Romeo e Giulietta
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Romeo e Giulietta
^ William ^ Romeo e Giulietta Ma zitto! Qual luce rompe laggiù da quella finestra? Quello è l’oriente, e Giulietta è il sole! CD Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Estratto della pubblicazione ^ William ^ Opere Estratto della pubblicazione Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma. La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilievo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare, in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate (Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizione letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –, le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Manualetto shakespeariano. Estratto della pubblicazione ^ William ^ Romeo e Giulietta CD Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Estratto della pubblicazione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 1 – Romeo e Giulietta Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera © 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli ISBN 9788861261389 Proprietà letteraria riservata © 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano Titolo originale dell’opera: Romeo and Juliet Traduzione di Gabriele Baldini Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo © 2001 RCS Libri S.p.A. Titolo originale dell’opera: Shakespeare: the Invention of the Human © 1998 by Harold Bloom Traduzione di Roberta Zuppet Prima edizione digitale da edizione 2012 WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Estratto della pubblicazione PRESENTAZIONE di Harold Bloom La prima vera tragedia di Shakespeare è stata talvolta sottovalutata dai critici, forse per via della sua popolarità. Sebbene Romeo e Giulietta sia un trionfo di lirismo drammatico, il suo tragico finale fa passare in secondo piano gran parte degli altri aspetti dell’opera e ci induce a chiederci se i giovani innamorati siano o meno responsabili della loro catastrofe e in quale misura. Harold Goddard deplora il fatto che i due amanti «nati sotto cattiva stella» del Prologo «cedano il dramma agli astrologi», benché la distruzione della magnifica Giulietta sia da attribuire a ben altro che alla traiettoria delle stelle. Ahimè, cinquant’anni dopo Goddard, la tragedia viene ceduta più spesso ai commissari del sesso e del potere, che possono accusare il patriarcato, Shakespeare compreso, di aver vittimizzato Giulietta. Nel suo sobrio e originale Shakespeare’s Tragic Cosmos (1991), Thomas McAlindon fa risalire la dinamica del conflitto nel drammaturgo alle concezioni antagoniste del mondo di Eraclito ed Empedocle, perfezionate e modificate nel Racconto del cavaliere di Chaucer. Secondo Eraclito, tutto scorreva, mentre Empedocle immaginava una lotta tra la Vita e la Morte. A mio parere, Chaucer, e non Ovidio o Marlowe, fu l’antenato della più grande originalità shakespeariana, quell’invenzione dell’umano su cui concentro la mia attenzione nel presente volume. Il contesto fondamentale di Romeo e Giulietta è la versione ironica ma piacevole della religione dell’amore, forse più evidente in Troilo e Criseide che nel Racconto del cavaliere. Come avviene in Romeo e Estratto della pubblicazione Giulietta, le ironie del tempo dominano l’amore chauceriano. La natura umana di Chaucer è essenzialmente quella di Shakespeare: il legame più profondo tra i due maggiori poeti inglesi era più emotivo che intellettuale o sociopolitico. L’amore muore oppure muoiono gli amanti: sono queste le possibilità pragmatiche per i due poeti, ognuno dei quali, sul piano empirico, è saggio al di là della saggezza. Differenziandosi leggermente da Chaucer, Shakespeare si rifiutò di rappresentare la morte dell’amore anziché la morte degli amanti. Nella sua produzione vi è forse qualcuno, a parte Amleto, che si disinnamora? In ogni caso, Amleto nega di aver mai amato Ofelia, e io gli credo. Quando l’opera volge al termine, il principe danese non ama più nessuno, né la defunta Ofelia, né il padre defunto, né la defunta Gertrude né il defunto