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MEMORIA DEL FUTURO.
CONSIDERAZIONI SUL LAVORO DI ALESSANDRO ANSELMI
di Marco Mulazzani
«Ridolfi è architetto “costruttore” per eccellenza, anti-ideologo per formazione personale, il
suo essere è tutto nello spazio realizzato, e il suo rammarico più profondo è per i progetti –
bellissimi – non costruiti». Con queste parole, nel 1977, Alessandro Anselmi delineava
sulle pagine di «Controspazio» un efficace ritratto dell’anziano maestro, respingendo ogni
prospettiva critica riduttiva del fare ridolfiano e sottolineando la sua innegabile “presenza”
negli esiti di una ricerca – «di grande portata storica» – intorno a un nuovo rapporto tra
struttura e forma. L’interesse di Anselmi per Ridolfi è, almeno in parte, riconducibile alla
sua “militanza” nel GRAU.
I giovani architetti romani che, intorno alla metà degli anni Sessanta, contestavano i
modelli storicisti ancora proposti nell’università e, simmetricamente, rifiutavano la vulgata
tardomoderna dilagante nella professione, guardavano infatti a Kahn e Venturi (e forse,
nascostamente, a Moretti), ma “parlavano” anche con Ridolfi, ravvisando nel lavoro di
quest’ultimo un’affermazione tra le più concrete di quell’autonomia disciplinare da loro
stessi rivendicata. Tuttavia, nei progetti elaborati dal GRAU in quegli stessi anni, il
recupero di un rapporto tra “storia” e “vita” stenta a realizzarsi.
L’eccessiva programmaticità con cui viene perseguita “l’unità dei processi conoscitivi” si
traduce in una forma che – come scriveva Tafuri a proposito del progetto per la camera
dei deputati (1967) – «si ritira nel suo mondo e non colloquia con “l’altro”». Viceversa, ciò
che Anselmi riconosce nelle costruzioni di Ridolfi è non solo l’esistenza di una gerarchia
dialettica tra “segni” differenti, quali il telaio e le superfici di tamponamento, ma anche una
ritrovata identità simbolica tra questi e i materiali che li rendono cosa concreta; al punto
che le masse edilizie non solo nascono come «un’unità», ma come «unità che respira […]
e proprio attraverso ciò si definisce in architettura». Ci sembra insomma che il magistero
costruttivo ridolfiano, la sua capacità di rinnovare il colloquio tra Logos ed Eros – giusto il
titolo dell’articolo in questione – rappresenti per Anselmi un passaggio ineludibile da cui
muovere per ricondurre la sua architettura nel “mondo”.
D’altro canto, nel 1977 l’esperienza collettiva del GRAU è ormai esaurita. Non è forse solo
un caso che, nel numero di «Controspazio» precedente quello con l’articolo su Ridolfi,
Anselmi proponga una prima “storicizzazione” – Dieci anni dopo – dei presupposti
progettuali del cimitero di Parabita (1967 sgg). Parimenti significativo è il fatto che, nel
1980, alla grande “tomba” realizzata (non senza ironia) lungo la “Strada Novissima”
dell’Arsenale veneziano, si accompagni un documento che annovera, tra gli “eccessi”
compiuti dal GRAU nei suoi anni “ruggenti”, il distacco programmatico tra gli organismi
architettonici e il loro immediato intorno fisico.
A partire dalla metà degli anni Settanta, l’impegno di Anselmi è dunque volto alla
costruzione di uno spazio architettonico caratterizzato da una sempre maggior “conprensione” della complessità (e delle contraddizioni) del reale. Il tratto che (tutt’ora) lo
contraddistingue, è la capacità di penetrare a fondo le questioni specifiche del progetto e
della costruzione e, al contempo, di sottoporre a una continua elaborazione teorica i temi
affrontati. Testimonianza di quest’ultima attitudine sono gli scritti che accompagnano i
progetti – o che non di rado, significativamente, li riconsiderano a distanza di qualche
tempo: una sorta di carta nautica, sulla quale tracciare la rotta e verificare periodicamente
la posizione di un viaggio, avventuroso e problematico per definizione, qual è quello
dell’architettura.
Nel decennio 1975-1985, i progetti e gli scritti di Anselmi si offrono come un corpus
fittamente intrecciato: alla crescente e consapevole concrezione di segni che caratterizza i
primi corrisponde, nei secondi, la delineazione di nuovi orizzonti di ricerca. Si consideri, ad
esempio, la figura del “muro” – uno dei cardini compositivi, come è stato osservato, dei
progetti di Anselmi. Dalle proposte per il mercato dei fiori a Sanremo (1973-74) a quella
per il Municipio di Saint-Denis (1985), attraverso realizzazioni e progetti quali, tra gli altri,
la serie di piccoli interventi a Santa Severina (1974-80), le chiese di Santomenna (198183), il teatro di Chambéry-le-Haut (1982), le residenze al Testaccio (1984), i “muri” di
Anselmi si dilatano e si deformano, si “sporcano” di vita divenendo, con evidenza sempre
maggiore, frammenti architettonici tridimensionali, “abitabili” o svuotati, in guisa di rovine.
