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L’ASTUZIA DEL BRICOLEUR di Valerio Palmieri Complessa, articolata, apparentemente contraddittoria la parabola creativa descritta da Alessandro Anselmi nella vicenda architettonica italiana degli ultimi quarant'anni, eppure, a leggerla con più attenzione, denotata da una identità a se stessa chiaramente definita. Pervasa da una tensione all’organicità, alla classicità che cela però al suo interno, come in un gioco del rovescio, una inquietudine oscura, espressionista, fondamentalmente anticlassica, per certi aspetti barocca. È in questa ambivalenza, in questa ciclica alternanza di pulsioni che si snoda l'itinerario anselmiano dai suoi esordi sino alle prove progettuali più recenti. Un’ambivalenza che non va letta nel senso di un eclettismo, ma piuttosto in quello di un sincretismo che rende autonomo e irriducibile a contesti e scuole lo sviluppo di questo percorso creativo. Un sincretismo capace di tenere assieme, attraverso una logica ferrea, spinte contrastanti tra loro. E se è vero che Anselmi ha in più occasioni rifiutato la sua collocazione nell'ambito di una non meglio identificata "scuola romana", è anche vero che questa capacità di conciliazione degli opposti sembra essere il tratto caratteristico che contraddistingue quella galassia di personalità uniche, irripetibili delle quali è costellata la vicenda architettonica romana. Una linea rossa che partendo idealmente da Bramante (da sempre ritenuto da Anselmi fra i più grandi), passa per il Cavalier Bernini, e nel Novecento per figure del calibro di Ridolfi e Moretti. Una linea nella quale il pensiero sull'architettura si nutre di quell'enorme sostrato rappresentato dalla stratificazione di soluzioni architettoniche che costruisce "fisicamente" Roma, e nella quale, per questa ragione, la riflessione sull'oggetto architettonico non può darsi come processo scisso da un pensiero sulla città. Dove la lucida riflessione sull'organismo architettonico può servirsi, trasfigurandole, di tutte le immagini consegnate dalla storia, proprio perché queste ultime sono soluzioni di specifici problemi architettonici. Ecco allora disponibili come materiale per il progetto tanto la ricerca sul telaio strutturale di Terragni e ancor più di Ridolfi, esplicitazione razionale e poetica della dialettica struttura - forma, quanto la riflessione morettiana sulla modanatura, sulla articolazione plastica dell'organismo sotto la luce. Un itinerario che alla metà degli anni Settanta trova un punto di svolta nel momento in cui tramonta, con il progressivo esaurimento dell'esperienza del GRAU, la speranza di riuscire a ricomporre organicamente una unità del sapere e delle arti figurative. Rispetto alle formulazioni del gruppo nel quale Anselmi ha esordito sulla ribalta della scena architettonica italiana un dato rimane centrale nel suo pensiero: il problema dell'architettura come espressione artistica. È come se in questa fase rimanendo fisso il telos che aveva animato l'operato avanguardistico del GRAU, cambiassero le strategie per il suo raggiungimento. Un cambiamento dettato da un’apertura alla complessità del reale, assente nei progetti-teorema elaborati dal gruppo durante il decennio precedente. Sebbene, in filigrana, anche in un progetto assertivo quale quello per il palazzo dello Sport di Firenze (1965), all'interno di una forma planimetrica chiusa, sembri celarsi, come contraddizione sommersa, un assemblaggio di frammenti estraniati degno del Campo Marzio piranesiano. È con i progetti per il Mercato dei Fiori di San Remo del 1973-74 (gli ultimi elaborati dall’architetto come membro del GRAU), ancora carichi di un complesso apparato simbolico, incapace di trasmutarsi pienamente in forme architettoniche, che la fissità modellistica di molte prove precedenti inizia a sciogliersi. Anselmi intuisce in anticipo, rispetto al clima maturato nel dibattito architettonico italiano che l’ostentata rigidità delle leggi di aggregazione dello spazio, necessaria sino ad allora nella lotta contro lo sciatto empirismo tardo moderno inizia a perdere di senso. Un’analisi lucida del contesto culturale nel quale devono muoversi le logiche del progetto lo porta ad imboccare un percorso controcorrente. Si può iniziare a corrompere i modelli, si può aprire il progetto alla piena complessità del reale perché la battaglia per il dialogo con la storia è ormai vinta. E la storia si materializza nel contesto, nel paesaggio, inteso come un palinsesto di tracce, “di ragionamenti persi, babele di lacerti nell'oceano della memoria”, privo di senso in sé, al quale il progetto deve tentare di restituire un senso, un ordine. Istituire un rapporto tra storia e progetto, calarsi nel contesto significa appunto corrompere i modelli, accettare pienamente la condizione del bricoleur, di colui che si fa carico, come ci ricorda Lévi-Strauss, di lavorare con una "collezione di avanzi degli sforzi umani". Il confronto con il contesto e, in termini più estensivi, con il paesaggio implica che il progetto divenga una macchina generatrice di senso, un meccanismo interstiziale, che adattandosi al luogo sa selezionarne e interpretarne le tracce. Ecco perché da questo momento in poi il catalogo