Yorick, e ci domandiamo se questo spaventoso personaggio carismatico abbia mai amato qualcuno. Se le commedie di Shakespeare avessero un atto VI, senza dubbio molti dei suoi matrimoni assomiglierebbero alla sua unione con Anne Hathaway. Naturalmente, se così la si vuole interpretare, la mia osservazione è illogica, ma gran parte del pubblico shakespeariano (allora, adesso e sempre) continua a credere che il drammaturgo abbia rappresentato solo la realtà. Il povero Falstaff non smetterà mai di amare Hal, e il cristiano Antonio si struggerà per sempre per Bassanio. Non sappiamo a chi fosse rivolto l’amore di Shakespeare, ma i Sonetti sembrano essere qualcosa più di una finzione, e, almeno per quanto riguarda questo aspetto della vita, il drammaturgo non era evidentemente freddo quanto Amleto. Nella produzione shakespeariana vi sono amanti maturi, in particolare Antonio e Cleopatra, che si tradiscono a vicenda per ragioni di Stato ma si riuniscono nel suicidio. Romeo e Antonio si uccidono perché pensano che le loro amate siano morte (Antonio compie il suicidio con la consueta goffaggine). Il matrimonio più appassionato di Shakespeare, quello dei Macbeth, rivela alcune difficoltà sessuali, come dimostrerò Estratto della pubblicazione in seguito, e si conclude nella follia e nel suicidio per la regina, sfociando nella più equivoca delle riflessioni elegiache da parte del marito usurpatore. «Eppure c’era chi amava Edmund», dice a se stesso il gelido cattivo di Re Lear quando vengono portati in scena i cadaveri di Gonerill e Regan. Le varietà dell’amore appassionato tra i sessi costituiscono una delle preoccupazioni costanti di Shakespeare; la gelosia sessuale trova i suoi artefici più impetuosi in Otello e Leonte, ma l’effettiva identità dei tormenti dell’amore e della gelosia è un’invenzione shakespeariana, che in seguito verrà affinata da Hawthorne e Proust. Più di qualsiasi altro autore, il drammaturgo ha mostrato all’Occidente le catastrofi della sessualità e ha inventato la formula secondo cui il sessuale si trasforma in erotico quando incrocia l’ombra della morte. Non poteva mancare un nobile canto shakespeariano all’erotico, un peana lirico e tragicomico che celebrasse un amore autentico e ne deplorasse l’inevitabile distruzione. Nella produzione shakespeariana e nella letteratura mondiale, Romeo e Giulietta è un’opera senza pari perché è la visione di un amore irriducibile che muore del proprio idealismo e della propria intensità. Prima di Romeo e Giulietta, vi sono alcuni esempi isolati di personaggi realistici nelle opere di Shakespeare: Launce nei Due gentiluomini di Verona, Faulconbridge il Bastardo in Re Giovanni e Riccardo II, sovrano autodistruttivo e superbo poeta metafisico. Il quartetto composto da Giulietta, Mercuzio, la Nutrice e Romeo supera in numero ed energia questi primi passi verso l’invenzione dell’umano. In quanto opera teatrale, Romeo e Giulietta è importante grazie a questi quattro personaggi creati con tanto entusiasmo. È più facile notare la vividezza di Mercuzio e della Nutrice che assorbire e sostenere la grandezza erotica di Giulietta e lo sforzo eroico che Romeo compie per imitare il sublime stato di innamoramento della giovinetta. Con un’intuizione profetica, Shakespeare sa che, se vuole che gli spettatori siano degni di comprendere Giulietta, lui dovrà guidarli oltre le ironie Estratto della pubblicazione oscene di Mercuzio, perché la sublimità della fanciulla è il dramma e garantisce la tragedia di questa tragedia. Per fare in modo che il dramma continuasse a essere quello di Giulietta e Romeo era necessario uccidere Mercuzio, l’esibizionista del testo; immaginiamo che Mercuzio sia ancora vivo negli atti IV e V, e la lotta tra la vita e la morte scomparirebbe. Investiamo troppo in Mercuzio perché lui ci protegge dal nostro fatalismo erotico; questo personaggio svolge una funzione centrale nel dramma. Lo stesso vale, in modo ancor più oscuro, per la Nutrice, che contribuisce alla catastrofe finale. La Nutrice e Mercuzio, entrambi molto amati dal pubblico, sono tuttavia dei guastafeste, in modi diversi ma complementari. A questo punto della sua carriera, può darsi che Shakespeare abbia sottovalutato le proprie capacità, perché Mercuzio e la Nutrice continuano ad affascinare il pubblico, i lettori, i registi e i critici. La loro loquacità li trasforma in precursori di Touchstone e Jacques, due ironisti sfacciati, ma anche dei cattivi Iago ed Edmund, manipolatori pericolosi ed eloquenti. 