Le geometrie ad essi sottese – non più derivate, come nel cimitero di Parabita, da
“funzioni logiche” stabilite a priori ed esclusivamente interne al progetto – vedono
intaccarsi le loro perfette corrispondenze, appaiono come immerse in una sorta di reticolo
di relazioni lasciato sempre più “aperto”, costituiscono una risposta a condizioni “estratte”
dalla topografia dei luoghi. Negli scritti, l’insistita riflessione intorno al tema della storia –
percepita nella sua essenza di processo continuo di corruzione e rinascita – induce a
volgere lo sguardo dall’esattezza dell’archetipo ai lacerti dispersi, frutto della
decomposizione di modelli plurimi, ai quali il progetto – definito da Anselmi, nel 1979,
come un «atto di strutturazione tendenziosa» – può e deve dare un ordine. Un ruolo
cruciale assume, in questa fase della ricerca, la considerazione del frammento
archeologico.
Nel 1981, introducendo i progetti per Santa Severina, Anselmi riconosceva esplicitamente
il fascino esercitato su di lui «dall’immagine delle rovine delle fabbriche antiche e dalle
situazioni spaziali che si creano nei recinti archeologici»; tali luoghi, al centro della città e
tuttavia così distanti dalla vita quotidiana che li circonda, «sembrano riproporre un
improbabile nuovo rapporto con la natura e, in fondo, con la storia stessa». Si tratta di
riflessioni che mostrano evidenti affinità con il pensiero kahniano. E in effetti, più che nelle
ossessive concatenazioni geometriche dei progetti degli anni Sessanta, ove appare filtrata
da una fredda luce ledouxiana, la lezione del maestro di Philadelphia sembra imprimere
più profondamente alcuni dei progetti di Santa Severina; ma soprattutto, ci sembra
risuonare nella percezione del mistero racchiuso dalla rovina. Il rudere, il frammento,
scrive infatti Anselmi, «segna il limite delle possibilità conoscitive» ed è, al contempo, una
«porta» verso un mondo sconosciuto, ove si annulla ogni gerarchia temporale e passato e
futuro coincidono.
Di questo cortocircuito temporale, i progetti per Chambéry-le-Haut e per il Testaccio
costituiscono esempi tra i più significativi. Nel primo, la scena teatrale esterna – un
“rudere” in cui appaiono contratte tracce di tempi diversi – si propone anche come
scenografia urbana, fondale del parco antistante il teatro. Nel secondo, la tessitura delle
antiche mura urbiche e i telai “razionalisti”, i ritmi ampi delle bucature dei grandi palazzi
romani e le finestre a nastro, le scenografiche gradinate barocche e il lessico modernista
delle “palazzine” degli anni Cinquanta sono considerati, indifferentemente, alla stregua di
materiali archeologici: “memorie del futuro”, che danno vita a un’immagine nuova e del
tutto originale. Il vero fuoco di questo progetto è però nascosto nel “vuoto” tra i due corpi
paralleli, dove una lunghissima scala triangolare, messa in prospettiva, si incunea
deformando uno dei fronti interni in una linea spezzata. La deformazione della scena
prospettica saggiata nella cavea gradonata di Chambéry si arricchisce così di un’ulteriore
connotazione: la messa in tensione dello spazio compreso tra gli oggetti.
