Ecco i nodi da sciogliere per salvare l`euro

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Ecco i nodi da sciogliere per salvare l`euro
Ecco i nodi da sciogliere per salvare l’euro
di Federico Rampini, da Repubblica - I mercati non ci hanno creduto, riportando alle stelle i
tassi d’interesse sui titoli di Stato spagnoli e italiani? Perché? Quali promesse non sono state
mantenute? Quali sono i veri nodi che fanno dell’eurozona un malato grave, capace di
contagiare il mondo intero? Si può curare un problema strutturale – come la perdita di
competitività dell’Italia verso la Germania – con escamotage d’ingegneria finanziaria? E che
accade se la recessione dell’eurozona coinvolge pesantemente Stati Uniti e Cina?
LA FINTA
RESA DELLA MERKEL
Non solo i media italiani – che hanno l’attenuante dell’amor di patria – ma quelli del mondo
intero avevano preso per buona la versione iniziale: “Mario Monti piega Angela Merkel”.
Sembrava che il 29 giugno un inedito fronte italo-franco- spagnolo avesse messo la Germania
con le spalle al muro portano a casa due risultati importanti. Uno “scudo anti-spread”: la facoltà
di usare il fondo salva-Stati per interventi sistematici di acquisto di bond spagnoli e italiani, con
l’obiettivo di fissare un tetto massimo allo spread, limitando così il costo di rifinanziamento del
debito pubblico nei due paesi in questione. Il secondo risultato era la ricapitalizzazione diretta
delle banche spagnole, sempre da parte del fondo salva-Stati, senza far transitare gli aiuti dalle
casse del Tesoro di Madrid. Onde evitare di gonfiare ulteriormente il debito pubblico spagnolo. I
mercati hanno capito per primi che le due “vittorie” erano fasulle. Un po’ perché la Merkel ha
giocato una seconda partita su un campo diverso: mandando avanti la Finlandia e l’Olanda con
minacce di veti sull’accordo del 29. Un po’ perché la cancelliera
rischia di perdere pezzi della sua coalizione: la Csu bavarese non ci sta proprio ad aiutare il
Sud dell’eurozona così generosamente. E un po’ per dei limiti tecnici che erano stati
sottovalutati all’inizio. Da qui deve ripartire l’Ecofin di oggi.
SCUDO ANTI-SPREAD
Monti aveva messo le mani avanti, subito: “Non ne avremo bisogno, non lo useremo”. Ma dal
29 i tassi italiani hanno ricominciato la loro escalation, i mercati li spingono sempre più su,
mentre quelli spagnoli sono di nuovo vicini al 6%. Il 7% è considerato la soglia di rischio, quella
dove il rifinanziamento del debito pubblico può diventare insostenibile. Cos’è accaduto? Gli
investitori internazionali hanno fatto due conti. Anche ammesso che si superi il veto della
Finlandia, anche ammesso che l’attuale fondo salva-Stati venga usato per comprare i nostri
titoli, di “risorse vere” a disposizione ha grosso modo 100 miliardi di euro: un’inezia rispetto
all’entità del debito pubblico italiano e spagnolo. L’unica “potenza di fuoco” davvero in grado di
arginare la sfiducia, di spegnere per sempre la speculazione, è la “soluzione svizzera”. Cioè la
potenza messa in campo dalla banca centrale elvetica, quando ha deciso di mettere un tetto
alla rivalutazione del franco: si è detta disposta a stampare moneta in quantità illimitata,
vendendo franchi svizzeri a volontà. Se la Bce annunciasse che stamperà euro senza limiti per
comprare Bot italiani e bond spagnoli, nessuno potrebbe contrastarla. Ma la Bce non può farlo,
è contro regole e statuti attuali, e una revisione della sua Costituzione dovrebbe passare da
Berlino. Impossibile allo stato attuale.
AIUTI ALLE BANCHE SPAGNOLE
“E’ essenziale spezzare il circolo vizioso tra debiti bancari e debiti sovrani”. Lo dice la
Commissione europea, lo ripete il Fondo monetario internazionale, sono d’accordo Monti e
François Hollande. Se per salvare le banche spagnole i 100 miliardi di aiuti promessi
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dall’eurozona vengono prima prestati al governo di Mariano Rajoy, l’impatto contabile è
automatico e disastroso: un balzo del debito pubblico spagnolo che rende pressoché inevitabile
il defaualt della nazione, e chiama in causa un salvataggio dai costi multipli rispetto a Grecia,
Irlanda, Portogallo. Ma la Merkel ha posto una condizione: gli aiuti diretti dall’Europa alle
banche in crisi si faranno solo quando avremo costruito una vera unione bancaria, con una
vigilanza comune. Ha ragione? Certo è logico, quando si chiede a un paese come la Germania
di salvare banche altrui, che possa mettere il naso sul modo in cui sono gestite. Le casse di
risparmio spagnole sono state uno strumento di prestiti clientelari, hanno elargito fondi per
comprare il consenso a favore della classe politica locale. Anche certe banche regionali
tedesche non sono state amministrate in maniera efficiente né cristallina. Ma per costruire una
vigilanza europea seria e severa, bisognerà “passare sui cadaveri” (figurativamente) di tante
authority nazionali che hanno boicottato i tentativi precedenti. Se ne parlerà nel 2013, dicono a
Bruxelles. Intanto le banche spagnole vanno salvate subito, entro pochi mesi.