2 La grandezza di Shakespeare si manifestò innanzitutto in Pene d’amor perdute (1594-1595, rivista nel 1597) e Riccardo II (1595), esiti felicissimi rispettivamente nel campo della commedia e del dramma storico. Eppure, Romeo e Giulietta (1595-1596) li eclissa entrambi, anche se per importanza non riesco a metterla sullo stesso piano di Sogno di una notte di mezza estate, composto nello stesso periodo in cui vide la luce la prima vera tragedia shakespeariana. La perenne popolarità, ormai assurta a mito, di Romeo e Giulietta è più che giustificata, poiché il dramma è la più grande e persuasiva celebrazione dell’amore romantico nella letteratura occidentale. Quando penso alla tragedia senza doverla rileggere, spiegare ai miei studenti o assistere a una delle tante rappresentazioni insoddisfacenti, la prima cosa che ricordo non Estratto della pubblicazione è il finale tragico né l’abbagliante vividezza di Mercuzio e della Nutrice. La mia mente torna subito al centro vitale del dramma, l’atto II, scena ii, con il suo incandescente scambio di battute tra gli innamorati: Romeo. Madonna, io vi giuro sulla benedetta luna che inargenta le cime di questi melograni… Giulietta. Oh no, non giurare sulla luna, sull’incostante luna che ogni mese si muta, a meno che il tuo amore sia altrettanto mutevole. Romeo. Su che cosa devo giurare? Giulietta. Non giurare affatto: o, se vuoi, giura su te stesso, divino signore della mia idolatria, e subito ti crederò. Romeo. Se il caro bene del mio cuore… Giulietta. No, non giurare: benché tu sia la mia gioia io non riesco a gioire del patto d’amore che ci lega stasera: è troppo rapido, troppo improvviso, troppo violento, troppo simile al fulmine che passa prima che si sia potuto dire «Fulmina!». Dolcezza mia, buonanotte. Questo boccio d’amore si maturerà nel soffio dell’estate e forse, quando ci ritroveremo, sarà uno splendido fiore. Buonanotte, buonanotte! Il riposo e la pace che scenderanno nel tuo cuore siano soavi come quelli che sono nel mio petto. Romeo. Vuoi lasciarmi insoddisfatto così? Giulietta. E quale soddisfazione potresti avere stasera? Romeo. Quella di udirti ricambiare il mio voto d’amore. Giulietta. Il mio voto te l’ho dato prima che tu me l’abbia chiesto; eppure vorrei avere ancora da pronunciarlo. Romeo. Vorresti rinnegarlo? E perché, amore? Giulietta. Per essere generosa e potertelo ridare. Ma io desidero solo quello che già ho. La mia generosità è come il mare e non ha confini, e il mio amore è altrettanto profondo: ambedue sono infiniti e così più do a te più ho per me. [II.ii.107-135] La rivelazione della natura di Giulietta in questa scena può essere definita un’epifania nella religione dell’amore. Chaucer non ha scritto nulla di simile, e nemmeno Dante, poiché l’amore di Beatrice nei suoi confronti trascende la sessualità. Senza precedenti nella letteratura (anche se forse non nella vita), Giulietta non trascende l’eroina umana. È difficile dire se Shakespeare abbia reinventato la rappresentazione di una donna giovanissima (non ancora quattordicenne) e innamorata o se abbia fatto qualcosa in più. Com’è possibile prendere le distanze da Giulietta? Ci si vergogna quando si contempla la sua coscienza con ironia. Hazlitt, spinto dalla nostalgia per i suoi sogni d’amore perduti, coglie meglio di qualsiasi altro critico lo spirito di questa scena: [Shakespeare] ha basato la passione dei due amanti non sui piaceri che hanno vissuto, bensì su tutti i piaceri che non hanno vissuto. Giulietta evoca il senso di un infinito che deve ancora arrivare, e non possiamo nemmeno mettere in dubbio che la sua generosità sia «come il mare» e non abbia confini. Quando, in Come vi piace, Rosalinda ripete la medesima