Con il progetto dell’edificio al Testaccio, Anselmi imprime una nuova direzione alle
esplorazioni già condotte intorno al tema di un’architettura concepita non più come oggetto
ideale, isolato e “autosufficiente”, bensì nel contesto di una “scena urbana”; una ricerca
che, passando per il progetto del municipio di Saint-Denis, troverà un emblematico punto
di flesso nel complesso di Rezé-le-Nantes (1986-89). In tal senso, pur essendo difficile
individuare cesure nette nel lavoro di Anselmi, il progetto per Saint-Denis può essere
assunto come l’ultima sapiente prova di un comporre per elementi posti in reciproca
tensione. Le preesistenze – il municipio ottocentesco e la traccia dell’antica strada
maestra, il frammento della chiesa medievale e il volume edilizio frutto di una recente
speculazione – e la nuova architettura, sono infatti immersi in una relazione “aperta”, nella
quale ognuno conserva il proprio spazio e vede esaltata la propria diversa natura. Non
così a Rezé, dove il progetto è imperniato sul “vuoto”; o, più precisamente, sulla sua
strutturazione attraverso la creazione di un percorso orientato verso un fuoco che si trova
all’esterno del progetto. Ciò può forse rendere ragione del fatto che il “muro” del municipio,
il principale segno costruito, si caratterizza qui essenzialmente come una superficie priva
di profondità propria: una quinta deformata, la cui sagoma, di nuovo, è “messa in
prospettiva”, e alla quale è imposta un’opportuna curvatura che accompagna lo sguardo
verso l’Unité realizzata da Le Corbusier sulla collina. Una quinta che, osservata dal lato
opposto, all’interno del recinto municipale, scompone in unità infinitesimali, attraverso i
brise-soleil cementizi, l’informe paesaggio della periferia circostante. Non diversamente, è
ancora una superficie deformata il segno strutturante la banlieu di Sotteville-les-Rouen
(1993-95): una grande volta metallica ribassata e sospesa al di sopra dei volumi a
destinazione commerciale, cui è demandato il compito di ordinare, esplicitandone le
diverse direttrici, lo spazio altrimenti non misurabile in cui è collocato il terminal del metrò
di Rouen. Surreale arcosolio, la volta è definitivamente straniata dal suo archetipo
architettonico dai sottili e lunghi coni dei corpi illuminanti confitti sull’estradosso della
superfici e dalla sagoma inclinata e rastremata dell’asta portariflettori – sorta di bizzarro
origami metallico – che emerge da una delle estremità, ammiccando allusivamente alla
vastità ed eterogeneità dei territori “altri” dai quali può scaturire il nucleo generativo della
forma.
Straniamento e deformazione, s’è visto, sono categorie operative che affiorano
continuamente, dai primi anni Ottanta, nel lavoro di Anselmi. Esse sono infatti il portato di
una riflessione volta a cercare nelle pieghe del “moderno” – ormai definitivamente
annoverato tra le testimonianze archeologiche della storia e, dunque, anch’esso soggetto
all’azione vivificante della memoria – quello che si potrebbe definire come il “segreto della
maschera”, ovverosia la libertà di accettare sistemi di segni contrapposti, stringendoli in un
rapporto tale da produrre una tensione ambigua tra “essere” e “sembrare”, pur senza
giungere mai alla loro completa separazione. È in forza di ciò che le figure decisamente
“contemporanee” che caratterizzano le opere e i progetti più recenti di Anselmi, rivelano
una maggior prossimità con le esperienze da lui precedentemente compiute, piuttosto che
con le “maschere” che riscuotono attualmente il favore di una nuova Koiné internazionale
dell’architettura.
Anello fondamentale di questa nuova catena, destinata a svolgersi in progetti quali, tra gli
altri, il Centro congressi Italia all’Eur (1998) o il Tecnopolo al Tiburtino (2003), è il
Municipio di Fiumicino, la cui elaborazione prende avvio nel 1995, all’indomani del
completamento di Sotteville-les-Rouen. Fiumicino vive, infatti, di molteplici ambiguità.
Innanzi tutto, non è “un” edificio, ma un paesaggio architettonico bifronte, costituito da
frammenti che sembrano ora sostenere ora essere generati da un’ampia “piazza”. La
quale assume le sembianze di un piano continuo leggermente inclinato che,
repentinamente, s’innalza prima a formare una gradonata a ventaglio, poi si trasforma in
“facciata” e infine, “appoggiandosi” sopra i due volumi costruiti, si protende verso il cielo.
Indubbiamente, la volontà di Anselmi è quella di trasformare – come in un origami? – il
piano di un foglio di carta in una superficie resa espressiva dalla sua conformazione
articolata. Tuttavia, così come osservando alcuni schizzi di Anselmi si coglie l’origine di
quel piano inclinato, prosecuzione delle banchine del Tevere che scorre al di là della
strada, percorrendolo sino alla sommità, quella che potrebbe sembrare un’operazione
arbitraria rivela la sua ragione profonda: il rapporto che si stabilisce con l’eterogeneo
paesaggio circostante. Con ogni evidenza, un edificio isolato, ancorché di grande qualità,
si sarebbe risolto in un mero incremento dell’entropia di quei luoghi.
Le problematiche da cui parte il processo progettuale del municipio di Fiumicino ci
sembrano dunque analoghe a quelle di Rezé e di Sotteville con la differenza che, in
questo caso, la volontà di conferire struttura e direzione al vuoto suburbano ha generato
un terreno palesemente artificiale. Una superficie leggera e astratta nella concezione, ma
sostanziata dall’impiego di materici elementi in cotto. Un manto indifferente a ciò che
riveste, ma che allude contemporaneamente, con divertita citazione, ad uno dei dogmi
della modernità, vale a dire l’identità di struttura e forma, nella corrugata superficie a
ventaglio il cui intradosso corrisponde alla copertura rigata della sala consiliare. Un segno
che riassume sinteticamente il progetto, ma si libera dall’obbligo di fornire una
rappresentazione univoca dei suoi complessi contenuti. Una figura polisemica, in cui
confluiscono molteplici radici. Memoria del futuro.