dei progetti anselmiani allinea una lunga serie di aggregazioni complesse di frammenti tenuti insieme, in un equilibrio instabile, da un vuoto geometricamente misurato. Se la geometria non da più le certezze aggregative perseguite negli anni del GRAU, essa rimane comunque, attraverso le tecniche della rappresentazione prospettica, lo strumento fondamentale di misura dello sguardo, di disegno del vuoto. E se il luogo è l'orizzonte all'interno del quale il progetto acquisisce un senso, una ragion d'essere (più volte Anselmi ha confessato di non saper immaginare o disegnare un'architettura in termini astratti, ma solo in funzione di uno specifico problema progettuale applicato a uno specifico luogo), la strumentazione per la sua lettura e per la sua interpretazione va resa sofisticata ed efficiente, nutrendola di procedure mutuate dalle altre arti figurative. Procedure solo apparentemente estranee all’ambito disciplinare, in realtà strettamente funzionali ad ampliare la sensibilità necessaria per comprendere la complessa forma del contesto contemporaneo. Le esperienze di Klee, di Kandiskij, di De Stijl, tanto quanto quelle di Burri, di Vedova, di Fautrier, o della Land Art, divengono per Anselmi un patrimonio estetico indispensabile per interpretare quella congerie di segni, geometrie, materie e reperti, incoerentemente giustapposti a costituire il luogo contemporaneo. Ma più in generale, in una logica nella quale il progetto è il risultato di un confronto dialettico tra forma del luogo e forma dell’architettura, tutto il patrimonio figurativo moderno, (nel quale la geometria è stata liberata dall’obbligo di significare altro da sé) diviene strumento di conoscenza necessario per raggiungere una definizione della forma storicamente pertinente con il proprio tempo. È in questo articolato orizzonte concettuale che si colloca la produzione progettuale anselmiana degli ultimi venticinque anni. Un lavoro che a partire dal progetto per la chiesa di Santomenna (1980) e in modo ancora più netto dal progetto per la casa della cultura di Chambery le Haut (1982) si caratterizza, come un percorso che ritorna circolarmente su sé stesso a reinterpretare, ogni volta con un punto di vista diverso ed eccentrico, i temi del vuoto e del frammento, a rileggere degli archetipi ricorrenti. In fondo il teatro di Chambery altro non è se non un pezzo di paesaggio naturale manipolato dall'artificio, una "architettura-collina" nella quale il suolo, attraverso la sua geometrizzazione, trapassa nella sfera dell'architettura. Così come architetture-collina sono quelle progettate quasi venti anni dopo dall’architetto romano per il municipio di Fiumicino, per il palazzo dei congressi dell'EUR, per la facoltà di Ingegneria di Bologna, per l'ex area Michelin a Trento o, infine, per l'edificio polifunzionale al Polo tecnologico tiburtino di Roma. Architetture concettualmente semi ipogee, capaci di assolvere anche al ruolo di piazza urbana. Ma Chambery è anche uno spazio vuoto, prospetticamente misurato. Una maestosa scenografia aperta sul paesaggio, nella quale convivono frammenti di facciate auliche e di telai strutturali moderni, evocazioni del Serlio e di Louis Kahn, secondo una prassi inclusiva che torna, in termini poco diversi, nei progetti delle abitazioni temporanee a Testaccio (1984), del municipio di Rezé les Nantes (1986), del padiglione Italia alla Biennale di Venezia (1988) e del più recente palazzo di Giustizia di Siena (2000). Progetti, questi, tutti caratterizzati da fenditure, da scalee che li attraversano puntando verso un orizzonte lontano. Rampe che sezionano i volumi edilizi e risucchiano all’interno dei progetti la città e le sue storie, trasformandoli in “scene urbane”, parti di una più grande “scena urbana”. Riletture, queste, degli archetipi romani di piazza di Spagna e della rampa di piazza del Campidoglio, architetture-natura che rimandano, nella loro essenzialità alla cavea del teatro greco. Ed è ancora il tema dello spazio vuoto tra frammenti a dare il senso di progetti come quello per il municipio di Saint Denis (1985), per la facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro (1988), per il quartiere di Angers (1989) e per il centro commerciale di Sotteville-les-Rouen (1993). Un tema ricorrente nell’itinerario anselmiano, sin dalle piccole realizzazioni di Santa Severina e di Altilia, risalenti alla metà degli anni Settanta, che trova però una declinazione inedita nella sistemazione di piazza dei Navigatori a Roma (2000), dove è un edificio unitario a contorcersi e a deformarsi per avvolgere nelle proprie spire lo spazio della città. Un percorso circolare, si è detto, costellato di progetti complessi, poetici, leggibili il più delle volte attraverso categorie interpretative differenti, proprio per la loro stratificazione polisensa. Progetti che si fanno carico di esprimere, come ogni seria operazione estetica, un giudizio intellettuale sul presente. Ma soprattutto che tentano costantemente di spostare i “confini” della forma architettonica, senza inibirsi la capacità di comunicare. Di nascondere quindi il massimo dell’artificio sotto le spoglie di una apparente naturalezza. In fondo in questo consiste l'astuzia del bricoleur.