazione si effettua mediante
avviso spedito per posta raccomandata almeno quindici giorni prima a tutti gli iscritti, esclusi i sospesi dall’esercizio della
professione”. L’articolo 15 afferma che le stesse regole (avviso spedito per posta raccomandata) si applicano all’assemblea (prevista dall’articolo 13) per l’approvazione del bilancio
preventivo e del conto consuntivo, che ha luogo nel mese di
marzo di ogni anno. Il sistema elettorale prevede addirittura
due votazioni in prima (con la presenza impossibile del
50,1% degli aventi diritto al voto) e in seconda convocazione
e una terza di ballottaggio. In ogni singola votazione le urne
restano aperte soltanto per otto ore. Questo sistema arcaico
riflette le indicazioni del Dlgslgt 23 novembre 1944 n. 382,
che, all’articolo 3, prevede la convocazione delle assemblee
“mediante avviso spedito per posta”. Le leggi successive
delle singole professioni hanno aggravato le procedure,
stabilendo che la convocazione va fatta “mediante avviso per
posta raccomandata”.
La convocazione delle assemblee mediante raccomandata:
le spese 2001 dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Nel
2001 l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha affrontare le
spese “per raccomandate” sia per la convocazione dell’assemblea di marzo (approvazione dei bilanci) e sia per quella
delle assemblee di maggio/giugno (elezioni), spendendo
complessivamente oltre 150 milioni. Gli iscritti (professionisti
e pubblicisti), aventi diritto al voto, erano 15.164. Bisogna
moltiplicare tale numero per £ 5mila (il costo della singola
raccomandata) e per 2 (numero delle assemblee). L’utilizzazione della posta prioritaria avrebbe ridotto le spese
complessive a poco più di 36 milioni (£ 1.200 per ogni singola lettera). I quattrini impiegati per la convocazione della
assemblee con raccomandata mettono a dura prova gli equilibri dei bilanci dei singoli Ordini e Collegi e sottraggono risorse utilizzabili ad esempio sul fronte dell’aggiornamento
professionale.
Proposta operativa
Chiedo all’onorevole ministro dell’Economia, operando di
concerto con il ministro della Giustizia, di introdurre nella
legge finanziaria per il 2002 un emendamento, che suoni
grosso modo così:
“Le assemblee degli Ordini e dei Collegi professionali per
l’approvazione dei bilanci e per l’elezione dei membri dei
Consigli devono essere convocate almeno venti giorni
prima della scadenza dei Consigli in carica. La convocazione si effettua mediante avviso spedito per posta prioritaria
almeno quindici giorni prima a tutti gli iscritti, esclusi i
sospesi dall’esercizio della professione; mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e annuncio
sul più diffuso dei quotidiani della regione o della provincia
di riferimento.
L’avviso deve contenere l’indicazione dell’oggetto dell’adunanza, e stabilire il luogo, il giorno e le ore (non più di 16)
dell’adunanza stessa, in unica convocazione. L’assemblea è
valida qualunque sia il numero degli intervenuti”.
Confido che i Signori Ministri in indirizzo vogliano esaminare
con attenzione le proposte formulate e promuovere l’iniziativa riformatrice del Governo ai sensi dell’articolo 71 (primo
comma) della Costituzione. Restando a disposizione per un
incontro e per ogni opportuno approfondimento invio cordiali
saluti, Il presidente dell’OgL dott. Franco Abruzzo”.
Ordine/Tabloid
Elenco
speciale:
illecita
l’autocertificazione
Pubblichiamo la lettera che il 22 giugno 2001 Franco Abruzzo ha indirizzato ai presidenti dei Tribunali della Lombardia:
Segnalano a quest’Ufficio che appartenenti all’Elenco speciale dei direttori responsabili di periodici o riviste a carattere
tecnico, professionale o scientifico (articolo 28 della legge n.
69/1963) registrano presso i Tribunali della Lombardia nuove
testate, attestando l’avvenuta iscrizione a detto Albo.
Chiedo ai Signori Presidenti dei Tribunali in indirizzo di mettere in allarme le rispettive cancellerie, perché la procedura
sopra riportata è illegittima e illecita. Spetta al Consiglio
dell’Ordine certificare di volta in volta che le nuove testate
abbiano i requisiti previsti dalla legge. In sostanza non è
possibile a nessuno autocertificare l’iscrizione all’Elenco
speciale, in quanto la predetta iscrizione è valevole unicamente per una determinata testata.
Richiamo la cortese attenzione dei Signori Presidenti sul
testo dell’articolo 28 della legge (Elenchi speciali): “All’Albo
dei giornalisti sono annessi gli elenchi dei giornalisti di nazio-
24 (28)
Lettera
del presidente
dell’Ordine
ai presidenti
dei tribunali
della Lombardia
sull’Elenco
speciale
dei direttori
responsabili
di periodici
o riviste a
carattere tecnico,
professionale
o scientifico
(articolo 28 della
legge n. 69/1963)
In caso
di registrazione
di nuove testate
presso
i Tribunali
non vale
l’autocertificazione
della pregressa
iscrizione
all’Elenco
speciale per
testata diversa
nalità straniera, e di coloro che, pur non esercitando l’attività
di giornalista, assumano la qualifica di direttori responsabili
di periodici o riviste a carattere tecnico, professionale o
scientifico, esclusi quelli sportivi e cinematografici.
Quando si controverta sulla natura della pubblicazione, decide irrevocabilmente, su ricorso dell’interessato, il Consiglio
nazionale dell’Ordine”.
Dal secondo comma dell’articolo 28 si arguisce che potrebbero nascere, quindi, conflitti sulla natura delle pubblicazioni.
I giudici di questi conflitti sono in prima battuta i Consigli
regionali dell’Ordine, mentre in seconda (e irrevocabile)
battuta si pronuncia il Consiglio nazionale dell’Ordine dei
Giornalisti. Ne consegue logicamente che l’iscrizione ottenuta per la testata alfa non significa che automaticamente la
stessa sia estensibile alla testata beta. Rimane inalterato il
potere del Consiglio di valutare testata per testata se ricorrono i presupposti dell’articolo 28 della legge n. 69/1963.
Ringrazio per l’attenzione e saluto cordialmente,
dott. Franco Abruzzo
ORDINE - TABLOID
periodico ufficiale del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Mensile / Spedizione in a. p. (45%)
Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXII Numero 7, luglio-agosto 2001
Direttore responsabile
Condirettore
FRANCO ABRUZZO
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Direzione, redazione, amministrazione
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Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Franco Abruzzo,
presidente;
Brunello Tanzi,
vicepresidente;
Letizia Gonzales,
consigliere segretario;
Davide Colombo,
consigliere tesoriere.
Consiglieri:
Bruno Ambrosi,
Sergio D’Asnasch,
Liviana Nemes Fezzi,
Cosma Damiano Nigro,
Paola Pastacaldi.
Collegio dei revisori dei conti
Alberto Comuzzi,
Maurizio Michelini e
Giacinto Sarubbi
Coordinamento grafico di Ordine - Tabloid
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20063 Cernusco sul Naviglio (Mi)
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presso il Tribunale di Milano.
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Chiuso in redazione il 9 luglio 2001
ORDINE
7
2001