PERDITA DI COMPETITIVITÀ: LA MALATTIA STRUTTURALE
La “spending review” in atto in Italia non ha spostato di un millimetro il giudizio dei mercati su di
noi. Tantomeno i nuovi sacrifici annunciati in Spagna, dove tutte le aziende municipalizzate
vengono riportate sotto un controllo stringente con l’obbligo di pareggio di bilancio. Nessuna di
queste manovre di austerità aggredisce il nodo di fondo. Che si riassume in un dato dell’Ocse:
dalla nascita dell’euro, l’Italia ha perso il 30% di competitività verso la Germania. I nostri costi
sono saliti in modo tale da renderci sistematicamente perdenti, in ogni settore in cui dobbiamo
confrontarci con la concorrenza degli esportatori tedeschi. Non è un problema limitato a noi, ai
greci o agli spagnoli. Ieri le imprese francesi hanno lanciato un drammatico appello a Hollande
chiedendogli una “curashock per la competitività”: anche loro sono allo stremo, nei confronti del
made in Germany.
COMPETITIVITÀ SENZA SVALUTAZIONE?
La via tradizionale per riaggiustare i divari di competitività è la svalutazione della moneta.
L’Italia lo fece, le ultime due volte, nel 1992 e nel 1995 in modo massiccio. Più di recente ha
potuto farlo l’Islanda. L’isolotto nordico era stato tramortito dalla crisi del 2008. Oggi ha un Pil
che cresce del 2,4%, più di quello tedesco, e una disoccupazione scesa al 6%, meno di quella
tedesca. In mezzo c’è stata una svalutazione del 50%, il fallimento di varie banche, e una
restrizione dei movimenti di capitali. Tutte misure precluse all’Italia o alla Spagna,
dall’appartenenza all’eurozona. Non potendo svalutare la moneta, l’altra strada per recuperare
competitività è la “svalutazione interna”. Cioè una deflazione di tutti i costi nazionali: salari,
tariffe, prezzi. Auto-riducendo il proprio tenore di vita, e il proprio potere d’acquisto, si può
ottenere lo stesso risultato di una svalutazione: i prodotti nazionali tornano ad essere
competitivi. La Germania fece una – moderata – deflazione interna dopo gli anni Novanta per
riassorbire i costi della riunificazione, con la rinuncia ad aumenti salariali. Ma una deflazione del
30% è realistica, senza che l’impoverimento provochi una tensione sociale insostenibile?
DEMOCRAZIE IN PERICOLO?
Che la crisi possa dilaniare il tessuto civile, spezzare il patto sociale, destabilizzare le
democrazie, non è un’ipotesi remota legata ai paragoni storici con gli anni Trenta. E’ quello che
sta accadendo sotto i nostri occhi, alla periferia dell’Europa. Prima l’Ungheria, oggi la Romania,
hanno registrato un arretramento dei diritti democratici. Gli autoritarismi che avanzano nelle
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aree dove la tradizione democratica è più debole, sono un campanello d’allarme.
Paradossalemte sembra preoccuparsene più l’America di Barack Obama dell’Unione europea.
DEFLAZIONE SENZA CRESCITA
Il percorso della “svalutazione interna”, cioè l’autoriduzione dei salari per recuperare
competitività, è meno doloroso se viene trainato da mercati esteri in forte crescita. La moderata
deflazione tedesca attraverso il controllo dei salari, praticata soprattutto durante il governo
Schroeder, fu facilitata dal fatto che coincideva con un periodo di crescita globale: il traino
esterno consentì di attutire i costi sociali. Ma oggi la recessione che attanaglia nell’eurozona
contagia il mondo intero. Gli Stati Uniti sono incappati in un intero trimestre di “crescita
anemica”: è di venerdì il dato deludente di soli 80.000 posti di lavoro creati a giugno. A Pechino
il premier Wen Jiabao denuncia “forti pressioni negative sull’economia cinese”, il più grave
segnale di allarme per il dragone asiatico dal 2008. Wen chiama in causa esplicitamente
l’euro-recessione. E’ l’effetto moltiplicatore keynesiano alla rovescia: noi importiamo meno da
loro, di conseguenza loro hanno meno reddito per importare da noi.
SECESSIONE TEDESCA?
L’idea che la Germania “sarà costretta a salvarci comunque” è un luogo comune diffuso a
Roma, Atene, Madrid. I tedeschi hanno troppo da perdere dalla rovina dei loro mercati di
sbocco? Ma Alessandro Penati sabato su queste colonne ha dimostrato che è già in atto una
“secessione” tedesca, una ridislocazione dei flussi dell’export verso l’area nordico- germanica, e
altre zone del mondo. Come sbocchi per l’industria tedesca Austria e Belgio contano ormai
quanto Italia e Spagna. L’Asia conta sempre di più.
L’INCOGNITA AMERICANA
Il prezzo peggiore gli europei rischiano di pagarlo facendo perdere le elezioni a Obama. Lo
stato dell’economia americana è l’handicap numero uno per la rielezione del presidente
democratico. Se lui perde il 6 novembre, alla Casa Bianca avremo…Herbert Hoover. La politica
economica promessa dal repubblicano Mitt Romney – tutta tagli di spesa – è una replica di
quella che applicò il repubblicano Hoover contribuendo a innescare la Grande Depressione nel
1929. Una nuova recessione americana sarebbe il colpo di grazia anche per noi.
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