similitudine, lo fa con una tonalità che mette in risalto in maniera sottile l’unicità di Giulietta: Rosalinda. Cugina mia, cugina, piccola deliziosa cugina, se tu potessi vedere di quante braccia sono sprofondata nell’amore! Ma tu non puoi sondarlo: la mia passione è un fondo imperscrutabile, come la baia del Portogallo. Celia. Direi piuttosto che è senza fondo, più ci versi dentro la passione, più quella esce dall’altra parte. Rosalinda. No, a giudicare la profondità del mio amore ci vuole quel bastardaccio figlio di Venere, generato dal cervello, concepito dall’ipocondria e nato dalla follia, quel ragazzaccio cieco che inganna la vista di tutti perché lui non può vedere niente. [IV.i.195-205] Queste parole vengono pronunciate dalla donna più arguta, una che potrebbe consigliare a Romeo e Giulietta di morire «per procura» e che sa che le donne, proprio come gli uomini, muoiono «di tanto in tanto, e i vermi se li mangiano, ma non per amore». Ahimè, Romeo e Giulietta fanno eccezione e muoiono per amore anziché vivere per arguzia. Shakespeare non consente a nulla che assomigli alla suprema intelligenza di Rosalinda di interferire con l’autentico rapimento di Giulietta. Mercuzio, sempre scurrile, non riesce a oscurare le estatiche dichiarazioni della ragazza. Il testo ha già chiarito che si tratterà di una felicità molto breve. A dispetto del contesto, a dispetto persino di tutte le proprie riserve ironiche, Shakespeare fa in modo che Giulietta pronunci la più nobile dichiarazione d’amore romantico mai scritta in inglese: Giulietta. Per essere generosa e potertelo ridare. Ma io desidero solo quello che già ho. La mia generosità è come il mare e non ha confini, e il mio amore è altrettanto profondo: ambedue sono infiniti e così più do a te più ho per me. [II.ii.131-135] Dobbiamo valutare il resto dell’opera in base a questi cinque versi, mirabili per il loro giusto orgoglio e la loro intensità. Sfidano la beffarda osservazione del dottor Johnson a proposito delle stravaganze retoriche che Shakespeare usa nell’intero dramma: «La sua vena patetica è sempre contaminata da qualche inattesa depravazione». Rendendosi conto che in Romeo e Giulietta compaiono almeno centosettantacinque giochi di parole, Molly Mahood giudica la loro presenza idonea a un dramma enigmatico in cui «la morte è da lungo tempo la rivale di Romeo e alla fine conquista Giulietta», un finale azzeccato per due innamorati fatalisti. Eppure, nell’opera quasi nulla indica che Romeo e Giulietta siano innamorati della morte quanto lo Estratto della pubblicazione sono l’uno dell’altra. Shakespeare si astiene dall’accusare la litigiosa vecchia generazione, gli amanti, il fato, il tempo, il caso e gli opposti cosmologici. Con un’audacia un po’ eccessiva, Julia Kristeva scopre nel dramma «una versione discreta del giapponese L’impero dei sensi», un barocco film sadomasochista. Com’è ovvio, Shakespeare corse alcuni rischi lasciando che giudicassimo da soli la tragedia, ma il rifiuto di usurpare la libertà del pubblico gli permise poi di comporre le tragedie tarde. Credo di non essere il solo a sostenere che l’amore condiviso da Romeo e Giulietta sia la passione più sana e costruttiva regalataci dalla letteratura occidentale. Si conclude in un duplice suicidio, ma non perché uno dei due amanti insegua la morte o mescoli l’odio al desiderio. 3 Mercuzio è l’esibizionista più famigerato della produzione shakespeariana, e, secondo quanto ci dice Dryden, Shakespeare dichiarò di dover uccidere Mercuzio per paura che Mercuzio uccidesse Shakespeare e, dunque, l’intero dramma. Il dottor Johnson aveva ragione quando lodava Mercuzio per la sua arguzia, la sua allegria e il suo coraggio; forse il grande critico decise di ignorare il fatto che questo personaggio è anche scurrile, spietato e litigioso. Mercuzio ci lascia sperare in un grande ruolo comico, ma ci sconcerta con la sua straordinaria rapsodia sulla regina Mab, che a un primo esame sembra appartenere più a Sogno di una notte di mezza estate che a Romeo e Giulietta: Mercuzio. Ho capito: da te c’è stata la regina Mab. Benvolio. E chi è la regina Mab? Mercuzio. È la fata che fa sognare e non è più grande della figuretta del cammeo che sta sull’indice del consultore municipale. Viene sul naso di chi dorme, tirata da una muta di piccoli atomi; il suo cocchio ha i raggi delle ruote fatti con lunghe gambe di ragno, il mantice con ali di cavalletta, i finimenti con umidi raggi di luna; la sua frusta è un ossicino di grillo, lo sverzino un filo d’erba; il suo cocchiere è una zanzara con un mantello grigio più piccolo della metà di uno di quei bruchi tondi che si annidano nelle dita delle ragazze oziose; il cocchio, poi, è un guscio di nocciola lavorato dallo scoiattolo legnaiolo o dal vecchio tarlo i quali da tempo immemorabile sono i carrozzieri delle fate. E così, una notte dopo l’altra, la regina Mab galoppa attraverso i cervelli degli amanti e li fa sognare d’amore, sulle ginocchia dei cortigiani perché sognino di riverenze, sulle dita degli avvocati perché sognino di parcelle o sulle labbra delle dame perché sognino di baci; e intanto Mab gliele guasta di bolle, stizzita perché i troppi dolciumi han fatto loro il fiato cattivo. Alle volte galoppa sul naso di un uomo di corte che così sogna di annusare una supplica, oppure viene con una codina di porco a fare il solletico al naso di un curato perché sogni di riscuotere un’altra decima; talvolta trotta sul collo d’un soldato, e questo sogna di nemici sgozzati, di brecce, d’imboscate, di spade di Toledo, di botti fonde cinque braccia, e poi gli fa rullare un tamburo negli orecchi, lo sveglia di soprassalto e dopo avergli fatto tirare due o tre bestemmie per la paura, lo lascia riaddormentare. Questa è proprio quella Mab che di notte intreccia le criniere dei cavalli e riduce i crini fatali in peli luridi e unti che quando si strigano portano sciagura. Questa è quella strega che quando le ragazze stanno supine, Estratto della pubblicazione salta loro sulla pancia perché imparino a saper portare il loro peso. Questa è quella… [I.iv.53-94] Romeo lo interrompe, perché, com’è evidente, una volta preso il via, Mercuzio non ha alcuna intenzione di fermarsi. Questa vivace visione della regina Mab (dove «regina» significa con ogni probabilità «prostituta» e Mab si riferisce a una fata celtica che spesso si manifesta sotto forma di fuoco fatuo) è tutto fuorché inadatta al personaggio. La Mab di Mercuzio è la levatrice dei nostri sogni erotici, che ci aiuta a partorire le nostre fantasie più profonde e per gran parte della descrizione sembra possedere un fascino infantile. Poiché è uno dei principali esempi di quello che D.H. Lawrence definiva «sesso mentale», Mercuzio ci prepara alla rivelazione secondo cui Mab è il brutto sogno, l’incubo che ingravida le vergini. Romeo lo interrompe dicendo: «Parli di niente», dove il «niente» («nothing») dell’originale è solo uno dei tanti termini slang per «vagina». Shakespeare sfrutta mirabilmente l’oscena ossessività di Mercuzio in quanto riduzione della sincera esaltazione della passione da parte di Romeo e Giulietta. Poco prima del loro primo incontro, Mercuzio raggiunge l’apice della propria scurrile esuberanza: Se è cieco, l’amore non può cogliere nel segno. Adesso Romeo starà magari seduto sotto un sorbo ad augurarsi che la sua amante sia uno di quei frutti che le ragazze, quando scherzano fra loro, chiamano proprio sorbi. Oh Romeo, se fosse… Oh, se fosse ben aperta eccetera… E tu fossi una pera ben appuntita? [II.i.33-38] Mercuzio si riferisce a Rosalina, la fanciulla di cui Romeo si era invaghito prima del suo colpo di fulmine per Giulietta, Estratto della pubblicazione e che lo ricambia senza esitazioni. Secondo la tradizione, il sorbo troppo maturo assomiglia all’organo genitale femminile e il verbo inglese to meddle (da cui deriva medlar, cioè «sorbo») allude al rapporto sessuale. Le parole di Mercuzio sono il preludio antitetico a una scena che si chiude con il famoso distico di Giulietta: Buonanotte, buonanotte! Lasciarti è un dolore così dolce che vorrei dir buonanotte finché fosse giorno. Per quanto possa essere riduttivo, nei suoi momenti migliori Mercuzio è un allegro miscredente della religione dell’amore: Benvolio. Ecco Romeo, ecco Romeo. Mercuzio. Sì, ma ce n’è mezzo solo, ch’è più secco d’un’aringa. O carne, carne, come ti sei seccata. Ora discorre come un Petrarca, ma per lui Laura, in confronto a Rosalina, era una sguattera… aveva però un amante che la sapeva rendere poetica… Didone, una cialtrona; Cleopatra, una zingara; Elena ed Eor, due sgualdrinelle da strapazzo; Tisbe aveva gli occhi grigi… [II.iv.37-44] Per quanto possa essere ossessionato, Mercuzio possiede il temperamento necessario ad accettare la ferita mortale con il coraggio di qualsiasi altro personaggio shakespeariano: Romeo. Coraggio. La ferita non deve essere grave. Mercuzio. No, non è profonda come un pozzo né grande come la porta del duomo; ma basta, basterà. Cercate di me domani e mi troverete muto come un morto. Per questo mondo, te lo garantisco, sono bell’e condito! Accidenti a tutt’e due le vostre famiglie! [III.i.96-101] Ecco che cosa diventa Mercuzio nella morte: una maledizione per Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti. D’ora in avanti la tragedia precipita infatti verso la sua duplice cata- Estratto della pubblicazione strofe finale. Shakespeare è già Shakespeare nei suoi schemi sottili, anche se un po’ troppo lirico nello stile. Le due figure fatali dell’opera sono i due comici più vivaci, Mercuzio e la Nutrice. L’aggressività di Mercuzio ha spianato la strada verso la distruzione dell’amore, anche se non vi è alcun impulso negativo in questo personaggio, che muore a causa di una tragica ironia: l’intervento di Romeo nel duello con Tebaldo è dovuto all’amore per Giulietta, un sentimento di cui Mercuzio è del tutto all’oscuro. Mercuzio viene vittimizzato da quello che è il nucleo della tragedia, ma muore senza nemmeno sapere di che cosa parli Romeo e Giulietta: la tragedia del vero amore romantico. Per Mercuzio, è un’idea assurda: l’amore è un sorbo e una pera ben appuntita. Morire come martire dell’amore, per così dire, senza credere nella religione dell’amore e senza conoscere il motivo della propria morte, è un’ironia grottesca, anticipatrice delle tremende ironie che distruggeranno Romeo e Giulietta man mano che il dramma si avvicina alla sua conclusione. 4 Nonostante la sua popolarità, la Nutrice di Giulietta è nel complesso una figura molto più oscura. Come Mercuzio, è fredda sul piano interiore, anche nei confronti della ragazza che ha allevato. Il suo linguaggio ci affascina quanto quello di Mercuzio, ma Shakespeare dona a entrambi una natura nascosta, in gran parte in disaccordo con la loro esuberante personalità. L’incessante volgarità di Mercuzio è la maschera di quello che potrebbe essere un omoerotismo represso e, come la sua violenza, indica forse una fuga dall’acuta sensibilità presente nel discorso sulla regina Mab finché anch’esso si trasforma in volgarità. La Nutrice è ancora più complessa; il suo apparente vitalismo e l’impeto del suo linguaggio ci traggono in inganno nel suo primo discorso completo: Estratto della pubblicazione Prima o dopo, fra tutti i giorni dell’anno, viene l’ultimo di luglio. E in quella notte Giulietta compie quattordici anni. Susanna, Dio riposi tutte le anime cristiane, aveva la stessa età di lei. Susanna è in cielo, era troppo buona per me. Dunque, dicevo, l’ultima notte di luglio Giulietta compirà quattordici anni. Proprio così, lo giuro. Me ne rammento bene. Ora sono passati undici anni dal terremoto; e l’avevo svezzata, non me ne dimenticherò mai, per l’appunto in quel giorno. M’ero spalmate le poppe con l’assenzio e m’ero seduta al sole sotto la colombaia. Voi eravate a Mantova con il mio signore. Non è vero che ho buona memoria?… Dunque, come dicevo, quando sentì che il capezzolo sapeva d’assenzio e che era amaro, questa scemetta piantò una bizza e se la prese con la povera poppa, eccome se la prese! Ed ecco la colombaia si mise a tremare e non ci fu bisogno, v’assicuro, di dirmi d’andar via… E da allora son passati undici anni. E già stava ritta da sola e vi giuro sulla croce che avrebbe potuto correre e zampettare dappertutto. Anzi, il giorno avanti s’era fatta male alla fronte e mio marito che, Dio salvi l’anima sua, era un allegrone, se la prese in collo. «Brava», le disse «perché caschi per davanti? Quando sarai più furba, cascherai all’indietro, non è vero, Giulia?». E, Gesù la vedeva, questa streghetta smise di piangere e disse: «Sì». Guarda come son buffe certe cose! Vi garantisco che anche campassi mill’anni non me lo dimenticherei. «Non è vero, Giulia?» diceva lui; e quella scemetta si chetò e disse: «Sì». [I.iii.16-48] Il discorso è astuto, non è affatto semplice come sembra a prima vista e si ferma a un passo dalla causticità, perché nella Nutrice vi è già qualcosa di sgradevole. Come Susanna, la figlia della Nutrice, Giulietta è troppo buona per lei, e la descrizione dello svezzamento ha un che di irritante poiché non vi avvertiamo l’accento dell’amore. Shakespeare ritarda la suprema rivelazione della natura della Nutrice fino alla scena cruciale in cui la balia delude Giulietta. In questo caso, è necessario citare per intero il dialogo, perché la sorpresa di Giulietta è un effetto nuovo per Shakespeare. La Nutrice è la persona che le è stata più vicina in assoluto durante i quattordici anni della sua vita, e all’improvviso la ragazza si accorge che quelli che aveva scambiato per lealtà e affetto sono in realtà qualcos’altro. Giulietta. O Dio! balia, come si può impedirlo? mio marito è sulla terra, ma la mia fedeltà l’ho giurata al cielo. Come può quella fedeltà tornare in terra prima che mio marito me la renda dal cielo lasciando lui la terra? Confortami, consigliami. Ahimè, ahimè, come può il cielo tendere questi inganni a un piccolo essere come me? Che ne dici tu? Non hai una parola di conforto, balia? Nutrice. Romeo è esiliato e scommetto quanto vuoi che non oserà mai tornare indietro a reclamarti; e, se lo farà, dovrà farlo di nascosto. Dunque, siccome le cose stanno come stanno, mi pare che la meglio sia sposare il conte. È un magnifico gentiluomo! Romeo è un cencio in confronto a lui. Un’aquila, madonna, non ha gli occhi verdi, rapidi e lucidi come li ha Paride. Maleditemi se non è vero che voi potete essere felice di questa seconda unione perché è migliore della prima. Anche se così non fosse, il primo marito è morto, o è come se fosse morto, perché è vivo ma non vi può servire. Giulietta. Parli con il cuore? Nutrice. E con l’anima. Giulietta. Amen. Estratto della pubblicazione Nutrice. Come? Giulietta. Benissimo, mi hai confortata ottimamente. Va’ a dire alla mia signora che essendo dispiaciuta a mio padre sono andata alla cella di frate Lorenzo a confessarmi e a prendere l’assoluzione. Nutrice. Ci vado. Ecco una cosa fatta a dovere. Giulietta. Vecchia maledetta! Scellerata nemica! È maggior peccato volermi spergiura o disprezzare il mio signore con la stessa lingua con cui migliaia di volte essa lo cantò superiore a tutti? Va’, consigliera. Tu e il mio cuore sarete d’ora in poi due cose separate. Vado dal frate per conoscere il suo rimedio: se tutto fallirà, avrò pur sempre la forza di morire. [III.v.204-242] Il pungente: «Come può il cielo tendere questi inganni a un piccolo essere come me?» trova risposta nello sconcertante «conforto» della Nutrice: «È migliore della prima. Anche se così non fosse, il primo marito è morto, o è come se fosse morto». L’argomentazione della Nutrice è valida se l’interesse è l’unica cosa che conta; poiché Giulietta è innamorata, avvertiamo invece un violento rifiuto nei confronti della Nutrice, un rifiuto che passa dall’eloquente «aAmen» all’asciutto: «Benissimo, mi hai confortata ottimamente». La Nutrice è davvero una «Vecchia maledetta! Scellerata nemica!», e non ne sentiremo più parlare finché Giulietta «morirà» la sua prima morte della tragedia. Come Mercuzio, alla fine la Nutrice ci induce a diffidare di qualsiasi valore presente nel dramma ad eccezione del reciproco impegno degli innamorati. 5 Giulietta, e non Romeo o il Bruto di Giulio Cesare, muore la sua seconda morte in una prefigurazione del carismatico splendore di Amleto. Benché cambi molto grazie all’influenza Estratto della pubblicazione